Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: Rossini    03/03/2018    0 recensioni
Prosegue la saga de "Le cronache dei draghi e dei re", cominciata con "L'apprendista di fuoco". Il sistema è ormai sovvertito: la pace che per secoli era perdurata, adesso è stata interrotta da una serie di trame, guerre e rivolgimenti che hanno persino portato al ritorno di un'antichissima dinastia. Ma i fratelli del re appena deposto sono ancora tutti in circolazione, per quanto sparsi su tre continenti. Spetta dunque al nuovo sovrano Targaryen gestire questa complessa situazione, che diviene ancora più ingarbugliata pensando alle misteriose e oscure energie che all'est e all'ovest risorgono sotto forma di vita e fiamme. Esiste forse qualcosa che i Sette maghi del passato più ancestrale, col tempo decaduti e divenuti schiavi, nascondono a tutti i partecipanti - nessuno escluso - di questo ennesimo e disastroso gioco del trono?
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altri
Note: Lime, Otherverse | Avvertimenti: Non-con, Spoiler!, Tematiche delicate
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Capitolo 17

UN TRISTE RITORNO

 

 

 

In tutta onestà Garhel Sawela non avrebbe potuto giurare che la sua impresa presso l’antica città perduta di Valyria avrebbe potuto definirsi un successo. Lord Justus di Marrah, il re mercante, lo aveva incaricato di recarsi lì in avanscoperta, capire che cosa stava succedendo e ritornare: e tutto questo era stato fatto. Poi il Lord degli elefanti gli aveva anche imposto di portare con sé Banfred, suo rampollo ed erede al soglio più alto della città dei mercanti, e di fare in modo che anche quest’ultimo ritornasse, e senza un graffio. E così in effetti era stato fatto. Eppure Garhel era un tipo pratico, un guerriero ed ex militare. Uno che non lasciava mai la schiena a un nemico ancora benissimo in grado di colpirlo mortalmente. E invece questo era accaduto: per la prima volta nella sua vita Garhel non si era salvato con le proprie mani, bensì era stato risparmiato. Aveva un debito di vita con qualcuno, anche se, stando alla logica della draghessa Kimera, era stata lei – in maniera un po’ curiosa e forzata a giudizio dell’ex Tribuno Popolare – a riportare a zero i conti col proprio nemico.

E si trattava di un nemico che fino a che non s’era manifestato, Garhel, Banfred e tutti gli altri non sapevano nemmeno di avere. Così come non lo sapeva Lord Panecha a Marrah, né qualsiasi altro Lord dell’oriente o dell’occidente, eppure era con l’intera umanità che Kimera intendeva iniziare una guerra. Garhel si chiese se lo sapeva Kimera che tra gli uomini da lunghissimo tempo esisteva un istituto chiamato “dichiarazione di guerra”: una semplice missiva, indirizzata da un re a un altro, o da un re a un Lord o da un Lord a un altro Lord, che serviva sostanzialmente per avvisare che l’uno avrebbe cercato di sterminare l’altro. Per dargli modo di prepararsi psicologicamente quanto logisticamente. Era un’usanza onesta, che ormai nessuno in nessuno dei continenti si rifiutava di fare, perché sebbene fosse bello attaccare di sorpresa, non lo era altrettanto essere attaccati. E se uno cominciava a fare il furbo, allora prima o poi doveva anche aspettarsi di essere… vittima di un furbo.

Ma Kimera era diversa. Il conflitto con lei sarebbe stato di una natura completamente differente. Non un re avrebbe affrontato un altro re, ma un drago. E non un vero esercito sarebbe stato chiamato a raccolta contro un altro, bensì un’energia mistica fatta di piante semoventi, belve ribelli, e chissà quali altre mostruosità. Era questo quello che importava. Ed era questo che Banfred e Garhel erano tenuti a raccontare al padre del ragazzo. Da qui il primo problema: Lord Justus ci avrebbe creduto? Perché quello di cui i suoi inviati alla città perduta gli avrebbero parlato era una cosa che andava molto al di là di qualsiasi ragionevolezza, e di questo Garhel era ben consapevole. Se non avesse visto tutto con i propri occhi, neanche lui avrebbe mai creduto a quella storia di teschi parlanti e immense donne-drago. Aveva pensato e ripensato alla maniera più “pragmatica” di raccontare quei fatti al Lord di Marrah nel corso del suo viaggio di ritorno dall’arcipelago maledetto alla decisamente più tranquilla città-mercato. E aveva concluso che non ne esistevano: la verità andava raccontata per intero e senza edulcorazioni di sorta e nello stesso modo andava ascoltata e recepita.

Tutto ciò non tolse che fu con un certo imbarazzo che l’ex Tribuno Popolare entrò nuovamente nella sala di rappresentanza di Panecha, in compagnia di Banfred e pure dei due omini piccoli e silenziosi che sostanzialmente si erano rivelati inutili per tutto il corso dell’operazione. Fu Banfred a cominciare, tentennando un pochino, ma sostanzialmente riuscendo ad andare quasi fin da subito al fondo della discussione, tutto da solo e con una certa sicurezza su cui fino a qualche settimana prima Sawela non avrebbe scommesso neanche uno zecchino contraffatto. Garhel intervenne solo di tanto in tanto, per aggiustare qualche eccesso; gli omini piccoli e silenziosi mai; Lord Justus ascoltò con una certa attenzione solo la prima parte ma, arrivando a metà, Sawela si accorse chiaramente che il re mercante cominciò a dare segni di cedimento. Non gli parve di intercettare il dubbio negli occhi del Lord, non era questo il problema: Panecha stava credendo alle parole del figlio con tutta la sincerità possibile. Ma il vero problema era che era stordito. Completamente senza idee o pensieri. Ci stava credendo, ci stava credendo molto e… non aveva la più pallida idea di come comportarsi. Lui: una delle più brillanti menti politiche del mondo, uno che aveva creato dal nulla ricchezze a mai finire, che si era creato da solo uno dei regni del continente orientale, su cui dominare e pascersi, proprio lui in quel momento era… un uomo finito.

Panecha aveva dei piani per l’Essos, su questo era stato più o meno esplicito con Garhel Sawela: voleva mettere in moto un processo di indipendenza dalla corona dell’occidente. Era un affare complesso che coinvolgeva inevitabilmente gli altri due grandi Lord della regione: Goldsmith di Braavos e Loackland di Myr, senza contare poi alcune forze minori pure piuttosto determinanti, dipendentemente se coalizzate o meno con l’uno o con l’altro: l’importante lingua di terra di diretta giurisdizione della Corona e su cui per ultimi i Lannister avevano messo per reggente un loro quanto mai losco tirapiedi, lo zoccolo duro di città del sud affiliate un tempo ai Tyrell e ora a chissà chi, e poi i Cavalieri della Chimera alla Valle del Leone, assolutamente da non sottovalutare. Ma tutto ciò naturalmente non aveva più alcun significato, se al sud un nemico ben peggiore – addirittura un drago – stava per preparare una guerra contro l’intera umanità. Non c’erano più Lord, né re dell’oriente o dell’occidente. C’erano soltanto gli uomini tutti assieme, tutti indistintamente coinvolti in questa comune battaglia che non avevano richiesto e alla quale probabilmente sarebbero stati impreparati, date tutte le loro rivalità e incomprensioni interne. Tutto questo Lord Justus lo sapeva, e tutto questo Garhel gli stava leggendo in volto. Attese con rispetto un paio di secondi; dopodiché il vecchio Tribuno Popolare dell’est domandò al signore di Marrah: «Qualche idea, Justus?»

«Ehm… è…» balbettò il gran signore e Garhel provò un tonfo al cuore, pensando che se anche Panecha era rimasto senza parole allora la situazione era veramente tragica, «È tutto vero, è così?»

