Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: Rossini    10/01/2018    0 recensioni
Prosegue la saga de "Le cronache dei draghi e dei re", cominciata con "L'apprendista di fuoco". Il sistema è ormai sovvertito: la pace che per secoli era perdurata, adesso è stata interrotta da una serie di trame, guerre e rivolgimenti che hanno persino portato al ritorno di un'antichissima dinastia. Ma i fratelli del re appena deposto sono ancora tutti in circolazione, per quanto sparsi su tre continenti. Spetta dunque al nuovo sovrano Targaryen gestire questa complessa situazione, che diviene ancora più ingarbugliata pensando alle misteriose e oscure energie che all'est e all'ovest risorgono sotto forma di vita e fiamme. Esiste forse qualcosa che i Sette maghi del passato più ancestrale, col tempo decaduti e divenuti schiavi, nascondono a tutti i partecipanti - nessuno escluso - di questo ennesimo e disastroso gioco del trono?
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altri
Note: Lime, Otherverse | Avvertimenti: Non-con, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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 Capitolo 16
L’ALBA
 
 
 
                La lista dei nobili galantuomini che ricoprivano cariche di una qualche rilevanza – e tra queste in primis il governo delle principali città – tra la soleggiata Cowain e la punta più orientale del continente, che il Lord Maestro dei Sussurri Braff aveva fatto recapitare al Lord dell’Altopiano Gino Barron, conteneva sostanzialmente tutti i nomi che Gino avrebbe potuto anche trovare da solo: tra confusi, simpatizzanti e apertamente schierati, alla causa di Saestrya Martell aderivano grossomodo un po’ più della metà delle Grandi Case tradizionali dei deserti di Dorne. Che poi Braff sostanzialmente non aveva consigliato a Gino di combatterle apertamente, bensì di tenerle sott’occhio, il che poteva significare tutto ma anche niente. E dunque in pratica il Signore dell’Altopiano concluse che poi, fatta eccezione per avergli segnalato il problema (che comunque era il suo compito), il Maestro delle Spie molto altro non avesse fatto. Era l’astio il sentimento con cui Gino lasciò la ridente cittadella delle puttane; e sostanzialmente Lord Alex non c’entrava niente, c’entrava Daessenya e con lei le incontrollabili, imperscrutabili, insormontabili ingiustizie della vita. Ma Braff non aveva aiutato per niente. Anzi, non aveva fatto altro che provocarlo: aveva risolto in quattro e quattr’otto il problema del demone di fuoco nel quale l’intervento di Gino era stato sostanzialmente inutile; gli aveva riproposto quella cosa dell’addestramento per guerrieri-ombra, consapevole del fatto che Gino sempre sarebbe rimasto un allievo a metà; si era dimostrato consapevole del problema di Daessenya, ma non aveva proposto una soluzione costruttiva che una; infine lo aveva pure caricato di quel peso in più del “problema Martell”, riuscendo in tal modo nel conseguimento di due ben “gloriosi” obiettivi: riportare Gino alla realtà dei suoi doveri, e insieme ricordargli quanto a ciò fosse inadeguato.
                Ma l’aspetto positivo di tutto questo era stato che infine Gino una sua decisione veramente autonoma era finita per prenderla. C’era stato un momento – come ce n’erano sempre – in cui, toltasi la benda dallo smarrito occhio che aveva lasciato sul campo della battaglia di Cowain, e guardatosi nella profondità di quell’unico altro specchio rimastogli, con l’ausilio di un riflesso, si era detto che non ce l’avrebbe fatta, che non sapeva cosa fare e che non era il caso di avventarsi. Era molto più conveniente chiedere scusa e tornare a invocare l’aiuto di Braff che accozzare in un piano vagamente coerente con quelle vaghe idee che gli giravano per la testa. Ma dopo un po’, fissando sempre più lo specchio, ritrovò una sua dignità e con essa la risposta. Quelle poche vaghe idee potevano avere un senso, ed era il senso di Lord Gino della Casa Barron, Signore dell’Altopiano. Il suo senso personale, così diverso da quello che un politicante come Braff avrebbe potuto tramare, eppure forse altrettanto utile. Utile di sicuro, per come Gino la pensava e vedeva il mondo.
                Primaditutto andò personalmente alla ricerca di alcuni uomini che poteva ritenere di sua assoluta fiducia. Circa quattro li trovò tra i suoi recenti acquisti, nel nuovo esercito dei Tyrell di cui lui stesso era di fresco divenuto il primo capo in comando. Non che fossero i suoi migliori amici, ma erano giovanotti che gli erano parsi abbastanza validi, abbastanza fedeli e con cui aveva scambiato più di quattro chiacchiere e aveva concluso di potersi fidare: lui era il loro Lord e loro suoi alfieri. E se anche ancora si reputassero più alfieri della Casa Tyrell che non suoi, era ormai ben chiaro che qualcosa la Casa Tyrell con lui aveva investito, visto che avevano deciso di farlo maritare con la principale delle loro rampolle, l’odiosa, logorroica e stupida Shanty. Dunqu rischi con quegli uomini Gino aveva concluso di non correrne, e ci si era sempre trovato anche piuttosto bene. Il resto della squadra invece il giovane Barron lo recuperò per davvero tra i suoi vecchi amici d’infanzia, tutti scudieri o inservienti della Dodecapoli, ma in ogni caso bravi ragazzi (e quelli che non erano “bravi ragazzi” Gino semplicemente non li aveva chiamati). Uno era addirittura un nipote del vecchio educatore di Lungotavolo, Sir Rollo: si chiamava Shaylmer Occhi di Ghiaccio, “nipote” nel senso che Rollo gli veniva in qualche maniera zio, non nonno. Infine Gino aveva deciso di convocare anche Jon Barthalo. Per prima cosa, perché Barthalo sarebbe stato forse il migliore di loro in strategia militare e questioni del genere, e in secondo luogo anche perché – nonostante ormai il vecchio Jon fosse ufficialmente il nuovo signore di Lungotavolo – Lungotavolo era fin troppo vicina ad Altogiardino, e Gino non intendeva lasciare il seggio più importante dell’Altopiano a ben due distinte ma comunque velenose serpi: i Tyrell da un canto e i Barthalo dall’altro. O l’uno o l’altro. E Gino preferì scegliere Jon, piuttosto che la sua tanto “amata” promessa: anche se doveva ammettere che pure l’idea di portarsi Shanty dappresso in una missione rischiosa, circondata da soli uomini, lo aveva per un certo momento stuzzicato non poco.
