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Autore: Alicat_Barbix    13/01/2018    0 recensioni
Nel 2130 il mondo non è più contaminato dalle diversità. Diversità che hanno portato a lotte e guerre sanguinose nel corso dei tempi. La nuova società si impegna ad eliminare tutti gli Incompleti. Il diverso deve essere schiacciato. Ma come in ogni organizzazione, anche in questa c'è una falla.
Sherlock Holmes e John Watson si incontreranno quando meno se l'aspettano, ma saranno dalla stessa parte? Ma se così non fosse, cosa comporterebbe la nascita di qualcosa di forte, qualcosa di pericoloso?
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 15

 
 
Tre giorni. Tre giorni di attesa. Tre giorni di tensione. Tre giorni di logoramento.
Erano passati lenti, inesorabili, attaccati ad un telefono rosa che si ostinava a non squillare. Avevano tormentato le loro notti, allontanandoli l’uno dall’altro sul letto, creando una scia divisoria fra le loro schiene. Aveva infuso la paura di amarsi, di lasciar fluire i sentimenti, di poter essere minacciati proprio da quelle emozioni.
Quella mattina, John si svegliò prima del solito e aveva trovato la parte di materasso accanto a lui vuota. Si infilò le pantofole e si trascinò verso il salotto, avvertendo l’inconfondibile odore di caffè. Si affacciò stancamente sulla stanza e trovò Sherlock seduto sulla sua poltrona, intento a parlare con una seconda figura, accomodata invece sulla poltrona del medico. Quando il consulente investigativo udì i passi del coinquilino, alzò gli occhi su di lui, sorridendo. “Oh, John. Ben alzato.”
La seconda sagoma si volse e John sentì il cuore stringersi. “Ehilà, Johnny! Dormito bene?”
“Victor… Ciao. Sì, bene, grazie.” Si prese qualche istante per analizzare la situazione di fronte a cui si trovava. “Come mai da queste parti così presto?”
“Ieri sera hanno giusto concluso di scaricare i mobili. Volevo solo fare un saluto ai miei nuovi vicini preferiti!” esclamò alzandosi e andandogli alle spalle per dargli una pacca amichevole alla schiena. “E poi volevo anche invitarvi a fare un giro per Londra con me. Sherlock ha già detto che per lui non ci sono problemi. Ti aggreghi?”
John scoccò un’occhiata contrariata al coinquilino. “Diciamo che avevo altri programmi per oggi… Comunque, mi spiace, oggi lavoro fino a tardi.”
L’espressione allegra sul viso di Victor scemò via. “Che peccato… Sarebbe stata una buona occasione per passare una giornata tutti insieme. Se vuoi possiamo rimandare…”
“No, non è necessario. Voi andate pure, non preoccupatevi. Ora devo correre a prepararmi, altrimenti farò tardi. Buon 13 Aprile, Sherlock.”
Il consulente investigativo sbatté ripetutamente le palpebre. “G-grazie… Anche a te.”
Il medico sospirò profondamente prima di voltarsi per prepararsi per andare a lavoro. Anzi, per scappare a lavoro.
 
