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Autore: Francine    11/01/2018    3 recensioni
«Tutti noi siamo ponti tra la realtà e quello che si nasconde nelle pieghe del suo mantello. Io, te, Clark, Barry, Victor. Anche Athena. Siamo la dimostrazione che esiste una terza strada.»
«Dimentichi Bruce», ti fa notare Arthur giocherellando con il proprio bicchiere.
«Anche Bruce è un ponte», ribatti.
Ma dove conduca questo ponte, non lo so…
[Cross-over! Saint Seiya/Justice League]
Genere: Avventura, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Saori Kido
Note: Cross-over, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Aquaman® Mort Weisinger e Paul Norris, 1941.
Wonder Woman® William M. Marston, 1941
Saint Seiya® Masami Kurumada, 1986.

 
 
Tutti i personaggi nominati in questa storia appartengono a chiunque ne detenga i diritti legali. Questa storia è stata scritta per puro diletto personale; non ha alcun fine lucrativo. Nessun copyright si ritiene leso. L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright dell'autrice (Francine) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.

 



 



La canzone del vento

1.





 





 

«Posso farti una domanda?»

La voce di Arthur è profonda come le onde a cui appartiene. Ti sembra quasi di percepire il suono della risacca, come una nota di fondo. Nemmeno fosse un profumo, pensi, ché se dovessi definire Arthur tramite un’essenza, questa non sarebbe una di quelle che si acquista in profumeria. Nossignore. Arthur odora di cuoio invecchiato, alghe e spuma di mare. Si porta l’acqua dentro, lui, e te ne accorgi se lo osservi bene, se ti fermi un istante sui suoi occhi di un verde impossibile che sembrano, quasi, acqua di mare al mattino in perenne movimento, come a voler trovare il proprio posto del mondo.
Una bazzecola, ti dici, rispondendogli: «Certo. Dimmi pure.».
«Perché ti chiami Diana?»
Pieghi la testa di lato. «A mia madre piaceva questo nome», rispondi. «E tu? Perché ti chiami Arthur?», gli chiedi a tua volta. Un’ovvietà, ma chi ha cominciato?
«Era il nome di mio nonno», risponde. Poi tracanna un altro bicchiere di whiskey – torbato, come piace a lui – e torna alla carica: «Ma perché tua madre ha scelto proprio Diana.».
Sbatti le palpebre, come a cercare di afferrare il senso delle sue parole. C’è una storia dietro, è questo che ti sta chiedendo? Poi Arthur rompe gli indugi e si spiega: «Diana è un nome d’origine latina. Visto che siete discendenti dell’antica Grecia, il tuo nome dovrebbe essere… A… Ar…».
«Artemis.» Lo vedi annuire, e spostarsi i capelli all’indietro, come a voler comprendere meglio le tue parole. «Il fatto è che Artemis è la nostra divinità protettrice, e sarebbe sembrato... sconveniente dare il suo nome ad una mortale. Sarebbe stato tracotante.»
«Tracotante?» Arthur sgrana gli occhi, divertito. «Caspita, Diana, ogni volta che parlo con te mi sembra di sfogliare un dizionario! Che significa, tracotante?», e fa un gesto con le dita, aprendole e chiudendole.
«Non capirò mai perché voi umani facciate quel gesto.»
«Quale gesto?»
«Questo», e ripeti quello compiuto da Arthur un secondo fa.
«Ah, questo», dice lui. «Mimiamo delle virgolette. È per dare enfasi ad un concetto.»
«A me sembrate matti», replichi, afferrando il tuo bicchiere e controllandone il livello in controluce. «Tracotante significa superbo, presuntuoso. Anche se in realtà, tracotante è qualcosa di più.»
«Tipo?»
