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Autore: Adeia Di Elferas    12/01/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Ah, e allora adesso lo scultorello scoperto dal Sansoni ha finalmente trovato di che pagarsi il pane?” borbottò Rodrigo, leggendo di sfuggita una lettera in cui si faceva cenno al fatto che Michelangelo Buonarroti avesse accettato una commissione per scolpire un Cristo morto tra le braccia della Madonna: “Quel francese – proseguì in un sobbollire quasi inudibile, alludendo al Cardinale Jean de Bilhères de la Groslaye – pagherà fior di denari per l'opera di uno che ancora non si rade tutti i giorni...”

Cesare, che stava aspettando abbastanza pazientemente che il padre finisse di sbrigare la corrispondenza, si grattò la gola e sospirò molto rumorosamente.

Il papa, ben interpretando quel gesto di impazienza, accantonò un momento le sue lettere e chiese, sforzandosi di restare calmo e pacato: “Di cosa vorresti parlarmi?”

“Tra meno di una settimana istruiranno il processo per lo scioglimento del matrimonio di Lucrecia.” disse piatto Cesare, facendo appena mezzo passo avanti.

Alessandro VI, a quelle parole, perse ogni interesse sui pettegolezzi che riguardavano Michelangelo Buonarroti e si concentrò sul figlio. Guardandolo con fare indagatore, gli occhi penetranti intenti a studiare il peculiare profilo di Cesare, il Santo Padre giunse le mani in grembo e rimase in silenzio, come a dire che non capiva quale fosse il punto.

“Sapete che cosa si dirà.” fece il giovane, deglutendo e chiedendosi se suo padre fosse davvero potente come credeva anche all'interno del Vaticano.

“Lo so benissimo. E, se proprio lo vuoi sapere, tra qualche giorno un medico scelto di comune accordo con quel dannato Sforza la visiterà.” precisò Rodrigo, riprendendo a sfogliare le lettere, seppur senza capirci più nulla.

“Ma lo Sforza ha firmato il non cognoverim, mentre noi sappiamo che...” riprese Cesare, riacquistando per la prima volta da molto tempo il tono spaurito che a volte aveva da ragazzino, quando si sentiva in difficoltà.

“L'ha firmato perchè lo abbiamo costretto noi!” sbottò il papa, che non voleva più parlare di quelle cose: “Credi che al tribunale sarebbe bastata quella stupidaggine del vecchio contratto mai sciolto?!”

In realtà, e Rodrigo un tantino se ne vergognava, lui per primo era stato convinto che sarebbe bastato. Non appena, però, gli era stato detto chiaro e tondo che la corte avrebbe rigettato quella scusa, dicendo che canonicamente non aveva un valore sufficientemente spiccato, allora aveva subito accelerato i tempi per far capitolare Giovanni Sforza, il più debole della discendenza milanese.

“Ricordati che siamo dei Borja!” inveì il Santo Padre, un'amarezza alla bocca dello stomaco così bruciante da non riuscire più a stare seduto: “Se agli altri bastano due parole per scagionarci, a noi ne servono venti! Se a un altro basta una scusa qualunque per sciogliere un matrimonio, noi dobbiamo scomodare pretesti di ogni sorta! Finché tutti saranno più invidiosi di noi che non spaventati da noi, questa situazione non cambierà mai!”

“E allora vedete di spaventarli di più, padre.” concluse Cesare, quasi tremando nel sorprendersi capace di tanto ardire.

Per un istante padre e figlio si fissarono negli occhi, ritrovandosi l'un l'altro nel fuoco che intravedevano.

Tuttavia, quando Rodrigo stava per congedare il figlio con un noncurante cenno del capo, fu Cesare a dar prova di aver la situazione in pugno. Senza attendere infatti il permesso paterno, girò sui tacchi e andò alla porta a passo svelto.

“Io non potrò spaventarli ancora per molti anni...” soffiò il papa, rimettendosi a sedere, sentendosi molto più vecchio, ora che il suo erede si permetteva di trattarlo a quel modo: “Presto toccherà a te.”