«Sì» confermò Sawela «È così»

«Giuro: se mio figlio fosse stato il solo a raccontarmelo avrei pensato, se non proprio a una fantasia, comunque a un profondo ingigantimento della situazione… ma se anche un uomo di mondo come te, Garhel Sawela, me lo conferma… allora siamo spacciati. Qua-quale esercito di uomini potrebbe mai combattere un condensato di forze della natura e chissà quali altri sortilegi che gli si scaglia contro? Naturalmente… dovrei osservarlo con i miei stessi occhi prima di emettere sentenze definitive, ma… certo sarà anche sbandierando questa informazione che tra qualche settimana ci recheremo alla grande riunione dei Lord dell’oriente presso Braavos, insieme»

«E che cos’è» domandò a questo punto Garhel, sospettoso, «Che stiamo tramando, per convocare questa riunione?»

«Oh, ma non siamo noi che l’abbiamo convocata. È stato Gaholla». Lord Juxas Gaholla era il mastino dei Lannister nell'Essos. Anche se “mastino” non era il modo ideale per definirlo da ormai molti anni. Era stato un valido guerriero un tempo, molto alto e fisicamente prestante. Ma poi… era accaduta qualcosa nella sua vita personale e da quel momento sostanzialmente il vecchio Juxas era impazzito. In preda alle grinfie dell’avida moglie e di tutta una serie di figlie legittime e non, Juxas Gaholla si era dato alla vigna e soprattutto al cibo. Era divenuto un individuo flaccido, obeso e gottoso, confuso, irascibile e vendicativo. E aveva problemi con entrambi i suoi due di lui più ingombranti vicini: Lord Goldsmith a nord e Lord Loackland a sud, anche se con quest’ultimo avrebbe teoricamente dovuto essere in rapporti di stretta amicizia, dato il loro comune asservimento alla casa occidentale della chimera. Eppure a quanto pareva le cose non andavano più così; Lord Panecha puntualizzò: «I soliti problemi di vicinato con Loackland: le città a confine si lamentano e lui ha girato la lamentela a Goldsmith e Goldsmith gli ha suggerito di convocare un’assemblea nella sua Braavos»

«Non sembrerebbero questioni che ci riguardano» constatò Garhel Sawela.

«Non apparentemente, ma se il nostro obiettivo prima del vostro infausto viaggio a Valyria era cercare di mettere insieme un’unità, allora c’era bisogno che un paio di questi tronfi signori venisse… assorbito. E se la cosa avesse dovuto cominciare da una bega tra di loro, dalla quale noi saremmo apparsi i più disinteressati fra tutti, allora: tanto meglio». Sawela osservò Panecha con rabbia: era sempre il solito elefante triplogiochista che muoveva molte più pedine degli altri, molto prima, e senza che gli altri se ne accorgessero nemmeno. Panecha riprese: «Ci sarà anche Baelish della Valle di Arryn». Garhel non sapeva perché Lord Justus glielo stesse dicendo: Petyr Baelish era un altro che muoveva pedine, altrettanto abilmente del Lord degli elefanti. Dire a Garhel che sarebbe venuto alla riunione, era una sorta di ammissione di pacata debolezza. Era come se gli stesse dicendo: “guarda che pure io avrò le mie grane, mica sarà un compito facile”. Ma la ragione per cui stesse condividendo quel pensiero con lui, a Garhel proprio sfuggiva. Sembrava quasi che Lord Justus veramente intendesse tessere una sorta di rapporto di fiducia con lui, cosa che in tutta franchezza Sawela non aveva creduto sin da quando per la prima volta era entrato nel suo palazzo orizzontale per farsi dare il velato comando di accompagnare Banfred a Valyria e riportarlo sano e salvo.

«Allora andiamo lì» Garhel decise comunque di incalzare Panecha: non era suo amico, era un ricco opulento signore che affamava una popolazione di migliaia di individui, tra cui vecchi, donne e bambini, «Senza un piano ben definito? Ad ascoltare come i grandi Lord dell’oriente intendono pugnalarsi tra loro, mentre qui al sud sta per scoppiare la guerra delle guerre?»

«Lo ammetto: sono un po’ senza idee. Ma sommessamente faccio notare a mio vantaggio che talvolta le idee vengono con il tempo, magari accompagnato da un lungo viaggio in cui s’incontra e si parla con gente e si osservano nuovi cieli e orizzonti»

«L’Essos è tutto dune, mylord» fece Garhel sarcastico ma se ne pentì quasi subito.

Con la pacatezza che lo contraddistingueva, il Lord di Marrah concluse, sostanzialmente annichilendo le opposizioni del suo amico avversario: «E tu invece, Lord Tribuno Popolare? Hai qualcosa da proporre?» attese il silenzio di Sawela, poi aggiunse: «Lo immaginavo. Non per mancanza di rispetto nei tuoi confronti, Garhel, questo devi saperlo. Ma lo immaginavo perché la questione è veramente veramente delicata. Un fenomeno più unico che raro ci si para dinanzi, qualcosa che non credo abbia precedenti nella storia degli uomini e, se dovesse averne, risalirebbero comunque a migliaia, e migliaia, e migliaia di anni or sono. Non avrebbero idee neanche i più savi tra gli antichi, figurati cos’è che tu e io possiamo fare. Andremo a Braavos»

«Quando?»

«Molto presto. Te lo faremo sapere noi»

«D’accordo. Allora torno a casa e…»

«A casa? E cosa andresti a fare? Tornare ai poveracci e ai cospiratori di questa città che mugugnano e armeggiano sottobanco? Pensavo che ormai fosse chiaro, Lord Sawela: tu adesso sei un mio uomo. È per me che lavori»

«Spiacente» fece Garhel, guardando Lord Justus un po’ confuso, «Questa cosa non è semplicemente in discussione, Lord Justus. Io sono un uomo libero. Ed è solo per me stesso che lavoro»

«Ah, ancora con questi vecchi slogan!» sbottò Panecha «Tu sì: ma certo. E non sei mica uno schiavo, se per il lavoro che fai ti pago lautamente, e ti garantisco vitto e alloggio in quantità»

«Certo, ma in cambio dovrò sempre prendermi una lama prima che essa colpisca te o il qui presente principino»

«A me sembra molto equa come transazione»

«A me per niente, spilorcio di un venditore di datteri che non sei rimasto per tutto questo tempo. Lo vuoi capire? Il mio posto è tra la gente, finché essa non starà bene!»

«Ossia mai»

«Allora finché a essa non verrà garantito almeno il minimo indispensabile per vivere! Il che significa finché essa non avrà pubblico acceso ad almeno la metà di quanto detengono i pochi ricchi di questa città, o magari di più, o magari tutto»

«Pura utopia! Una brillante mente come la tua sacrificata sull’altare della più vana delle illusioni. Un peccato, un vero peccato. Ma tuttavia ha un lato positivo: io credevo veramente, Garhel, di poterti cambiare; credevo che tu avessi l’intelligenza per farlo, una volta introdotto entro i giusti confini della politica più squisita. E invece no: è questo il nucleo più centrale della tua natura. La lotta più cieca e senza quartiere. Allora: va’, lord Tribuno Popolare. Torna alle tue inutili arringhe e ai tuoi disperati. Uno come te, per il lavoro che intendo fare, mi sarebbe solo d’intralcio. Non farti più vedere nel mio palazzo». Garhel Sawela non disse altro. Sbatté semplicemente la porta di quella camera e fece per lasciare l’edificio. Ma giunto a metà strada, venne fermato dal giovane buon Banfred.

