Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
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Autore: Dobhran    12/01/2018    0 recensioni
Si avvicinò per sussurrarmi nuovamente nell'orecchio, a bassa voce come per rendere quella conversazione il nostro sporco segreto. «Lui ti ha fatto delle promesse che non può mantenere, assicurandoti che ti proteggerà. Io invece sono un uomo di parola e ti faccio la mia promessa: ti ucciderò. Non so come, non so quando, ma so per certo che morirai. Non ti lascerò tregua, ti tormenterò, ti farò soffrire e soprattutto farò soffrire lui che guarderà la sua protetta spegnersi per colpa sua».
- La distrazione di una sera e Amber si trova a dover affrontare un pericolo più grande di lei, un predatore spietato e all'apparenza imbattibile. Impaurita, isolata e incapace di distinguere gli amici dai nemici, la realtà dall'incubo, Amber sarà spinta al limite delle proprie forze. Ad aiutarla, un ragazzo misterioso e dall'aria innocente che afferma di essere qualcosa in cui Amber non ha mai creduto. In fondo, angeli e demoni sono solo frutto di sciocche superstizioni popolari...giusto? -
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Gli animali terrestri, i volatili, i serpenti, gli animali marini, sono stati e vengono domanti dall'uomo. Ma nessun uomo può domare la lingua: essa è un male che non dà tregua, è piena di veleno mortale. Con essa noi lodiamo Dio, Signore e Padre, e, sempre con essa, malediciamo gli uomini, che sono stati fatti a somiglianza di Dio. Dalla medesima bocca viene fuori benedizione e maledizione. No fratelli miei, le cose non devono andare così. Può forse la stessa sorgente far zampillare dalla stessa apertura il dolce e l’amaro?

Giacomo, 3, 7-11.







18.




Il motivo per cui la sera preferivo non serrare le persiane era che il sorgere del sole mi aiutava a sfuggire dalla morsa del sonno con la delicatezza della sua luce e del suo graduale infiltrarsi tra la stoffa bianca delle tende. Volevo che fosse qualcosa di naturale a svegliarmi e non un meccanismo elettronico, tranne nei casi in cui era proprio necessario.
Quella mattina rimpiansi la mia decisione, quando la luce del giorno mi ferì gli occhi peggiorando il mal di testa con cui mi svegliai. Ad ogni battito del mio cuore il rimbombo si proiettava dentro alla scatola cranica, lasciandomi intontita e con un dolore costante e diffuso fino ai denti. Ero abituata a saltare fuori dal letto pochi minuti dopo il risveglio, ma quel lieve malessere mi impedì di farlo. Rimasi sotto le coperte a fissare il soffitto, almeno finché al piano di sotto non udii la porta di casa chiudersi dietro alle spalle di mia madre.
Volevo attendere che partisse per andare al lavoro prima di affrontare di nuovo la lucidità del mondo, forse perché non avevo voglia di parlare con lei o forse perché semplicemente non volevo parlare con nessuno. Mi turbava l’idea di dover rendere conto degli avvenimenti della sera prima. Sapevo che mi aveva udita gridare e senz’altro mi avrebbe rivolto mille domande sul motivo per cui avevo avuto una notte agitata. Ancora non trovavo la forza di affrontare l’argomento con qualcun altro che non fossi io, perché nella mia mente già era in corso un’accesa diatriba, un litigio psichico che non risparmiava colpi né ingiurie.
Dopo un tempo che mi parve interminabile mi feci coraggio e scesi di sotto a preparare la colazione, tesa, fiacca ed irritabile come dopo una sbornia e ancora più indispettita nel rendermi conto che era soprattutto verso di me che rivolgevo le mie ostilità.
