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Autore: lestylinson    13/01/2018    2 recensioni
Harry torna a Londra per aiutare Louis nel momento più difficile della sua vita: affrontare la morte di Johanna.
Dalla storia:
Non era questo il modo in cui pensavo ci saremmo incontrati di nuovo.
Non avrei mai voluto accadesse in una circostanza del genere.
Ma si sa, quando la vita bussa prepotentemente alla tua porta, non si cura che tu possa essere pronto ad aprirle.
-
E adesso ero lì, Louis mi guardava, e mai in sette anni di vita vissuti insieme lo avevo visto così.
Era spezzato, sconvolto, l’anima lacerata gli si intravedeva dai piccoli buchi che foravano la maglietta all’altezza dello sterno.
Mi rivolse uno sguardo che nessuno meritava di indossare, perché era carico di tutte le ingiustizie della vita condensate in un unico, immenso dolore.
-
“Non so cosa avrei fatto se non fossi venuto.”
“Non ti avrei mai lasciato affrontare tutto questo da solo.”
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“ I'd go hungry I'd go black and blue
And I'd go crawling down the avenue
No, there's nothing that I wouldn't do
To make you feel my love”

 
 
 
 
 
 
 
Non era questo il modo in cui pensavo ci saremmo incontrati di nuovo.
Non avrei mai voluto accadesse in una circostanza del genere.
Ma si sa, quando la vita bussa prepotentemente alla tua porta, non si cura che tu possa essere pronto ad aprirle.
Ero appena atterrato a Londra, circondato da paparazzi e fans, e nonostante non avessi alcuna voglia di essere cortese, disponibile, gentile, di sorridere a gente che non avrei voluto avere attorno in quel momento, mi intrattenni qualche minuto per fare foto e firmare autografi.
I flash accecanti delle macchine fotografiche mi confondevano, le lacrime che pretendevano di sgorgare libere dagli occhi mi appannavano la vista, i singhiozzi che cercavo di trattenere nel retro della gola mi stavano dando la nausea.
Ma andava bene così, d’altronde l’intento era proprio quello: attrarre l’attenzione su di me per distrarla da lui e da tutto ciò che stava attraversando la sua famiglia.
Non era stato lui a chiedermelo, decisi tutto da solo, perché sentivo fosse la cosa giusta da fare.
Il fatto che non stessimo più insieme non significava che non avrei fatto tutto ciò che era in mio potere per proteggerlo in quel momento così delicato.
Non importava quanto male ci fossimo fatti, adesso aveva bisogno di me e mai gli avrei negato la mia mano tesa, pronta a salvarlo dal dolore.
Quando qualche ora prima avevo ricevuto la chiamata di Louis mi ero convinto di poter rimanere forte, per lui.
Ma guardando il mio riflesso stampato sul finestrino del minivan che mi aspettava fuori dall’aeroporto, mi resi conto di non essere riuscito a non crollare.
Non era quello l’Harry che avrei voluto presentare alla famiglia Tomlinson quella sera, ma era l’unico Harry di cui disponevo.
Distrutto, straziato e disorientato.
Caricai il borsone in macchina, chiusi lo sportello e mi lasciai alle spalle una folla eccitata e recalcitrante che reclamava la mia attenzione, incurante e ignara di ciò che avevo dentro.
Solo allora, tra quei vetri scuri che mi riparavano dalle ingiustizie di un mondo bruto, mi concessi di piangere, di crollare, di prendermi il mio momento di debolezza prima di doverla soffocare e di mascherarla con una forza che al momento non possedevo, ma che avrei indossato solo per lui.
Rimasi accartocciato, cercando di trattenere tutto il dolore tra il petto e le ginocchia, per un tempo impossibilmente lungo da sopportare.
Tutta quell’attesa mi stava uccidendo, forse più della consapevolezza che Jay fosse morta, che Louis non si sarebbe mai ripreso del tutto da quella perdita devastante, che mi sarei dovuto abituare all’idea che quella che fino a poco prima rappresentava nella mia vita una rassicurante presenza, da ora in poi sarebbe diventata una soffocante assenza.
Avevo bisogno di vedere Louis, di capire dai suoi occhi che un giorno, in qualunque modo, ce l’avrebbe fatta.
E sì, ero egoista, ma pensare che di lì in poi avrebbe vissuto senza il suo appiglio più sicuro, senza la sua complice, colei che ogni dannata volta gli aveva impedito di dare di matto e rinunciare a tutto, senza l’unico genitore che lo aveva amato più della sua stessa vita e che non lo aveva mai abbandonato, mi lacerava il petto.
Perché se Louis era riuscito a tenere duro quando tutto e tutti sembravano remargli contro, se continuava a lottare ogni giorno contro il peso insopportabile dei propri errori, se lo stravagante diciottenne di cui mi ero innamorato follemente era diventato l’uomo meraviglioso di oggi, era solo grazie a lei, che a differenza di tutti noi, c’è sempre stata.
Lo ha sempre fatto sentire abbastanza, lo ha sempre spinto a superare i suoi limiti e lo ha amato in un modo così viscerale e puro che ora, immerso nel traffico di Londra, mi domandavo se Louis avrebbe saputo più vivere senza quell’amore.
 