***
 
Sarah lo accolse con espressione perplessa. “John… Non ti eri preso la giornata libera oggi?”
“Lascia perdere, per favore.” rispose seccamente lui rifugiandosi nella banalità del suo studio medico, richiudendosi la porta alle spalle. La banalità gli mancava. Da quando si era innamorato di Sherlock Holmes, era un concetto completamente scemato via. Si sedette alla sua scrivania, studiando la cartella clinica di uno dei suoi pazienti, affetto da un tumore maligno al fegato. Sarebbe bastato un intervento al Barts, grazie alle recenti scoperte in campo medico, perciò scansò il fascicolo e accese il computer per fare un ordine di farmaci che si era prefissato di effettuare l’indomani. Ma, a quanto pareva, i piani erano cambiati.
Un timido bussare alla porta lo indusse a sollevare lo sguardo dallo schermo del pc. “Avanti.”
“Posso?”
John sgranò gli occhi nel vedere Mary entrare quasi timorosamente nella stanza.
“Mary...” mormorò sorridendo leggermente. “I-io… Mi fa piacere rivederti qui.”
Lei si avvicinò lentamente, tormentandosi le mani e guardandosi nervosamente in giro. “Beh… Ho pensato che era ora tornare.” commentò sedendosi compostamente davanti alla scrivania di Watson. “Insomma, non potevo certo restare per sempre a casa a oziare, no?”
“No… Però… Ecco, se hai bisogno di qualche altro giorno io lo capisco…”
Mary lo fermò con un cenno gentile della mano. “Non servirebbe, te l’ho detto. E’ finito il tempo dei piagnistei e delle domande. Ora devo riprendere in mano la mia vita.”
John la guardò con ammirazione, colpito dalle sue parole. “Sai… Non ti nascondo che… non ho la più pallida idea di che dirti se non che… ti ammiro molto per la tua forza.”
La donna sorrise di riflesso, abbassando istintivamente gli occhi, cercando di nascondere il leggero rossore alle guance. “Grazie, anche se… non è esattamente la tua ammirazione che desidero.” Quando si rese conto delle sue parole si affrettò ad aggiungere, a disagio: “Mi dispiace! Davvero, mi è scappato. Oddio…”
“Tranquilla, va tutto bene, è giusto che tu ce l’abbia ancora con me. Lo capisco.”
“No, non voglio fare l’ex acida e vendicativa… Scusa ancora.” Si prese qualche istante per riflettere, come se dovesse ponderare una domanda, l’inizio di un discorso. “Permettimi comunque di farti una domanda, John: perché? E’ dal matrimonio che non faccio altro che chiedermelo. Ho fatto o detto qualcosa che ti ha ferito, ho avuto un comportamento sbagliato… Io… Dimmelo, ti prego.”
Il tono di supplica che la donna aveva usato lo fece sentire una merda. Quanto male le aveva fatto? Non solo l’aveva lasciata, spezzandole il cuore, ma l’aveva anche illusa, portandola all’altare, e umiliandola, abbandonandola con l’abito bianco di fronte a tutti.
Si alzò e si chinò di fronte a lei, prendendo le sue mani nelle proprie. “Mi dispiace… Non è colpa tua. Tu eri… sei perfetta.”
“E allora perché? Non ero abbastanza per te?”
John vacillò sotto lo sguardo avvilito della donna a cui aveva distrutto la vita. “Sono stato uno stupido.”
“A lasciarmi o a metterti con me?”
Mary guardò il viso dell’ex fidanzato mascherarsi di stupore e sofferenza.
“Bella domanda.” pensò il medico numerando le innumerabili difficoltà che quella scelta aveva e avrebbe comportato. Ripensò a quel Moriarty, probabilmente la stessa persona che stava giocando con loro, a Victor che era irrotto nelle loro vite e si stava avvicinando sempre più e sempre più pericolosamente a Sherlock. Poi, però gli tornò in mente il loro bacio, sul tetto del Barts, la loro prima volta, la felicità che provava ogni volta che il consulente investigativo diceva qualcosa di incredibilmente stupido o di incredibilmente intelligente. Sherlock era… era il suo tutto. Ecco perché l’aveva lasciata.
“A farti del male. Avrei potuto evitarti tutto quel dolore, capire prima i miei sentimenti. Mi dispiace, Mary. Le cose sono andate così e… non c’è una vera e propria spiegazione. Solo, non ti amavo. Non come tu volevi.”
Mary prese un lungo respiro, chiudendo gli occhi, e John poté giurare che fosse sul punto di scoppiare in lacrime. Ma infine, lei riaprì gli occhi e gli sorrise. “Grazie, John. Dovevo sentirmelo dire… per voltare definitivamente pagina. Grazie.”
Si alzò, imitata da Watson, e gli accarezzò una spalla. L’ultimo contatto intimo fra di loro. Fece per andarsene quando sembrò ricordarsi di qualcosa: “Ah, buon compleanno, John.”
John sorrise, stupito che se ne fosse ricordata. “Grazie… Non pensavo che…”
“Mi ricordassi? Non mi conosci, dottor Watson.” scherzò lei infilando una mano nella tasca del cardigan grigio che indossava. “Questa è per te.” Watson le prese dalle mani una chiavetta di latta, lucida. “Ci ho messo dentro tutte le nostre foto. Sai… erano nel mio computer. Lo so che è finita, però… sono comunque stata parte della tua vita e vorrei che ti ricordassi di me, qualche volta.”
Il medico la strinse forte, ringraziandola. Aver rinunciato a quell’amore così genuino e profondo per chiunque sarebbe risultata una scelta folle. Ma non per John Watson che, ricevuto un sms da Sherlock – una volta che Mary era uscita –, venne catapultato nuovamente tra le nuvole, facendolo sprofondare nella sedia da scrivania con uno stupido sorriso sulle labbra.
 
Ci vediamo stasera. Ho una sorpresa per te. SH
(Fri, 9:29 a.m.)