«Mylord, Sawela!» fece il ragazzo obeso, in preda al fiatone per raggiungere di corsa Garhel lungo gli stessi corridoi dove quest’ultimo aveva appena camminato. «Sì, Banfred» fece Garhel «Che cosa vuoi?»; era frustrato per la piega che aveva preso la situazione, dato che era sempre la stessa piega da fin troppi anni. Panecha era convinto di poter modificare una situazione che non poteva essere modificata, se prima lui non mostrava almeno un’apertura in merito alla causa di cui Lord Sawela aveva fatto la sua vita: proteggere gli ultimi dalle grinfie degli uomini che stavano ai vertici della società. Tuttavia Garhel non se la sentiva di prendersela con il figlio per le colpe del padre. Aveva come la sensazione che in definitiva neanche quel dialogo con il principino avrebbe avuto chissà quale esito di vitale importanza, ma fare il frigido e chiudere la porta in faccia a quell’ennesima vittima delle politiche di uno spietato mercante senza scrupoli non lo trovava corretto. Forse non era conveniente, ma non era neanche giusto non prestare ascolto alle ultime parole che il suo compagno di viaggio a Valyria aveva intenzione di rivolgergli.

«Mylord, e-ecco io…» esordì Banfred, naturalmente balbettando, «Io intendevo comunicarvi… ehm… comunicarti la mia gratitudine»

«Oh, davvero» si schermì l’ex Tribuno «non ce n’è di bisogno»

«No, mylord, non solo perché siamo arrivati sani e salvi a casa: so bene che non pensi di aver fatto molto, visto che la draghessa Kimera ci ha concesso la libertà, anche se sicuramente ricorderai di come in verità prima di raggiungere quella roccaforte in rovina abbiamo dovuto affrontare diversi pericoli, e lì mi hai aiutato eccome. M-ma… m-ma non è di questo che ti sono grato. Devi sapere che spesso nella mia vita ho ascoltato storie… storie che parlavano di un grande condottiero che liberava schiavi e salvava vite umane. E-e non erano storie inventate, leggende ascrivibili a chissà quale eroe del passato. Esse erano la cronaca della mia infanzia. Quel grande condottiero eri tu. Naturalmente mio padre ha sempre poco saputo di queste mie letture, e men che meno di queste m-mie… simpatie. Non sto dicendo che tradirei mio padre: non lo farei mai; lui è mio padre. E anche lui è un uomo buono, solo che trova la giusta v-via con i suoi metodi, che sono senza dubbio un po’ più lenti e un po’ meno “eclatanti” dei tuoi. E non voglio nemmeno dirti che sto provando a convincerti a collaborare con lui: eheh, so anche che questo è impossibile. Ma io ti sono grato perché… ora che ti ho anche conosciuto, i-io sento che dentro di me, da qualche parte molto remota, forse potrebbe anche venir fuori un mezzo Garhel Sawela, o un quarto eheh» Sawela stava provando un po’ di pietà: le parole di Banfred lo lusingavano, ma allo stesso tempo gli stavano mettendo in corpo una certa tristezza. Il giovane proseguì: «V-vorrei farti capire che io non sono interamente come mio padre. E… non sono come te, in v-verità… eheh… io non so bene come sono, m-ma… se lo sono, è anche grazie a te»

«Banfred, io…» anche Sawela si scoprì quasi prossimo al balbettio, ma si riprese subito; lui era un uomo tutto d’un pezzo e non usava mostrarsi “sentimentale” mai, in nessuna maniera, «Sono stato felice di conoscerti. Se solo fossi tu il signore di Marrah forse oggi le cose sarebbero diverse. Buona fortuna figliolo, ne avrai bisogno» concluse, e diede le spalle al giovanotto in sovrappeso, sperando sinceramente che non accadesse quello che invece accadde: Banfred lo fermò di nuovo.

«M-ma signore» tornò a balbettare, bloccando il guerriero Lord per la seconda volta, «Io non sarò il signore di Marrah, ma… beh anch’io mi trovo in una posizione unica, che è solo mia: nessun’altro la ricopre. Io prenderò il posto di mio padre un giorno, e vorrei che tu mi facessi da consigliere, se non anche da amico»

«Di questo discuteremo molto dopo, temo»

«M-ma signore… io andrò a Braavos con mio padre. E-e assisterò a quelle riunioni, perché lui vuole che impari. S-se ti portassi come mio seguito, e non suo… lui non potrebbe obiettare»

«Pensi che te lo concederebbe mai? Con tutto il rispetto, ragazzo, ma – anche se hai fatto progressi – non ti ci vedo molto a imporre la tua volontà su quella di Lord Justus»

«Lo farò!» si affrettò ad esclamare Banfred in tutta fretta: evidentemente aveva provato nella sua testa quel discorso più e più volte e fino ad allora era andato per come aveva sperato. Proseguì: «Vieni con me quale mia guardia personale e consigliere, Lord Sawela. Accompagna me a Braavos. Niente vincoli, o patti di nessuna natura»

«Banfred, tu… sei molto grazioso, ma…»

«Interessa anche a te quali decisioni verranno prese. Interessa anche a te sapere cosa diranno Goldsmith, Loackland e Gaholla sulla guerra che si prepara al sud. Molti dei sudditi di questa città sono più leali a te, che a mio padre. Se è la loro sicurezza che vuoi, allora devi esserci a Braavos». Sawela si prese un attimo di silenzio: era vero. Banfred aveva dannatamente ragione. Bisognava considerare le priorità: il problema più impellente. E il problema più impellente non era il suo orgoglio, e la sua guerra personale con il Lord degli elefanti. Era il drago magico che stava al sud, e il suo improbabile esercito di piante. Era quella la prima questione da risolvere; e come poteva risolverla? Smobilitando tutti i poveracci di Marrah attraverso il deserto verso una nuova casa? Era strada pressoché impraticabile… bisognava prepararsi al più grande dei conflitti, e farlo significava ammucchiare quanti più eserciti possibili. E c’era bisogno di Goldsmith e Loackland per quegli eserciti.

 

 

 

Erano probabilmente passati dei mesi da quando Xenya, Jorando e Tampepe erano stati fatti prigionieri dal popolo degli uomini-drago e dal suo re dentro la montagna. Erano caduti come in una sorta di incantesimo che gli faceva passare per cose assolutamente normali e accettabili circostanze che nell’altro continente, a casa, Xenya avrebbe giudicato perlomeno sconvenienti. Gli uomini-drago urlavano sempre, ridevano in modo smaccato e cantavano spesso a squarciagola. Anche se parevano avere almeno una vaga idea del pudore, visto che una sorta di primitive mutande in pelli esistevano, una buona metà di loro andava sempre in giro completamente nuda, e quando non camminava nudo uno poteva darsi che camminava nudo un altro, ma era piuttosto normale vedere un enorme quantitativo di nudità sia maschile che femminile ogni giorno: c’erano tanti “nudi”, quanto “vestiti”. Poi i selvaggi non si lavavano spesso, e di conseguenza puzzavano. Sapevano cuocere la carne, e gli piaceva cotta, ma anche cruda non la disdegnavano affatto e non era raro osservare perfino bambini addentare una creatura così per come il papà gliela portava dalla caccia: nessuno li rimproverava per quello. E poi c’erano le danze e il forte vino di chissà cosa che circolava in quella montagna, e i riti simil-sacrali che si ripetevano due notti sì e una no e poteva capitare che, almeno per una parte degli astanti, finissero in orgia. Non c’erano violenze, nonostante il comune stato di ebrezza, e raramente l’esploratrice aveva avuto modo di osservare un uomo-drago insistere più del dovuto quando veniva rifiutato: il punto era che c’era talmente tanto delirio, che se non penetrava la prima donna che gli capitava a tiro, ne avrebbe sicuramente trovate altre in pochissimo tempo e a pochissima distanza, quando non due o tre insieme, oppure un altro maschio, o più raramente un animale. Certi spettacoli erano veramente disgustosi, e più volte Xenya – che si reputava una donna di mondo – era stata costretta a lasciare la zona per non rigettare la sempre abbondante cena che le facevano trangugiare. Ma a volte anche lei stessa non era stata in grado di resistere al fascino animalesco di quelle creature che, salvo il fatto che fossero tutte dannatamente alte e muscolose, e dai tratti assai spigolosi, erano però d’altronde umani quasi interamente: avevano due mani, due gambe, due piedi, due occhi, una bocca, dei denti, un cuore, uno stomaco e… un organo genitale con tutte le carte in regola: niente di mostruoso insomma.