Una mano già sulla porta, per aprirla, Cesare chiuse gli occhi e poi, guardando il padre da sopra la spalla, assicurò: “Io sono pronto.”

 

Quel giorno Caterina era uscita presto, per andare fino a Forlimpopoli. Aveva incontrato suo fratello e lo aveva ragguagliato su come comportarsi con Achille Tiberti.

Dopo averne parlato con Giovanni il giorno prima, la Contessa era giunta alla conclusione che per uno come il Capitano la strada migliore sarebbe stata quella di allontanarsi da Forlì, appena possibile.

Anche se era un ottimo soldato, e anche se la sua campagna contro Rimini era stata interrotta da lei e non da sconfitte clamorose, si era dimostrato troppo indisciplinato e carente di pazienza. Quando il Medici fosse riuscito a ottenere una condotta per Ottaviano, allora si sarebbe fatto in modo di includere anche Tiberti nel patto.

Quando era rientrata a Forlì, la Tigre non era tornata subito alla rocca. Aveva attraversato lentamente le strade della città, rendendosi conto, con una piccola stretta allo stomaco, che in molti abbassavano lo sguardo al suo passaggio, dedicandole sì un mezzo inchino di saluto, ma non tradendo il minimo segno di calore nei suoi confronti.

'Vi ho guariti dalla peste e dalle febbri...' rimuginava tra sé la donna, addentrandosi sempre di più nei quartieri popolari: 'Vi ho dato il grano quando non ce n'era. Vi ho tolto quasi tutte le tasse. Vi ho salvati dai francesi. Ma voi ricordate solo quello che ho fatto quando è morto Giacomo.'

La consapevolezza che i suoi pensieri erano esatti le rese la bocca amara e per qualche istante temette di dover scendere di sella per vomitare.

Si passò lentamente una mano sul ventre, facendo avanzare il purosangue più lentamente con una piccola tirata di redini, e poi cercò con lo sguardo una locanda che conosceva bene e che non era molto lontana da lì.

Legò il cavallo fuori dall'osteria ed entrò tenendo il cappuccio ancora in testa. Quel giorno c'era una nebbia molto rada, ma molto bagnata, tanto che nei pochi tratti di strada che aveva fatto a capo scoperto, i suoi capelli si erano inumiditi veramente molto.

La locanda a quell'ora, benché fosse già quasi buio per colpa delle corte giornate di novembre, era praticamente vuota.

“Che c'è oggi?” chiese la donna, rivolgendosi all'oste che stava pulendo delle caraffe dietro al bancone.

“Manzo...” rispose il locandiere, sollevando l'angolo della bocca, ben sapendo che la Contessa preferiva altri tipi di carne.

Infatti il sospiro della Leonessa la disse lunga su quel che pensava del piatto del giorno, ma ne ordinò silenziosamente un po' con un cenno del capo e poi si andò a sedere nell'angolo più buio, in modo da non essere notata.

Si mise a giocherellare con una moneta, passandosela tra le dita e facendola rotolare sul tavolo rugoso a cui si era sistemata. Assorta nei suoi pensieri, non seguiva nemmeno le rade chiacchiere dei pochi avventori che la circondavano.

Si stava chiedendo se forse non avrebbe fatto meglio a tornare subito alla rocca, invece che fermarsi lì. Giovanni, che già era stato riluttante nel lasciarla andare e tornare da Forlimpopoli da sola con quel tempaccio, sarebbe di certo stato felice di vederla tornare prima del previsto...

La verità era che aveva bisogno di momenti come quello. Ne aveva sempre avuto un gran bisogno.

Così come quando andava a caccia in solitudine, fermarsi in un'osteria per bere o mangiare qualcosa le permetteva di fare spazio nella mente.

Accolse con un mezzo sorriso la scodella di stufato che il locandiere le porse davanti e allungò la moneta come pagamento.

“Lasciate stare. È da molto che non venite qui. Lasciate che vi offra io.” disse l'oste, un po' burbero.