                Alla fine risolsero di essere in dodici, e Gino usò tutto il suo carisma di Protettore dell’Altopiano per fare in modo che nessuno dei suoi convitati conoscesse le ragioni della loro tempestiva convocazione fino a quando non fossero stati tutti insieme al suo cospetto. Dovevano tutti accollarsi l’impresa, senza chiedere oltre: era una delle questioni che un importante Lord dell’occidente poteva serenamente porre ai suoi sottoposti. Ovviamente gli presentò la cosa come un comando, non come una richiesta, di modo da evitare eventuali rifiuti. Scopo della missione: trovare Saestrya Martell, infiltrarsi nei meandri della sua copertura e ucciderla. Obiettivo non semplice senza dubbio, ma invece organizzare una scacchiera nei deserti di Dorne al fine di mettere una metà di quei signori contro l’altra metà era davvero poi così semplice o rapido? Non per Gino della Casa Barron. Gino della Casa Barron voleva nella vita essere un uomo di azione, e per gli dèi da uomo di azione si stava comportando.
                C’era ovviamente il problema della segretezza, che era piuttosto tosta come grana e che ancora una volta fece pensare al giovane monocolo signore di Altogiardino di, almeno per quello, rivolgersi al suo vecchio amico Braff, che senza dubbio avrebbe risolto il problema. Ma Gino era ostinato a fare per un volta tutto senza Braff. Ma come risolvere quindi la questione della vacanza dal suo seggio senza che si venisse a sapere, e men che meno a Dorne? Non esisteva che un personaggio pubblico del calibro di Gino – o meglio del calibro che la carica che ricopriva a Gino imponeva – d’improvviso sparisse. Lui decise di lasciare la reggenza a Shanty e ai suoi parenti, cosa che naturalmente mai e poi mai quelle zecche assetate di potere avrebbero rifiutato, ma non era abbastanza. Il Westeros si sarebbe cominciato a domandare dov’era che il Lord Protettore dell’Altopiano si fosse diretto. Chiedere alla famiglia di Shanty di mentire per lui era semplicemente improponibile, eppure… Shanty non era la sua famiglia. Non era ugualmente manipolatrice e accorta nelle questioni politiche. Continuando di quel passo, magari un giorno ci sarebbe diventata: primo perché buon sangue non mente, e secondo perché comunque era in questo modo che quegli avvoltoi Tyrell la stavano addestrando. Ma Shanty era una ragazzina, ed era goffa nelle cose del mondo almeno quanto Gino, se non di più. Era Shanty che doveva mentire.
                Siccome, sebbene le provasse tutte per convincerlo, Gino sapeva benissimo che più che essere innamorata di lui, Shanty era innamorata di quello che lui rappresentava, allora il giovane Barron non poteva porre la questione solo in termini di sentimento; non poteva dire a Shanty: “se mi ami, coprimi”, perché lei avrebbe detto di sì ma poi, spinta dalle pressioni, non sarebbe mai riuscita a resistere dalla sicura insistenza dei suoi genitori, fratelli e zii e cugini vari ed eventuali, e avrebbe cantato ogni cosa. Il sentimento, sebbene a una prima occhiata interessante, in realtà non era la corda giusta con la quale suonare a Shanty la canzone della sua partenza. Ci voleva lusingarla, fare di lei una reale complice e… prometterle quello che maledettamente voleva. Dunque Gino si vide costretto a giurare solennemente quello che mai e poi mai avrebbe voluto: disse a Shanty di attuare una politica del doppio gioco; un colpo al cerchio ed uno alla botte. La fanciulla della rosa avrebbe infatti dovuto dire ai suoi parenti in primis e al resto della corte poi, che Gino o non stava bene, o si trovava da una parte o da un’altra e quando quelli verificavano che non c’era, inventarsi subito una cosa simile. In compenso ella avrebbe ottenuto quello che più d’ogni altra cosa il suo cuore anelava: poteva iniziare fin da subito i preparativi, perché all’indomani esatto del suo ritorno – indipendentemente da quali sarebbero state le sue condizioni fisiche e mentali – Gino l’avrebbe sposata.
                Partì dunque alla volta di quelle sterili colline rocciose che poco a poco si abbassavano formando un deserto e finivano per congiungersi con il mare. Con lui, dieci uomini più o meno fidati, tra cui vecchi amici e qualche valido membro del suo nuovo esercito, e infine Jon Barthalo, che forse per la prima volta in vita sua si trovava in minoranza nel suo partito dell’antipatia ad oltranza nei confronti di quello che da sempre era il suo signore, figlio del suo signore. L’ambiente e il clima fin da subito furono le due prove che segnalarono a Gino di esser giunto di nuovo in ambiente non esattamente amico. Gino era già sceso diverse volte presso Dorne e provava uno strano sentimento per l’ultima regione del Westeros: gli piacevano da sempre gli ambienti cittadini, così originali e diversi dal resto del continente. Sopra Dorne, anche se ogni grande regione e ogni grande famiglia aveva le proprie tradizioni, grossomodo le vesti da donna e specialmente quelle da uomo e da cavaliere una certa somiglianza ce l’avevano. Si assomigliavano i castelli, gli arazzi e i decori; e si assomigliava la gente. A Dorne invece tutto era come se volesse forzatamente distinguersi: era come se Dorne urlasse al resto del continente di essere un’altra cosa, di essere magari più Essos che Westeros, e tutto ciò la rendeva inevitabilmente attraente. Le donne che Gino aveva conosciuto a Dorne erano diverse da tutte le altre, e diversi da tutti gli altri erano i vini e le vivande. Ma fuori dalle città le cose cambiavano…
                Le vie di collegamento fra un centro abitato e l’altro erano aride, desolate e sostanzialmente senza fonti d’acqua. Tanto era vero, che normalmente anche uno stesso dorniano medio faceva carte false pur di non dover lasciare il proprio centro per recarsi ad un altro a far chissà cosa. Se poteva, un dorniano doc rimaneva nella sua città natale e, se proprio doveva spostarsi, preferiva farlo via mare. Preferiva raggiungere via mare le coste dell’altro continente che non via terra la prima città fuori dalle porte della propria. Gino aveva sentito dire che c’era almeno un’altra area di quel continente in cui le condizioni erano più o meno uguali e contrarie: il nord, ma era molto distante e lui non c’era mai stato. Ma come al nord il troppo freddo rendeva la gran parte dei suoi ambienti inospitali, così a Dorne era il caldo a farlo. Anche l’Altopiano era un ambiente che Gino avrebbe definito “caldo”, e pure Roccia del Re. Ma ad Altogiardino e alla Capitale il caldo era “fresco”, era un caldo dei raggi solari, della luce. A Dorne invece calda era l’aria, di giorno come di notte, e più c’era vento più c’era caldo. Un ambiente ostile a dir poco, data anche la mancanza d’acqua.