L’incubo di quella notte e ciò che ne era derivato, il mio pavido rannicchiarmi sotto le coperte come la più patetica delle poppanti, il sudore freddo sulla pelle, l’immagine dei Demoni che mi era danzata davanti agli occhi come un miraggio per qualche minuto dopo il brusco risveglio, contribuiva a farmi sentire estremamente ridicola. Non avevo mai sognato nulla di simile, nulla di così vivido e preciso ed era tutta colpa mia e della mia sciocca preoccupazione a proposito di Samuel. Anzi no, era colpa sua. Era lui che insisteva a volermi coinvolgere nella sua pazzia e alla fine, sebbene non fosse stato in grado di convincermi, ce l’aveva fatta a darmi il tormento con pensieri assurdi. Brutto stronzo di uno psicopatico.
Nella sicurezza della mia solitudine vagai da una stanza all’altra senza sapere davvero che cosa stessi facendo. Sfidai testardamente e con arroganza il mal di testa, pulii la casa, feci due lavatrici e stesi il bucato con la mente chissà dove e la voglia bruciante di prendere a calci qualcuno. Di solito non era facile irritarmi, riuscivo a mantenere la calma anche nei momenti più critici, ma quando mi si guastava l’umore era difficile ristabilire l’equilibrio originario. Avrei dovuto chiedere a Jenny qualche consiglio utile su come non lasciarsi trascinare troppo dal nervosismo, lei era una maga in quel settore.
Persino l’assenza di dolore o di segni visibili a causa del morso del serpente contribuì a inasprire il mio umore. La sola idea che Samuel avesse avuto ragione a impedirmi di consultare un medico mi faceva venire voglia di prendermi a schiaffi.
Il tempo massimo in cui riuscii a resistere di fronte al televisore fu di un mezz’ora, non di più, a fissare senza entusiasmo programmi che non avevo motivo di guardare. L’ultima opzione fu quella di uscire di casa, confidando nella speranza o nell’illusione che una boccata d’aria fresca mi avrebbe aiutata a smaltire i cattivi pensieri come una sostanza tossica espulsa dalla pelle, e forse a far dileguare il fastidioso mal di testa che cominciava a farsi sentire. Mi vestii in fretta, infilai in tasca un paio di biscotti secchi e l’iPod, e uscii di casa, pregustando il momento in cui avrei iniziato a correre nel parco e ogni preoccupazione sarebbe scivolata via dalla mente. Sempre che di preoccupazione si potesse parlare. Era quasi imbarazzante essere così scossa da un semplice sogno, ma per quanto fosse dura da ammettere, era proprio così.
Il parco era particolarmente affollato quella mattina, probabilmente per via della piacevolezza della giornata. Il tempo invogliava a lasciare l’intimità della propria casa per potersi ritrovare in mezzo alla natura, per quanto poco isolata dal resto della città. Corsi fino a sentire i muscoli bruciare e il sudore bagnarmi la fronte e la schiena, nella speranza di espellere con esso anche quel senso di spossatezza e di malattia. Poi mi lasciai cadere su una panchina senza aver ottenuto grandi risultati. Inspirai a fondo per recuperare il fiato divenuto corto per la fatica, prima di rendermi conto che, per assurdo, mi ero proprio seduta sulla panchina che pochi giorni prima aveva accolto me, Samuel e i nostri discorsi.
Sembrava passato un secolo, ma ricordavo bene quanto l’avevo guardato storto per tutte quelle idiozie. Ed ora eccomi lì, seduta proprio sulla stessa panchina, nello stesso punto del parco. Quasi mi aspettai di vederlo sbucare fuori dal primo cespuglio, di nuovo, con un sorriso pacifico stampato sul volto e la solita tranquillità di chi era certo di essere dalla parte della ragione.
Soffocai quel po’ di senso di colpa che mi punzecchiava il cuore e misi del tutto a tacere i miei dubbi. Si era meritato il mio atteggiamento e le mie critiche, ero riuscita ad ascoltare i suoi deliri mentali per un tempo maggiore rispetto al necessario ed era giunto il momento di finirla, soprattutto dopo ciò che era accaduto alla festa del quattro luglio. Vedermi così spaventata per il serpente, che fosse reale o meno, avrebbe dovuto fargli avere un atteggiamento più concreto, invece aveva liquidato il tutto come un'insidia di Hazaq. Era un segnale piuttosto eloquente del fatto che anche Samuel era una minaccia per me, che non importava ciò che sarebbe successo, non avrebbe mai preso seriamente nessun evento che mi riguardava e non avrebbe considerato mai nulla con lucidità.