Quando la macchina si fermò davanti casa di Louis, tutto era spaventosamente silenzioso.
Le luci erano quasi tutte spente, le finestre coperte da pesanti tende.
Sul giardino e sul tetto scendevano leggeri fiocchi di ghiaccio, fluttuavano indisturbati nell’aria, quasi non volessero rompere quella quiete dolorosa.
Quella neve non restituiva nessuna meraviglia, nessuna magia, rendeva solo tutto più pesante da sopportare, mi appesantiva i passi che sprofondavano in un’alta distesa bianca, mi faceva stringere addosso il mio cappotto, alla ricerca disperata di un riparo da un freddo che certamente non cadeva dal cielo.
Suonai piano il campanello e rimasi in attesa, appoggiando la fronte sul portone sperando di attutire quel pulsare lancinante che mi comprimeva le tempie.
Sentii dei piccoli passi provenire dall’interno e riconobbi subito il rumore sordo che erano soliti provocare i piedi nudi di Louis sul pavimento.
Non appena aprì il portone e mi vide lì, di fronte a lui, come non capitava da mesi, si lasciò scappare un singhiozzo che sferzò l’aria immobile intorno a noi.
“Harry… Sei qui…”
Lo disse incredulo, come se per un attimo la sua mente avesse pensato che non mi sarei presentato, che non sarei corso immediatamente da lui dopo la sua telefonata.
E io invece non avevo esitato nemmeno un attimo prima di lasciare lo studio nel bel mezzo della registrazione di un brano e volare a Londra per poter arrivare in tempo, per potergli stare vicino il prima possibile, fino a quando ne avrebbe avuto bisogno.
E adesso ero lì, Louis mi guardava, e mai in sette anni di vita vissuti insieme lo avevo visto così.
Era spezzato, sconvolto, l’anima lacerata gli si intravedeva dai piccoli buchi che foravano la maglietta all’altezza dello sterno.
Mi rivolse uno sguardo che nessuno meritava di indossare, perché era carico di tutte le ingiustizie della vita condensate in un unico, immenso dolore.
Mi chiamò a sé con gli occhi ed io capii.
Gettai a terra il borsone che mi pendeva da una spalla e me lo trascinai addosso, accogliendolo sul mio petto, stringendolo tra le mie braccia, proteggendolo con le mie mani aperte sulla sua schiena, pronte a raccogliere i pezzi di lui che si sarebbero dispersi non appena sarebbe crollato.
Lo strinsi talmente forte da riuscire a contenerlo tutto nel mio abbraccio, nemmeno un filo d’aria separava i nostri corpi, ogni parte di lui in contatto con ogni parte di me, tanto che sentivo i suoi singhiozzi scuotermi le costole.
Era accucciato contro di me, la testa adagiata sul battito forsennato del mio cuore, i piedi sui miei, un braccio avviluppato attorno ai miei fianchi, un altro poggiato mollemente sul petto, con la mano a stringermi la maglietta all’altezza delle clavicole.
“Se n’è andata. Mi ha lasciato solo.”
Lo disse in un urlo di disperazione insopportabile per il mio cuore, che sembrò prosciugare quelle poche energie che gli erano rimaste. Per questo, subito dopo, cadde a terra.
Io però non lo rialzai. Caddi con lui e mi sedetti alle sue spalle, petto contro schiena.
Lui si lasciò andare contro di me e si portò le mi braccia attorno allo stomaco.
Io lo strinsi di più, cercando di assorbire il più possibile il suo dolore per farlo mio, prendendone quanto potessi per alleggerire il suo cuore che adesso batteva piano, a fatica, schiacciato dal vuoto lasciato da Johanna.
“Ti prego Harry, fallo sparire!”
“Cosa Louis? Cosa?”
“Questo dolore che mi appesantisce il petto. Sta diventando insopportabile, non mi fa respirare!”
Cominciò a piangere più forte, a respirare irregolarmente, completamente a corto di fiato, muovendosi in spasmi incontrollati tra le mie braccia.
“Shh. Chiudi gli occhi Lou, ascolta il mio respiro. Respira con me.”
Fece come gli dissi, prendendo ampi e regolari respiri, fino a che, interminabili minuti dopo, riuscì finalmente a calmarsi.
“Bravissimo Lou, così. Senti l’aria nei polmoni. Falla entrare.”
Annuì freneticamente, ad occhi ancora chiusi, mentre cercava la mia mano e la stringeva alla sua, intrecciandole insieme.
Non succedeva da troppo tempo che sentissi la sua vita aggrapparsi alla mia attraverso un semplice incastro di dita, e ricordare la sensazione che questo semplice gesto era in grado di farmi provare quando ancora stavamo insieme, mi stordì.
Soltanto in quel momento realizzai davvero, per la prima volta, quanto fottutamente mi mancasse Louis.
Mi venne da piangere, e poi da ridere, perché piangere per la mancanza che sentivo di lui in quella circostanza era totalmente fuori luogo, ma tipico di me, che ero sempre troppo fragile, troppo esposto, troppo vulnerabile quando si trattava di lui.
E per un attimo le sentii tutte quelle emozioni, le stesse che avvertivo sempre quando stavo al suo fianco.
Tenerezza, desiderio, amore, nostalgia, dolcezza, passione.
Tutte mescolate in fuoco che mi incendiava lo stomaco e il sangue.
Le cacciai indietro però, ognuna di loro, perché in quel momento erano inutili, inopportune, superflue.
Mi concentra su Louis allora, cercando le parole giuste per esprimere ciò che nella mia mente era ancora confuso.
“Adesso ascoltami” sussurrai dritto nel suo orecchio, sentendolo rabbrividire.
“Questo peso che senti qui” con l’indice sfiorai il suo petto e lui subito lo coprì con la sua mano, aggrappandovisi come se fosse fonte di vita, “non andrà via facilmente. Ci saranno giorni in cui ti sembrerà di non sentirlo e altri in cui ti farà desiderare di morire, ma tu non lo lascerai vincere, mi hai capito? Quando tutto questo ti sembrerà troppo da sopportare piangi, grida, disperati. Prenditi tutto il tempo per essere debole, per soffrire, per affogare nel dolore, ma quando sarai pronto rialzati, a testa alta, e riprendi da dove avevi interrotto. Fallo per te, ma soprattutto, fallo per lei, perché ti ha sempre insegnato a lottare e tu dovrai farlo.
Non sarà per niente facile, e credimi, se potessi te lo strapperei io stesso questo dolore, ma non posso, nessuno di noi può. Devi solo aspettare che il tempo lo plachi.
E quando un giorno tutto questo sarà finito, ti guarderai indietro e rimarrai stupito dalla forza con cui avrai saputo affrontarlo. E io non so dove sarò, non so noi cosa saremo, ma sono sicuro che quando quel momento arriverà ti guarderò e sentirò il cuore esplodermi d’orgoglio, perché il ragazzo di cui mi sono innamorato a sedici anni avrà dimostrato a tutti che uomo è diventato, quanto vale, e di quanta forza e coraggio è capace la sua anima.”
Dopo quelle mie parole ci fu silenzio per molto tempo, a disturbarlo solo il leggero fruscio che provocava il suo pollice mentre distrattamente accarezzava il dorso della mia mano.
In altre circostanze non ci saremmo mai concessi di abbandonarci a questi gesti d’affetto, la nostra relazione era finita da mesi ormai e probabilmente non avremmo mai pensato di appropriarci del corpo dell’altro, del suo spazio personale, in questo modo.
Ma quella era una situazione diversa, che non richiedeva freni, maschere, inibizioni che avrebbero solo aggiunto altra sofferenza inutile.
Ci stavamo abbandonando alla parte più autentica di noi, a gesti d’amore che conoscevamo a memoria, che da sempre ci appartenevano e sempre ci sarebbero appartenuti.
Perché la nostra immensa storia d’amore non era finita per mancanza d’amore -di quello ce n’era talmente tanto che ci sarebbe bastato per altre cento vite- ma per altre mancanze e innumerevoli incomprensioni che col tempo erano diventate incolmabili.
Che poi… Finita… Una relazione può ritenersi conclusa quando ci si ama follemente come ancora facevamo noi due?
“Non so cosa avrei fatto se non fossi venuto.”
Fu Louis a interrompere il mio flusso di pensieri e la quiete intorno a noi, girandosi tra le mie braccia e guardandomi con gli occhi rossi e gonfi di lacrime.
“Non ti avrei mai lasciato affrontare tutto questo da solo.”
Mi sorrise debolmente, annuendo a perdendosi ad osservare i miei lineamenti.
Mi sfiorò tutto il viso con dita tremanti.
Ogni tocco era un bacio di farfalla.
“Avrebbe così tanto voluto vederti un’ultima volta” mi confessò in un soffio di voce, poggiando la fronte contro la mia e sfiorandomi dolcemente il naso col suo.
Percepii il cuore tremare a quelle parole, tremò così forte da cominciare a far cadere ad una ad una tutte le lacrime che fino a quel momento mi ero sforzato di trattenere.
Sentii le labbra di Louis raccoglierle tempestivamente dai miei zigomi, impedendo la loro caduta libera sul resto del viso.
“Non piangere Haz, ti prego. Non importa se non hai fatto in tempo a tornare, sono sicuro che adesso è contenta. Perché sei qui. Con me. Per me. Questo è ciò che più di ogni altra cosa avrebbe voluto: sapere che non sono solo perché accanto a me ci sei tu.”
“Avrei tanto voluto vederla anch’io.”
“Lo so, Harry, lo so. Hai fatto il possibile per arrivare qui presto, non devi sentirti in colpa, d’accordo? Non voglio che tu ti senta in colpa.”
Eravamo affranti, smarriti, impauriti e spezzati dal dolore, eppure l’unica cosa che continuavamo a fare era cercare di lenire le ferite dell’altro, di alleviare la sua di sofferenza, perché solo così si sarebbe affievolita anche la nostra.
“Harry.”
“Dimmi.”
“Sono stanco.”
Lo sollevai delicatamente da terra portando un braccio a cingergli le spalle e uno le ginocchia e lo trascinai sul divano.
Lo feci distendere avvolgendolo in una calda coperta e adagiai il suo capo sulle mie cosce.
Servirono poche carezza fra i capelli per vedere i suoi occhi cedere e abbandonarsi ad un sonno che sicuramente non si concedeva da parecchio tempo.
Passai ancora un paio d’ore sveglio, irrequieto e sovrappensiero, prima che il sonno prendesse anche me.
 
 
Fui svegliato, non so quanto tempo dopo, da una mano che mi scuoteva piano dalla spalla.
I miei occhi impiegarono più del previsto per mettere a fuoco la figura di Lottie che, inginocchiata di fronte a me, osservava un punto imprecisato sul divano.
Seguii la traiettoria del suo sguardo e scoprii che fosse puntato sulla mano di Louis, aggrappata alla mia e posata sul suo petto.
“Sono contenta che tu sia qui. Era la cosa di cui Louis aveva più bisogno.”
Le accarezzai il viso con la mano che fino a poco prima era stata incastrata tra le ciocche caramello di Louis, cercando di non muovermi troppo per non svegliarlo.
“Ne avevo bisogno anch’io. Rimarrete sempre la mia famiglia, non importa cosa accada tra me e tuo fratello.”
“Lo so” mi sorrise.
“Dove sono gli altri?”
“Stanno arrivando. Dan ha pensato sarebbe stato meglio passare un pomeriggio fuori, i gemelli avevano bisogno di distrarsi un po’. A casa l’aria sembra irrespirabile e loro non devono percepirlo. Ovviamente hanno capito che qualcosa è cambiato, che è diverso da prima, ma non vogliamo che soffrano anche loro, sono ancora così piccoli…”
La voce le si ruppe sull’ultima sillaba, ma inaspettatamente non pianse.
Prese un profondo respiro e mi rivolse un altro sorriso, in modo incerto e vacillante, ma bastò a rendere meno grigi i suoi occhioni celesti.
“Louis non è voluto venire con noi” riprese subito dopo, a voce più bassa.
“Dice che uscire fuori lo fa stare peggio. Pensa che adesso che la mamma non c’è più sia ingiusto vivere il mondo, osservarlo, respirarlo, senza neanche poterle raccontare tutto ciò che gli succede ogni giorno. E io lo capisco, perché mi sento nello stesso identico modo, ma ho paura per lui, paura che non si riprenda più.”
“Devi dargli tempo, Lots. Perdere Jay per Louis è stato come perdere il baricentro che per tutti questi anni lo ha tenuto in equilibrio anche tra le più forti tempeste. Loro due sono cresciuti insieme, hanno sbagliato insieme e insieme hanno imparato che agli errori si può sempre rimediare. Jay era la parte più intima e autentica della vita di Louis, era l’esempio da emulare, il faro guida da seguire. E Louis non è solo distrutto dalla consapevolezza di averla persa per sempre, è anche terrorizzato. Perché adesso buona parte del peso di questa famiglia ricadrà sulle sue spalle e lui non vuole deludervi.
Ha paura di non essere degno di prendersi cura di tutti voi, di non riuscire a farvi sentire amati come faceva vostra madre, di non potervi proteggere allo stesso modo di lei.”
Lottie mi guardò con sgomento, ansia e apprensione.
“Ti ha detto lui tutte queste cose?”
“No. Ma lo conosco talmente tanto bene da sapere che in questo momento la sua testa è attraversata da queste preoccupazioni. Quindi non biasimarlo se per settimane vorrà solo chiudersi in casa, perché ha bisogno di vivere il suo dolore a modo proprio, esattamente come ne avete bisogno tutti voi.”
“Credi che ce la farà?”
“Credo che Louis ci stupirà ancora una volta. Non hai idea di quanta forza sia in grado di tirare fuori quando si tratta delle persone che più ama.”
A quelle parole sentii la mano di Louis stringersi più forte alla mia.
Quando abbassai lo sguardo su di lui mi sembrò di vedere l’ombra di un sorriso posarsi sulle sue labbra di rosa.
 