                Così, muoversi tra le dune di quel deserto senza una vera e propria meta, fu per Gino e i suoi compagni un’impresa abbastanza sfibrante. Gino aveva immaginato un’attività di ricognizione: farsi ospitare quali cavalieri serventi e raccogliere informazioni tra i grandi nobili del deserto. Certo il rischio di risultare troppo invasivi sia con le domande che con le richieste di ospitalità era alto, ragion per cui aveva imposto a se stesso e ai suoi di non soggiornare in un medesimo castello o casa padronale per più di due o tre giorni. Ma dopo la prima, la seconda, la terza e fino alla sesta città del sud, Gino dovette concludere che quel lavoro non stava portando alcun esito postitivo: i nobili di Dorne erano chiaramente restii a parlare di Saestrya Martell; lo sarebbe stato anche lui in effetti se un gruppo di sconosciuti aitanti e armati avesse cominciato a fare domande su una delle personalità più ricercate del regno. Così fu con un profondo senso di sfiducia e mancanza di idee fresche, che il signore di Altogiardino in incognito chiese rifugio nella villa di un importante mercante residente nell’ottava città dal gruppo visitata. Non era da buon signore effettivo di quei luoghi, ma Gino stentava a ricordarne perfino il nome: era un po’ complesso, e lui era molto stanco, e quei dannat nomi erano tutti uguali. Un nido di qualcosa, o una tomba di qualcuno. Quello che Gino sapeva, era che si trovava più o meno a metà del percorso che c’era tra Cowain dalla quale era partito, e che si trovava alla punta occidentale della regione, e la Reggia dei Girasoli, che si trovava all’altro capo ed era l’antica residenza estiva dei signori di Dorne. In altre parole, lui e la sua compagnia erano finiti nel bel mezzo del deserto. E meno male che avevano trovato l’ospitalità del grosso mercante, perché la prima porta cui avevano bussato (quella del signore della città) li aveva rifiutati, e loro stavano letteralmente morendo di sete.
                Anche tra le mura di quella bella casa sperduta tra le dune, Gino fece il discorso che aveva fatto presso tutti i suoi ospiti precedenti: non aveva raccolto in quel di Cowain quei suoi fidati compagni per far sì che si trastullassero tra le oasi di Dorne per troppo tempo, con donne troppo lascive e vini troppo inebrianti. Ma ancora una volta, quando parlò di Saestrya Martell al grasso mercante di Dorne, quello s’incupì, abbandonò la conversazione con una scusa e lasciò Gino da solo nei suoi sospiri di disillusione. Il Protettore dell’Altopiano aveva ormai benissimo compreso che la sua strategia non stava funzionando: la gente non si fidava dei cavalieri di ventura, e men che meno di cavalieri di ventura che non cercavano incarichi per denaro, bensì altre strane informazioni. Detto ciò, Gino doveva pure ammettere che l’atteggiamento di quel mercante in particolare in effetti si stava mostrando pure più curioso di qualsiasi suo predecessore. Nessuno aveva interrotto il confronto con una simile goffaggine già immediatamente appena sentito il nome di Saestrya. E poi quello era un mercante, un mercante famoso. Doveva saper mentire in maniera migliore rispetto a quella con cui aveva mentito a Gino, altrimenti come sarebbe mai stato possibile per lui divenire il così rinomato mercante che era, l’uomo forse più potente dell’intera sua città? Gino stava continuando a rimuginare su tutto ciò, senza in verità riuscire a vedere alcuna luce in fondo al tunnel, quando si rese conto che il mercante lo stava facendo attendere molto di più di quanto fosse convenevole anche nei confronti di un semplice cavaliere di ventura. Concluse che la cosa non gli piaceva affatto quando già era troppo tardi. Aprì la porta della grande sala dov’era stato lasciato con il fine di raggiungere i suoi compagni e dirgli che non era più il caso di restare. Arrivò in ultimo a gridare anche: «JON! Ce ne andiamo!», quando tuttavia un uomo armato di spada gli venne in contro da oltre la porta. Gino ci duellò e lo uccise. Ne arrivarono altri due e Gino ci duellò e li uccise entrambi, anche se per farlo dovette ricorrere a un vecchio trucco da guerriero-ombra, e comunque uno dei due lo scalfì leggermente tra la spalla e il braccio destro. Poi in fila ne arrivarono altri… troppi altri, e Gino era da solo. Desistette, gettando a terra la propria lama. Venne preso di forza e condotto dai suoi compagni, i quali, non avendo idea di cosa fare senza il loro capo in comando, si arresero a loro volta: Gino li capì; lui avrebbe fatto lo stesso. Quando il gruppo di “stranieri” ospiti presso Dorne venne definitivamente neutralizzato e la tenzione abbassata al minimo, il mercante spuntò di nuovo fuori, in compagnia di una donna. Molto bella, anche se molto ossuta. Era strano: aveva dei lineamanti marcati e la pelle olivastra, che la facevano somigliare a un serpente, eppure Gino non avrebbe potuto definirla brutta. E quelle vesti poi… estremamente sontuose, come così sontuose erano quelle del mercante, e pure tutte quelle dei suoi guerrieri, così diverse da quelle di un comune guerriero del Westeros, così diverse da quelle che Gino e i suoi stavano indossando in quel momento, morbide, e colorate vivacemente, e ricche di ornamenti.
                Senza il minimo ripensamento, la bella donna dall’aspetto di serpente si fece avanti, richiamando su di sé tutta l’attenzione. Era molto alta, per essere una donna. Infine proclamò con un leggero sorriso beffardo rivolto a Gino e ai suoi: «Sono Saestrya Martell».
 
 
 
                «Io quell’obeso di un vecchio lo faccio a pezzi!» stava gridando Gabryaerys, re degli Andali e dei Primi Uomini, «Chissà che fila di altri vegliardi boriosi e assettati di soldi, fama e potere si formerebbe domani se io lo uccidessi stanotte. Ci scommetto che arriverebbe da qui all’Altopiano e ritorno!»
                «Maestà…» disse Braff sommessamente.
                «Attendo un tuo ordine, Maestà» fece invece Lord Tararus, il Primo Cavaliere dagli abiti da baronetto, con un tono assai più risoluto del suo collega, «E un’altra massa di inutili insetti si ritroverebbe al suolo dentro a un tempio, come l’altra volta»
                «Ah sì» ora il Maestro dei Sussurri aveva un tono ironico: non nutriva lo stesso rispetto per Tararus, come quello che nutriva per Gabryaerys, «E quali meravigliosi vantaggi abbiamo ottenuto da un atteggiamento del genere! Il Credo che ci volta le spalle. E i sudditi che continuano a vederci come dei mostri invasori»
                «Altri insetti» constatò Tararus; ma fu un altro a replicare al Maestro delle Spie. A quell’incontro del Concilio infatti partecipavano anche Lord Senus Willoughby – il garante dell’intesa con il nord, o almeno una parte del nord: quella che non rispondeva a Bolton, insomma – e l’immenso titano di pietra, munito di alabarda, che era stato messo al comando di tutti gli eserciti e le altre forze armate della città. Abigail Baratheon invece era assente: la sua nomina ad Altissimo Segretario era durata meno di un soffio, e ora la distinta ex sovrana, moglie di un re e madre di un pretendente erede al trono, se ne stava di nuovo confinata nei suoi appartamenti, lasciando vacante la carica che in precedenza era stata di Hana Lannister. Il diavolo di roccia disse: «Ma sei stato proprio tu se non sbaglio, demone degli uomini, a consigliare a sua Maestà di scegliere la vecchia religione piuttosto che quella nuova. E sono stati proprio i Septon a chiedere di far fuori il sacerdote di fuoco»
                «Il sacerdote, certo» replicò Braff «Ma non tutti i suoi discepoli. Se vuoi tu la lana, allora uccidi il pastore, non le pecore. Ma, come sappiamo, l’inclinazione del Lord Primo Cavaliere verso la teatralità è da lungo tempo un vizio cui ben favorevolmente egli ama concedersi»
                «Io non gli ho ordinato di commettere quella strage» si difese il re.