A proposito di minacce, dov’era finito Simon? Davvero mi vedeva come una partita giocata solo a metà? Come una sfida da cogliere e affrontare fino alla fine? Non ero molto convinta. Aveva la polizia alle calcagna, non poteva esporsi senza rischiare di essere catturato o visto da qualche testimone. Il fatto che ancora nessuno l’avesse avvistato mi faceva pensare che qualche amico lo proteggesse. Speravo ardentemente di non sbagliarmi a proposito delle sue intenzioni, mi aggrappavo alla convinzione che non mi stesse più dando la caccia, perché se mi fossi lasciata persuadere anche solo per un istante dalla possibilità che mi tenesse d’occhio in attesa del momento buono per colpire, la paura avrebbe avuto il sopravvento. Non dovevo permettere che una cosa del genere accadesse, dovevo aver fiducia nelle forze dell’ordine e nel fatto che ero una persona insignificante per Simon. Che cosa avrebbe guadagnato nell’uccidermi, se non una soddisfazione personale per aver concluso il lavoro iniziato al Mephisto? Il semplice orgoglio non era sufficiente per affrontare la polizia, addestrata ad acchiappare i criminali più incalliti.
Infilai le dita in tasca e afferrai i biscotti, osservando i passerotti zampettare allegramente accanto ai miei piedi. Certo non osarono avvicinarsi più di quanto avessero fatto con Samuel, ma in qualche modo capirono che tra le mani avevo qualcosa di interessante. Mi concessi qualche istante per osservare le loro reazioni quando misi bene in mostra il cibo e per essere certa di avere la loro completa attenzione. Uno di loro fece qualche saltello, puntando verso di me i suoi occhietti completamente neri e muovendo a scatti la testolina.
«Esatto, un biscotto» mormorai. «Un gustoso biscotto secco ai cereali. Una delizia».
La mia voce non li fece volare via, la promessa di qualcosa da mettere sotto il becco era più forte di qualsiasi timore. Il più ardito si fece ancora un po’ più vicino e io lo premiai sbriciolando nel pugno il primo biscotto e lanciandogli qualche briciola.
Lanciai i restanti pezzetti e osservai con interesse la loro gara a chi faceva prima a raggiungere ogni frammento di biscotto, poi mi alzai e ritornai sui miei passi.
La breve uscita non aveva sortito l’effetto sperato e se qualcosa avevo ottenuto, non era durato a lungo. La sgradevole sensazione di freddo e stanchezza non era cessata, in più una punta di dolore alla nuca aveva promosso il disagio psichico a disagio fisico. Un salto di qualità che non avevo richiesto e a cui avrei fatto volentieri a meno.
Quando rientrai in casa la spia della segreteria telefonica all’ingresso mi segnalò un nuovo messaggio. Premetti qualche pulsante e come per magia la voce di Louis riempii l’atrio. Capii subito che la sua chiamata aveva uno scopo dal modo in cui elaborò un affettato ed innaturale preambolo. Non era raro che mi chiedesse come me la passassi, ma nelle sue parole c’era qualcosa di stonato e troppo artificioso per uno come lui. Quando lo richiamai misi subito in chiaro che non avevo bisogno di tanti giri di parole per capire che c’era sotto qualcosa di losco.
«Taglia corto, ragazzo. Che cosa vuoi?» domandai, forse in modo un po’ troppo brusco, ma la calma quel giorno non era il mio forte. Un lungo sospiro da parte sua confermò i miei sospetti.
«Jude ha richiamato».
«Davvero? È fantastico, avete fatto un’altra lunga chiacchierata?»
«Sì, è un tipo in gamba, mi trovo bene a parlare con lui…ma non è questo il motivo per cui ho telefonato». Attesi in silenzio qualche chiarimento, senza sapere bene il motivo per cui uno strano e cattivo presentimento mi punzecchiasse lo stomaco.