La Tigre avrebbe voluto insistere. Sapeva che, malgrado tutto, le locande e non solo, stavano passando un periodaccio e che forse quell'anno il clima sarebbe stato inclemente. O almeno così sostenevano i contadini con cui aveva parlato il giorno precedente durante le questue.

Tuttavia rimise la moneta nella tasca del mantello, perché sapeva che per quell'uomo sarebbe stata un'offesa troppo grande, la sua insistenza.

Mentre masticava con lentezza un boccone dopo l'altro, valutando solo vagamente come quello stufato non avesse nulla da invidiare a quello che preparavano le sue cuoche alla rocca – e dopo tutto, gran parte delle sue cuoche arrivavano da quei bassifondi – la Tigre si trovò a pensare alla sua situazione e al groviglio politico che l'attanagliava.

Si era cucita addosso una rete di ipocrisie diplomatiche e alleanze che potevano o strozzarla e crearle uno scudo impenetrabile.

“Sì, mio nipote. Suo padre, che è mio fratello, fa il manovale al mastio.” stava raccontando uno appena entrato, che si era messo a sedere con un paio di amici non troppo lontano dalla Sforza, che dava loro le spalle: “Ebbene, mi ha detto mio fratello che mio nipote ha ballato quasi tutto il tempo con la figlia della Tigre.”

“Può essere che vi mettete a posto per la vita, allora.” commentò uno degli amici, dandogli una sonora pacca sulla schiena: “Se quella è come sua madre, in men che non si dica, tuo nipote si troverà Governatore Generale dello Stato!”

“Ma quella è sposata con il faentino...” si schermì il primo, non senza una punta di compiaciuta ironia nella voce.

“Sposata, sposata..!” esclamò un terzo: “Tanto per dirne una, non si comporta da donna sposata. E poi, siamo seri, a che serve sposarla, se diventandone l'amante tanto si avrebbero tutti i vantaggi del caso?”

Caterina aveva smesso di mangiare e si era messa ad ascoltare. Al contrario di come avrebbe fatto solo qualche mese prima, riuscì a controllarsi e a non saltare subito al collo di quegli uomini che osavano parlare in quei termini di sua figlia.

Voleva sentire di preciso che pensavano. Conoscere l'opinione precisa del popolo era un'arma che non doveva sacrificare in nome dell'orgoglio.

Li ascoltò ancora per un po'. Fondamentalmente non dissero nulla che già non si aspettasse. Dal parlare di Bianca, si erano messi a parlare di lei, apparentemente – così voleva sperare – ignari di averla tanto vicina.

Si chiedevano se il Medici fosse solo il suo amante o suo marito e poi si erano messi a discutere su che sorte avrebbe avuto Forlì, nel caso in cui dal fiorentino la Contessa avesse avuto un figlio maschio.

“Ci toccherebbe parlar tutti toscano!” esclamò uno di loro, imitando molto goffamente l'accento di Firenze.

“Non ci penso nemmeno.” si rifiutò un altro, che tornò repentinamente al discorso di partenza: “Ma senti, tuo nipote, alla fine, almeno ha concluso, con la figlia della Tigre?”

Appena prima che il diretto interessato potesse rispondere a quella miratissima domanda sulle sorti del nipote, Caterina non sopportò più di stare in ascolto senza poter intervenire in qualche modo per difendere se stessa o sua figlia.

Si alzò di scatto, lasciando il piatto mezzo pieno sul tavolo, e passò accanto ai chiacchieroni avendo ben cura di mostrare loro il viso, affinché si rendessero conto di chi avevano avuto vicino fin dall'inizio.

Gli uomini, infatti, si ammutolirono all'istante. Un paio restarono con la bocca mezza aperta e, quando la Sforza era già abbastanza lontana, lo zio del servetto che aveva ballato con Bianca alla festa tentò, a spizzichi e bocconi, di scusarsi in qualche modo per la sua indelicatezza.

La Contessa non lo ascoltò nemmeno. Salutò in fretta il locandiere e poi uscì in strada. Montò a cavallo, senza più badare ai pochi passanti che nel buio della sera nebbiosa la salutavano, e condusse la sua bestia a spron battuto verso Ravaldino.