                «Sì» insistette Braff, un po’ irritato, «E quali provvedimenti ha preso Sua Maestà in merito a questo atto che, oltre che contrario alla sua augusta volontà, ci ha anche messo tutti quanti in una situazione peggiore rispetto a come non fossimo già?».
                Il re non rispose. Al suo posto lo fece il vecchio Lord Willoughby, cambiando leggermente argomento: «E che cosa suggerisci ora, Lord Braff?»
                «Di sparire! Per un po’ di tempo, noi tutti non dovremmo neanche farci vedere: la gente ne è piena fino all’orlo di politicanti assassini. Non ha avuto pace dal momento della guerra. E ora la guerra è finita, e loro continuano a morire. In massa. E gratuitamente. Dopodiché suggerisco che a poco a poco, se proprio dobbiamo ritornare a farci vedere, che lo facciano quelli tra noi d’aspetto meno vistoso. Ovvero il sottoscritto, Lord Willoughby, il Gran Maestro Irwin e… Sua Maestà la regina, magari. Non di più». Giusto! Hana si stava accorgendo solo allora di un importante assenza a quella riunione: il Gran Maestro delle Scuole e degli Ospitali, Adlai Irwin. Bisognava pure ammettere che la giovane regina non si trovava nelle migliori delle posizioni per potere concludere bene affermazioni come chi stesse partecipando o no alla riunione. Origliava da dietro la porta ormai da qualche minuto: lo faceva spesso. Aveva imposto, con tutta la forza d’animo che la caratterizzava, di poter partecipare alle riunioni, reclamando così un suo diritto, formalmente scritto in un articolo statutario: la regina consorte può assistere alle riunioni del Concilio Ristretto. Ma c’erano due piccoli incovenienti: primo, lei non era ancora la regina consorte bensì la promessa. Secondo: non poteva non notare che inevitabilmente per certi argomenti, quando lei era presente, lo zoccolo duro del re – ovvero lui stesso e i suoi mostri – tendeva a glissare. Non volevano che la regina sapesse proprio tutto, anzi Hana doveva pur ammettere con se stessa che già aver vinto quella battaglia della sua presenza ai tavoli del Concilio contro la follia Targaryen di Gabryaerys era già piuttosto gratificante. Così, per sapere proprio tutto certe volte Hana origliava, fingendo poi di esser lì lì per entrare nella sala. Aveva scoperto che era una tattica utile e quasi inattaccabile.
                «Io intendevo» disse a questo punto il re con calma inusuale, rivolgendosi al Maestro dei Sussurri, «Avere quest’oggi dal mio Consiglio, e in particolare da te, Lord Braff, o Demone delle ombre, o degli uomini, o in qualsiasi altro modo vuoi che ti si chiami…»
                «Alex va bene, Maestà»
                «Intendevo sapere…» ripeté il re, scandendo irritato le sue parole, «Come risolvere il problema del voltafaccia che ho decretato di fare al mio pubblico giuramento. E nella fattispecie: come costringere Sua Sacralità a dichiarare le mie future azioni non empie, ma anzi benedette dal piano divino. Mi hai detto di uccidergli il sacerdote rosso, e io l’ho fatto…»
                «Avete ucciso la gente, Maestà»
                «E adesso? Cos’altro ci vuole per convincerlo?»
                «Maestà, nel corso del mio ultimo viaggio» rispose Braff «ho avuto modo di riflettere, e osservare. Ho constato che quello che pensavo un fenomeno esclusivo della Capitale in verità è un po’ più ampio»
                «Che fenomeno?»
                «Beh ho riscontrato che un po’ ovunque di questi tempi, la fede vacilla. Il principio atavico che ci porta tutti a credere in qualcosa di benevolo che ci assiste dalla volta celeste, o dalle viscere della terra, e che… ci attende e attende che noi ci comportiamo in determinate maniere che lo appaghino, non è in discussione. Ma quanto ai Septon… direi che la loro non sia una buona fama, al momento, nel nostro continente»
                «Braff: vieni al dunque»
                «Ho pensato che forse non è poi così sbagliato appigliarsi a… illusioni “nuove”. Che forse la nuova religione ha le sue ragioni. E questo d’altro canto giustifica il suo seguito in una città popolosa come questa benedetta Capitale»
                «Stai forse suggerendo» fece Willoughby, confuso, «Di passare ai pagani?»
                «E come?» aggiunse il diavolo di roccia «Il loro sacerdote ormai è polvere e cenere»
                «Su questo sei in errore» riprese Braff «Non chiedetemi come, ma egli vive. Da qualche parte di questa città, distante da dove ha predicato l’ultima volta, il sacerdote Yashua è tornato. Le sue carni… si sono ricomposte. È strano: è chiaramente un mago, anche se noi non ne riusciamo a comprenderne i segreti. E noi qualcosa di magia ne dovremmo capire, vecchi amici»
                «Che c’è da capire!» fece il Primo Cavaliere «È un umano in cui l’energia si è risvegliata, come Sua Maestà»
                «Due nella stessa epoca?» chiese a questo punto il mostro di roccia «Direi che è estremamente inusuale»
                «E poi i suoi poteri sono diversi dai miei» ammise Gabryaerys «Meno eterogenei, ma più… »
                «Penetranti?» provò Braff.
                «Concentrati» disse il re, e riprese: «Dunque dici di parlare con lui? C’è la possibilità?»
                «Tentare non nuoce mai, Maestà»
                «Scopri dove si trova con precisione, Maestro dei Sussurri. E chissà… magari quello che non vuole darci il Credo, ce lo darà questo nuovo… stregone di fuoco»
                «Tornare da lui dopo quello che gli abbiamo fatto?» domandò Lord Tararus.
                «Che tu gli hai fatto» fece il re «Fai presente che il re non desiderava un trattamento del genere quando lo incontrerai, Lord Braff»
                «Certo, Maestà»
                «E… buon lavoro!»
                «Grazie, Maestà»
                «Mio diletto!» esclamò dunque Hana, entrando nella sala e scoprendosi da sé prima che fossero loro ad accorgersi di lei, visto che la riunione era al termine e di lì a poco le porte sarebbero state aperte. La regina promessa proseguì, rivolta al regale marito: «Il maestro di spada ti attende…»
                «Già» confermò Gabryaerys Naharis e fu il primo a lasciare la sala, non prima di aver dato un tenero bacio sulla fronte della sua promessa. Gli altri lo seguirono, Braff per ultimo.