«Tracotante è chi crede che i limiti imposti dagli dei non valgano per lui», spieghi, avvicinandoti, come se gli stessi sussurrando chissà quale segreto.
«Ed è un male?», ti domanda, un lampo divertito negli occhi. Reprimi un sospiro, ma non puoi impedirti di stringerti nelle spalle. Arthur è così: ingenuo, impetuoso, sanguigno; dispettoso come un bambino o un’onda che ti bagna l’orlo della gonna a tradimento; sempre pronto a chiedersi quali siano i suoi limiti; ma quando ti porti il mare nel cuore, colla sua voce ossessiva che si mischia al battito del sangue, puoi essere diversamente?
«Sì», gli rispondi, nemmeno avessi a che fare con un monello che si diverte a centrare i vetri delle finestre con una sassata.
«E perché?», ti chiede. Serio. Serissimo. «Che male c’è nel voler superare i propri limiti?»
«Nessuno», replichi, «almeno fino a quando non si eccede. Tutti abbiamo dei limiti, Arthur. Io, tu, il mare… È bene conoscerli, è bene cercare di spostare l’asticella un passo più in là. Ma non è bene ignorarli.»
«Non ti capisco», dice, versandosi un altro giro di liquore. Posi la mano sul tuo bicchiere appena in tempo. «Un limite è fatto per essere superato. E se non vuoi superarlo è perché, appunto, non vuoi. Non perché te l’ha detto il tuo amico immaginario.»
«Amico immaginario
«Sì.» Ti sta provocando. E si sta divertendo un mondo, nel farlo. «Gli dei, dico. Lo sanno tutti, che non esistono.»
Troppo alcol in corpo fa perdere la lucidità. Troppo alcol in corpo scioglie lingue e cuori. E fa dire anche quello che non vorremmo mai dire – anche quello che non dovremmo mai dire. E fa dire cose che è bene non neppure pensare. Guardi fuori dalla finestra. Il cielo è di un acciaio irreale. Le nuvole corrono, veloci, nemmeno qualcuno avesse sciolto i lacci dell’Otre dei venti, nemmeno Poseidone volesse dire la sua, sulla questione.
«Sei in errore.»
Arthur ti guarda da dietro il fondo spesso del suo bicchiere.
«Come?», dice, abbassando il braccio sul legno sbeccato del tavolo.
Sorridi. «Gli dei esistono», ripeti, mentre Arthur scuote la testa. «E io lo so.»
«Certo che lo sai. Tu credi negli dei!», protesta lui, un braccio sullo schienale della sedia. Se si agita ancora un po’, gli si sfonderà sotto il sedere, pensi. E forse gli starebbe anche bene.
«Ci credo, perché li ho conosciuti.»
«Sì, nei tuoi sogni!»
«No!», replichi, sbattendo un pugno sul tavolo. Arthur ti fissa con insistenza. Non sembra accorgersi che gli altri avventori – tutti pescatori che non sono potuti uscire col maltempo e che le loro mogli hanno spedito di gran carriera al bar del paese – hanno smesso di chiacchierare dei fatti loro e si sono girati a fissarvi. Aspettano la rissa, ti dici, curiosi di sapere chi la spunterà. Resteranno delusi. «Gli dei esistono. E lo sai anche tu. O vuoi dirmi che ad Atlantide non s’è parlato della battaglia tra Athena e Poseidone?»
Stringe la mascella. L’hai colto sul vivo, lo vedi dal lampo che gli attraversa lo sguardo. Si fa avanti. «Leggende…»
«Leggende?» Adesso sei tu che lo sfidi. «Non sono leggende, Arthur. Lo sai anche tu.»
«No, non lo so», insiste. Calmo. Pacato. Ma sotto il pelo dell’acqua si sta addensando una corrente turbolenta che rischia di portare via la linea di costa.
«Trent’anni fa. Più o meno. Ci furono violente alluvioni. Le acque si sollevarono per giorni e giorni, e poi finì tutto.» Pausa. «Non ne hai mai sentito parlare?»