 
***
 
John Watson era un uomo solido, rigoroso, dai saldi principi morali, un dottore eccellente, comprensivo, rassicurante… Eppure, tutto questo, quando si trattava di Sherlock Holmes, sembrava andare in fumo. Aveva fatto un salto dal Tesco più vicino all’ambulatorio per comprare il Merlot. Voleva assolutamente ricreare l’esatta atmosfera presente in quella splendida notte, trascorrere un compleanno indimenticabile con l’uomo che amava. Se qualcuno – da ragazzo – gli avesse detto che avrebbe provato tutto quello non tanto per un individuo del suo stesso sesso, quanto per una persona qualunque, sicuramente gli avrebbe riso in faccia. E invece, ora stava armeggiando con la chiave per aprire la porta d’ingresso, emozionato alla sola idea di avere finalmente l’occasione, dopo tanto tempo, di passare una serata con Sherlock. Fece le scale praticamente volando, ma s’interruppe a metà rampa. La sua risata. Bellissima, pura. Sherlock stava ridendo, ma… con chi? Salì gli ultimi scalini col cuore in gola, pregando una qualche entità onnipotente che non fosse come pensava. Quando sporse la testa nel salotto scorse la figura del coinquilino che, abbracciando il violino, parlava allegramente con Victor, sbracato sulla poltrona di John.
Di nuovo quel dolore. Ma perché? Perché doveva fare così male? Era sciocco: stavano… parlando. Erano amici. Ma allora perché gli occhi di Sherlock sembravano così… luccicanti? Guardò mestamente il vino che stringeva in mano, così inutile ora come ora, così latore di ricordi lontani… Che stava succedendo? Non aveva la forza di affrontare quei due, così fece per dirigersi silenziosamente nella sua vecchia stanza al piano superiore, ma la voce di Trevor lo fece sobbalzare.
“Johnny! Finalmente! Ti stavamo giusto aspettando per infornare la specialità di Sherlock. Mi ha detto che gli hai insegnato tu a cucinare.” Gli andò incontro con il suo solito sorriso che, quando i suoi occhi scorsero la bottiglia di Merlot, si fece ancora più ampio. “Hai preso il vino, grande! Adesso capisco perché hai fatto tardi. Dai, vieni, il famoso pollo arrosto di Sherlock è quasi pronto.”
Quelle parole lo schiaffeggiarono in pieno, lasciandogli l’impronta della botta. Sherlock aveva cucinato il pollo arrosto? Il pollo arrosto che lui aveva preparato per la loro serata speciale?
“Visto che non sei potuto uscire con noi stamattina ho pensato di invitare Victor a cena.” spiegò il coinquilino affiancando Victor e sfoggiando uno dei grembiuli della signora Hudson.
John avrebbe voluto saltargli addosso e sbatterlo contro il muro: come poteva essersi dimenticato del suo compleanno? Come aveva potuto pensare che avesse voglia di stare con il terzo in comodo piuttosto che con lui?
“Scusate, a dire il vero non mi sento molto bene...” sussurrò infine, distogliendo lo sguardo. “… credo di avere un po’ di febbre. Vado in camera a riposare, ma tu, Victor, puoi restare senza problemi. Buona serata.”
Trevor prese la bottiglia di vino che John gli porse quasi brutalmente e lo osservò perplesso salire le scale. “Credevo fosse questa al primo piano la sua camera. Stamattina non è uscito da lì?”
Sherlock deglutì a vuoto, irrigidendosi interamente. “La verità è che ieri la sua camera da letto era praticamente occupata dalla signora Hudson che stava pulendo. Così gli ho offerto il mio letto, dato che era molto stanco.”
“La signora Hudson fa le pulizie anche di sera?”
L’amico lo guidò in cucina per tirare fuori dal forno il pollo. “Te l’avevo detto che è strana.”
Quando tirò fuori la teglia un nuba di fumo si propagò per la stanza, facendo tossire entrambi. “Okay, forse avrei dovuto tirarlo fuori prima…”
Victor scoppiò a ridere. “Ho sempre adorato il cibo ben cotto.”
Sherlock imitò la sua risata. Una risata che in realtà gli uscì forzata. Lo sguardo quasi rassegnato di John non sembrava volerlo abbandonare. Era successo qualcosa a lavoro? Alla fabbrica?
I suoi occhi caddero sul calendario appeso al muro della cucina. Il 13 Aprile era cerchiato… Cos’aveva detto quella mattina John? Per poco la teglia non gli cadde dalle mani. Che grandissimo coglione.
 