                La questione del duello a Delta delle Acque impensieriva intimamente Sua Maestà molto di più di quanto egli non ci tenesse a mostrare, e men che meno con il popolino. Gabryaerys voleva fare il superiore, quello allenato, ma anche se giovane e fisicamente prestante (era alto e non in sovrappeso), in verità la sua abilità con la spada era molto scarsa. Anzi, quando lo vedeva allenarsi, Hana dubitava che quell’uomo fosse mai veramente stato addestrato con la lama. Avrebbe scommesso su qualsiasi dei suoi fratelli, gli intellettuali Axelion e Daniel compresi, piuttosto che su suo marito. Gabryaerys d’altronde non aveva un’educazione da grande nobile: la scherma semplicemente non gli era mai stata insegnata. Ma la prospettiva di incontrare in duello un Lord notoriamente “militare” come Bolton (che era stato Maestro delle Armi e gli Armamenti) ovviamente non impensieriva Sua Maestà solo per il duello in sé, nel senso che Gabryaerys non rischiava solo la propria incolumità; rischiava il seggio che con tanta dedizione si era andato a prendere: il Trono di Spade. Ed era quello invero che non lo faceva dormire la notte: se doveva fare carte false, il re le avrebbe fatte. Si sarebbe procalamto spergiuro, due volte spergiuro, tre volte spergiuro pur di non perdere il trono, che riteneva essere suo per diritto di sangue. Un osservatore disattento, avrebbe detto che in realtà Gabryaerys non perdeva niente, visto che quello che Bolton reclamava era l’indipendenza della parte nord del continente, e più in particolare di quella sotto il suo dominio… ma il Regno Unificato aveva un senso proprio in quanto il nord e il sud si trovavano uniti sotto una medesima Corona. Senza il nord, Gabryaerys sarebbe rimasto un re dimezzato. Non un vero re degli Andali e dei Primi Uomini, ma un ragazzo la cui vicenda secondaria, appuntata da qualche parte negli annali, avrebbe raccontato che si era seduto sul Trono di Spade, anche se in un regno non unito, e che forse aveva avuto un figlio.
                E questo condusse il ragionamento di Hana tutt’assieme verso il vero lido che intendeva raggiungere quella sera. Il vero motivo che l’aveva portata al Concilio Ristretto del suo futuro marito. La vera ragione che non le permetteva di chiudere occhi ormai da diversi giorni: lei era incinta. E solo incinta di Gabryaerys poteva essere. La pozione di Braff non aveva funzionato: e Braff ora doveva spiegarle il perché. Doveva dirle qual era la prossima mossa: lui doveva farlo! Hana si odiava tremendamente per essere giunta a questa conclusione, ma più ci rifletteva e più non poteva che ammettere a se stessa che l’assassino di suo fratello era finito per essere la sua unica speranza. E la sua unica valvola di sfogo. Non il suo unico amico, Hana non avrebbe mai più chiamato con quel termine un individuo di quel genere. Ma… le sue damigelle di compagnia erano prigioniere come lei, vivevano sostanzialmente la sua stessa situazione. E i suoi fratelli, qualora ancora vivi, erano sparsi per il mondo: gli unici altri cui Hana poteva fare riferimento erano Lord Gaholla e Lord Gushing, ma si trovavano in una condizione di carceramento ben peggiore della sua. Aveva uno zio: Pylgrim il Leone Nero, cui senz’altro poteva instaurare un rapporto epistolare, ma Pylgrim era l’uomo forte delle terre dell’occidente e non le avrebbe mai lasciate, men che meno in quel momento così difficile per la storia dei Lannister.
                Dunque Hana aveva deciso che la via migliore era quella del realismo: Braff c’era e a Braff lei si sarebbe rivolta. Fermò il Maestro dei Sussurri davanti alla porta, mentre tutti gli altri “Lord” membri del Concilio Ristretto andavano a sbrigare i loro affari e il re ad incontrarsi con il suo maestro di spada. «Mylord Braff, posso parlarti un istante?». A Braff non piacque quella sorpresa, lei lo capì subito dall’irrigidimento di quel braccio del politico dai capelli rossi che lei aveva prontamente afferrato. «Proprio adesso, Maestà?» rispose Lord Alexis «Vostro marito mi ha appena dato un compito importante, dubito che siano di quegli affari che “possono aspettare”»
                «Vi ruberò solo poco tempo» insistette Hana «Ve lo prometto». Hana attese di intercettare un’espressione di serenità nel Maestro dei Sussurri. E il Maestro dei Sussurri attese chiaramente che tutti i suoi colleghi fossero abbastanza lontani. Al che fu proprio lui, seduto al tavolo delle riunioni, a domandare: «Figliola, ma che diavolo vi prende? Cos’è questo atteggiamento sfacciato, vogliamo far credere a tutti quei serpenti che siamo confidenti? Vogliamo farlo credere a vostro marito?». Hana si sedette a sua volta, nel posto di fronte al suo interlocutore. Dopodiché rispose: «Che la regina promessa possa domandare una consulenza al Maestro dei Sussurri… non ci trovo niente di sospetto. Può capitare. Se poi il re, o un altro membro del Concilio Ristretto dovesse beccarci nel corso di un colloquio segreto, o più di uno… allora mi preoccuperei. Ma non vedo nessun rischio nell’essere escpliti»
                «Tu sottovaluti la malignità di questa corte, bambina»
                «Beh, non importa. Dovevo parlarti con urgenza»
                «Che cosa vuoi?»
                «Sono incinta»
                «Beh, congratulazioni». Braff sorrise beffardamente sotto i baffetti purpurei, e si alzò, facendo per andare.
                «La tua pozione non ha funzionato» insistette Lady Hana.
                «La m-mia…» balbettò ancora il politico, guardandosi intorno. Poi sospirò, si prese di coraggio e fece: «Era di Septimus, non mia. Aveva detto che funzionava in quel modo, non l’ha fatto. Mi spiace, davvero. Ma continuo a chiedermi che cosa tu voglia, ora, da me»
                «Idee. Suggestioni. Un aiuto»
                «Non ne ho, piccola, mi spiace. Ma se vuioi posso darti la mia opinione spassionata. E lo faccio gratuitamente»
                «D’accordo»
                «Tienilo. Curalo. Amalo. E chissà: magari potrai anche essere felice». A questo punto il Maestro dei Sussurri fu rapido, troppo rapido. Scansò la sedia di Hana e abbandonò la sala. Quello non fu precisamente quello che la promessa sposa del re si sarebbe aspettata. Aveva sperato in una via di fuga che non esisteva. Siccome si era rivolta forse all’uomo più brillantre che conosceva, si era illusa. E invece quello non aveva saputo aiutarla, o non aveva voluto, comunque non cambiava: Hana quel figlio da Gabryaerys l’avrebbe avuto. E questo cambiava tutto. Nel momento in cui il piccolo sarebbe nato, lei sarebbe passata dalla parte del nuovo re non più solo formalmente, ma con tutta la sua forza e e le sue convinzioni. O meglio: avrebbe sempre riconosciuto la legittimità al trono di un Lannister, ma ora qualsiasi Lannister avrebbe però dovuto giurare di non far del male al suo bambino, figlio del re usurpatore, e dunque potenziale nuovo usurpatore a sua volta. E poi… in verità anche suo figlio sarebbe stato un Lannister. Un Targaryen, e un Lannister.