«Mi ha invitato a passare una serata con lui al Mephisto». Era impossibile non notare l’entusiasmo nella sua voce, un sentimento quasi tangibile anche attraverso il ricevitore.
«Accidenti, è una cosa seria, spero che tu gli abbia detto di sì».
«Certo, vado volentieri, ma…»
«Ma cosa, Louis, che cosa non mi stai dicendo?»
«Ho bisogno che tu venga con me».
In automatico la mia mente ricreò immagini familiari di quella prima sera nel nuovo locale e un senso di claustrofobia insolito mi serrò la gola. Ogni cosa che mi era parsa un tocco di classe lì dentro oramai era solo un dettaglio che andava ad aggiungersi alla disastrosa piega presa dagli eventi. «No Louis, non se ne parla».
«Ma Amber, per favore! Ti prego, prima ascoltami. So che cosa rappresenta per te quel locale, e lo capisco, avrei chiesto a Jenny di accompagnarmi ma lo sai che è fuori città». Ah, giusto, Jenny era andata a trovare sua sorella a Santa Rosa. Non poteva scegliere un momento peggiore per lasciarmi da sola col nostro amico.
«Allora posticipa l’appuntamento».
«Non posso, mi ha chiesto di passare domani sera. È già tanto che mi abbia chiamato, non voglio sfidare la sorte. E se poi crede che faccio il difficile e cambia idea?»
Sai che mi importa. Fui tentata di rispondere, ma la ragione frenò le mie parole prima che potessero uscirmi dalle mie labbra e ferire. Certo che mi importava, era Louis, era il mio migliore amico da praticamente tutta la vita. Era ovvio che volevo vederlo felice, ma…
«Come puoi chiedermi di tornare? Io non... ecco, non so come potrebbe essere la mia reazione appena metterò piede al Mephisto. Non mi piace l’idea di tornarci, Louis».
«Lo so…non ti sentiresti a tuo agio nemmeno in mia compagnia? Ti prometto che rimarrò con te, se hai bisogno ti resterò attaccato come un fungo».
«Bella immagine, poetica. Ti ricordo che sei tu ad aver bisogno di me, non viceversa, altrimenti non avresti chiamato. Hai pensato all’ipotesi che Simon potrebbe essere lì da quelle parti?»
«Scherzi vero? Se fosse lì Jude avrebbe senz’altro chiamato la polizia. Sono tutti sconvolti per quello che ti è successo».
Alzai gli occhi al cielo. «Come no, sbaglio o grazie a me gli affari vanno alla grande?»
«È solo una conseguenza, Jude è molto dispiaciuto. Vedrai che ti farà sentire a casa, è un ragazzo molto carino…mi piace, Amber, e mi faresti un favore se mi accompagnassi. Non posso andare da solo, mio padre non mi lascerà la macchina e francamente un taxi mi verrebbe a costare buona parte del contenuto del mio modesto portafogli». Trassi un profondo sospiro, lottando contro la voglia di inveire contro di lui. Non potevo farlo, gli volevo bene, ma non volevo andare.
«Mia madre darà di matto quando lo saprà» tentai di giustificarmi. Era una scusa, ma solo a metà, perché non osavo immaginare quale sarebbe stata la reazione della donna. Già la prima volta senza sapere come sarebbe andata a finire aveva sbraitato che non era posto per una ragazzina come me, ora era folle pensare che mi desse la sua benedizione.
«E tu non dirglielo».
«La fai facile tu».
«Lo è. Digli che vieni a casa mia e che facciamo una serata cinema io e te. Se ti chiede spiegazioni digli che guardiamo, mmh…ma che ne so? Inventati il titolo di un film a caso, ma vedi di conoscerlo, così se ti chiede com’è stato puoi dargli qualche informazione sulla trama».
«Dannazione, hai pensato proprio a tutto, vero?»
«Ho una mente criminale, tesoro, lo sai». Mio malgrado un sorriso mi spuntò sulle labbra. La sua invadenza mi infastidiva, ma paradossalmente riusciva anche a divertirmi. Era sempre il mio Louis e io sapevo di non aver scampo.