***
 
Non sapeva da quanto si stesse rigirando nel letto, raggomitolato su se stesso nel tentativo di ricevere un po’ di calore: la signora Hudson doveva aver tolto le coperte e portate in lavanderia, pensando che tanto non sarebbero servite, almeno non per il momento. Ma non era solo il freddo che lo teneva sveglio: il suo orecchio era teso, pronto a rintracciare il minimo rumore sospetto. Sapere che Sherlock e Victor era di sotto, da soli… Perché diavolo aveva lasciato loro il Merlot?! La tentazione di scendere era devastante, ma si costrinse a resisterle, anche se non sapeva per quale motivo: se perché voleva dimostrare a se stesso di fidarsi ciecamente di Sherlock o se perché era semplicemente rassegnato al fatto che avrebbe potuto provare qualcosa per l’amico d’infanzia. L’immagine del suo fidanzato con Trevor gli fece accapponare la pelle, costringendolo a rannicchiarsi ancora di più.
“Sherlock...” chiamò dentro di sé stringendo la metà di letto vuota.
“Sherlock.” invocò nuovamente, stavolta più forte, avvertendo il bisogno lacerante di sentirlo a fianco a lui.
“Sherlock!”
Un peso improvviso e inaspettato piegò il materasso ai suoi piedi, ma non lo fece sussultare. Non provocò in lui sorpresa, timore, spavento. Solo un immenso rammarico. Nemmeno controllò chi fosse, poiché sapeva perfettamente chi era.
“John?”
La sua voce era bassa, appena un sussurro, e John avrebbe potuto giurare che sul volto di Sherlock regnasse un’espressione colpevole, pentita. Ma non aveva la forza di guardarlo negli occhi, di affrontarlo, di fronteggiare quell’emozione famelica che lo stava divorando.
“John.”
Il medico avvertì la mano dell’altro sulla propria coscia, ma la scansò con un movimento brusco della gamba. Nonostante questo, Sherlock non si arrese e di nuovo allungò le dita verso il corpo immobile di Watson che di nuovo lo allontanò.
“Mi dispiace, John.” mormorò infine il consulente investigativo stendendosi ai suoi piedi. “Sei molto arrabbiato?” John continuava a tacere, a ostentare un silenzio tombale. “John, per favore, che devo fare ancora per mostrarti che sono mortificato?”
Finalmente, il medico lasciò fluire le parole che premevano in gola per uscire. “Victor?”
“E’ andato via poco dopo che sei salito. Gli ho detto di essermi ricordato di un caso importante da risolvere il prima possibile. Abbiamo cenato in fretta, fortunatamente la signora Hudson si era premunita di preparare un pasto di riserva: sai, il pollo non è venuto un granché… Poi lui è andato via e io ho avuto il tempo per scendere e fare compere.”
Sherlock si alzò e si inginocchiò di fronte all’altro porgendogli un pacchetto rosso che conferiva a quel regalo un aspetto più natalizio che di compleanno. “Tanti auguri, John.”
John fissò con occhi vacui quella scatola così accuratamente impacchettata. “E’ passata la mezzanotte.”
Il consulente investigativo sospirò e si sedette sul bordo del letto, nel poco spazio lasciato dalla posizione fetale del coinquilino. “Mi dispiace, perdonami. E’ che… sono successe così tante cose ultimamente. Tra la morte di mio padre, Moriarty e il ritorno di Victor… mi è passato di mente.”
John sorrise mestamente. “Volevo solo passare una serata… normale con il mio fidanzato. E invece, mi ritrovo a casa questo… questo Victor che sembra una cozza più che un essere umano e… mi chiama pure Johnny…”
Sulle labbra di Holmes sfilò un sorrisetto divertito. “Allora è questo il problema: sei geloso.”
“No.” negò l’altro con tono di voce per niente convinto e che dimostrava l’esatto opposto.
“Sì, invece. Sei geloso marcio!” dichiarò l’ex inquisitore accompagnando le sue parole da un pizzicotto alla vita del coinquilino.
“No, non è vero, dai smettila!”
Sherlock scoppiò a ridere mentre continuava a solleticargli il collo, l’addome, facendolo ricadere supino sul materasso e salendogli sopra. “Dio, Johnny, sei ancora più affascinante quando sei geloso.”
John riuscì a dimenarsi e a respingerlo con un calcio delicato. Holmes non riusciva a trattenersi dal ridere interiormente alla vista di quel John Watson così fragile e corrucciato che si alzò a sedere incrociando le braccia.
“Dai, John. Posso farmi perdonare.” mormorò riavvicinandosi a lui gattonando, ma di nuovo il medico lo allontanò col piede.
“No, vai a dormire o a risolvere il caso o a fare qualsiasi cosa tu avevi intenzione di fare prima che il mio compleanno ti rovinasse la serata.”
Sherlock non si arrese e riprovò una, due, tre volte, finché le sue labbra non si poggiarono dolcemente sul collo dell’altro. “Giusto per sapere, John… cos’aveva in programma questa serata normale col tuo fidanzato?”
“Niente, a questo punto niente.” rispose seccamente Watson non riuscendo però a cacciare un’ulteriore volta il corpo dell’altro. Il consulente investigativo sorrise mentre portava le dita alla camicia rossa del medico e prendeva a sbottonarla lentamente, spostando la bocca dal suo collo al petto.
“Sei davvero sicuro?”
John mantenne una salda posizione di protesta, non arrendendosi a sua volta come non demordeva il coinquilino. “Assolutamente.”
Le labbra di Sherlock giunsero alla mascella, poi alla guancia, arrivando a un soffio da quelle di Watson.
“E’ il punto di non ritorno, dottore. Sono a sua completa disposizione.”
John cercò con tutte le sue forze di voltarsi dall’altra parte, di mostrarsi fermo nelle sue decisioni, di farsi rispettare ma… era semplicemente troppo difficile a quel punto.
“Fottuto bastardo.” sussurrò prima di unire la sua bocca con quella di Holmes che rise mentre rispondeva al suo bacio. “Idiota.” continuò il medico mentre si liberava completamente della camicia e cercava il contatto con la pelle del fidanzato. “Narcisista colossale.” infierì ancora spingendo il corpo di Sherlock verso il basso, senza interrompere il contatto delle loro labbra. “Macchina calcolatrice.”
“Sì, sì, sì.” rispose frettolosamente il consulente investigativo. “E tu parli troppo.”
“Non ho finito.” ribatté John mentre sfilava la maglia del pigiama del coinquilino. “Il fatto che stiamo facendo l’amore… non vuol dire che non sia ancora arrabbiato con te.”
“Lo so, lo so.”
“Lo sono ancora e moltissimo e te lo rinfaccerò ogni tanto.”
Sherlock non riuscì più a trattenersi e si staccò da lui, lasciandosi cadere sul materasso in preda alle risa. “Penso che tu sia l’unico essere umano a parlare così tanto in un momento del genere.”
E John gli si stese a fianco, ridendo assieme a lui. “Non mi hai dato il regalo.”
Gli occhi del consulente investigativo brillarono mentre si alzava, ancora ansimante e riprendeva in mano il pacchetto. Il medico lo scartò febbrilmente, scoprendo la custodia di un computer di ultima generazione – stando a quanto diceva la scritta sul cartone –.
“Un computer?”
Sherlock sorrise e gli scostò dal viso una ciocca di capelli. “Così la smetterai di prendere il mio.” Gli prese dalle mani la custodia e l’aprì, tirandone fuori un pc nero dal design moderno ed elegante. “L’ho preso in prestito direttamente dai laboratori informatici dell’Inquisizione. Dovrebbe essere uno dei modelli migliori in circolazione e non.”
“Quindi l’hai rubato?”
“Non farlo sembrare un crimine più grande di quello che in realtà è.” replicò tranquillamente l’ex inquisitore. “E poi non ho neanche fatto alcuna infrazione: avevo le chiavi. Ad ogni modo, ho pensato che potrebbe anche servirti per quanto riguarda la gestione della fabbrica e tutto il resto. Pensa, potresti anche aprire un blog.”
“Un blog?” ripeté divertito il medico.
“Perché no? Anch’io ne ho uno, dove elenco 243 tipi di tabacco.”
“Il mondo ne sentiva un gran bisogno.” replicò John ridacchiando e suscitando un’espressione offesa nel consulente investigativo.
“Potresti parlare dei miei casi. In questi ultimi tre giorni ne ho risolti ben cinque.”
“Così tutto il merito va a te e Greg sembra essere un pomposo arrogante che vuole sfruttarti per la risoluzione dei casi e prendersi tutti i meriti, quando sei tu a tormentarlo con questa idea del consulente investigativo.”
Sherlock alzò le mani al cielo, in segno di resa. “Come ti pare. Non aprire un blog dedicato interamente al tuo coinquilino preferito.”
John ripose il computer nella custodia che poggiò delicatamente a terra, riparata dietro il comodino. “Andiamo di sotto.”
“Perché?”
“Perché non ho voglia di spogliarmi con questo gelo, Sherlock.”
Holmes si alzò, guardandolo vittorioso. “Consulente investigativo-dottore: 1-0”
Il medico scattò in piedi afferrandogli la mano e trascinandolo giù per le scale. “Sei davvero una cosa impossibile, Sherlock Holmes.”
 