 
 
 
 
I giorni seguenti passarono estremamente lenti, ognuno uguale agli altri, troppo grigi e silenziosi.
Trascorrevo la maggior parte del mio tempo a casa Tomlinson, di pomeriggio uscivo, concedevo ai paparazzi alcuni scatti, poi tornavo da Louis e rimanevo fino a quando il sole non calava e cedeva il posto alla sera.
Louis non era d’accordo con la mia decisione di attirare l’attenzione pubblica su di me per lasciarlo respirare, per permettergli di vivere in pace almeno questo momento, lontano dagli occhi curiosi e dalle lingue affilate dei giornalisti che si divertivano a scrivere le più inaudite cattiverie sul suo conto, ma io ignoravo le sue proteste e continuavo a fare ciò che ritenevo fosse giusto per lui.
Così un giorno decisi di approfittare del mio tempo fuori per portarmi avanti con i regali di Natale.
Passai un intero pomeriggio tra Selfridges e Gucci, alla ricerca dei regali giusti, nella speranza che avrebbero fatto nascere anche il più flebile sorriso a chi li avrei donati.
Come stabilito con il mio management, mi feci seguire dai paparazzi che immortalarono ogni momento del mio shopping.
Non appena mi resi conto di aver acquistato tutto ciò di cui avevo bisogno, decisi di rientrare.
Passai prima da casa mia per scaricare i pacchi, poi tornai indietro e mi diressi verso casa di Louis.
Quando arrivai lo trovai per terra, a gambe incrociate sul tappeto, intento a canticchiare delle canzoni ad Ernest e Doris, accompagnandosi con una chitarra scordata che sicuramente aveva visto tempi migliori.
Sembrava più sereno di quanto lo avessi mai visto ultimamente, ma purtroppo sapevo che quella fosse una breve parentesi. Una momentanea, seppur bellissima, pausa dal suo tormento incessabile.
Si accorse subito di me, volgendo lo sguardo nella mia direzione e accogliendomi con un sorriso che mi dimezzò l’aria nei polmoni.
Perché non lo vedevo sorridere da quella che mi sembrava un’eternità, perché quel sorriso era pieno di tutta la dolcezza e l’amore di cui era capace il suo cuore, ma soprattutto, perché quello era il sorriso che aveva sempre e solo dedicato a me.
In sette anni, non lo aveva mai rivolto a nessuno. Solo a me.
Mi guardò con la dedizione negli occhi e la tenerezza nel cuore e io mi ritrovai a sorridergli di rimando.
Quel dialogo muto fatto solo tra i nostri sguardi durò poco però, perché ad interromperlo ci pensò Ernest che mi si fiondò addosso, cominciando a implorarmi di unirmi a giocare con loro.
Lo accontentai subito.
Lo presi in braccio e insieme raggiungemmo Louis e Doris che ci aspettavano al centro del salotto.
Mi sedetti a terra sistemando meglio Ernest sulle mie gambe e mi sporsi per posare un leggero bacio sulla fronte di Louis.
Vidi i suoi occhi sfarfallare a quel contatto e le sue labbra schiudersi beate.
“Com’è andata?” mi chiese.
“Come al solito. Loro hanno le foto per i loro articoli e io ho i miei regali di Natale. Penso sia equo, no?”
Mi rivolse uno sguardo esasperato e io mi limitai a ridacchiare alzando le spalle.
Louis però rimase serio e riuscivo già a leggergli nel viso le parole che avrebbe pronunciato di lì a poco.
“Non capisco perché ti stai dando in pasto a quelli.”
“Mi sembra di avertelo già spiegato.”
“Sì, me l’hai spiegato, ma io continuo a non essere d’accordo.”
“Non è una tua scelta. Ho voluto farlo io, di mia spontanea volontà. Non mi aspetto che tu sia d’accordo.”
Si alzò da terra in uno scatto nervoso, attirando l’attenzione dei gemelli che smisero per un attimo di giocare rivolgendogli degli sguardi smarriti.
Rendendosi conto di essere stato troppo brusco si piegò sulle ginocchia e lasciò due morbide carezze sulle loro guance.
“Io e Harry andiamo di là a prendervi la cioccolata. Voi rimanete qui a giocare, torniamo subito” li rassicurò, con voce dolce e premurosa.
Poi si voltò verso di me e con un impercettibile movimento del capo mi fece segno di seguirlo in cucina.
Feci come mi chiese e non appena entrammo si chiuse la porta alle spalle.
“Perché non vuoi capire quello che provo a dirti da giorni, Harry? Perché ti sei intestardito così tanto su questa storia?”
“Perché è la cosa giusta da fare.”
“La cosa giusta da fare? Sei serio?! Hai idea di quanto odio riceverai non appena gli articoli saranno dati alle stampe? Di quanta merda ti tireranno addosso?”
“Sì Louis, lo so, l’ho saputo sin da subito. E sai che c’è? Non mi importa, perché è quello di cui hai bisogno.”
“Non ho bisogno che tu stia fuori per quegli stronzi, ho bisogno che tu stia qui con me!”
A quel punto mi infuriai, e la pazienza che di solito mi contraddistingueva andò subito a farsi fottere.
“E forse non lo faccio? Che cazzo, Louis! Sono qui con te dieci ore su dodici, e le due in cui non sto con te sono fuori per te. Cosa vuoi me ne importi dell’odio che riceverò se ciò che sto facendo può darti un po’ di tregua, un po’ di serenità? Smettila di provare a proteggermi, so quello che sto facendo!”
“E allora smettila di proteggermi anche tu! Se il prezzo da pagare per questa tregua sono articoli di giornale che parlano di quanto insensibile sia Harry Styles nel fare shopping in città mentre il suo compagno di band soffre per il lutto della madre, allora la tregua non la voglio!”
“Non ce n’è mai fregato un cazzo di quello che scrivevano i giornali sul nostro conto e adesso tutto a un tratto è diventato di fondamentale importanza? Sto solo facendo tutto ciò che posso per farti stare meglio Louis, ma se a te questo non va bene o non basta allora vaffanculo!”
Ero fuori di me, non riuscivo più a contenere la rabbia.
Era nella voce strozzata, nelle mani tremanti, nei battiti accelerati del mio cuore, e nelle lacrime frustrate che subito mi riempirono gli occhi.
Ma non volevo che mi vedesse piangere, così gli diedi le spalle e mi aggrappai al lavello, stringendo così tanto le mani da vedere le nocche sbiancare attorno agli anelli che indossavo.
Chiusi gli occhi per cercare di regolare il respiro e di controllare la rabbia, ma non ce ne fu bisogno.
Sparì subito non appena sentii le labbra di Louis sussurrarmi scusa direttamente al centro della schiena e il suo tocco sfiorarmi i fianchi in una carezza che sapeva mi avrebbe calmato.
Mi girai verso di lui e gli afferrai il viso, congiungendo le nostre fronti e respirando direttamente dalla sua bocca socchiusa.
“Scusa” mi ripeté, guardandomi con gli occhi pieni di lacrime, proprio come lo erano i miei, “non voglio che pensi che io non sia grato per tutto quello che stai facendo per me, perché lo sono. Talmente tanto che in certi momenti mi odio, perché sento che il cuore potrebbe scoppiarmi di gioia da un momento all’altro ma non è giusto, perché lei non c’è e io non dovrei provare certe cose. Ma sei tu Harry, e io per te farò sempre un’eccezione, romperò sempre le regole, proverò sempre qualcosa che qualcuno lì fuori da anni mi dice che non dovrei provare. Perdonami per prima, ma sono esausto. Inoltre è da due giorni che un pensiero mi martella la testa senza darmi pace e sento di stare per scoppiare.”
“Di che si tratta?” chiesi, mentre con un mano gli asciugavo una lacrima.
“Vogliono che mi esibisca a X Factor.”
Annuii piano, in attesa. Sapevo già dell’esibizione, sui tabloid non si leggeva altro, ma volevo che a parlarmene fosse lui, per questo prima di quel momento non avevo ancora provato a uscire l’argomento.
“E cosa pensi che farai?”
“Non sono affatto pronto, ma è stata l’ultima promessa che ho fatto a mia madre, quindi lo farò. Voglio che sia fiera di me.”
“Lo è sempre stata.”
“Lo credi davvero? Perché nell' ultimo anno mi è sembrato di averla solo delusa.”
“Quando la smetterai di essere così duro con te stesso e inizierai a capire che per tutti noi sei la cosa più bella che potesse capitare nella nostra vita?”
Rimase interdetto, senza parole. Spalancò occhi e labbra come se ciò che avessi appena detto fosse inaspettato, improvviso. Una verità che gli avevo sempre urlato in faccia e che lui testardamente non aveva mai voluto ascoltare, perché pensava fosse immeritata.
E probabilmente lo credeva tutt'ora, soprattutto perché l'avevo detto nonostante tutto il casino che era successo tra noi, nonostante lui avesse commesso il suo errore più grande, lo stesso che ci aveva portato ad essere ciò che eravamo adesso.
Annaspò alla ricerca d'aria e di parole, ma con lo sguardo gli feci capire che non ce ne fosse bisogno.
Lui annuì allora e mi posò un bacio fantasma sulla fossetta che si era formata per il sorriso che gli rivolsi.
Istintivamente chiusi gli occhi a quel contatto.
Continuò a disseminare piccoli baci sulla guancia, e io la lasciai fare, a corto di fiato, a corto di tutto.
Perché sapevo che non avrei dovuto permetterglielo, che non avrei dovuto cedere, ma quella sua bocca al sentore di paradiso, quelle attenzioni di una delicatezza disarmante, il suo respiro a infrangersi sul mio viso come fosse vita, mi erano mancati talmente tanto che non potei fare a meno di rimanere lì, fermo, immobile, prendendo tutto ciò che avesse da donarmi.
Il cuore mi si arrestò in petto quando, con una audacia che non mi sarei aspettato, sentii le sue labbra aperte fermarsi sulle mie in un contatto asciutto.
“Dormi con me stanotte” mi sussurrò direttamente in bocca.
Ancora una volta rimasi impassibile, totalmente stordito e sopraffatto.
L'anima mi tremava talmente forte che quasi sembrava volesse uscire dal corpo per raggiungere quella di Louis, a pochi millimetri da me.
“Ti prego” mi implorò dopo un po’, non ricevendo alcuna risposta da parte mia.
Si inumidì le labbra, come sempre faceva quando era in ansia o in attesa, e non appena sentii la sua lingua sfiorare il mio labbro inferiore capii quale sarebbe stata la mia risposta.
Forse non sarebbe stato opportuno, forse ci avrebbe distrutti definitivamente, oppure avrebbe potuto risanarci, riportarci alla luce dopo aver brancolato nel buio per infiniti mesi, troppo vuoti e troppo freddi senza il corpo dell'altro a tenerci al caldo e al sicuro, ma al momento non volevo curarmi delle conseguenze.
Volevo solo prendermi cura di lui.
Di noi.
Per questo “d’accordo” risposi.
Fu un soffio di voce, ma lui lo sentì, perché gli invase le narici, passò dal palato dritto ai polmoni, e poi giù nello stomaco, a restituire quella morsa che sempre avvertivamo quando eravamo l'uno accanto all'altro.
Ci guardammo un’ultima volta, prima di uscire dalla cucina, con la consapevolezza negli occhi che quella notte avrebbe potuto cambiare ancora una volta la rotta del nostro imprevedibile e meraviglioso destino.
 