«D’accordo, ma solo per questa volta. La prossima volta che ti chiede di incontrarvi ci vai da solo».
«Grazie! Vedrai che ci divertiamo, è pur sempre un locale da urlo».
Sì, da urlo. Nel senso che mi sarei messa a urlare appena varcata la soglia?
«Scrivi sull’agenda che ti devo un favore» continuò il ragazzo. Da lì non riuscivo a vedere il suo sorriso, ma sapevo che era largo da un’orecchia all’altra.
Ridacchiai. «La mia agenda è zeppa dei tuoi debiti, se non fosse per te non avrei mai cominciato ad usarla».
Cominciai a pentirmi della mia decisione dal momento in cui riattaccai. Non avrei dovuto accettare, ma era difficile negare un favore a Louis. Era come dire di no ad un bambino di fronte alla bancarella dello zucchero filato, perciò era inutile rimproverarmi, sapendo che già dalla sua prima supplica ero destinata a cedere.
Il resto della giornata trascorse lentamente e senza particolare significato per me. La cosa più costruttiva fu progettare la cena, ma mamma avrebbe mangiato in ufficio quindi solamente per me non era un grande sforzo cucinare.
Mi ero aspettata da un momento all’altro che Samuel suonasse alla porta, rispuntando dal nulla dopo la mia scenata della sera prima, ma non si fece vedere. Di lui non ci fu traccia nemmeno il giorno dopo, sebbene la mia aspettativa fosse ancora più alta. Certo, non avrei saputo cosa dirgli ed era escluso che ritirassi le critiche che gli avevo rivolto.
Cominciai a prepararmi solo mezz’ora prima di uscire, distrattamente e di mala voglia. Il fatto che mettessi poco entusiasmo in un’azione così importante per la maggior parte delle donne, la diceva lunga. Non andai nemmeno oltre ad una maglietta e ad un paio di jeans per ricordare a me stessa che non ero costretta a farmelo piacere per forza. L’abbigliamento sobrio aveva anche un secondo scopo, quello di passare inosservata di fronte agli occhi di mia madre, rientrata a casa da poco e seduta sul divano. Il suo mamma-radar si attivò all’istante e la spinse ad alzarsi e venirmi incontro.
«Dove hai detto che vai?» mormorò. Indossava degli occhiali che le davano un’aria ancora più inquietante, da severa professoressa universitaria.
«Veramente non ho detto niente». Mi sistemai il foulard giusto per ottenere qualche istante per riflettere e per scegliere un film da rifilare come scusa, ma nella mente spuntarono solo titoli troppo scontati o abbastanza vecchi da far sembrare un’assurdità tutta la faccenda della serata cinema. Era buffo come al momento del bisogno la memoria andasse in tilt e si rifiutasse di guardarmi le spalle. Rimasi in silenzio non avendo trovato nulla di originale da dire.
Qualcosa di diverso dall’imbarazzo si fece strada tra i miei pensieri, scacciando ogni traccia di patetica preoccupazione. Non avrebbe dovuto essere così difficile rifilare a mia madre qualche stupidaggine su ciò che volevo fare quella sera, anzi, potevo dire ciò che preferivo. In più dopo la convalescenza (nome che lei usava e che io aborrivo, ma che funzionava per farsi compatire quando era necessario) mi avrebbe permesso di andare quasi dove volevo. Quel quasi aveva una nome preciso, un nome dalle sfumature vermiglie e che cominciava con la M.
Ma… era quello che volevo fare? Dovevo davvero inventarmi una stupida balla solo perché temevo il giudizio di mia madre? E quando mai?
«Louis mi ha chiesto di accompagnarlo in un posto» dissi brevemente e senza particolare entusiasmo. «Non farò tardi». La vidi annuire e rivolgermi un sorriso più spontaneo e affabile del solito.