 
***
 
L’indomani fu John quello ad essere destato dal suo sonno placido e ristoratore. Quando aprì gli occhi scorse subito i ricci corvini di Sherlock ricadergli voluminosi sugli occhi dolci e caldi. Incredibile come quelle iridi potessero assumere sia un gelo glaciale sia un tepore accogliente.
“’Giorno.” mugugnò Watson sbadigliando e tirandosi su coi gomiti. “Che ore sono? Ho dormito troppo?”
“No, no, oggi è il tuo giorno libero.” lo rassicurò il coinquilino. “Ti ho preparato qualcosina da mettere sotto i denti.”
John si mise seduto, con la schiena poggiata sulla testiera del letto. “Spero che il risultato non sia come quel famoso the.”
“Onde evitare, ho ricevuto un piccolissimo aiuto dalla signora Hudson.”
“Ha fatto tutto lei.”
“Sì.” ammise infine il consulente investigativo. “Però ho portato su il vassoio. Colazione in camera.”
Il medico guardò il solito ben di Dio cucinato dalla padrona di casa, ma sentiva lo stomaco chiuso e ancora pieno di farfalle per la nottata trascorsa. “E a cosa devo il piacere di questo servizio?”
“Devo farmi perdonare.”
John addentò un pezzo di salsiccia, corrugando appena la fronte. “Mi sembrava di aver capito che mi avessi già fatto le tue scuse. Piuttosto gradite, tra l’altro.”
Sherlock arricciò le labbra, improvvisamente a disagio. “Sì, infatti… Questa è… una scusa per un’altra cosa.”
Il medico roteò gli occhi e sbuffò spazientito. “Che hai combinato, adesso?”
“Oggi è il tuo giorno libero… E sono certo avessi in programma qualcosa con me. Il fatto è che Lestrade mi ha chiamato per un caso che richiede la mia totale dedizione. Si tratta dell’omicidio di Eddie Van Coon, un importante uomo d’affari che lavora in banca e si occupa dei rapporti con Hong Kong.”
“Va bene.”
Holmes spalancò gli occhi e lo fissò per qualche secondo senza proferire parola. “Davvero?”
John gli sorrise dolcemente, sporgendosi verso di lui e strofinando il naso contro il suo. “E’ lavoro – anche se tecnicamente non ti pagano –, e so che ci tieni. Vai pure.”
Sherlock gioì, saltando sul letto e rischiando di tracimare il vassoio con tutta la colazione. Poi balzò in piedi e prese le mani dell’altro, portandosele alle labbra. “Sei fantastico. Sarei perso senza di te.”
“Mi fai sembrare il classico fidanzato possessivo che non fa altro che farti privazioni.”
“No, no, no. Sei perfetto.” ribatté l’ex inquisitore stampandogli una serie di baci affettuosi per tutto il viso. “Anzi, perché non vieni con me?”
“Sulla scena di un crimine?” fece John inarcando entrambe le sopracciglia, stupito.
“Perché no? Come il caso del tassista. Andiamo, John! E’ pur sempre un modo per stare insieme.”
“Certo, esaminare il corpo di un morto assieme è davvero romantico. Anzi, è la cosa più romantica che si possa fare.”
“Ti prego.”
Lo sguardo di Sherlock era supplicante come quello di un bambino e sciolse il cuore del medico che sospirò. “E va bene.”
 
***
 
Sherlock era annoiato. Decisamente annoiato. Era corso all’appartamento di Van Coon solo per scoprire che – al posto di Lestrade – a coordinare le indagini c’era l’ispettore Dimmock. Più idiota di Grent – o come si chiamava –. Appena lui e John erano arrivati, quel tipo aveva insinuato che il loro unico obbiettivo fosse quello di farsi pubblicità e gettare fango sull’operato di Scotland Yard. Cosa, a parere di Sherlock, ancora più allucinante, era stato la sua teoria sulla morte di Van Coon.
“Non c’è molto da indagare.” aveva sentenziato con l’aria di uno che la sa lunga. “Si è trattato di un suicidio. Mi sembra evidente.”
Inutile dire che aveva accampato spiegazioni illogiche basate sul solo fatto che la vittima era stata trovata con in mano una pistola e un foro alla tempia destra. Destra, accorgimento che non era sfuggito al consulente investigativo che aveva deliziato i presenti con le sue delucidazioni sul fatto che Van Coon fosse mancino per una serie di cose – il telefono sulla destra, sintomo che teneva la cornetta con la destra e prendeva eventuali appunti con la sinistra; le tazzine, tutte rivolte col manico a sinistra; il coltello col burro sul lato sinistro piuttosto che sul destro –, portando così all’esclusione dell’ipotesi di un suicidio.
Ora, lui e John sedevano tranquillamente al tavolo di un bar squallido, intenti a consumare il loro pasto.
“Mi fa piacere vederti mangiare, una buona volta.” osservò soddisfatto il medico mentre addentava il suo panino.
“Dover condividere le mie conoscenze con quell’idiota di Dimmock mi ha fiaccato. Era così evidente che non potesse trattarsi di un suicidio.”
Watson emise un profondo sospiro. “Sherlock, lasciatelo dire… Tu sei al di sopra del medio quoziente intellettivo. Noti cose che nessuno nota, fai deduzioni strabilianti che a te sembrano elementari ma che agli occhi di noi persone ordinarie sono semplicemente incredibili.”
L’angolo destro della bocca di Sherlock guizzò verso l’alto, chiaramente compiaciuto delle lusinghe del fidanzato. “Perché pensi che tu sia una persona ordinaria?”
John scrollò le spalle. “E’ ciò che sono, Sherlock. In confronto a te… io non sono nessuno.”
Holmes fece per controbattere, ma la notifica di un telefono lo precedette, rispedendo le sue parole in gola. Affondò la mano in tasca, incontrando le superfici di due cellulari: non si separava mai da quello rosa. Era diventato parte di sé. Non ne aveva mai parlato con John, ma certe volte lo posava sul tavolo, davanti a sé e restava a fissarlo per ore, nell’attesa di una dannata chiamata o di un maledetto messaggio, i quali, però, non arrivavano mai. Non fu il telefono rosa a prendere, ma il suo personale, su cui lesse un sms di Victor.
 