Vedi nei suoi occhi che sì, ne ha sentito parlare eccome. Probabilmente, avrà visto coi suoi stessi occhi gli strascichi che quella guerra s’è lasciata alle spalle. Lei parlava di colonne abbattute, vestigia abbandonate, rovine di un mondo fatto di leucagata e corallo e orricalco. Hai passeggiato per quelle strade, Arthur?
«Sì. Me l’hanno raccontato. Non ero ancora nato, quando è successo.»
«E?»
«E niente», risponde, incrociando le braccia, con aria di sfida. «Niente, Diana. I cambiamenti climatici non sono una novità, no?» Non si arrende.
«I saggi di Atlantide? Cosa dicono, loro?»
Rotea gli occhi all’insù, un sorriso sulle labbra screpolate, e ti dice: «Leggende, Diana. Sono tutte leggende.».
«Raccontamele.»
È quasi un ordine il tuo, e i suoi occhi si catapultano su di te. Stai dando un comando al Re di Atlantide?, sembrano dirti quelle iridi d’acqua verde, com’è il mare al largo della Sardegna. Sostieni lo sguardo. È un duello di volontà, adesso, ché lui sì, sarà anche il Signore dei Sette Mari, ma tu sei la principessa delle Amazzoni. E non ti fai mettere i piedi in testa così facilmente. Neppure da lui.
Arthur storna lo sguardo per primo. Scuote la testa, allarga le braccia e dice: «Massì. Tanto questa è una notte perfetta per raccontarsi storie…».
Avvicina la sedia, posa i gomiti sul tavolo e fa cenno all’uomo dietro al bancone che vi porti un’altra bottiglia di whiskey. «Tu cosa preferisci, principessina?».
Non raccogli. «Una birra andrà benissimo, grazie.»
Arthur indica il tuo boccale all’oste, si versa l’ultimo bicchiere, abbandona la bottiglia sul tavolo, di taglio, e si gingilla col liquore. Ti ricorda quel personaggio di quel film fantasy che sei andata a vedere qualche anno fa. Com’è che si chiamava? Toradol? No, quello è un medicamento…
«Allora, principessa», inizia Arthur, «la storia che ho sentito io racconta che, dopo la morte di mia madre, Atlantide è piombata nel caos. Non c’era nessuno che potesse sedersi sul Trono e guidare il nostro popolo. Io ero lontano, mio padre mi aveva portato via. Per proteggermi. E comunque, ero solo un moccioso che amava nuotare. Non sarei stato di nessun aiuto. Quindi, che è successo?»
«Che è successo?», chiedi.
«È successo che il dio Poseidone è venuto in soccorso del suo popolo.» Silenzio. L’oste, Olaf, posa sul tavolo una bottiglia nuova e un boccale per te, e poi se ne ritorna dietro al suo bancone ad ascoltare le chiacchiere dei pescatori e le bestemmie sul tempo inclemente e sul mare arrabbiato che muggisce oltre la porta spessa della taverna.
«Ma questo non significa nulla.»
«Ah, no?»
«No.» La sua voce ha il suono secco di un ramo che si spezza, o di un’accetta che cala sul ceppo. «Sono leggende, Diana. Se Poseidone avesse davvero deciso di schierarsi con il suo popolo, perché è sparito? Dov’è andato?»
«Poseidone è stato sconfitto da Athena.»
Sbatte le palpebre. «Sì, quando si sono litigati quel formicaio a cielo aperto che è Atene…»
«No, Arthur. Trent’anni fa, Athena ha salvato la terra dalla furia di Poseidone.»
Tace. Si sistema sulla sedia, ti scocca un’occhiata poco convinta e ti dice: «Ma davvero?».
«Sì, Arthur. Davvero.»
Alza le mani, sorridendo. «Avanti, D. Non puoi credere sul serio che…»
«In questo posto c’è il wi-fi?», domandi, tirando fuori il cellulare dalla tasca della giacca incerata giallo anatroccolo. Arthur annuisce. «Password?»
«Orin.»