«D’accordo, dove andate di bello?» Ci siamo. Pensai. Vai con il terzo grado. Cercai di liquidare la questione con un gesto stizzito della mano, ma il suo sguardo non ebbe il minimo cedimento. Avrebbe potuto lavorare in polizia e specializzarsi nell’interrogare i sospetti. Mi sentivo sotto torchio, messa alle strette, e proprio come un animale in trappola cominciai a innervosirmi.
«Al Mephisto, d’accordo? Ma è una cosa che interessa a Louis, io non faccio altro che accompagnarlo. Non farò tardi». I suoi occhi lampeggiarono di un principio di collera e di spalancarono. Prima che dicesse qualsiasi cosa la anticipai.
«Per l’amor del cielo, non cominciare, so benissimo come la pensi e non ho bisogno di sentire la tua opinione. Te lo ripeto, non ci andrei se non me l’avesse chiesto Louis, ha bisogno di un passaggio e di compagnia. Non vorrai mica che ci vada da solo?» La sua voce suonò risentita proprio come l’avevo immaginata e la sua prevedibilità mi spazientì.
«Devi esseri davvero bevuta il cervello se pensi che ti lascerò andare» esclamò. Espressioni come bevuta il cervello non rientravano nel suo solito frasario, da quello capii che era davvero incavolata. Avevo una pessima notizia per lei: anche io cominciavo ad esserlo.
«Sì, forse è così» risposi con aria di sfida. «Perché è esattamente quello che farò».
«Non ti basta quello che è successo l’ultima volta che hai fatto di testa tua? Ho lasciato perdere il colpo di testa di qualche giorno fa, ma te l’avevo detto che disobbedire non porta mai a niente di buono. Vuoi che accada qualcosa di peggiore?»
«Cosa dovrebbe succedere? Quell’imbecille è ricercato dalla polizia, non sono tutti criminali a SoMa, a differenza di quello che pensi tu».
«Te l’ho detto chiaramente che non mi piace che frequenti quel quartiere, né da sola, né con i tuoi amici. La madre di Louis gli permette di andare dove vuole?»
Frenai un grido di frustrazione, ma dalle labbra uscì comunque un suono strozzato di stizza. «Che tu ci creda o no, non tutti i genitori sono psicopatici e morbosi come te».
Si tolse gli occhiali e li gettò sul divano, piantando le mani lungo i fianchi come una guardia reale. Era una posa che conoscevo bene e che le si addiceva alla perfezione. Scosse la testa con aria quasi rassegnata.
«Mi sto solo preoccupando per te, nient’altro» Mormorò.
«No! Mi stai addosso! Mi programmi la vita e pretendi che faccia come dici tu, eppure passi la maggior parte del tuo tempo fuori casa. Tu. Non. Mi. Conosci». Esclamai, scandendo bene ogni parola affinché fosse chiara. La rabbia mi stava montando dentro come un fiume in piena, pronto a varcare con violenza i limiti imposti dagli argini e la testa pulsava terribilmente. La pensavo come lei, per quanto ciò mi infastidisse, ma non aveva il diritto di trattarmi come una ragazzina ingenua incapace di scegliere per se stessa.
«Ti prego, Amber, non tirare in campo il mio lavoro. Sai perfettamente che non mi impedisce di avere a cuore la tua salute e di volere il meglio per te».
Annuii con un mezzo sorriso. «Certo, questo è quello che mi vuoi far credere». Mi infilai il copri spalle, feci un sospiro per calmare i nervi e mi voltai per il secondo round. Non avrei ceduto e non avrei fatto ancora le cose di nascosto. Sottili rughe le increspavano la fronte e le guance erano accaldate dalla discussione.
«Ho diciotto anni e so badare a me stessa. È per questo che mi tieni con te, giusto? Sono come un canarino, mi basta un po’ di mangime e pochissime attenzioni!»
Un sospiro da parte sua mi fece comprendere che stava ancora cercando di mantenere la calma. «Non dire sciocchezze…»
«Ci vediamo più tardi, o domattina».
La congedai. Feci per incamminarmi verso la porta, ma lei mi trattenne afferrandomi il braccio. «Ascoltami bene signorina, impara ad obbedire a tua madre. Tu non ci andrai, punto e basta!»