Hey, Holmes, che stai facendo? V
(Sat, 12:08 p.m.)
 
Digitò la risposta con un mezzo sorriso, frettolosamente.
 

Sto risolvendo un caso. SH
(Sat, 12:08 p.m.)
 
E sono circondato da completi idioti. SH
(Sat, 12:09 p.m.)
 
John è con te? V
(Sat, 12:09 p.m.)
 
Sì, perché? SH
(Sat, 12:09 p.m.)
 
Consideri anche lui un’idiota? V
(Sat, 12:10 p.m.)
 
No, certo che no. E’ l’unico non idiota qua attorno. SH
(Sat, 12:10 p.m.)
 
Ti ringrazio, Holmes! Vent’anni passati assieme e non mi ritieni degno della tua suprema intelligenza. V
(Sat, 12:10 p.m.)
 
Saresti venuto comunque a saperlo, prima o poi. Non volevo ferirti, mi spiace. SH
(Sat, 12:10 p.m.)
 
Oh, non importa. Credo che prima o poi, qualunque essere umano sia stato costretto ad affrontare la dura verità di essere inferiore al grande Sherlock Holmes. V
(Sat, 12:10 p.m.)

 
John si schiarì teatralmente la gola, cercando inutilmente di attirare l’attenzione di Sherlock. “Chi è?” chiese infine scocciato.
“Ah, ehm… Lestrade.”
“Ti ha scritto qualche barzelletta?” Incoraggiato dallo sguardo confuso di Holmes, il medico continuò: “Stavi sorridendo. Qualcosa di divertente?”
“Oh, no. Cioè, sì. Stavamo semplicemente conversando a proposito dell’idiozia di Dimmock.”
Era strano, ma John sapeva che gli stava mentendo. Lo vedeva dagli occhi che saettavano febbrilmente per il locale pur di non incontrare il suo sguardo, lo percepiva dal tono leggermente in falsetto, lo avvertiva dalla genuinità del suo sorriso. Greg non sarebbe mai stato capace di farlo sorridere in quel modo così spontaneo e completamente perso.
Per la seconda volta, nel locale risuonò il suono della notifica di un telefono, diversa dal primo. Gli occhi di Sherlock, prima intrisi di leggerezza, si oscurarono e la sua mano si tuffò alla ricerca del cellulare rosa che aveva vibrato per un paio di secondi nel tessuto del cappotto. John si sporse appena verso di lui, trattenendo il fiato mentre il coinquilino apriva il messaggio inviato da un numero sconosciuto.
Bip… bip… bip… bip…….
“Oh…” mormorò solo l’ex inquisitore una volta visualizzato l’sms e si alzò, lasciando il medico fermo al tavolo, basito.
“Sherlock!” gli urlò quello dietro ghermendo alcuni inquisizi – la nuova valuta del Paese – e pagando al gestore anche più del dovuto, senza esigere il resto per non perdere di vista il coinquilino. “Sherlock!” ruggì di nuovo attraversando la strada e afferrandogli un lembo del cappotto. “Cosa dice il messaggio?”
“Devo essere solo.” si limitò a rispondere Holmes, riprendendo il cammino verso il parcheggio dove aveva lasciato l’auto. “Tu prendi un taxi e tornatene a Baker Street.”
John non demorse e lo tirò bruscamente verso di sé per la stoffa nera. “Cristo, Sherlock, dimmi che sta succedendo.”
“Va’ a casa.”
“No.” rispose lapidario il medico. “Non ti lascio andare da solo… dovunque tu debba andare e qualunque cosa tu debba fare.”
“Lo dice lui.” controbatté il consulente investigativo mostrandogli il messaggio.
 
All’ambulatorio del tuo dottore, adesso. Lascia indietro il tuo cucciolo. Il suo posto non è accanto a te.
(Sat, 12:15 p.m.)