 
Quando ci ritrovammo nella sua stanza, qualche ora più tardi, ci scoprimmo più nervosi e impacciati di quanto avessimo pensato.
Era la prima volta che percepivo così nettamente quel distacco, quella cesura che ci aveva allontanato come mai prima, che ci faceva sentire inadeguati nel condividere uno spazio così piccolo e intimo. Ma altrettanto forte sentivo la voglia di colmarla quella distanza, di azzerarla del tutto e renderla nulla, di riavvolgere il nastro e partire da capo.
Per questo cominciai a camminare verso la finestra per raggiungere Louis che, dandomi le spalle, stava fumando una sigaretta, assorto, con gli occhi persi dentro a un cielo senza stelle.
Mi arrestai al centro della stanza, però, non appena lo sentii parlare.
La voce immersa in ricordi lontani.
“A volte mi chiedo come abbia potuto incasinare tutto. Tra di noi intendo. Ci amavamo così tanto, eppure a un certo punto è sembrato non bastare, perché un giorno hai deciso di lasciarmi. Poi mia madre si è ammalata e da lì ho cominciato a fare cazzate su cazzate, ad essere chi non ero e ad affogare in litri di alcol la paura che provavo nel capire che stessi perdendo il controllo. E mentre ero fuori mi rendevo conto di quanto tutto quello che stavo combinando prima o poi mi avrebbe trascinato giù, ma non m’importava. E sai perché? Perché tu non c'eri, mi avevi lasciato andare, e allora che senso aveva trattenersi? Che senso aveva evitare di fare errori se tu non mi volevi più? Se tornando a casa non ti avrei più trovato ad aspettarmi? Se non avrei più potuto alzare il telefono e gridarti quanto ti amavo? E forse il problema era proprio quello: l'amore che provavo per te era talmente forte, intenso, che alla fine mi ha fatto uscire fuori di testa. E sembrerà assurdo che dopo tutto questo tempo io ci rimugini su, ma ancora oggi mi domando come abbiamo fatto ad arrivare a quel punto.”
Spense la sigaretta sul davanzale e con un cenno del dito mi diede il tacito consenso di avvicinarmi.
Mi sedetti sul bordo della finestra, accanto a lui, e nonostante mi tremassero cuore e voce, parlai.
“Non ti ho lasciato perché non ti amavo più, né perché non ti volevo. L'ho fatto perché da un giorno all'altro si era incasinato tutto, senza preavviso, e il nostro amore  era diventato talmente tossico che a lungo andare ci avrebbe distrutto, lo stava già facendo. Non riuscivamo neppure a fare il nostro lavoro senza perdere il controllo. Tu avevi trasformato il palco in un parco giochi per sfogare la frustrazione e io non facevo altro che ignorare tutti e scazzarmi con chi non lo meritava. Stavamo lentamente cadendo a pezzi, io ho solo deciso di accelerare il processo.”
“E forse hai fatto bene a lasciarmi, visto quello che poi ho combinato con Briana.”
“Quello è successo dopo la notte in cui ti ho gridato addosso tante di quelle cattiverie che chiunque ne sarebbe uscito sconvolto.”
“Non prenderti la colpa di ciò che ho fatto, Harry. Quella è solo mia.”
“No, infatti. Quella è solo tua. Ma la causa del tuo errore sono stato io e…”
“Smettila! Non è così, non sei tu la causa! È la mia testa fottuta la causa! Perché se solo una volta mi fossi convinto di essere abbastanza, se solo quella maledetta notte ti avessi guardato negli occhi, avrei capito che dubitare del tuo amore è stata una follia, perché mai nessuno sarà capace di amarmi come hai fatto tu! Solo adesso l'ho capito. Solo dopo la distanza, la sofferenza e la disperazione, ma ormai è troppo tardi. Non c’è rimedio per quello che ho fatto.”
“Hai ragione, non c’è rimedio. Perché ogni volta che ti guardo negli occhi vorrei non riuscire a vedere quelli di tuo figlio, lo vorrei con tutte le mie forze, ma non posso farne a meno, perché sono identici ai tuoi e mi ricordano ogni volta quanto mi sia sentito tradito quando mi hai detto che saresti diventato padre. E credimi, a volte vorrei odiarti per come questa cosa mi fa sentire, ma non ce la faccio. Ci ho provato per mesi, ma sembra impossibile per me odiarti, perché ho capito che l'unica cosa di cui sono capace è amarti Lou. Sempre, follemente, fedelmente e testardamente, anche quando non dovrei, anche quando amarti diventa più doloroso dello starti lontano.”
Fu una confessione che non credevo mi sarei lasciato sfuggire.
Eppure lo feci, perché io ero così, lasciavo sempre parlare il cuore prima che la testa potesse interferire e cambiarne sentimenti ed intenzioni.
Non riuscivo a fingere, non ne ero mai stato capace, soprattutto se in ballo c'erano Louis e lo sconfinato amore che provavo per lui.
Mi voltai piano nella sua direzione, impaurito dalle mie stesse parole, e lui era lì, di fronte a me, che mi guardava come non succedeva da troppo tempo, e io capii perché quella sera non ci fossero stelle in cielo: erano tutte racchiuse nei suoi occhi.
Ci fu attimo di attesa, di silenzio, pieno di tutta la consapevolezza di quello che sarebbe accaduto dopo.
Con uno slancio mi fu addosso, ad appropriarsi delle mie labbra, della mia lingua, del mio respiro.
Mordeva, graffiava e baciava ogni angolo del mio viso restituendomi quel senso di appartenenza che sin da subito aveva provato verso di me e che ogni volta mi faceva sentire male per quanto intenso lo percepissi.
Senza dire una parola, mentre continuava a baciarmi ad occhi chiusi, mi trascinò con sé verso il letto e cominciò a spogliarmi lentamente, con cura e attenzione, come si fa con i bambini.
Ogni mio indumento abbandonato sul pavimento veniva immediatamente seguito da uno suo.
Stavamo ritrovando il nostro equilibrio l'uno nello smarrimento dell'altro.
Quando poco dopo ci ritrovammo distesi, con i corpi intrecciati, fusi insieme, mischiati indissolubilmente, e sentii l'anima di Louis scivolarmi violentemente dentro, scoppiai a piangere.
Non fui in grado di controllarmi, semplicemente lasciai andare tutte le lacrime che per mesi avevo ingoiato a forza e mi abbandonai ad un pianto liberatorio.
Non appena Louis se ne accorse si arrestò di colpo, preoccupato.
“Ti ho fatto male?”
Gli feci di no con la testa, sicuro che se avessi provato a parlare non sarei riuscito ad emettere alcun suono.
“E allora cosa succede?”
Provai a rispondere ma dalle labbra mi uscì solo un singhiozzo strozzato.
“Haz, ti prego. Perché stai piangendo? Ho fatto qualcosa di sbagliato?”
Cominciò ad accarezzarmi spasmodicamente il viso, il petto, le spalle, i capelli.
Mi lasciava baci impercettibili sulle palpebre, bevendo le lacrime direttamente dai miei occhi, e con una mano cercò la mia, abbandonata da qualche parte fra le lenzuola, stringendola fra la sua, piccola e calda.
Mi sfiorava ancora come se fossi la cosa più fragile e preziosa che possedesse, come se avesse paura di inquinarmi con le sue colpe o di scalfirmi con le sue schegge d'imperfezione, come se fossi una verità che non voleva corrompere, una purezza che non voleva violare.
Ogni tocco infondeva amore, ogni bacio restituiva devozione e prendeva forza.
“Sono felice” riuscii finalmente a dire, infinito tempo dopo, ritrovando la voce.
Lo guardai negli occhi, intrecciando le dita della mano che non era aggrappata alla sua fra le ciocche della sua nuca.
Lo avvicinai a me il più possibile, respirando la sua stessa aria, prendendo vita dal suo fiato che si infrangeva col mio.
“Piango perché sono felice Lou” gli confessai tremando, sconquassato da tutte le emozioni che mi stavano esplodendo in corpo.
Mi sorrise come ero sicuro solo gli angeli sapessero fare.
Fu un sorriso talmente bello, luminoso, felice, che se non glielo avessi baciato subito avrei potuto morirne.
E allora lo feci.
Lo baciai, forte, intensamente, sentendo la sua luce calda irradiarsi nei miei polmoni, mescolarsi al sangue che mi bagnava le vene.
Mi appropriai del suo sapore, che Dio solo sapeva quanto mi fosse mancato, e mi aggrappai alle sue spalle come un disperato si aggrappa alla vita per paura che gli sfugga tra le mani.
Lo sentii ridere beato mentre riprendeva a muoversi dentro di me, senza abbandonare un attimo le mie labbra, senza smettere nemmeno un secondo di venerarmi e di accarezzarmi con la mano.
Stavamo colmando mancanze, riempiendo vuoti, riparando crepe profonde causate dai nostri errori, nel miglior modo che conoscevamo: amandoci.
Quello era l'unico che sapevamo avrebbe funzionato, perché sì, è vero, sapevamo bene come ferire l'altro, come distruggerlo, ma solo perché dopo potevamo amarci ancora di più, ancora più follemente e smisuratamente di prima.
Quando le sue labbra si staccarono dalle mie per riprendere fiato, fui sicuro di aver sentito un'altra parte di me, l’ennesima, abbandonarmi e consegnarsi per sempre a Louis, lì dove era giusto che appartenesse.
Lì dove sempre sarebbe appartenuta.
 