                Così confusa, delusa e sconfortata – ma soprattutto confusa – Hana passò il resto delle sue ore di quella lunga giornata. Si concesse un po’ di tempo per andare a trovare i vecchi amici Gushing e Gaholla, i vecchi Maestri delle Leggi e delle Strade sia di suo padre che di suo fratello. La loro vicenda era stata completamente dimenticata dalla politica del re: erano ancora al carcere duro, tenuti quasi alla fame. Ed erano entrambi molto più anziani di Hana: Gaholla non era più un ragazzo, anche se in effetti ancora neanche un pelo bianco gli era spuntato in nessuna parte visibile del corpo. Quanto a Finnis Gushing, il capostipite della sua famiglia, un importante casata da secoli alfiera dei Lannister, lui più o meno aveva l’età che avrebbe avuto re Lionel se fosse stato ancora vivo: erano vecchi amici d’infanzia. E ora Hana era lì, debole, senza poter far nulla, Lord Finnis era in galera e i Gushing in rivolta. Un caos che una semplice liberazione avrebbe facilmente risolto. Hana ne aveva parlato col re più volte, ma più volte era rimasta inascoltata. Nelle sue intenzioni, vedere i vecchi amici quel tardo pomeriggio avrebbe dovuto renderla più allegra, ma invece la fece sentire ancora più inutile e tapina.
                Ormai era sull’orlo del panico. Non sapeva dove andare, cosa fare, con chi parlare. A cena non mangiò niente: pietanze e bevande erano entrambe come insapori, e non sapeva se attribuire la cosa al suo monentaneo stato mentale o alla gravidanza, quel suo recente momentaneo stato fisico. Provò a dormire, ma come di consueto neanche il sonno decise di favorirla. Fece su e giù dal letto per tutta la notte fino alle prime luci dell’alba. E all’alba venne anche Gabryaerys: capitava spesso che la raggiungesse nella tarda notte, ma così tardi non l’aveva mai fatto. Il re aveva dei suoi appartamenti privati dove di tanto in tanto gradiva dormire per conto proprio e, finché i due non erano sposati, la cosa nemmeno suscitava le malelingue del popolino. Anche per tali ragioni, francamente Hana una visita del suo regale consorte ormai quella notte non se l’aspettava più. Normalmente a quell’ora Gabryaerys sceglieva di non disturbarla e di andare a riposare presso le sue camere private. E invece, tanto per confermare la particolarità di quella giornata, il re la visitò. Hana immaginava che si sarebbe spogliato come di consueto e che come di consueto l’avrebbe presa senza dirle una parola. E invece il re Naharis semplicemente si sedette ai piedi del letto. Anche se i primi caldi raggi del sole penetravano nella camera come stilettate sanguinolente, c’era comunque troppo buio perché lei si accorgesse che cosa Sua Maestà stesse facendo. Ma dopo un po’ capì: stava piangendo. Piano, ma insistentemente. Era andato presso il talamo della sua promessa per essere consolato, come un bambino. «Mio diletto?» fece dunque Hana, e quando lui non rispose ripetè: «Mio diletto? Cosa ti turba?». Lui non rispose. Lei si mise a sedere dietro di lui, e lo abbracciò poggiando i seni sulla sua schiena: avevano assunto posizioni ben più intime di così. «Braff…» fece il re piano «Non riesce a trovare il sacerdote. È sicuro che sia vivo, ma non lo si riesce a trovare. E se non lo trova Braff… non lo trova nessuno. È sparito. E io non so che fare». Ah: lui non sapeva che fare! E sempre lui piangeva disperato. E ancora lui chiedeva piuttosto esplicitamente di essere consolato. E lei decise di consolarlo: era pur sempre il futuro padre del suo futuro figlio. Disse dunque Lady Hana, sussurrando: «Sh! Non portare i tuoi cattivi pensieri in questa stanza. In questa stanza ci siamo solo noi. Tutto il resto può aspettare». E lui la baciò. La baciò in modo diverso, rispetto a come aveva usualmente fatto. L’aveva fatto raramente e sempre in modo goffo, frettoloso e poco convinto. Questa volta la baciò come un marito dovrebbe baciare una moglie, o almeno come Hana se lo era sempre immaginato. Non le piacque affatto, non quella sera, non durante quell’alba. Però fu diverso: molto diverso.
                Non fecero l’amore. Lui si addormentò quasi subito e lei poco dopo, accarezzata dai raggi di sole che piano piano sempre più impetuosi invadevano la camera da letto. Non viveva un’alba così serena da moltissimo tempo. Magari quello era l’inizio di un nuovo corso, oltre che di un nuovo giorno: fu questo che la fece addormentare serenamente. Quella mattina cominciava una nuova storia: una in cui lei non era una prigioniera disperata, ma una regina consorte. Con un bambino dentro la pancia, e un altro steso addormentato accanto a lei.
 
 
 
                La notte tra le dune del deserto di Dorne era da sempre sorprendentemente calda. Ogni volta Gino se ne dimenticava ed ogni volta ne pagave le spese. C’era caldissimo di giorno e forse più caldo di notte in quella dannata regione teoricamente ancora sotto la sua giurisdizione. Teoricamente visto che ora il Lord dell’Altopiano era prigioniero di quella ribelle Saestrya Martell per intercettare la quale si era partito dalla sua roccaforte insieme a undici più o meno fedeli compagni. Il suo vantaggio era che Saestrya non aveva capito chi fosse e ovviamente, finché non scopriva se dietro di lui ci fosse qualcosa di ben peggiore, non intendeva farlo fuori. Avrebbe eliminato piuttosto uno ad uno ogni suo compagno per suscitare la rabbia e la disperazione in lui, ma lui… non lo avrebbe mai scalfito, di questo Gino Barron era certo. A una prima occhiata, Saestrya gli era parsa risoluta, ma non spietata. Esotica, un po’ tra le righe, ma decisamente non instabile. E dunque potenzialmente piuttosto intelligente, oltre che maledettamente bella. E d’altro canto non si arrivava a quei livelli di complessa macchinazione politica, e probabile guida di una rivoluzione, senza avere un minimo di sale in zucca. Sulla di lei bellezza c’era tutto un capitolo da aprire e da capire: Gino l’aveva vista una volta, e forse c’era ancora molto da studiare. Ma non si poteva non ammettere che la particolarità dei suoi tratti la rendesse di per sé attrattiva. Saestrya era troppo strana, troppo diversa per non apparire conturbante. E questo certo poi si associava alla sua fama di guerriera abilissima con la lancia leggera, e di cospiratrice e spia.