Alla fine, anche Xenya aveva avuto un rapporto con un uomo-drago in un momento di ubriachezza, e non era stato niente male peraltro. Ma certo non si potevano instaurare rapporti: a parte che Xenya non era affatto interessata a legami di nessuna natura con nessuno, ma anche un’amicizia o una simpatia con un uomo-drago era praticamente impossibile. Erano troppi, e troppo “selvaggi”: erano in costante movimento, difficile trovare uno sempre in uno stesso posto e poi… sì, beh: Xenya neanche ricordava bene il volto dell’uomo con il quale aveva giaciuto; erano tutti uguali! E non solo nell’aspetto, così perfettamente apollineo e abbronzato, ma pure nel tono della voce ad esempio, o nei gesti che facevano. Nella loro semplicità, erano veramente creature quasi perfette. A ciò si aggiungeva che praticamente vivevano in uno stato di sostanziale armonia, perché quello di cui Kyrios il drago si era vantato era tutto vero: i suoi figli non provavano invidia l’uno dell’altro, né rancori di qualsiasi altro genere. Cacciavano, mangiavano, bevevano e scopavano tutto il tempo: che cosa poteva mai turbare questo equilibrio perfetto? Solo l’uomo occidentale forse, e questo probabilmente il vecchio Kyrios lo sapeva.

Le aveva detto il suo vero nome al loro quarto incontro: Xenya non lo aveva più dimenticato. Né aveva dimenticato quelli dei suoi altri due fratelli e sorelle: Nidhogg il drago del fuoco empatico, Requiem il drago del gelo, Kimera il drago della natura e Luxia il drago della vita. E molte cose il drago dentro la montagna si era anche fatto raccontare: erano diventati una specie di amici loro due. Una volta, probabilmente al loro sesto o settimo incontro, si era fatto trovare di nuovo nella sua forma animale, e non in quella pure mostruosa ma quanto meno umanoide cui con tanta fatica l’esploratrice del Westeros si era infine abituata. Ma al drago quello vero, quello con le scaglie e le corna e le ali e i denti aguzzi… a quella figura probabilmente non si sarebbe abituata mai. Infatti glielo chiese, a Kyrios, di non farsi più trovare in quel modo, e in effetti quello non l’aveva più fatto. Un drago aveva accettato una sua richiesta.

Anche se la sensazione era quella che, se avessero voluto, avrebbero potuto farlo quando volevano, in realtà Xenya sospettava che il drago avesse operato su lei e i suoi due compagni, forestieri in quei luoghi, una sorta di magia “buona” che… praticamente gli aveva tolto via la voglia di andarsene. Non ne aveva parlato direttamente con Kyrios per non offenderlo, ma era come se quel luogo semplicemente facesse dimenticare. Era bello, quasi utopico dal punto di vista dell’assenza di guerra e tristezza, ma… c’erano anche un mucchio di altre cose belle al mondo, che lì non c’erano. Vivere lì, significava vivere solo una parte del tutto, anche se decisamente una buona parte. Le fragole per esempio! In quel posto non c’erano fragole, e Xenya andava matta per le fragole, era malata di fragole ma… da quando si trovava lì, era come se si fosse dimenticata del sapore di quelle magnifiche bacche che, fino a un tempo che lei sapeva poco lontano, aveva adorato.

Tutto ciò non andava bene: non andava affatto bene. Xenya aveva una missione, anzi per la verità ne aveva due. Una più ufficiale: Mirietta l’aveva mandata lì per studiare le popolazioni del nord sì, per conoscerne natura e abitudini certamente, ma con l'obiettivo finale di usarle eventualmente per gli scopi della causa dei Lannister, la quale – se con ciò significava la causa di Mirietta – allora Xenya sapeva anche essere la migliore sul tavolo. Dopodiché l’esploratrice aveva anche una missione più personale e meno politica, la missione della sua vita, la quale era lasciare sempre libero quel suo innato istinto di non mettere mai radici, di essere sempre in movimento, costantemente sospinta dal vento verso orizzonti sempre nuovi. Capì che la situazione che stava vivendo alla montagna di fuoco rappresentava tutto il contrario di quello che lei in verità era. Se ne rese conto tutto assieme, come finalmente libera da un incantesimo, quando una mattina si ritrovò da sola, davanti a uno specchio d’acqua pochissimo distante dal villaggio nella quale era una prigioniera senza catene, ad osservare lungamente la sua immagine riflessa (che non aveva mai adorato) e in particolare il suo sguardo (che invece senza false modestie riteneva uno dei più intensi che avesse mai veduto nella sua vita di viaggiatrice). Quella dal canale al villaggio fu la corsa più agguerrita che forse aveva mai fatto. Aveva tutta l’intenzione di fare i bagagli e lasciare per sempre quel continente, con o senza Tampepe e perfino con o senza Jorando, che la accompagnava da almeno un decennio. Ma era risoluta: si era resa conto che quel luogo aveva esercitato su di lei una sorta di stregoneria, e voleva fuggirne quanto più lontano possibile.

Al villaggio tuttavia una insolita ressa fermò per un momento la sua foga. Non capitava mai che al villaggio degli uomini-drago una folla si riempisse tutta assieme senza che ci fosse un rituale di mezzo: e non poteva esserci un rituale, perché erano ciclici e Xenya ormai conosceva bene tutte le scadenze, sia delle manifestazioni più lunghe che di quelle di scarsa durata. L’ultima volta che Xenya aveva visto una ressa di quel genere, era dovuta al fatto che i maschi avevano portato al villaggio una sorta di cervo di dimensioni veramente ciclopiche, molto più di qualsiasi altra “preda” che l’esploratrice aveva visto da quando si trovava alla montagna. E la volta ancora prima… era stato quando lei, Pashamanyna e Tampepe erano arrivati al villaggio!

Qualcuno di nuovo era arrivato al villaggio, e non prigioniero, con mani e piedi legati, o senza sensi, magari dopo una botta in testa. Fieramente e a testa alta. Solo dei pazzi culi nobili avrebbero avuto questa sfacciataggine: Mirietta era tornata al continente. Con lei, c’erano anche un bel giovanotto dai colori simili ai suoi, ma alto e prestante: Mirietta da un punto di vista strettamente fisico era una normale ragazzina della sua età, molto minuta. E poi un’altra ragazza invece totalmente diversa: bionda e con la pelle molto chiara. Doveva essere nettamente più grande della principessa, forse dell’età di Xenya più o meno. Erano tre, come Xenya, Tampepe e Pashamanyna quando erano arrivati. Ed erano incuriositi, ma non poi così spaventati. Così come naturalmente spaventati non erano gli uomini-drago, che avevano già incontrato un gruppo di persone dell’altro continente, e che comunque tendenzialmente non temevano nulla. Il maschio in particolare pareva particolarmente esaltato: tutto quello che lo circondava pareva divertirlo, e chiaramente non aveva un’idea neanche vaga di cosa fare. A un certo punto, tipico maschio stupido, senza motivo sguainò una spada, provocando negli uomini-drago uno stupore ammirato, specialmente nei maschi stupidi come lui. Le ragazze-drago dal canto loro lo guardavano con una certa simpatia, e lui guardava loro come un mammalucco: erano tutte alte pressoché quanto lui.