 
 
 
 
La mattina dopo mi svegliai con il cuore colmo.
La parte del letto accanto alla mia era fredda, segno che Louis si fosse già alzato.
Aprii gli occhi per guardarmi intorno e mi ritrovai a sorridere, felice, quando realizzai di essere davvero nella sua stanza, di aver davvero fatto di nuovo l'amore con lui dopo mesi passati senza poterlo toccare, venerare, sfiorare.
Era stata una notte irreale per quanto perfetta.
I nostri corpi avevano ritrovato il loro rifugio, i nostri cuori il loro ritmo, le nostre anime la loro linfa vitale che avevamo succhiato direttamente dalle labbra dell’altro.
Non ero sicuro che esistesse un Paradiso dopo questa vita, ma se mi avessero chiesto di provare a descriverlo avrei scelto un’immagine della notte appena trascorsa: gli occhi di Louis, infinitamente blu e incastonati di lacrime, fissi nei miei; il suo respiro spezzato a separare le mie ciglia in piccoli sbuffi d’aria; il suo petto attaccato al mio; il nostro sudore a fare da collante e a restituire un odore, il nostro, che solo mi sarebbe bastato a vita per riuscire a respirare; e la sua voce rotta, immensamente intensa e tremolante per l’emozione, che con la più disarmante dolcezza pronunciava la frase che non sapevo di aver da sempre aspettato di sentirgli dire.
“Io non so tante cose Haz, sono insicuro, incasinato, problematico, capriccioso e pieno di difetti, ma di una cosa sono certo: ogni volta che ti guardo, che ti sfioro, che ti sento mio proprio come in questo momento, mi fai desiderare di essere migliore, di superare ogni mio limite, di smussare ogni mio spigolo, per te. Se servisse a renderti felice, se dovesse farmi godere anche solo per un secondo del magnifico suono della tua risata, se fosse ciò di cui avresti più bisogno, sposterei montagne, abbatterei grattacieli, svuoterei oceani e priverei i cieli delle stelle. E magari non ho nemmeno il diritto di dirti queste cose adesso, dopo tutto quello che è successo, ma voglio lo stesso che tu sappia che ti amo da morire, talmente tanto che non mi servirebbe nulla per vivere, se non saperti con me, sempre, dovunque. Mi nutrirei della dolcezza delle tue labbra, mi sazierei mordendoti quelle fossette disegnate da Dio, mi disseterei bevendo tutte le lacrime che i tuoi occhi piangerebbero, creerei musica con il solo battito del tuo cuore, che per me rimarrà sempre il suono più tenero e familiare che abbia mai ascoltato. E forse non sarebbe una vita che tutti desidererebbero, perché mancante di tante cose che altri probabilmente ritengono fondamentali, ma a me basterebbe, per me sarebbe la vita più bella di sempre, quella che mai smetterei di desiderare, la più piena e sorprendente di tutte.
Non so nemmeno se questo mio modo di amarti è giusto, ma è l’unico che conosco.
E sai cosa? A me piace, perché l’amore che provo per te è l’unico dove, l’unico quando, in cui mi sento veramente bene, insolitamente forte, finalmente felice.
E non mi rimane che ringraziarti amore mio, per avermi fatto scoprire il sentimento più puro che io, minuscolo e insignificante essere umano, non mi sarei mai sognato di poter provare.”
Mi sembrava di sentirla anche adesso la morsa che dopo quel discorso a cuore aperto mi aveva stritolato in modo insopportabile lo stomaco, di percepire ancora il suo piacere propagarsi dentro di me e il mio andare incontro al suo, di avvertire il mio cuore aprirsi ed inglobare il suo, appropriandosene e tenendolo con sé.
Per la seconda volta quella notte ero scoppiato a piangere, sopraffatto da quell’amore infinito, senza misura, che provavo per quel magnifico ragazzo sopra di me.
“Non so se il tuo è il giusto modo di amarmi. Forse è imperfetto, proprio come il mio, ma questo non significa che non sia giusto. La cosa che più conta per me è che questo tuo amore mi fa sentire la persona più fortunata della terra, la più privilegiata, perché sono sicuro che pochi a questo mondo hanno l’onore di essere amati come tu ami me. Quindi non importa che sia giusto, a me importa che sia speciale, sincero, più forte di qualsiasi altro sentimento, e fidati Lou, il tuo amore lo è. Sapere questo mi basta, mi fa essere tremendamente felice.”
Abbassai lo sguardo ricordando le mie parole, senza riuscire a smettere di sorridere, e vidi chiaramente i segni di quella notte sparsi su tutto il mio corpo.
Louis era ovunque: le sue dita a dare forma ai lividi che mi coloravano il fianco e la coscia sinistri; l’ombra dei suoi denti a mordere ancora le clavicole e il pettorale destro, lì dove era tatuato l’uccellino che lo rappresentava; nei graffi che sentivo continuare a bruciare le spalle, le scapole, le cosce; nella saliva che portava ancora il suo inconfondibile sapore.
Ma soprattutto lo sentivo nel dolore che ad ogni movimento brusco mi colpiva al fondo della schiena, a ricordarmi che, ogni volta che lo volevamo, potevamo diventare un unico corpo, un’unica anima con due cuori scalpitanti e colmi d’amore.
L’incessante vibrazione del telefono mi costrinse ad uscire fuori dalla coltre di coperte che mi aveva protetto dal mondo esterno fino a quel momento.
Avrei preferito rimanere nascosto tra le lenzuola che profumavano ancora di me e Louis, piuttosto che essere costretto ad affrontare la realtà. Volevo continuare a rivivere la notte scorsa nella mia mente, come un sogno da cui non si riesce a distogliere il pensiero perché troppo bello, come un ricordo a cui non vuoi smettere di pensare e che vuoi continuare a rivivere ancora e ancora.
La verità era che avevo paura ad uscire da quella stanza perché non sapevo cosa avrei trovato al di fuori di essa.
Non riuscivo a reggere la consapevolezza che l’esserci ritrovati l’uno nel corpo dell’altro costituisse al momento solo un inciso, momentaneo seppur incantevole, della nostra storia.
Non volevo che quell’episodio generasse nel tempo – come ero sicuro invece avrebbe fatto – dubbi, rimorsi, rimpianti, che ci facesse guardare indietro e pentire di tutto il tempo che ostinatamente continuavamo a perdere stando lontani piuttosto che assumerci le responsabilità degli sbagli che il nostro amore aveva prodotto.
Dovevamo solo provare a ripartire da quelli e azzerare il resto, annullare ciò che ci faceva soffrire e che ormai non contava più.
Dovevamo lasciare andare tutte le colpe che a lungo ci eravamo scavati addosso, dovevamo smettere di graffiarci le ferite che non volevamo ancora far smettere di sanguinare, dovevamo accecare gli sguardi colmi di sensi di colpa che ci rivolgevamo l’un l’altro.
Non aveva senso tutto questo, serviva solo a farci morire dentro ogni giorno di più.
E forse ero pazzo, ma io Louis, inconsciamente, l’avevo già perdonato.
Non ero in grado di dire esattamente quando lo avessi fatto, ma non era successo molto tempo fa.
Semplicemente un giorno, baciato dal sole della Giamaica, mi resi conto che nella fine della nostra storia non c’era una parte più lesa di un’altra.
La paternità di Louis aveva ucciso entrambi, solo in modi differenti.
Io ero sprofondato nel dolore più nero e intenso mai sperimentato nella mia vita e mi ero lasciato andare, abbandonato totalmente a me stesso.
Lui invece aveva capito per la prima volta, in modo totalizzante e assoluto, cosa significava veramente guardarsi allo specchio ed odiare tutto ciò che vi era riflesso.
A differenza mia però lui aveva in qualche modo continuato ad andare avanti, si era fatto carico delle sue responsabilità e nonostante non fosse ancora in grado di conviverci ci era comunque sceso a patti.
La cosa che più lo aveva logorato, e che lo logorava tuttora, era la consapevolezza di non aver tradito me, non principalmente perlomeno, ma di aver innanzitutto tradito se stesso, il suo amore nei miei confronti.
Di aver piegato la sua natura ad un capriccio infimo, insensato, meschino, che ci aveva portato solo a distruggerci.
E questa era la cosa che tormentava anche me, che per molte notti mi aveva costretto con gli occhi sbarrati al soffitto e imbrattati di immagini acquose che mi pugnalavano il cuore ogni volta.
È vero, lo avevo lasciato, non aveva più nessun vincolo che lo legava a me, ma perché arrivare a questo punto? Perché farmi questo? Farci questo?
Perché essere così incosciente e scellerato dal voler toccare una sponda che poi sai di non poter abbandonare più?
Con una notte aveva cancellato tutto.
I baci colmi di desiderio, le avventure vissute con lo stupore negli occhi, le parole sussurrate nel buio delle nostre stanze d’albergo o non appena si spegnevano le luci del palco, l’amore vietato dal mondo ma vissuto in modo talmente intenso da costringere quello stesso mondo a non poter fare a meno di ammirarci, una relazione costretta a tacere che aveva trovato voce nell’inchiostro che ci sporcava la pelle, tutti i gesti e i segnali rivolti quando non ci era permesso parlare.
Ogni cosa era andata distrutta.
E come si torna indietro dopo una presa di coscienza del genere?
Come si sciolgono i nodi di una matassa così complessa, dove ogni filo ingarbugliato rappresenta un errore, una realizzazione dolorosa, una sofferenza inflitta, un pentimento incolmabile?
Eppure io sentivo che entrambi avessimo la voglia di sciogliere pazientemente quella matassa, anche se ci avessimo impiegato secoli.
Dentro di me sapevo che l’amore avrebbe fatto da lubrificante e ci avrebbe aiutato a snodare i grovigli più fitti e inestricabili.
Non sarebbe stato affatto facile, perché eravamo testardi, orgogliosi, discutevamo troppo e parlavamo poco, ma mai nel mondo sarebbero esistiti altri due che si amavano più di noi.
Sapevo quanto avessimo necessità l’uno dell’altro, ma sapevo anche che più di tutti, in quel momento della sua vita, Louis avesse bisogno di se stesso, di ritrovarsi, di perdonarsi e di ricominciare ad amarsi.
Solo così, poi, avremmo potuto riprendere da dove avevamo interrotto, solo così avremmo potuto recuperare ciò che avevamo lasciato in sospeso per tutti quei mesi di follia e smarrimento.
Mio malgrado, quindi, dovetti scostare il piumone dal mio corpo e fare scontrare i piedi con il pavimento freddo.
Non era ancora arrivato il giorno di essere egoista, di pensare a quanto bramassi di poterlo riavere nella mia vita, con la certezza stavolta che non sarebbe più scappato.
Quello era l’ennesimo giorno in cui avrei dovuto stargli vicino nel modo in cui sapevo avesse bisogno, e non era un giorno qualsiasi, simile a quelli che lo avevano preceduto, no.
Era uno dei più difficili, di quelli in cui i timori prendono vita e il dolore ti perseguita, di quelli che fanno paura, che fanno venire voglia di scappare e piangere pur di non venire a patti con le responsabilità e i doveri.
Quella sera Louis si sarebbe esibito a X Factor.
Pensai a come si potesse sentire in quel momento, mentre probabilmente stava facendo il soundcheck, e mi sentii mancare l’aria.
Potevo sentirla dentro di me la paura che ero sicuro lo stesse attanagliando, e la consapevolezza che non potevo fare nulla per attutirla perché non avrei potuto vederlo fino a quella sera mi stava mandando fuori di testa.
Decisi allora che avrei dovuto trovare qualcosa da fare, qualsiasi cosa mi avrebbe tenuto impegnato per il resto della giornata e che mi avrebbe distolto il pensiero da Louis, altrimenti non avrei resistito e sarei corso agli studi di X Factor anche solo per assicurarmi che stesse bene.
Uscii di corsa dalla camera di Louis, afferrando alla cieca i primi indumenti che mi capitarono sotto mano, e quando fui in corridoio incontrai Lottie che mi guardò con una scintilla maliziosa a illuminare i suoi occhi indagatori e curiosi.
“Buon giorno” le posai un bacio sulla guancia.
“Non dubito che per te sia un buon giorno” ammiccò, alzando ripetutamente le sopracciglia.
“Cosa staresti insinuando?”
Provai a nascondere con un sorriso il rossore che sentivo spargersi velocemente sulle guance.
“Io? Assolutamente nulla” alzò le spalle, dispettosa, e cominciò a dirigersi al piano inferiore.
Non arrivò neppure a metà scala che si girò nella mia direzione, squadrandomi da capo a piedi.
“Ah, Harry… Carina la tuta di mio fratello, ma non credi sia un po’ troppo piccola per te?”
Mi guardai subito e mi accorsi di stare davvero indossando i pantaloni Adidas di Louis.
Mi strozzai con la mia stessa saliva per l’imbarazzo e per dissimularlo mi tolsi una pantofola e la tirai a Lottie. Peccato che la mia mira facesse schifo e anziché colpirla la mancai completamente, facendo scontrare invece la pantofola contro il muro.
Scoppiammo entrambi a ridere per la mia scoordinazione, poi la raggiunsi e insieme scendemmo le scale.
Non appena arrivammo in cucina, senza alcun preavviso, Lottie mi abbracciò.
Ricambiai la stretta, confuso, ma intenerito da questa dolcezza che con me era sempre solita dimostrare.
“E questo per cos’è?”
“Per tutto quello che stai facendo per noi e per aver reso Louis immensamente felice anche nel periodo più buio della sua vita.”
“Lo rifarei altre mille volte.”
“Lo so.”
Mi stampò un bacio in guancia e poi si mise davanti ai fornelli.
Ernie e Doris, seduti a tavola ancora assonnati, mi accolsero con gioia e nell’attesa che la colazione fosse pronta giocai con loro, aiutando di tanto in tanto Lottie con i pancakes.
Quando l’odore di uova e dolci si sparse nell’aria, fecero la loro comparsa in cucina anche Fizzy e le gemelle.
Nonostante fossero distrutte, scoraggiate, afflitte, non esitarono nemmeno un attimo a rivolgermi dei sorrisi caldi e familiari non appena mi videro lì, dopo tanto tempo, ad incastrarmi perfettamente nella loro vita.
Mi corsero tutte e tre incontro e, proprio come aveva fatto Lottie poco prima, mi avvolsero tra le loro braccia.
Sentii il petto riscaldarsi e gli occhi cominciare a riempirsi di lacrime: amavo immensamente quella famiglia.
 