 

Lucrecia si torse le mani, in apprensione. Suo padre in persona l'aveva rassicurata, ma lei non riusciva a calmarsi.

“Non potete essere presente anche voi?” gli aveva chiesto, quando le aveva spiegato che un dottore esperto l'avrebbe vista quel giorno, in modo da produrre le ultime carte per il processo che si sarebbe tenuto il 18 di quel novembre.

“No, no...” aveva scosso il capo il papa, che era riuscito a combinare con la figlia un incontro fuori dal convento solo grazie alla persuasione che aveva saputo esercitare sulla badessa Pichi, alla quale la promessa di maggiori fondi e di maggior privatezza di San Sisto avevano fatto troppa gola: “Non posso. Finirebbero a dire che sono rimasto per intimidire il medico.”

“Ma voi sapete che...” aveva cominciato a dire Lucrecia, trattenendo a stento le lacrime.

Da quando si era cominciato a parlare di scioglimento del matrimonio e, soprattutto, da quando Juan era morto, le sembrava di vivere chiusa in un labirinto. E l'unica via di fuga reale, a volte le pareva essere la morte.

“Sentimi bene, bimba mia...” aveva cercato di calmarla lui, senza voler dire apertamente che il dottore avrebbe chiuso un occhio: “Il medico è uomo di mondo e ben capisce che...”

“Sono incinta.” aveva confessato tutto d'un fiato la ragazza.

Il papa si era dovuto appoggiare al tavolo accanto a cui si trovava. Il suo largo viso era sbiancato e per lunghi minuti la sua lingua, di norma così sciolta, non era riuscita a muoversi.

Alla fine, con grande difficoltà, parlando come se una mano invisibile lo stesse strozzando, aveva chiesto: “Di Giovanni Sforza?”

“No.” aveva risposto subito Lucrecia.

Il papa la guardò un momento e fece due conti. Era vero, non poteva essere dello Sforza, quel bambino. Se lo fosse stato, sarebbe già nato, probabilmente, di quell'epoca.

“Non dirlo a tuo fratello.” aveva concluso Rodrigo, cominciando a sudare freddo, pensando a come ridurre il danno che sarebbe derivato da quell'inconveniente.

“Ma prima o poi lo scoprirà anche lui...” aveva ribattuto, terrorizzata, Lucrecia.

“Meglio poi che prima.” aveva decretato il Santo Padre, per poi aggiungere: “Non temere, per la tua visita con il medico. Sono d'accordo che ti farà solo qualche domanda e che non ti sfiorerà nemmeno. Ma il giorno del processo, istruisci le tue dame affinché ti mettano abiti che non facciano sorgere alcun dubbio a nessuno.”

“Prego, madonna Lucrecia...” la invitò il valletto che stava sulla porta: “Il dottore ha detto che è pronto a ricevervi.

Facendosi il segno della croce per cinque volte di fila, come sperando che funzionasse di più, la diciassette si alzò e varcò la porta del salottino in cui l'attendevano con lo sguardo più innocente e ingenuo che era in grado di fare.

 

Novembre si stava trasformando, tanto per Forlì quanto per Imola, in un mese di stallo. La fine precipitosa delle ostilità con il Pandolfaccio – che non aveva fatto assolutamente nulla per riattizzare gli scontri – aveva lasciato a tutti l'impressione che quello fosse un momento tranquillo, per quanto destinato a durare poco.

Caterina aveva riferito a Giovanni della chiacchiere che aveva sentito alla locanda e gli aveva chiesto di parlare lui con Bianca.

“Ormai ha compiuto sedici anni. Le voci su di lei, se non cambia atteggiamento, non potranno far altro che ingigantirsi.” aveva detto con un po' di riluttanza la Sforza: “E da lì a commettere qualche sciocchezza davvero grave, ci mancherà poco. Bianca non è forte come sembra.”

Il Popolano, allora, aveva pazientato fino a che non aveva trovato un momento tranquillo in cui avvicinare la figlia di sua moglie.