Nell’istante stesso in cui si accorse di lei, la principessa Mirietta si fece spazio nella ressa e le corse incontro per abbracciarla. Per un po’ prima parlarono di futilità: come stai, come non stai. Era strano a dirlo, e Xenya non era affatto tipo da convenevoli: ma anche quello faceva parte del pacchetto di umanità che da troppo tempo aveva via via abbandonato per vivere come una selvaggia. Intendeva riabbracciare il suo vecchio occidente nella sua interezza, anche negli aspetti che meno l’avevano interessata finché ne era intrisa: in quel momento ne aveva bisogno. Dopodiché Mirietta la aggiornò della situazione in occidente: di uno zio traditore che si era proclamato re e li aveva messi in prigione su una torre e di un altro prozio dalla nomea leggendaria che lo aveva aiutato. Del fatto che ora Mirietta, e quel suo fratello Marcus – che era il ragazzo giunto con lei – era rimasta praticamente l’unica a sostenere il diritto del nipote infante al Trono di Spade, e che dunque intendeva dotarsi di un esercito quanto prima: un esercito di selvaggi sarebbe andato più che bene. Sicuramente meglio che “niente esercito”.

Era tutto molto interessante, e come al solito Xenya non poté non condividere ogni singola parola di quella che ormai reputava una cara amica, e di parteggiare per lei, pur tuttavia le novità che lei presentò a Mirietta furono ben più dirompenti: e non poteva essere altrimenti d’altronde. Xenya lesse bene negli occhi dell’amica il profondo conflitto tra la sua anima realista e sospettosa – che mai e poi mai avrebbe ceduto alla richiesta di credere nell’esistenza di un drago parlante – e la sua fedele stima nei confronti di Xenya. Alla fine le disse di sì, che ci credeva, ma insistette comunque moltissimo per vedere Kyrios quanto prima, e comunque l’esploratrice concluse che in definitiva la vecchia amica non le aveva affatto creduto. Era normale: neanche lei lo avrebbe fatto se si fosse trovata al posto della principessa. Attese il tempo necessario, fece ambientare gli ospiti nel mondo degli uomini-drago, e fece ambientare gli uomini-drago con i loro nuovi ospiti. Quando decise che era tutto pronto, li portò tutti e tre da lui.

La ragazza bionda che era giunta con i principi Marcus e Mirietta alla montagna infuocata si chiamava Daessenya. Aveva manifestato una simpatia recente nei confronti della principessa di Lannisport e aveva aiutato lei e il principe Marcus ad evadere dalla torre-prigione del loro zio. Anzi: senza Daessenya i due probabilmente non sarebbero proprio riusciti a scappare. Data tale cieca fiducia della fanciulla nei confronti della principessa Mirietta, e questo elemento in comune con la stessa esploratrice, alla fine Xenya concluse che anche lei poteva benissimo incontrare il drago. Lasciare una fanciulla con la carnagione chiara in mezzo a quell’orda di selvaggi che i figli del drago altro non erano non l’avrebbe ritenuta una scelta altrettanto saggia, fermo restando che gli uomini-drago erano molto meno pericolosi ed irragionevoli rispetto a quel che si diceva in territorio Kowacz o Sayun-sama.

Kyrios era nella sua forma “umanoide”: quella creatura strana, glabra, alta più del doppio di un maschio medio di comune essere umano, con gli occhi da serpente e tre dita per piede anziché cinque. Ma perlomeno non aveva le squame, le scaglie, le ali, la coda, i denti aguzzi e una dimensione di molto più estesa. Comunque fece fin da subito il suo effetto a Mirietta, Marcus e Daessenya, che lo vedevano per la prima volta. Forse il drago sarebbe stato meglio: un drago almeno puoi identificarlo, sai che cos’è, com’è fatto, anche se non ne hai mai visto uno. Hai sentito storie, letto racconti! Ma quella cosa mediante la quale Kyrios usava manifestarsi, appariva quasi come un affronto alla razza umana, una cosa che voleva imitarla, ma che palesemente non lo era. Xenya si era abituata, e preferiva quella cosa al drago vero e proprio. Ma per Marcus, Mirietta e Daessenya forse ci sarebbe voluto il drago. Visto che il drago non parlava chissà per quali oscure ragioni, e che i tre neofiti erano dal canto loro troppo pietrificati per azzardarsi persino a muoversi, fu la stessa esploratrice ad esordire condividendo l’opinione che si era fatta: «Kyrios» fece Xenya «Forse sarebbe il caso di mostrarti nella tua forma… estesa»

«Hai detto che non la gradivi» replicò il drago, mentre palesemente i tre ospiti tremavano dal panico nell’osservare la creature umanoide riuscire ad esprimersi nella loro lingua.

«L’ho detto» riprese Xenya «Ma quello valeva per me. Questi nostri ospiti forse sarebbero più a loro agio con una creatura che nella loro vita hanno già…»

«Visto?!»

«No. Ma avuto modo di conoscere. I draghi fanno parte della nostra cultura: popolano i nostri racconti e leggende. Mostrati nella tua vera forma, Kyrios». E il re della montagna si mostrò accondiscendente nei confronti della piccola, determinata, esploratrice del Westeros. Divenne drago: uno molto più grosso di qualsiasi altro rappresentato in proporzione in una qualsivoglia antica pergamena conservata nelle biblioteche del vecchio continente. L’espressione nei volti di Marcus, Daessenya e Mirietta d’altro canto non mutò. Intimoriti erano con la creatura umanoide, e intimoriti rimasero con il drago.

«Allora» fece quest’ultimo, una volta completata la sua rapida mutazione, «Chi siete, nuovi esseri umani che avete avuto il coraggio di risalire fino alla montagna infuocata?»

«I-il mio nome» balbettò un po’ Mirietta: e chi altri avrebbe mai risposto se non lei? «I-il mio nome è Mirietta di Lannisport, figlia di Lionel della Casa Lannister e principessa degli Andali e dei Primi Uomini. Questi è Marcus, mio fratello, Cavaliere della Chimera e…»

«Chimera? Cosa è una “chimera”?»

«U-una creatura» rispose a questo punto il principe Marcus, sentendosi direttamente interpellato, «Meravigliosa. Con lunga criniera e forti ali»

«È strano. Dove hanno preso gli uomini questo nome? Chimera»

«Non lo sappiamo» rispose Mirietta «È molto antico. Come la parola drago: non sappiamo cosa significhi, sappiamo che c’è da sempre, in tutti i libri, perfino i più antichi»

«Ahahah» rise il drago, e Xenya non poté non trattenere il brivido di orrore che gli corse lungo la schiena, «E ci sono forse altre creature… chiamate Luxia, o Nidhogg? O Requiem, o… Kyrios»

«No, signore»

«Peccato. E che cosa vi porta qui, principessa Mirietta, principe Marcus e…»

«Ehm… Daessenya» balbettò pure la fanciulla dai capelli biondi «So-solo… solo Daessenya»

«Solo Daessenya… cosa ti porta alla casa del drago? Nelle tue condizioni…»

«I-io sono una convinta sostenitrice della mia Lady Mirietta. E per lei affronterei qualsiasi viaggio»

«Mah… siete sempre stati strani voi umani eppure, nonostante vi conosco da millenni, trovate sempre la maniera per sorprendermi. E tu, principessa degli uomini dell’altro continente? Tu cosa vuoi?»