 
 
 
“Harry, tesoro, smettila di muoverti come un pazzo e vedi di rilassarti. Andrà tutto bene.”
“Come faccio a rilassarmi se Louis è dietro questa porta, non so come sta e non posso ancora entrare per accertarmi che tutto stia andando bene?”
Come se avesse sentito le mie lamentele, un addetto alla sicurezza aprì la porta del camerino di Louis, permettendo finalmente a me, mia madre e Gemma di entrare.
Mi fiondai immediatamente dentro la stanza, incurante di chi vi fosse, cercando affannosamente gli occhi di Louis.
Non appena li incrociai, sereni, vispi, blu da togliere il fiato, rilasciai un sospiro che mi resi conto di aver trattenuto per infinite ore.
Lo raggiunsi in poche falcate e lo strinsi a me, respirando il suo odore, beandomi della scarica elettrica che il suo corpo in contatto col mio puntualmente generava.
“Stai bene” affermai sollevato, affondando le dita nella sua schiena, tra i suoi capelli, nei suoi fianchi. Ovunque.
“Sì Haz. Tu stai bene?”
“Sì. Adesso sto bene anch’io.”
Lo sentii sorridere e lasciarmi un piccolo bacio appena sotto l’orecchio, in quel punto che anni prima mi aveva detto di amare perché era lì che sentiva più forte il mio odore.
Quello fu l’unico gesto di intimità che potemmo concederci in quel momento, ché nonostante fossimo circondati da chi ormai conosceva perfettamente il nostro segreto, non eravamo comunque soli.
Ci staccammo riluttanti, restii a lasciar andare il corpo dell’altro, e quando ci guardammo negli occhi sapemmo esattamente tutto quello  che avremmo voluto dirci.
 