Quel pomeriggio, la Contessa era nel cortile con Ottaviano, Galeazzo e Bernardino. Li stava istruendo personalmente su come si ricaricava un falconetto. Cesare era in Duomo e probabilmente non sarebbe tornato se non a sera.

Insomma, quello era il momento buono per trovare Bianca da sola.

La cercò per un po', passando più di una volta per il loggiato al primo piano, dalle cui finestre socchiuse si sentiva la voce sicura di Caterina che elencava le proprietà e i difetti dei falconetti nelle guerre campali. Alla fine la trovò mentre stava per andare nella sala delle letture.

Aveva con sé un libriccino che probabilmente si era portata in camera per leggerlo in santa pace e che ora stava andando a rimettere a posto. Non pareva particolarmente presa da nulla, perciò il Medici fu certo di non disturbarla troppo, quando la chiamò.

Sentendosi apostrofare, la ragazza si fermò sul posto e sorrise al fiorentino: “Mi cercavate?” gli chiese, pleonastica, visto il modo in cui lui le si era rivolto.

Giovanni le chiese se avesse tempo di scambiare due parole e così la Riario lo seguì nella sala delle letture.

Mentre la giovane sistemava il piccolo libro che aveva con sé – una raccolta di poesie che, il Popolano se ne rese conto a scoppio ritardato, le aveva regalato lui – il fiorentino si schiarì la voce.

“Ditemi pure. Di che volevate parlarmi?” domandò Bianca, mettendosi a sedere.

L'uomo la osservò per qualche istante. Assomigliava in modo strabiliante a sua madre, eppure aveva qualcosa di più dolce, nei lineamenti. Forse per via del colore blu scuro degli occhi, o forse perché dietro a un viso simile a quello della Tigre, si nascondeva un'anima molto diversa.

La stessa Caterina, in fondo, aveva ammesso che Bianca non era forte quanto poteva sembrare e, malgrado tutto, non si poteva dire che la Leonessa non conoscesse bene sua figlia.

“Ecco... Si tratta di un argomento delicato.” iniziò il Medici.

Fare un confronto tra Bianca e Caterina non l'aveva aiutato, anzi. Benché di solito fosse capace di cavarsela anche nelle conversazioni più spinose, in quel momento avrebbe preferito sparire.

“Vi ha mandato lei, non è vero?” chiese la giovane Riario, il lieve sorriso che aveva dipinto in volto che svaniva poco per volta.

Il Popolano sospirò e si mise anche lui a sedere, più per riposare le caviglie che altro: “Il punto è questo, Bianca.” le disse, credendo che parlarle come avrebbe fatto a una figlia propria fosse la cosa migliore: “Tua madre sta tenendo in piedi il tuo matrimonio con Astorre solo per assicurarsi la pace con Faenza, ma appena la guerra scoppierà, di certo lei proverà a rompere il contratto.”

La ragazza avvertì uno strano crampo allo stomaco, nel sentire il fiorentino darle del tu. Nel suo tono c'era una sfumatura che suggeriva una familiarità che aveva allo stesso tempo un che di rassicurante e un che di strano. In tutta onestà, Bianca non sapeva se esserne felice o se provare insofferenza.

Per lei Giovanni Medici era un uomo eccezionale. Era stato capace di far rinsavire sua madre, di riappacificare almeno in parte i suoi fratelli e anche di ridare un ordine a uno Stato sconvolto da una mezza guerra civile.

Però quel tono le stava insinuando prepotente l'impressione che un altro, dopo Giacomo, stesse cercando di prendere il posto che era stato di suo padre Girolamo.

Si rendeva conto che la sua opinione di suo padre era quella filtrata dagli occhi di una bambina.

Non aveva avuto il tempo di crescere e vederlo con occhi diversi. Forse, se avesse potuto, avrebbe finito anche lei per odiarlo, come lo odiava sua madre.

Ma lei non era mai riuscita a odiarlo davvero e così, vedere qualcuno, per straordinario e gentile che fosse, cercare di sostituirsi a lui...