La inserisci e inizi a navigare. «Trent’anni fa, ho conosciuto la dea Athena», gli racconti, avvicinando lo schermo dello smartphone. C’è una pagina di YouTube, il video è quello di una ragazza giapponese vestita in maniera antiquata impegnata in quella che ha tutta l’aria di essere una conferenza stampa.
«Cos’è?», ti domanda.
«Trent’anni fa, questa ragazza ha dato il via ad una serie di eventi che sono passati inosservati alla maggior parte della popolazione.» Scruti il suo viso per carpire le sue reazioni. Fa un cenno, come a dirti Va’ avanti. E tu obbedisci. Lui è pur sempre il Re di Atlantide, no? «Questa ragazza ha organizzato un torneo di lotta. Questa ragazza, è la dea Athena.»
«Quest’uccellino spaventato?» esclama Arthur, sorridendo.
«Non mi credi?»
«Avanti, D. Quello che mi chiedi è più di un atto di fede», e sai che ha ragione. L’impossibile è entrato a gamba tesa nella vita di Arthur da troppo poco tempo perché abbia sufficiente elasticità mentale da lasciare aperto uno spiraglio di possibilità. Sta mettendo su una diga, una chiostra di scogli come denti aguzzi degli squali, qualcosa che lo protegga, in qualche modo. Ma puoi arginare il mare con una manciata di sassi aguzzi?
No. Senza se e senza ma.
«Lo so. Per cui, ecco la mia proposta», gli dici posando lo smartphone sul tavolo. «Io ti racconto una storia. Una storia che ho vissuto in prima persona. Poi, sarai tu a decidere se gli dei esistono o se sono solo… leggende.»
«Perché la racconti a me?», ti domanda.
«Perché gli altri sono figli del loro tempo. Tu ed io, no.»
«No? Sei sicura, Diana? Perché io sono più che certo di essere nato sulla Costa Est, di essere andato al liceo, di…»
«Hai capito cosa intendo, Arthur», lo interrompi. «Tutti noi siamo ponti tra la realtà e quello che si nasconde nelle pieghe del suo mantello. Io, te, Clark, Barry, Victor. Anche Athena. Siamo la dimostrazione che esiste una terza strada.»
«Dimentichi Bruce», ti fa notare Arthur giocherellando con il proprio bicchiere.
«Anche Bruce è un ponte», ribatti. Ma dove conduca questo ponte, non lo so… «Allora, vuoi sentire la mia storia, oppure no?»
«Certo che sì», ti risponde, accennando con la spalla al panorama fuori dalla finestra: un cielo di piombo che promette di rovesciare sulle vostre teste il fortunale perfetto. «O hai un altro posto dove andare, D?»
«Se intendi un posto dove non fa freddo e non piove in continuazione, sì. Parigi è deliziosa, in questa stagione…»
«Touché. Vorrà dire che la prossima volta ti verrò a trovare io.» Arthur ridacchia. Non succederà mai, lo sa lui e lo sai tu; però è bello poterci credere, anche solo per un momento. «Allora, questa storia?»
Ti schiarisci la voce. «In un bel giorno di Settembre di qualche anno fa, mentre pranzavo in un bistrot di Parigi, ho visto questo…» Le tue dita scorrono sullo schermo, Arthur tace, fuori il vento canta la sua canzone d’acqua e sangue.



Note: sì, sono impazzita, ma quest'idea continuava a ronzarmi nella testa da un paio di mesi; sicché, siccome la mia resistenza è pari a quella di un foglio di carta velina che dondola nella tempesta, mi sono detta che l'unica salvezza, per me, era cedere, nella pia seranza di sbloccarmi con Ciò che Sapete Voi.
Il Là per fare interagire Arthur e Diana me l'ha fornito una storia di _Akimi, Fish don't cry; quanto funzionano bene, questi due...
Sì, lo so che nel mio headcanon Saori e soci hanno un incontro con la
Casa delle Idee (Altrui); e allora?
 
 
   
 
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