Ed eccolo quel fiume di rabbia, tanto violento da farmi gridare.
«Non puoi fare la parte della madre perfetta quando ti pare!» esclamai, gelida. «Lascia che ti confessi una cosa. Come genitore fai pena, l’unico motivo per cui ti sopporto è che ti vedo solo per un paio di ore al giorno».
Diglielo. Una voce nella mia testa prese a calci gli ultimi residui di buon senso. Dille tutto quello che pensi. Se lo merita.
Rimase in silenzio e sciolse la presa dal mio braccio come se fosse rimasta di colpo scottata.
«Adesso che c’è quel belloccio, Leroy, scommetto che le ore in ufficio ti sembreranno una gioia in confronto a casa tua, vero? Ti ho vista fare la smorfiosa ieri sera, non è un po’ troppo giovane per te? Mi correggo, non è un po’ troppo giovane considerando quanto critichi papà per essersi messo con Trudy?»
«È solo un collega!»
«Come ti pare». Feci qualche passo verso di lei. «Non mi importa di te e a te non importa di me, quindi perché ti scaldi tanto per questa serata?» Ancora. Feriscila ancora. È così che deve andare, lei non ti ama. Non ti vuole bene.
«Ma che sciocchezze sono queste? Certo che mi importa di te, sei mia figlia!»
«Certo, quando ti fa comodo!» Mi scoprii a voler alzare ancora di più la voce, come avevo visto fare a lei e a papà quando litigavano. Vinceva chi urlava di più, giusto?
«Anzi…» Aggiunsi. «…scommetto che potrebbe essere un bene per te se mi fanno fuori. Una bella liberazione, così potrai togliere anche le mie foto da questa casa e dimenticarmi, proprio come hai fatto con Chris».
Chiusi gli occhi, aspettandomi da un momento all’altro il rumore di uno schiaffo e il conseguente dolore bruciante al viso, ma non vi fu nulla. Quando li riaprii l’espressione di mia madre mi fece desiderare di non aver mai pronunciato quella frase. Ogni traccia della precedente autorità era scomparsa dal suo volto, che parve sgretolarsi come un dipinto ormai usurato dai secoli. All’improvviso mi parve estremamente vecchia.
Rimase immobile, non fosse per il respiro, più rapido rispetto a prima. Il colore era defluito in fretta dalle sue guance, lasciandola in un pallore quasi malsano. Deglutii un paio di volte, come in preda ad una nausea improvvisa e il suo sguardo, fino a poco prima determinato e intenzionato a non lasciarmi nemmeno per un istante, cedette di fronte alla mia rabbia e alla violenza delle ultime parole, di cui già mi pentivo. La voce che mi aveva spronato a liberarmi da quel peso sparì vigliaccamente, lasciandomi solo col ricordo di lei e con l’onere di affrontare le conseguenze. Nei pochi secondi di silenzio che seguirono, cercai le parole per rimediare, ma la mia mente annaspava come in un pantano di senso di colpa e collera.
Mamma non attese le mie mosse, le mani le scivolarono via dai fianchi, si schiarì la voce e mi superò senza dire niente. Qualche istante dopo sentii la porta della sua stanza chiudersi lentamente. Mi passai le mani sul volto, mentre il mio respiro si regolarizzava dopo lo sfogo che non aveva contribuito a calmarmi. Dopo quel breve istante di giustizia privata sentivo ancora ogni muscolo in tensione.
Raggiunsi la stanza di mia madre e tesi l’orecchio, in ascolto. Nessun rumore faceva pensare che dentro ci fosse qualcuno. Alzai la mano per bussare, quando il cellulare vibrò nella tasca, avvertendomi del ritardo.
Dove sei???!!!
L’abbondanza dell’interpunzione era tipica di Louis, soprattutto di un Louis impaziente. Mandai mentalmente al diavolo la donna, uscii di casa di corsa quasi per paura di cambiare idea e salii in macchina, scacciando ogni tentativo del mio cuore di dirmi che stavo commettendo un altro errore.
  
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