«U-un tiranno ha occupato la mia casa» fece la fanciullina, con una certa audacia: Xenya non poteva dimenticare che i Kowacz le avevano ribattezzate insieme “generali in gonnella”, «E minaccia il legittimo trono di mio nipote, al momento occupato da un secondo lestofante»

«Sei piena di nemici, per essere così piccola»

«Beh… io sono una principessa» concluse Mirietta, e Xenya capì che l’amica in questo modo voleva alludere al fatto che è più che naturale che una persona che ricopre una carica come la sua si occupi di affari di questo genere. Tuttavia Xenya temette che il drago non avrebbe capito tale allusione e decise di ammorbidire la cosa, dicendo: «Kyrios, la principessa Mirietta sa bene che tu sei una creatura immensa e millenaria, ed è col massimo rispetto che ti racconta queste cose. Ma lei rappresenta qui una dinastia anch’essa molto lunga, anche se per nulla paragonabile alla tua infinita vicenda. Talmente lunga da potersi definire “quella legittima”. E i due avversari cui lei ha fatto riferimento, non sono altro che usurpatori: né più né meno. Ladri che non hanno avuto pietà di niente e nessuno per ottenere il loro legittimo bottino»

«Sì, io capisco tutto ma» rispose Kyrios «non vedo come la cosa possa riguardarmi. Interessarmi certo: qualsiasi storia di una fanciullina agguerrita venuta qui fin dall’oriente potrebbe interessarmi… ma ho idea che la principessa qui mi stia chiedendo qualcosa, e non capisco di che si tratta in tutta franchezza»

«Mio signore: è inutile negarlo» fece Mirietta con sempre più coraggio, ma anche meno buonsenso: Xenya aveva concluso che il drago in realtà aveva capito tutto; era un passo davanti a loro e in questo momento sostanzialmente stava giocando, «I tuoi guerrieri-drago sarebbero devastanti in battaglia per la riconquista del seggio che ci spetta. Cosa possiamo fare per convincerti a fare in modo che combattano con noi?»

«Assolutamente nulla, madamigellina. I miei figli sono puri: non conoscono l’odio e l’avidità che voi portate qui dall’altro continente. E continueranno a non conoscerli. D’altro canto, io non voglio mancarti di rispetto, ma in verità non ho avuto modo di udire alcuna altra campana, e chissà mai se ce l’avrò. Chi mi dice che non sei tu la vile usurpatrice e i tuoi nemici i reali possessori dei troni che stanno occupando?»

«E sia» fece Mirietta, sorprendendo Xenya non poco, visto che l’esploratrice si sarebbe aspettata dalla principessa come minimo un altro po’ di insistenza, «Ti farò allora un’altra richiesta, drago Kyrios»

«Tutto quello che vuoi, piccina»

«I tuoi uomini-drago… hanno tuttavia un antico nemico»

«Sì? Quale?»

«Un avversario con cui da sempre diatribano per questioni di confine. Non sarebbe dunque poi così innaturale, così come lo sarebbe portare i tuoi “figli” oltremare a scontrarsi con avversari che nemmeno conoscono, chiedergli di aiutarmi in un’impresa contro il loro antico nemico…»

«Credo di aver capito a cosa fai riferimento»

«I Kowacz. Sono giunta in questo continente molti mesi or sono. Ero riuscita ad instaurare una pace tra loro e i Sayun-sama e a crearmi… una leadership. Ma un individuo abbietto almeno quanto gli altri due di cui parlavo prima, li ha costretti a mettersi contro di me. Da una creatura che guida un popolo, a un’altra che prova a farlo… è questo che ti chiedo: aiutami a riconquistare la fedeltà dei miei vecchi…»

«Sudditi?»

«A-amici. Non credo che sarà necessario un vero e proprio spargimento di sangue. Basterebbe un’intimidazione e insieme ad essa… l’eliminazione dell’usurpatore che al momento li comanda»

«Principessina: i rapporti tra i miei figli e i cosiddetti Kowacz sono di cattivo vicinato da secoli, quando non da millenni. È vero: talvolta ci scappa il morto da noi, talvolta da loro. Ma una guerra è accaduta rare volte, e costante questa caratteristica io voglio mantenere. A me dispiace per i tuoi affari davvero: sia per quelli al di là del mare che per quelli al di qua… ma… non sono i miei. E nemmeno quelli dei miei figli»

«Ma signore…»

«Non sopporto che il sangue di anche uno solo di loro venga versato inutilmente, e non accadrà. Questa è la mia ultima parola in merito alla questione che gentilmente hai voluto pormi».

Xenya aveva provato, la sera prima, a spiegare a Mirietta che le speranze erano davvero poche. In primis, perché Kyrios era testardo almeno quanto lei. Era un drago millenario, un “drago dell’origine”: ne aveva tutti i diritti. Ma non transigeva nelle questioni neppure minimali: figurarsi se il problema era mandare quei suoi tanto affezionati selvaggi a morire, almeno una parte di loro, per una causa qualsiasi. Mirietta aveva replicato che aveva un asso nella manica, e forse contava sulle sue abilità affabulatorie, o forse sull’idea di rivalità che esisteva tra gli uomini-drago e i popoli che stavano più a sud. In entrambi i casi, aveva preso un abbaglio: Kyrios non si faceva convincere, e Xenya ci avrebbe scommesso fin dall’inizio. Il punto ora era: Mirietta cosa avrebbe dunque fatto? Questo Xenya non riusciva proprio a immaginarselo…

Quando placidamente, ma comunque rispettosamente, i quattro lasciarono l’antro del drago, l’esploratrice attese per un momento di rimanere sola con l’amica. Dopodiché le fece la domanda fatidica: «Allora? Che intendi fare?»

«Intendo combattere una guerra, Xenya» rispose la principessa, risoluta, «Intendo comunque combattere una guerra».

 

 

 

Ritornando a casa dal palazzo-giardino di Lord Panecha, Garhel Sawela ebbe tutto il tempo di pensare all’offerta di Banfred, e in particolare alle sue ultime parole. L’ex Tribuno Popolare risiedeva in un complesso alla periferia estrema di Marrah, immediatamente fuori dalle mura e ad esse appoggiato, formato da un’accozzaglia tutta mischiata di mono e bilocali, nella quale lui e la sua famiglia tendevano a spostarsi di volta in volta, e questo da sempre, o almeno da quando Garhel aveva fatto la sua scelta di divenire il portavoce di qualsiasi esigenza popolare in quel mondo, il che significava sempre. I ricchi all’inizio lo chiamavano il Formicaio, e col tempo anche loro stessi – lui e tutti quelli che lì ci abitavano – erano finiti per assumere quella denominazione: orgogliosi dell’etichetta spregiativa attribuitagli da un gruppetto di grassi elefanti avidi e senza scrupoli. Non aveva dei dati ufficiali, ma a Sawela risultava che col tempo il Formicaio era divenuto il secondo ghetto più popolato dell’Essos, e le cifre tendevano a crescere rapidamente di anno in anno. Non si stava bene a Marrah, ma si respirava una certa aria di libertà, di indipendenza, di battaglia, e questo in parte era dovuto a Garhel. In altra parte era stato dovuto a Yashua, e alla sua antica – ma, dati i tempi correnti, modernissima – religione che predicava ideali di altruismo ed uguaglianza. La gente era la vera forza della politica di Garhel, e probabilmente anche della sua persona e della sua vita. E dunque il problema della gente era centrale: la maggior parte degli abitanti di Marrah stava male, malissimo. Ma qui si trattava di priorità: era sacrosanto combattere Panecha, e con lui la classe ricca della città, ma prima ancora della sopravvivenza economica veniva quella fisica… ed era la sopravvivenza fisica della gente di Marrah che la draghessa al sud Kimera si stava preparando a minacciare. E il vertice di Braavos da questo punto di vista avrebbe potuto essere determinante. Non solo: Banfred gli offriva di parteciparvi, senza fare di lui un diretto segugio del re mercante. Certo, in realtà – checché Banfred ne dicesse – alla fine sarebbe stato Lord Justus a decidere, con un sì o con un no se Sawela sarebbe andato: il vecchio Tribuno Popolare del Concilio del re non intendeva negarsi questa ovvietà. Però stava cominciando a convincersi che questa differenza di forma sarebbe contata: una cosa era mettersi sotto l’ala di Justus come suo alleato e galoppino, altra cosa era affiancare Banfred come libero amico. Se a un certo punto avrebbe deciso che le cose per come stavano andando non gli stavano bene, Sawela avrebbe potuto salutare l’amico, ma non rescindere un tacito contratto. Ecco perché la proposta di Banfred andava considerata seriamente.