 
“Non puoi davvero permettere…”
“Lasciami solo, John. Non ti riguarda.” gli ordinò acidamente Sherlock prima di prendere posto sul sedile del guidatore.
“Tu credi, Sherlock? Con molta probabilità c’è un altro di quei poveretti che sono scappati in pericolo. Poveretti che, ti ricordo, erano sotto la mia protezione. Come fa a non riguardarmi?”
Holmes chiuse la portiera e mise in moto, ignorando le parole del fidanzato che si era attaccato allo sportello e sembrava irremovibile sullo scansarsi.
“Sherlock!”
“Hai detto bene. Erano sotto la tua protezione, poi hai lasciato che se ne andassero. Non è più una questione riguardante te. Fatti da parte.”
Gli occhi di John vennero avvolti dall’orrore: che cosa gli era preso? Come… come aveva potuto dirgli quelle cose? Avvertì come se le sue forze fossero state risucchiate via da qualcosa di grande, di prorompente. Fu come se le gambe fossero più deboli… molto più deboli. Guardò impotente la macchina di Sherlock partire alla velocità della luce e sparire ad una traversa. L’aveva abbandonato. L’aveva davvero abbandonato. Era una sensazione peggiore di quella che aveva provato quando aveva capito che sua sorella non sarebbe tornata, che l’aveva ferita a tal punto da averle fatto scegliere la fuga da tutto ciò che era sempre stata, lui compreso. Si sentiva uno stupido: se ne stava lì, come un idiota, in mezzo ad un parcheggio deserto, con un vuoto sconfinato all’altezza del petto.
Doveva andarsene. Sì, tornare al 221B, dove avrebbe trovato ad aspettarlo Sherlock che col suo solito sguardo impertinente gli avrebbe detto qualcosa come dove ti eri cacciato, John? Mi sto annoiando, fa’ qualcosa!
Mosse un passo ma percepì qualcosa di… diverso. Come se la sua gamba destra non rispondesse perfettamente ai suoi comandi, come se si rifiutasse di sottostare agli ordini di un ordinario medico che non aveva nulla a che vedere col mondo straordinario di Sherlock Holmes. Cercò di ignorare quella sensazione e raggiunse nuovamente la strada principale dove fermò un taxi e indicò all’autista come meta Baker Street.
Si sedette sospirando e allungando istintivamente la gamba destra quanto il sedile anteriore gli consentiva. L’autista aveva appena impostato sul navigatore Baker Street quando il cellulare di John vibrò.
 
***
 
A pochi metri dall’ambulatorio, Sherlock rimase imbottigliato in una coda vertiginosa che si prospettava infinita. E lui non aveva tempo da perdere. Spense il motore e balzò giù dalla vettura fregandosene degli urli sguaiati della gente attorno a lui, ma quando un agente di polizia gli si parò davanti fu costretto a fermarsi.
“Dove crede di andare?”
“Guardi,” cominciò tranquillamente l’ex inquisitore. “se c’è qualche multa da pagare questa è la carta di credito. Non ha neanche bisogno di presentarmi una ricevuta fiscale, può prendere tutto il denaro che vuole, ma ora devo andare.”
Il vigile era così scioccato che restò paralizzato mentre Sherlock lo superava correndo, macinando la poca distanza che lo separava dalla sua destinazione. In lontananza, scorse un manipolo di persone indignate assiepato di fronte all’entrata dell’ambulatorio. Si fece strada in quella folla a suon di gomitate, finché non arrivò di fronte alle guardie dell’Inquisizione che presidiavano l’accesso allo studio medico.
“Che succede?” domandò ai due inquisitori che lo squadrarono sospettosi.
“L’ambulatorio è chiuso. Ordini superiori.”
“Ci deve essere un errore. Ordini superiori richiedono la mia presenza qui.”
Le due guardie si scambiarono uno sguardo d’intesa. “Lei è Sherlock Holmes?” Il consulente investigativo annuì, sorridendo appena. “La stavamo aspettando.”
Gli inquisitori si scansarono per lasciare il passaggio libero ad Holmes per poi richiudere il varco, respingendo la massa protestante.
Sherlock entrò con le mani giunte poco distanti dalle labbra. Interessante: quegli ordini superiori coincidevano per lui e per gli inquisitori e, a meno che questi non fossero stati corrotti – ipotesi scartabile dato che ai membri del Governo non mancava certo denaro –, voleva dire che l’Inquisizione era immischiata appieno in quel gioco. Che quel Moriarty facesse parte dei piani alti? Ne avrebbe di certo sentito parlare al funerale di suo padre, fra le tante ciarle degli inquisitori… Suo padre. Suo padre aveva menzionato un problema d’importanza nazionale e forse anche estera. Aveva fatto riferimento a… qualcuno assetato di potere, uno sciacallo pronto a salire al governo al suo posto accanto al fratello. Poteva essere che fosse proprio il dinamitardo la persona a cui Siger Holmes si riferiva?
Il cellulare rosa che stringeva in mano vibrò e sul display venne proiettata la schermata di una chiamata da un numero sconosciuto.
“Pronto?”
“H-hai… fatto bene… ad allontanarlo. Suppongo che funzioni così… quando si ama qualcuno: si teme più per l’incolumità dell’altra persona che per la propria… Vomitevole.”
“Hai rubato un’altra voce.”
Stavolta, la voce dall’altro capo era maschile, giovanile e tremendamente terrorizzata. “L’hai scacciato… per il suo bene. Ma sei sicuro che ti seguirà in eterno? La strada è irta… di insidie. Potrebbe stancarsi di… correrti dietro come un cagnolino o potrebbe inciampare e… non rialzarsi.”
“Lascialo fuori!” tuonò Sherlock stringendo il telefono a tal punto che dovette subito allentare la presa per evitare che si frantumasse nella sua mano.
“E’ un gioco, mio caro… E John è un giocatore… tanto quanto me e te.” Dalle labbra dell’ostaggio fuoriuscì un gemito strozzato. “Ma ora basta… parlare. Va’ nello studio del tuo dottore preferito e… e goditi la scena.”
Holmes corrugò la fronte e volse lo sguardo in direzione della porta grazie a cui, anni prima, era entrato a contatto con John, una lontana mattina di Novembre, per ragioni sbagliate, affatto conscio di quello che sarebbe successo.
Entrò lentamente, guardandosi intorno con circospezione, come se qualche arma mortale incombesse su di lui, ma l’unica cosa degna di nota nella stanza era lo schermo del computer su cui dominava l’immagine di un salotto. Un salotto che conosceva molto bene.
“Voglio proprio vedere, Sherlock… che cosa accade alle persone normali quando… vedono la persona che amano con un’altra persona.”
“Che vuoi…”
Le sue parole vennero interrotte dal trillo di un campanello e istintivamente si guardò intorno, cercando la fonte di quel suono; quando nel salotto ripreso fece capolino la figura di una donna, diretta verso la porta d’ingresso, capì ogni cosa. E quando John comparve all’interno dello schermo del computer, il suo cuore perse un battito.
 