                Per un certo periodo di tempo aveva anche frequentato il Concilio Ristretto del Re, il che faceva di lei necessariamente una donna di almeno una generazione più grande di Gino, anche se questo il giovane Barron a guardarla non avrebbe potuto dirlo. Naturalmente gli aveva chiesto chi era e perché voleva informazioni su di lei. Gino si era preparato: aveva risposto alla prima domanda quello che già aveva risposto anche ad altri, ovvero che lui e i suoi compagni erano cavalieri di ventura. Sulla seconda domanda la risposta fu inedita, ma comunque preparata e inattaccabile: volevano associarsi al suo progetto di ribellione nei confronti dell’Altipiano. Ma questo a Saestrya non bastò. Il fatto che fosse una donna piuttosto navigata nelle conoscenze del luogo, la fece insospettire sulla loro provenienza, e i loro abiti, armi e maniere confermarono questo suo sospetto. Si manifestò sicura che Gino e i suoi provenissero dall’Altopiano, cosa che Barron decise di non smentire: la vipera cospiratrice gli parve troppo sicura e arrampicarsi sugli specchi avrebbe solo peggiorato la situazione. Dunque Saestrya passò al ragionamento seguente: perché cavalieri di ventura dell’Altopiano dovrebbero traditre il potente Lord dell’Altopiano, sulla carta assai più potente e più ricco della stessa Martell? Gino non ebbe la risposta pronta anche su questo, e lei decretò che venissero tutti messi in prigionia sopra una torre, mentre rifletteva sul dafarsi.
                Il Protettore dell’Altopiano si riscoprì sropreso. Sapeva che il suo era un piano azzardato e sapeva di correre un mucchio di rischi. Ma onestamente a quello non aveva mai pensato. Che fosse Saestrya a trovare lui per prima, e che fosse lei a mettere lui in difficoltà no. Gino al massimo si era immaginato uno scontro aperto, nel quale entrambe le parti avrebbero saputo che l’altro esisteva e che dunque fosse il caso di incontrarsi per un duello o una battaglia. Dunque, in tutta onestà, aveva sperato di avere tutto il tempo per organizzarsi e vincere quella battaglia. Ma per arrivare a quell’obiettivo, prima doveva scovare Saestrya, che chiaramente aveva in mente di operare con tutt’altri metodi. E infine era stata lei – la vipera delle sabbie – a stanare lui. Non sapeva ancora chi era, ma quanto tempo sarebbe passato prima che a Dorne si accorgessero che il Lord di Altogiardino da settimane non sedeva nel suo seggio? Poco sicuramente. E questo significava che Gino doveva trovare il modo per scappare. Scappare subito. L’unica idea che gli veniva in testa era di parlarle, convincerla che lui davvero si sarebbe messo al suo servizio, ma… Gino non era Lord Braff. Non era poi così bravo con le parole; avrebbe avuto bisogno di molto più tempo per studiare le cose esatte da dire. Poteva sedurla: Gino era ormai piuttosto consapevole di essere un bel ragazzo, nonostante l’assenza dell’occhio destro. Era alto, moro, giovane e fisicamente prestante, e non doveva faticare molto perché le ragazze gli si concedessero. Ma era goffo, e fino ad allora erano sempre state loro a sedurre lui, lui non sapeva come si faceva… e poi le donne non erano gli uomini: non avevano esattamente i medesimi appettiti, e non cedevano con la medesima cecità ai bisogni della carne. Lo facevano pure, ma in maniera diversa, e Gino non lo sapeva qual era questa maniera. Niente da fare: la via diplomatica era fuori discussione. Rimaneva uno scontro fisico ma… come arrivarci? Lui e i suoi non avevano amici lì a Dorne, o almeno non nel bel mezzo del deserto, e dunque addio punti di riferimento a cui mandare missive che non tornassero dopo mesi. A meno che…
              Lord Barron guardò sconfortato i suoi compagni, che non lo dicevano esplicitamente ma pendevano dalle sue labbra, in attesa del nuovo ordine che potesse risolvere la situazione. Solo Jon Barthalo lo guardava diversamente. Lui lo guardava con tutta la rabbia e la disistima con cui lo aveva guardato per entrambe le loro esistenze. Sì, la soluzione c’era e Gino doveva accantonare il suo orgoglio per dimostrarsi superiore ad esso. Per dimostrarsi il grande Lord che i suoi lì presenti sottoposti si aspettavano che fosse: avrebbe scritto a Lord Braff. Lui era distante, ma aveva metodi tutti suoi, metodi… oscuri. E mediante essi avrebbe saputo agire celermente, se Gino gli scriveva di farlo. Ma concluso tutto ciò, ora il giovane Barron aveva bisogno di un foglio di pergamena, e aveva bisogno di una penna e di un corvo. Tutti oggetti non molto facili da recuperare se si è prigionieri dentro una torre.
                I pensieri di Gino st stavano rivolgendo proprio a quest’ultimo problema, quando all’improvviso il giovane Lord, ed evidentemente tutti quelli che si trovavano confinanti nella sua stessa prigione, udirono un forte scroscio provenire da fuori. Era come di qualcuno che volesse operare in silenzio ma non ci stesse riuscendo tanto bene. Gino si affacciò, li vide per la prima volta in vita sua, e rimase estasiato: gli elefanti. Un gruppo di tre elefanti se ne stavano sotto la torre. Accanto a loro, più piccoli, un gruppo di uomini: sei o sette in tutto, vestiti alla dorniana, stavano armeggiando tutti affaccendati con corde, ganci e altri oggetti. E parlottavano anche. A un certo punto un di loro alzò lol sguardo alla punta della torre e si accorse di Gino, affacciato alla finestra con le sbarre. «Oh!» disse a voce alta «Siete già lì! Molto bene: mi evitate il passaggio di urlarvi affinché mi prestiate attenzione!». C’era buio, e Gino aveva un occhio solo, eppure era convinto di conoscerlo quel dorniano laggiù dal grande sorriso smagliante: ma sì, era uno di quelli che dentro la torre ce lo avevano messo. Un uomo di Saestrya. Dunque il giovane Lord dell’Altopiano replicò: «Siete un uomo di Milady Martell»
                «Non esattamente» fece quello e lanciò con grande precisione la punta di una fune verso la finestra di Gino. Agganciato c’era una sorta di arpione. Il dorniano continuò: «Volete per favore incastrare il gancio alle sbarre della finestra, mylord?»
                «Perché dovrei fidarmi?» domandò invece Gino, e ripetè: «Siete un uomo di Saestrya Martell!»