Sì: la conclusione dell’ex Lord Tribuno Popolare alla fine fu quella. Avrebbe scortato Banfred. Giunse a casa già con questa consapevolezza, anche se in verità non volle ammetterlo a se stesso. Si disse da solo che si sarebbe concesso dell’altro tempo per pensarci. Ma di tempo ne rimaneva poco, e comunque la decisione era già presa. Stava ancora rimuginando su tutto questo, quando si accorse di qualcosa che lo impressionò non poco. Tutta una lunga parte del Formicaio nelle sue pareti esterne risultava fortemente annerita, come se il Formicaio… avesse preso fuoco. E in effetti anche l’odore che c’era in giro era molto penetrante, e sapeva di bruciato. Parte dei tetti erano crollati, e poi… in giro non c’era nessuno, completamente nessuno. Non accadeva quasi mai, forse durante una qualche riunione importante convocata da Garhel stesso, ma anche in quei casi… le donne, i vecchi e i bambini per lo più rimanevano a casa, on in giro. Dov’erano finiti tutti?

All’improvviso Sawela si accorse di un’unica piccola anima, in fondo alla strada, che armeggiava con una sorta di carriola da una parte, e un’accozzaglia di due o tre fagotti sottobraccio nell’altra. Le andò incontro, la riconobbe: era Sallah, la figlia decenne di Meroh, suo amico di infanzia e stretto collaboratore: era uno di quelli che provvedeva alla sua famiglia quando lui era fuori città, il che poteva significare mesi interi, se si considerava il seggio di Garhel al Concilio Ristretto di re Lionel e la sua collaborazione col sacerdote Yashua. Per interi mesi, sua moglie e i suoi figli erano rimasti soli e gente come Meroh se n’era occupato: lui e altri. Perché questo era il senso del Formicaio di Marrah: una numerosa – ma coesa – famiglia, in cui tutti aiutavano tutti. «Sallah!» fece Sawela preoccupato, leggendo il profondo sconforto negli occhi della bambina – «Ma che è successo?». Prese due dei tre fagotti della piccola: il fratellino di un anno e mezzo e un’anfora contenente probabilmente acqua. L’altro fardello, il fratello ancora più piccolo, che aveva solo poche settimane, la bambina ostinatamente lo tenne con sé. Così come tenne stretta la presa sulla carriola dov’era contenuta quella che a Garhel parse una sorta di farina di scarsa qualità. Dunque costui completò: «Dove sono i tuoi»

«Loro sono… andati. Con l’incendio»

«Che incendio?»

«Il grande incendio. Ha bruciato tutto il Formicaio»

«Cosa? Come è successo?»

«Non lo so. È stato improvviso. Papà è riuscito a gettarci tutti quanti dalla finestra, perché per le scale non si poteva. Ma… lui e la mamma sono rimasti, e loro sono… e poi, il piccolo… dev’essersi rotto qualcosa» Garhel fece per vedere, ma la bambina tornò ad allontanarsi, «Sta male. Sta morendo»

«Ma Sallah… e… i cerusici?» aveva dieci anni, ma Garhel la conosceva bene ed era troppo sveglia perché non sapesse che qualcuno malato va mandato dal cerusico, Garroh e Makhoto?»

«Garroh è andato anche lui con l’incendio… Makhoto ha resistito per un po’ ma poi è morto intossicato per i fumi»

«C-cosa?» balbettò l’ex Tribuno Popolare, e quella rispose piangendo. Infine Sawela fece la domanda che chiunque avrebbe fatto al suo posto: «Sallah, dove sono mia moglie e i miei figli? Dov’è il resto della città?»

«Loro sono a una riunione. Yagoh ha convocato una riunione»

«Mia moglie e i miei figli, o il resto della città?»

«Il resto della città»

«E mia moglie e i miei figli? Loro dove sono?». Il silenzio fu più eloquente di mille parole. La bambina chinò il capo, con gli occhi lucidi e le guance rigate. Si riprese l'anfora e il fratellino sano e ricominciò a marciare.

Disperato, con il cuore improvvisamente saltatogli alla gola, Garhel Sawela corse verso quella che avrebbe dovuto essere l’ultima alcova della sua famiglia. Strada facendo osservò pure le mura talvolta divenire sempre più nere e l’odore più nauseabondo, per poi scemare un poco, e poi intensificarsi di nuovo. Incuriosito, a un certo punto Garhel Sawela deciso perfino di allungare le dita verso quelle mura… erano come unte. Avvicinò dunque il naso: il Formicaio era stato incendiato. Era stata usata una sostanza che permette al fuoco di appiccare facilmente ma… per combinare un danno di quella portata ce ne volevano a litri di quell’intruglio! E accumularne tanto era un’impresa da super ricchi: non da comuni mercanti, beninteso. Da ricchi di quelli ricchi veramente. E chi avrebbe mai voluto spendere così tanto denaro per dar fuoco a una massa così indifesa di poveracci, inclusi vecchi, donne e bambini? Con le idee sempre più confuse, Sawela varcò l’uscio dove un tempo si era trovata la porta di casa sua. Dentro non c’era nessuno. Uscì di nuovo, vide una dirimpettaia affacciata dal primo piano e le chiese: «Ma… che ne è stato della famiglia che abitava a questa porta? Una… una donna e i suoi figli?»

«Sono morti» rispose la vecchia «Mi dispiace».

Confuso, completamente stonato da quella informazione così definitiva che come una mannaia era calata sulla sua anima, Garhel Sawela finì coi ginocchi a terra, costretto da una forza invisibile che lo schiacciava come un piede umano schiaccia un insetto. Gli mancava il respiro, sentiva i sensi lentamente defluire via via dal suo corpo. Pianse. Cacciò un urlo, che nel silenzio di tomba che il Formicaio era diventato risuonò per mille e mille strade e vicoli deserti. L’olezzo pungente di quella sostanza diabolica gli infiammava sempre più le narici quando, una volta dispersa definitivamente la sua eco, Garhel udì un suono. Era il suono di qualcuno che parlava a voce alta. Non era facilmente distinguibile: il locale delle riunione per la gente del Formicaio era costruito in modo tale da passare inosservato, e nessuno ci avrebbe fatto caso se non lo avesse conosciuto. Ma Garhel lo conosceva bene: era lui a parlare in quella sede di solito. Solo che stavolta stava parlando qualcun altro. Stava parlando Yagoh.