 
Nel giro di pochi minuti il camerino cominciò a riempirsi di gente.
Ogni persona che arrivava portava un pezzo di coraggio, costitutiva una piccola parte di quel supporto che Louis sapeva non sarebbe mancato da parte dei suoi fans.
Non mancava nessuno, erano tutti presenti: le nostre famiglie, i suoi amici, Lou, Steve, Liam, Niall.
Fu emozionante poter riabbracciare i nostri compagni di band, osservare gli occhi di Louis colmi di lacrime di gratitudine nel vederli lì, pronti a sostenerlo, ammirarlo, amarlo.
Eravamo tutti lì, spinti dalla stima, dalla fiducia e dall’ammirazione che provavamo per ciò che stava facendo, nonostante sapessimo quanto gli costasse farlo.
Era come trovarsi nel bel mezzo di una grande riunione famiglia, tutta riunita nel segno dell’amore per Louis che ci accomunava.
Quando arrivò per Louis il momento di esibirsi venne un addetto ai lavori per comunicarcelo.
“Fra cinque minuti sul palco” lo informò.
Vidi Louis irrigidirsi, nascondendo però la preoccupazione dietro ad un sorriso teso.
Cercò subito il mio sguardo in mezzo ad altri mille nella stanza che si erano puntati su di lui, in attesa.
Io annuii provando ad infondergli un po’ di sicurezza,  a fargli capire che potesse farcela, ma lui scosse la testa.
Si schiarì la voce con un colpo di tosse e richiamò l’attenzione dei presenti.
“Ragazzi scusate. Avrei bisogno di un rimanere un attimo da solo.”
Con un mormorio di assenso la gente cominciò ad abbandonare la stanza, chi rivolgendogli un sorriso incoraggiante, chi lasciandogli veloci pacche sulle spalle.
Stavo per uscire anch’io quando Louis mi richiamò.
“Harry, tu rimani.”
Aspettai che il camerino si svuotasse completamente e una volta rimasti soli, Louis si avvicinò, afferrandomi le mani e nascondendo il volto nell’incavo del mio collo.
“Ho paura.”
La voce uscì attutita dalla mia pelle, ma sentivo distintamente l’agitazione che la colorava.
Lo abbraccia allora, provando a rassicurarlo e a fargli capire che finché fossi stato al suo fianco non avrebbe avuto nulla da temere.
“Non devi averne. Andrai alla grande.”
“E se non dovessi farcela?”
Mi guardò col terrore negli occhi, scostandosi bruscamente dalla mia pelle che, come per reclamare il calore di Louis di nuovo addosso, si riempì di brividi.
“Ce la farai, ne sono sicuro. E non lo dico solo per incoraggiarti, ma perché credo in te più che in chiunque altro. Perché non ti sei mai lasciato sopraffare dalle tue insicurezze nonostante pensavi fossero più forti del tuo coraggio, perché non hai mai piegato la tua forza di fronte a chi voleva strappartela con arroganza, e perché non hai mai venduto il tuo orgoglio a chi avrebbe pagato milioni pur di privartene. Vai senza paura e dimostra al mondo di cosa è capace Louis Tomlinson. E ricordati che, qualsiasi cosa accada, non sarai solo su quel palco.”
Mi sorrise insicuro e non appena fuori dalla porta qualcuno ci informò che mancassero due minuti lo vidi sussultare.
“È meglio che vada.”
Annuii nella sua direzione, ma mentre si allontanava a spalle tese per andare incontro ad una delle sue sfide più grandi sentii di dover fare quello che più desideravo da quando avevo messo piede lì dentro.
Gli corsi dietro e prima che aprisse la porta me lo tirai addosso e lo baciai.
Lo sentii sospirare beatamente mentre alzandosi sulla punta dei piedi mi allacciava le braccia al collo e approfondiva il bacio, andando incontro alla mia lingua bramosa della sua e accarezzandomi i capelli in un modo che mi faceva morire di tenerezza ogni volta.
Un altro tocco alla porta, questa volta più insistente, annunciò che il nostro tempo fosse scaduto.
Quello di Louis invece stava per avere inizio.
Mi separai da lui con uno schiocco rumoroso, mordendo leggermente la sua bocca adesso un po’ più rossa, respirando un’ ultima volta il suo odore affondando il naso nella sua guancia.
“Io e Jay siamo con te” soffiai sulle sue labbra.
Gli vidi versare una lacrima che morì sul suo sorriso, poi, lasciandomi un ultimo bacio, uscì dalla stanza.
 