“Il tuo comportamento con gli uomini e i ragazzi...” riprese Giovanni, abbassando il capo, imbarazzato: “Solleverà presto, anzi, sta già sollevando, chiacchiere molto pesanti sul tuo conto.”

“Per esempio?” chiese la ragazza, secca.

“Per esempio c'è chi insinua che tu ti sia concessa già a più di un giovane con cui ti sei intrattenuta a un ballo...” disse l'uomo, con una certa durezza.

Bianca restò in silenzio. Il fiorentino sollevò lo sguardo verso di lei, colto da un dubbio improvviso.

Tuttavia, quando la vide arrossire, seppur in un secondo momento, riconobbe nelle sue iridi blu qualcosa che gli fece capire che non stava mentendo, nel dire: “Non ho mai fatto nulla di simile.”

“Lo so – fece lui, abbastanza sollevato – ma le voci a volte feriscono di più dei fatti. Ti prego, Bianca, cerca di stare attenta a chi frequenti e a come ti comporti.”

“Cercherò di fare come dite.” annuì la ragazzina e poi, alzandosi, fece una riverenza e aggiunse, pungente: “Però se sono in questa situazione la colpa è anche di mia madre. Se lei per prima non si fosse comportata in un certo modo, nessuno malignerebbe in questo senso su di me.”

“Hai pienamente ragione.” concordò a malincuore Giovanni.

Apparentemente soddisfatta dall'ultimo inciso del Popolano, la giovane Riario lasciò la sala delle letture e così al fiorentino non rimase che ammazzare il tempo che lo separava dalla cena andando a guardare sua moglie che dava ordini a Ottaviano, così imbranato da non riuscire a ricaricare un falconetto nemmeno al trentesimo tentativo.

 

“Il suo tempo ormai dovrebbe essere arrivato – spiegò il messaggero che era stato mandato dall'oratore milanese in Ferrara – eppure vostra nipote Anna Maria ancora non ha partorito.”

“Avranno sbagliato i calcoli.” sentenziò Ludovico, cupo.

Quella mattina aveva finalmente ricevuto la risposta di sua nipote Caterina. L'aveva letta con animo abbastanza disteso, salvo poi avere un eccesso di bile nello scorgere il modo in cui si era firmata.

'Sforza Medici'. Un affronto bello e buono. Le aveva detto chiaro e tondo di non prendere mai più marito, salvo suo esplicito consenso. E lei che aveva fatto? Aveva subito ripreso marito e non uno qualsiasi: un Medici!

“I dottori fanno il caso pericoloso di morte.” sussurrò il messo, guardando il Duca di soppiatto.

La sala delle udienze era gelata. La mania del Moro di accendere pochi camini stava diventando sempre più grave e ormai a palazzo erano più le aree fredde come un sepolcro di quelle vivibili.

'Un palazzo per i morti' diceva qualcuno, con acrimonia: 'Per lui e per il fantasma della sua insopportabile Beatrice...'

“Per lei o per il piccolo?” chiese Ludovico, facendosi più attento a quella notizia.

Dopo aver perso Beatrice per colpa di un parto sfortunato, il Moro si era fatto molto più sensibile a quel genere di notizie.

“Per entrambi, mio signore.” spiegò il messaggero, in parte contento di aver riottenuto l'attenzione del suo interlocutore: “Il che per Milano non sarebbe affatto vantaggioso. Una lunga alleanza, costruita con tanta fatica...”

“Potrebbero morire entrambi...” ribadì il Duca, gli occhi che si velavano di lacrime: “Avete altro da dire?”

Il messo scosse il capo, sconvolto nel vedere il Duca tanto provato da quello che gli aveva riferito.

“Allora andatevene. Io... Io devo andare in chiesa.” lo scacciò, lasciando in fretta il suo scranno e poi rivolgendosi a Calco che, accanto a lui, stava prendendo appunti: “Vado a Santa Maria delle Grazie. Non rompetemi l'anima, almeno fino a sera.”

 
   
 
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