Il vecchio Tribuno Popolare del Concilio del re del continente occidentale riuscì a trovare fuori dall’edificio un telo col quale incappucciarsi e se lo mise in testa; dopodiché entrò nell’immenso piazzale nascosto tra le rovine che costituiva uno dei cuori pulsanti della comunità del Formicaio: il luogo da dove da sempre Garhel aizzava la folla. Tuttavia ora il vecchio Tribuno Popolare era curioso di vedere qualcun altro all’opera: un uomo che da sempre si era dimostrato contrario alla sua politica tra la gente di Marrah Cankhubhia quasi più per principio che per altro. Yagoh apparteneva a quella minoranza di individui sempre pronti a fare rimostranze per ogni decisione presa: inutili, oltre che fastidiosi. E adesso cosa voleva? Intendeva spiegare le ragioni dell’incendio? Intendeva versare il sangue di chi lo aveva provocato? Perché in tutti questi casi, Garhel Sawela mai e poi mai si sarebbe comportato con lui così come lui si era comportato con Garhel. In tutti questi casi, Garhel Sawela lo avrebbe appoggiato. Ma Yagoh non stava dicendo niente. Parlava di ipotetici nemici che “forse” – e diceva solo “forse” quando in realtà era sicuro – avevano appiccato volontariamente l’incendio causando la morte di moltissimi individui. Diceva che avrebbe fatto chiarezza, quando la mano intenzionale di qualcuno era troppo evidente e dunque non c’era niente da chiarire. Poi cambiò discorso, e la buttò sul generale: disse che bisognava piangere i morti e prepararsi a una stagione di pace perché, essendo esigui nel numero, ormai gli abitanti del Formicaio non avrebbero contato più niente e quindi con Panecha e gli altri grandi mercanti bisognava trattare. Una vergogna: una vergogna inaudita.

Ad arringa definitivamente conclusa, Sawela – sempre rigorosamente incappucciato – chiese a un altro suo vicino di casa, un tipo sveglio che conosceva di vista ma di cui non ricordava bene il nome, più o meno da dove avevano cominciato a propagarsi le fiamme. E l’incendio era praticamente nato in una stalla vicinissima alla casa di Garhel, e solo poi si era propagato raggiungendo perfino le punte più estreme del Formicaio. Garhel era sempre più incattivito e sospettoso, quando definitivamente decise di mostrarsi agli uomini di Yagoh – che fino a pochissimo prima erano anche i suoi – e di farsi accogliere dal nuovo improvvisato capo della comunità. Yagoh non avrebbe semplicemente neanche potuto rimandarlo quell’incontro, anche se avesse voluto. Garhel Sawela era Garhel Sawela: il predone più grande, l’arringatore più fluente, l’uomo del Formicaio la cui storia era più conosciuta in entrambi i continenti. E Yagoh davanti ai suoi avrebbe fatto la figura di quello che scappa, se non avesse accolto l’ex Tribuno Popolare. Dunque così fece.

Parlarono poco dei convenevoli: più Yagoh la buttava sul dove Garhel fosse stato in quel tempo e che cosa avesse fatto e visto, più Garhel ritornava all’incendio e al come fosse possibile che uno che si trovasse nella posizione in cui Yagoh si trovava ne sapesse così poco. Il nuovo capo del popolo ammise il dolo: ammise che anche lui aveva riscontrato la sostanza appiccata sulle pareti dell’immensa struttura, e ammise che non ne aveva voluto parlare perché attendeva prove definitive. Ma più Garhel insisteva sul nome che avrebbe voluto sentirsi dire, più Yagoh glissava, e questo innervosiva l’ex Tribuno Popolare più di ogni dire. Era come se, oltre aver perso la moglie e i figli, adesso quell’individuo volesse pure prenderlo per stupido. E chissà perché poi…

A un certo punto, Yagoh ebbe l’infelice idea di uscirsene con la frase: «Senti, Garhel, a me spiace parecchio per la tua famiglia: tutti conoscevamo tua moglie e i piccoli, ognuno di noi, ma…»

«Chi ti ha detto di parlarne» rispose Sawela aggressivo «Io non ti ho mica chiesto questo, Yagoh. Non ne voglio parlare e men che meno con te»

«Ma dài! È per questo: è solo per questo che sei così nervoso. Domani stesso farai il tuo bel discorso e l’assemblea intera tornerà ad essere completamente tua. Il popolo stravede per te: lo sappiamo entrambi, perciò non rompermi le palle! Tutti abbiamo subito la tragedia dell’incendio, ognuno di noi ha perso qualcuno…»

«Sapevi che è stato appiccato nei pressi di casa mia?»

«Sì, sì, certo lo sapevo»

«Allora era proprio dalla mia famiglia che doveva cominciare lo sterminio»

«Non lo so: francamente non credo sia così»

«E chi te l’ha detto?»

«Cosa?»

«Che è stato appiccato vicino al luogo dove stava la mia famiglia»

«Non lo so chi me l’ha detto»

«CHI?!»

«Beh, forse… forse Meroh. Sì, adesso che mi ricordo è stato proprio Meroh!». Perfetto: Yagoh era caduto nella trappola che Garhel gli aveva testo. Quello sporco maledetto doppiogiochista venduto! Meroh non avrebbe mai potuto dirgli niente, perché anche Meroh era morto: gliel’aveva detto poco prima la sua bambina, la piccola Sallah. Naturalmente Yagoh aveva voluto usare un nome che sapeva legato alla sicurezza della famiglia di Garhel, anzi il primo di quei nomi. Ma aveva fatto la scelta sbagliata. Yagoh sapeva cose che solo chi aveva a che fare con l’incendio avrebbe potuto sapere, e questo era ormai assodato. Garhel lo prese per le spalle e lo scaraventò forte a terra: a Yagoh piaceva raccontare di essere un guerriero valido, ma Sawela stentava da sempre a crederlo, vista la corporatura pelle e ossa del suo momentaneo “interlocutore”. Dovette strappargli una ad una quattro falangi prima che Yagoh facesse definitivamente il nome che Garhel voleva sentirsi dire: Lord Justus Panecha. Poi Garhel gliene strappò una quinta, e si fece dire che Panecha aveva organizzato tutto: aveva mandato Garhel via dalla città per poter liberamente colpire il Formicaio, a partire dai più cari all’ex Tribuno Popolare; dalla sua famiglia. In questo modo avrebbe per sempre ridimensionato il potere della plebe a Marrah Cankhubhia, o se non proprio per sempre almeno per un periodo medio-lungo, abbastanza sufficiente per dedicarsi intanto all’espansione e diventare re dell’oriente. Certo, c’era l’incognita del ritorno di Sawela – che l’elefante di Marrah avrebbe a questo punto preferito morto sull’isola di Valyria – da gestire: ed ecco la brillante idea; portarlo subito a Braavos, non permettergli nemmeno di ritornare a casa e vedere quello che era accaduto. Ma in questo Lord Justus, per quanto avesse sperato di farlo, non riuscì a trovare la quadra. Tutto ciò portava a due evidenti conseguenze: la prima, che neanche ora, neanche lì, Garhel era più al sicuro: un individuo così diabolico e avvertito come Panecha non si sarebbe mai accontento di un’incognita; erano di sicuro in arrivo dei sicari freschi freschi per lui. La seconda conseguenza era che Lord Justus non era il solo ad essersi avvantaggiato di quell’immonda macchinazione. Anche un individuo rabbioso, assetato di potere ma mai in grado di sfiorarlo neanche con lo sguardo finché la presenza di Garhel Sawela era attiva e vicina, anche lui aveva ottenuto un vantaggio: Yagoh sarebbe stato il capo del popolo, un popolo misero, asservito e quasi dimezzato dopo l’incendio, però disposto a guardare a lui come nuova guida e faro verso l’orizzonte. E d’altro canto: come faceva Lord Justus a sapere dove risiedeva la famiglia di Garhel? Come sapeva quale pagliaio andare a colpire per scatenare l’inferno e uccidere primariamente la famiglia di Sawela? Lo sapeva perché qualcuno doveva aver tradito. Forse molti: ma molti sicuramente coordinati da un’unica mente di serpente. Quella di Yagoh. Ecco perché, alla fine dell’illuminante ed esaustivo colloquio, quel verme che altro non era non si ritrovò solo senza più un paio di falangi, ma anche senza la testa. Garhel Sawela gliela spiccò via dal collo con la sua sciabola. Poi lasciò quel covo e quindi l’intero Formicaio. Forse per sempre.

   
 
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