 
Non appena salì sul palco, l’ansia che mi aveva accompagnato per tutto il giorno svanì.
Sin dalla prima nota aveva catalizzato su di sé l’attenzione di tutto il pubblico che lo accolse calorosamente tra grida di gioia e ammirazione.
Tutti cantavano a squarciagola insieme a lui, lo applaudivano, lo osservavano come se fosse un piccolo miracolo.
E giuro che lo era.
Mi sentivo esplodere d’orgoglio di fronte a ciò che stava facendo.
Stava cantando come poche volte nella sua carriera, con una grinta e una determinazione che aveva cacciato fuori solo per sua madre, per renderla un’ultima volta fiera del suo piccolo grande uomo.
Ed ero sicuro che Jay lo fosse, proprio come lo ero io.
Ogni volta che Louis pensava di stare affondando, poi, inaspettatamente, rinasceva, più luminoso e raggiante di prima.
Era come il sole.
Il mio splendido e imperfetto sole personale.
L’ultima nota della canzone trascinò con sé un assordante boato di applausi che Louis accettò con l’immensa umiltà che sempre lo distingueva da qualsiasi altro artista.
Lo vidi rivolgere lo sguardo verso l’alto e lanciare un bacio in cielo.
Il resto poi fu tutto sfocato, perché lacrime ed emozioni azzerarono tutti i miei sensi.
L’unica cosa che ricordo è di aver stretto Louis al mio petto non appena scese dal palco e di averlo sentito tremare tra le mie braccia per l’emozione.
“Sei stato meraviglioso Lou. Hai incantato tutti quanti.”
“L’ho sentita Haz, lei era con me. Mi stava guardando.”
“Da oggi in poi non smetterà più di farlo. Avrai sempre un angelo su cui contare.”
“Ti sbagli, ne avrò due.”
Gli rivolsi un’occhiata confusa e lui scoppiò a ridere, felice, leggero, libero dal peso che lo aveva abbandonato non appena i riflettori lo avevano illuminato.
“L’altro sei tu” mi confessò con una spontaneità disarmante.
Non ebbe nemmeno un attimo di esitazione nel dirlo.
Se avessi potuto lo avrei baciato di nuovo, per sempre, fino a togliergli il fiato.
Ma non potevo, quindi mi limitai a sfiorargli impercettibilmente il viso, sperando di trasmettergli tutta la gratitudine e l’incanto che provavo ad averlo nella mia vita.
Fu il mio modo di baciarlo.
Lui lo capì, e questo mi bastò per riuscire a sopravvivere alla mancanza che avrei sentito della sua anima stretta tra le mie labbra per il resto della serata.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Londra non avrebbe potuto indossare un colore più cupo quel giorno.
Forse era solo il viluppo di emozioni che avevo dentro a riverberarsi nell’atmosfera attorno a me, o forse il grigiore del cielo era talmente intenso da essermi entrato dentro.
Il biglietto aereo per Los Angeles pesava come un macigno nel borsone che mi trascinavo addosso.
Un monito a ricordarmi che tutto era finito, che la bolla dentro cui avevamo fluttuato in quella settimana fosse appena esplosa, che la vita reclamava la mia presenza che, purtroppo, per il momento doveva stare lontana dalla sua.
Louis mi aspettava accucciato sul dondolo, a cullarsi lentamente, con una sigaretta in una mano e una tazza di tè nell’altra.
Ogni tiro che aspirava era accompagnato da un’espressione soddisfatta, come di chi è in pace col mondo.
Le nuvole scolpivano il suo profilo in profonde ombre scure, rendendo i suoi tratti più marcati, lo sguardo più magnetico e intenso del solito.
Avvolto in una calda coperta di lana, era l’immagine  della serenità.
Quella maschera di beatitudine però si sgretolò non appena i suoi occhi notarono il borsone che pendeva dalla mia spalla.
I suoi occhi furono attraversati per un attimo da quello che definirei terrore.
Fu come se la realtà lo avesse schiaffeggiato violentemente in pieno viso.
Mi avvicinai a passo lento, illudendomi che così facendo avrei potuto allontanare il più possibile il momento in cui sarei partito, e lui mi accolse accanto a sé con una smorfia di dolore, gettando la sigaretta finita per strada e cercando subito la mia mano a cui ancorarsi.
Attorno a noi tutto sprofondò in un confortante silenzio, come a volerci concedere il tempo di riordinare i pensieri e ristabilire il battito impazzito dei nostri cuori che si rifiutavano di accettare ciò a cui la nostra mente si era già rassegnata.
“Parto fra un po’, torno a Los Angeles” interruppi così l’interminabile silenzio in cui ci eravamo rifugiati.
Il suo viso s’incrinò, gli occhi cominciarono a colorarsi di rosso, le lacrime si fecero strada velocemente rendendo le sue iridi più azzurre che mai.
Si accasciò contro di me, la fronte appoggiata alla mia tempia sinistra, una mano ad avvolgermi il capo e ad accarezzarmi l’orecchio.
“Sono egoista se dico che non voglio che tu parta?”
Sentii una sua lacrima bagnarmi la guancia, lasciare un solco profondo che difficilmente si sarebbe risanato.
“No, affatto. Perché non vorrei nemmeno io, ma devo.”
Sospirò rassegnato, stringendomi di più.
“Lo so.”
Appoggiò la testa sulla mia spalla e con la paura a fare tremare la voce mi chiese “quanto tempo abbiamo?”
“Cinque minuti.”
Dovetti cacciare indietro il pianto che mi raschiava la gola prima di riuscire a rispondere.
Qualcosa di simile all’ansia mi aveva abitato lo stomaco quella mattina e alla sola idea di dover andare via la sentivo incendiarmi le viscere.
“Haz…”
“Voglio che tu abbia una cosa” lo interruppi.
Mi scostai leggermente da lui per afferrare quel pezzo di carta stropicciato nella tasca del mio cappotto mentre lui mi guardava accigliato e in attesa.
Potevo intravedere un bagliore di sorpresa nei suoi occhi, una scintilla di stupore che rischiarava quella patina opaca che gli aveva rabbuiato lo sguardo negli ultimi mesi.
Gli porsi quel pezzo di me, di lei, che avevo consegnato all’inchiostro molto tempo fa e lui lo afferrò con mani tremanti.
Spiegò il foglio con cura e lentezza estreme, ma ebbe solo il tempo di leggere a mezza voce “Sign of the times” prima che ripiegassi il foglio tra le sue mani.
Mi guardò contrariato e io non potei fare a meno di sorridere, perché alle volte sembrava veramente un bambino.
“Non adesso. Leggila quando sarò andato via.”
Annuì poco convinto, rigirandoselo tra le mani, fissando quella pagina con talmente tanta insistenza che sembrava la stesse consumando.
“Cos’è?”
“L’ho scritta un po’ di tempo fa in Giamaica, quando mi hai detto che le condizioni di Jay si fossero aggravate.”
Mi fissò per un tempo interminabile.
Le lacrime sembravano rugiada nei suoi occhi cristallizzati, lo stupore ne aveva cambiato il colore e la consistenza, rendendoli più chiari e liquidi.
Guardandoli mi sembrò di specchiarmi nel limpido mare di Tenerife.
“Hai davvero scritto una canzone per mia madre?”
E lì mi resi conto che non è vero che l’emozione non ha voce, come diceva qualcuno1, perché in quel momento, seduto su una sedia a dondolo sotto un porticato, la sentii la voce dell’emozione, ed aveva lo stesso dannato timbro di quella di Louis Tomlinson.
Era incredulo, commosso, sopraffatto.
“Ci sei pure tu in questa canzone. L’ho scritta per voi. E anche un po’ per me.”
Un’altra lacrima sciagurata sfuggì al suo controllo, illuminandogli lo zigomo in una scia bagnata.
Me lo trascinai addosso, avvolgendo la coperta attorno ai nostri corpi, vivendo il nostro ultimo momento londinese chiusi ancora una volta in una dimensione, la nostra, che era in grado di farci dimenticare ciò che lì fuori ci faceva dannatamente soffrire.
Feci scontrare i nostri nasi e respirai grazie al suo fiato che si insinuò nelle mie narici.
“Harry, non so che dire. Tutto questo è… troppo. Non trovo nemmeno le parole per esprimere quanto significhi per me.”
Gli baciai gli occhi, come lui aveva fatto con me qualche notte prima, e li asciugai dal pianto perpetuo che li annegava da estenuanti e infiniti giorni.
“Dimmi solo che te lo farai bastare. Che tra queste parole troverai tutto quello che avrai bisogno di sapere, che leggendole sarai sicuro di quello che provo per te, che quando starai male saranno il tuo rifugio più sicuro, la tua pausa dal dolore.”
Sembrava stordito da ciò che avevo appena detto.
Le sue palpebre sfarfallarono, confuse, e le sue ciglia bagnate solleticarono le mie in una carezza delicata.
Era a corto di parole, come se le stesse cercando da qualche parte per riuscire a dare voce ad un pensiero fastidioso che gli stava abitando la mente.
Per questo forse, anziché parlare, preferì baciarmi.
Fu dolce, lieve, delicato, la carezza di una piuma con la potenza però dei primi baci, quelli dati con timidezza, paura, in un leggero sfregamento di labbra, di quelli che nascondono le emozioni più pure e intense che solo le prime volte regalano.
Ed era questa la nostra magia, l’essere capaci di stupirci, di amarci, di emozionarci ogni volta come fosse la prima.
Perché il nostro amore non si andava a perdere mai, si aggiungeva sempre a quello già esistente.
Quando pensavamo di averlo smarrito lui invece andava a nascondersi dove sapeva sarebbe stato al sicuro.
“Cosa succederà adesso?” mi sussurrò sulle labbra.
Lo guardai in viso, accarezzandolo con lo sguardo, imprimendo a fuoco nella mia mente quei particolari che lo rendevano unico per ricordarmeli quando non sarebbe stato con me.
Gli portai indietro il ciuffo scomposto che gli ricopriva la fronte e mi beai dell’intensità dei suoi occhi che puntualmente mi mozzavano il fiato.
“Devi prenderti cura di te Lou. Devi riscoprire quanto sei essenziale per te stesso, devi cominciare a donarti tutto l’amore che per anni hai sempre e solo dato agli altri, devi occuparti della tua sofferenza senza prenderti il carico di quella che mi hai inferto. Semplicemente, devi perdonarti. Perché sei solo un essere umano, e dopo una brutta caduta non puoi rimetterti subito a correre, hai prima bisogno di far guarire il dolore che ti ha costretto improvvisamente ad arrestarti. Riscopri la bellezza che hai dentro Louis, e non appena sarai pronto vieni subito a cercarmi, raggiungimi ovunque io sia, perché ti starò già aspettando.”
Si stava per fiondare di nuovo sulle mia labbra ma non riuscì nemmeno ad assaggiarle perché si fermò non appena sentimmo il suono di un clacson suonare insistentemente dall’altro lato della strada.
Rivolgemmo entrambi lo sguardo in quella direzione scoprendo che il mio autista mi stesse aspettando, pronto a strapparmi via dall’unico posto che avrei sempre voluto raggiungere: le braccia di Louis.
Fu impossibile per entrambi evitare di piangere, di stringerci di più, di baciarci più forte, di amarci più intensamente.
Ci regalammo un ultimo bacio al sapore di lacrime, promesse, amore, fiducia, speranza.
Fu il più bel bacio che ci fossimo mai dati, perché suggellava l’inizio della nostra rinascita.
Quando ci staccammo qualcosa era cambiato negli occhi di Louis, sembravano più determinati, sicuri, consapevoli.
Mi afferrò il viso tra le mani, stringendo forte, fissando per sempre le sue impronte su di me.
“Non appena ti alzerai da qui e compirai il primo passo lontano da me, voltati: vedrai che io sarò proprio lì, appena un po’ più indietro di te, già pronto a raggiungerti. Perché non importa di quanto tempo io abbia bisogno per riprendermi da questo dolore, di quanto bisogno abbia per perdonarmi, non sarò mai in grado di riscoprire la bellezza che ho dentro se non saranno i tuoi occhi a mostrarmela. Quindi aspettami Harry, perché ti giuro, vengo a prenderti. E questa volta sarà per sempre.”
Sorridemmo entrambi, felici, impazienti di ritrovarci, e non importava se quel giorno la pioggia si abbatteva senza sosta su Londra, il sole lo avevamo appena creato noi con la promessa di un amore eterno, imperfetto e straordinario.
Eravamo giovani, avevamo smarrito la via, non sapevamo dove stavamo andando, ma eravamo sicuri di quale fosse il posto a cui appartenessimo.
Quando mi alzai da quella sedia a dondolo il cuore in petto era leggero e batteva ad un ritmo sereno.
Era la giusta conclusione a quel capitolo, necessaria affinché ne iniziasse un altro ancora più bello.
Per ora era giusto che ci occupassimo di ricucirci addosso altre ferite.
Del nostro rapporto ci saremmo occupati dopo, avevamo tutto il tempo d’altronde.
Sapevamo in quale punto esatto della nostra storia, mesi prima, avessimo lasciato l’amore.
La strada per raggiungerlo era lunga e impervia, ma grazie a Dio avevamo ancora abbastanza forza nelle gambe e fiato nei polmoni per poterla percorrere.
 
 
 
 
 
 
 
 
Note:
1: canzone di Celentano.
 
Note personali:
Buona sera ragazze.
Se siete arrivate fin qui, spero che vi siate godute queste pagine.
Questa brevissima storia nasce da un insieme di cose: da quello che ho immaginato sia potuto accadere in quel periodo, da quello che spero sia avvenuto, da quello che non riusciremo mai a sapere sia realmente successo.
Tutto è costruito su fili di verità e immaginazione che ho intrecciato spontaneamente, lasciando ora all’una e ora all’altra il potere di decidere lo scorrere della trama.
Non ho avuto grandi pretese nel scriverla, ho solo ascoltato la necessità che avevo di dare forma a qualcosa che ha preso vita nella mia mente in maniera improvvisa ma intensa.
Spero vi abbia lasciato dentro un’emozione - o anche più di una -  qualsiasi esse siano, e che vogliate rendermene partecipe con una recensione.
Vi abbraccio,
Letizia.
 
Queste, in caso voleste ascoltarle, sono le canzoni che mi hanno accompagnato durante la scrittura della storia:
 
Unsteady – X Ambassador
Chasing cars – Sleeping at last
Make you feel my love – Lea Michele (cover dell’originale di Adele)
Dream – Imagine Dragons
Sign of the times – Harry Styles
Turning page – Sleeping at last
Saturn – Sleeping at last
Mercury – Sleeping at last
L’amore è – Enrico Nigiotti (questa in particolare sembra essere stata scritta dall’Harry di questa storia pensando a Louis)
Even my dad does sometimes – Ed Sheeran
Take care – Beach House
Steve’s theme – Aaron Zigman (The last song soundtrack)
   
 
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