                «Dovete fidarvi perché vi sto liberando! Che diavolo: mi avevano detto che foste un giovane molto brillante! Che cosa avete da perdere?». Niente. In effetti Gino non aveva niente da perdere, e così tutta la sua compagnia. Domandò al dorniano che cosa doveva fare, e quello aggiunse al già precedente ordine di agganciare gli uncini dell’arpione alle sbarre della finestra, quello di farsi da parte, lontano dalla finestra stessa; lui e tutti i suoi uomini. Così Gino eseguì e quello che accadde fu ancora più incredbile e straordinario degli elefanti: i grossi mammiferi proboscidati infatti erano a loro volta dotati di ganci che connettevano i loro ampi dorsi con le funi stesse che ora, tese, stavano tirando le sbarre della finestra, e con esse l’apertura stessa e con essa l’intero muro. Il tonfo fu immenso ma, in men che non avrebbe mai giurato, Gino fu libero. E senza neanche mandare missive a chicchessia. Sempre su consiglio dell’uomo sorridente di Dorne, usò le funi stesse per scendere dalla torre, e così si apprestarono a fare gli altri ragazzi.
                Non riuscendo a distogliere lo sguardo dagli immensi pachidermi dalla pelle grigia, il giovane Barron tuttavia fece le domande che chiunque avrebbe fatto al suo posto, un istante dopo che entrambi i suoi piedi tornarono fissi al suolo. Chiese: «Chi siete? Perché lo state facendo? E… come… come sapete chi sono io? Avete detto che qualcuno vi aveva riferito che fossi un giovane brillante!»
                «E lo siete evidentemente» sorrise il dorniano. Solo allora Gino si accorse che era vestito in maniera abbastanza diversa da tutti gli altri. Cioè era sempre strampalato, esotico e multicolore come tutti i dorniani ma… più chic, più elegante, più da principe che da mero alabardiere. Il dorniano continuò: «Mylord, risponderò a queste vostre domande e a tutte le altre che desiderate farmi, appena saremo al sicuro: ve lo prometto, ma… ecco, abbiamo abbattuto un muro e… gli elefanti non sono esattamente bestie rapide. Dobbiamo correre! Ragion per cui, risponderò solo ad una delle questioni che già mi avete posto: sono Darkhon. Darkhon Dayne». Più lo guardava e più Gino rimaneva incuriosito. Quell’uomo era del tutto dorniano nei modi e negli abiti, ma non aveva nulla di dorniano nell’aspetto. Era di un biondo molto chiaro: non esattamente come quello di un Targaryen ovviamente, ma chiarissimo. E poi aveva gli occhi azzurri e la pelle chiara in una regione del mondo in cui tutti avevano gli occhi neri e la pelle olivastra. Infine era alto, molto alto. Di una spanna più di Gino, che a sua volta si considerava da solo uno degli esseri umani più slanciati con cui avesse avuto a che fare. Quello di Darkhon era il vero aspetto di un cavaliere da ballata, non fosse stato per gli abiti da dorniano: un dorniano non era mai il cavaliere di una ballata, non di quelle che cantavano nell’Altopiano almeno.
                Anche quel cognome “Dayne” a Gino qualcosa comunicava. Non erano i Dayne una delle vecchie famiglie alfiere dei Martell, ora decadute, ma che se pure fossero mai rispuntate sarebbero state dirette vassalle dei signori dell’Altopiano, ovvero suoi? Ma sì: i Dayne di Stelle al Tramonto, quei cavalieri leggendari con quella spada… com’era che si chiamava? Alba. Era una storia che conoscevano tutti, ogni marmocchio di qualsasi ceto sociale nel continente occidentale. E una spada alla cintola Darkhon in effetti l’aveva. Grossa. Di quelle che s’impugnano a due mani. Sarebbe mai stato possibile che…?
                «Amici miei abbiamo una gran fretta» disse Darkhon quando tutti i compagni di Gino furono scesi dalla torre «Abbiamo fatto molto baccano e siamo in devastante minorità numerica. Dobbiamo andare di corsa, ma prima… ho bisogno che mi diciate… c’è qualcuno tra di voi che si chiama per caso Willys o Willas?»
                «Sì, io signore» si fece avanti uno dei giovanotti che Gino aveva reclutato dal suo esercito dei Tyrell: era il secondo più giovane del gruppo, un bambino praticamente. Ma non importò a Darkhon Dayne, il quale gli sorrise, attese un sorriso di risposta, poi estrasse il suo spadone e lo conficcò dritto dritto nello stomaco di Willas o Willys. Prima di rinfoderarlo, Dayne attese che uno dei suoi aiutanti che lo avevano accompagnato sotto quella torre coi tre elefanti, gli si avvicinasse e gli pulisse con un telo la spada dal sangue del povero ragazzetto dell’Altopiano. E Gino ebbe la conferma: quella era davvero Alba, la spada leggendaria dei Dayne. E questo faceva di Darkhon Dayne… la Spada dell’Alba! La lama dell’arma era qualcosa di meraviglioso, di un bianco scintillante che… aveva del divino: non esisteva in natura un materiale del genere. Ma non c’era tempo per la meraviglia; Gino disse con orrore all’uomo che lo aveva appena liberato: «Ma che cosa avete fatto?! Quel ragazzo aveva famiglia!»
                «Beh, mi spiace» rispose Dayne «Ma tutti l’abbiamo»
                «Signore: esigo sapere perché avete ucciso quel mio compagno» insistette il Lord dell’Altopiano «Altrimenti non muoverò più un passo da questo suolo»
                «Lord Gino: il ragazzo era una spia. Andava cantando via corvo dei vostri spostamenti da quando siete partiti da Altogiardino»
                «Co-come lo sapete questo?» domandò ancora Barron, impressionato. La troppa serie di eventi fortuiti e su cui lui non c’entrava niente cominciava a confonderlo: era una situazione alla Lord Braff, ma senza Lord Braff. Ma che sfortuna che aveva questo nuovo Lord dell’Altopiano! Poi Gino riprese: «Q-Quella è… l’Alba! La spada Alba della Casa Dayne»
                «Sì, Mylord. Anche se il nom effettivo sarebbe “Alba”, non “l’Alba”. Ma poco importa: chiamatela come volete. Avremo tempo di discuterne, avremo tempo di osservarla insieme, chissà magari ve la farò brandire. Ma per tutte le altre perplessità» scandì Darkhon, con il tono di uno che non ammetteva più repliche, «Vi prego di rimandare a luogo più sicuro». I compagni di Gino, prima ancora di lui, non se lo fecero ripetere due volte. Al giovane Lord dell’Altopiano, e legittimo signore di quelle lande desolate, venne perfino concesso da Dayne di salire sul suo elefante. Ma tutti e ventidue trovarono spazio abbastanza comodo in groppa alle tre mastodontiche bestie dell’oriente. E riuscirono a lasciare la magione del mercante traditore. Incredibilmente prima ancora che le truppe armate di Sestrya potessero realmente raggiungerli.
   
 
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