***
 
“Che ci fai qui?” domandò Mary tirando su col naso e asciugandosi una lacrima che brillava al lato del suo occhio.
John restò in silenzio per qualche istante, dondolandosi a disagio sulle punte dei piedi, intimorito da quel dolore tangibile sul volto della donna. Il suo sguardo cadde sull’ammasso di scatole e scatoloni che occupavano l’intero ambiente del salotto. “Traslochi?”
La donna si voltò appena, seguendo il suo sguardo. “Già… Non ce la facevo più.”
“Ti capisco, anzi… credevo avessi già cambiato casa.”
“Avevo fatto un patto con me stessa… Mi ero detta che potevo farcela, che potevo cominciare a costruire qualcosa di nuovo dalle macerie del vecchio…” Una debole lacrima sfuggì al suo controllo, ferendole amaramente la gota candida. “…E invece sono molto meno forte di quello che credevo…”
Il medico fece un passo avanti e allungò una mano verso di lei, per scacciare da quel viso distrutto quella dolorosa goccia d’acqua, ma l’infermiera si sottrasse a quel contatto così distruttivo.
“Che cosa vuoi?” domandò con voce debole, stremata, supplice. “Che cosa vuoi ancora da me, John?”
John stava per parlare, per confortarla in qualche modo, ma la realtà incombente gracchiò nel suo orecchio, distogliendolo brutalmente da quella visione per lui così dolorosa. “Perdonami, Mary… Ma devi dirlo. Dirmi che cosa provi per me, se c’è rimasto ancora qualcosa di quel sentimento che sentivi prima di… tutto.”
Mary scoppiò a ridere, di una risata stonata, isterica. “Hai voglia di scherzare, spero.”
“Lo so, Mary. Mi dispiace. Solo… Dillo.”
Lei scosse violentemente la testa e si voltò dall’altra parte, premendosi le mani sugli occhi.
“Mary…” mormorò impotente il medico prendendole spalle e costringendola a girarsi e guardarlo negli occhi.
“Che cazzo vuoi che ti dica ancora!? Ti ho detto quello che provo a quel fottuto matrimonio! E tu l’unica cosa che sei stato capace di rispondermi è stato non posso! Come credi che mi sia sentita, eh!? Con tutti quegli invitati del cazzo che mi si stringevano attorno, soffocandomi, quando l’unica persona che avrei voluto accanto era appena scappata!”
“Mary, ti prego. Ti chiedo perdono, mi dispiace, ma devi dirlo.”
Mary lo spintonò lontano da lei, rivolgendogli un’occhiata di fuoco. “Mi dispiace! Sai dire soltanto questo! Io non le voglio le tue scuse, John! Io voglio il tuo amore!”
Il tempo scorreva. Granelli di sabbia che ruzzolavano da una parte all’altra di una clessidra. Secondi, minuti che sfumavano lentamente conducendo inesorabilmente ad una catastrofe.
“Mary.” ripeté, stavolta con tono fermo e sicuro, prendendola per le spalle e schiacciandola ad una parete. “Dillo ora.”
Mary lo fissò con occhi grandi di meraviglia e… quel sentimento così infido. Sembrò quasi sul punto di cedere, ma si costrinse a scuotere debolmente la testa. “Dillo tu per primo.”
John assunse un’espressione stupefatta. Dirle… dirle quelle cose che non le aveva mai detto neanche quando stavano insieme? Quelle cose che aveva detto solo una volta nella sua vita – a una persona sola? Alla stessa che l’aveva abbandonato in mezzo ad un parcheggio deserto, sputandogli addosso accuse, allontanandosi sempre più di lui?
“Mary…”
“No, John. Dillo e basta.”
Watson restò immobile immergendo il suo sguardo da cane bastonato in quello ferito di lei, così bella e sicura anche nelle sue fragilità. Il suo orecchio registrava i secondi che scorrevano alla rovescia, prorompenti come latrati di fucili. “Mary, io…” La guardò un’ultima volta, cercando la forza di dirlo, di farle del male. Perché era quello che sarebbe successo. L’avrebbe ferita. Di nuovo. “Ti amo.” mormorò di getto, a malapena udibile e si chiese se fosse sufficiente, se sarebbe riuscito nel suo intento o se il conto alla rovescia avrebbe scoccato il rintocco della morte. “Ti amo.” ripeté allora, stavolta con disperazione, pregandola con lo sguardo.
Mary avvicinò il volto al suo, in modo che i loro nasi si strofinassero appena. “Ti amo, John.” sussurrò sulle sue labbra prima di congiungerle alle proprie, rapendo il respiro dell’altro. John non ricordava come fosse baciare Mary, di che cosa sapesse la bocca di una donna, la sua pelle a contatto con la propria. Per un istante la lasciò fare, intontito da tutto quello che stava accadendo, dalla consapevolezza che ce l’aveva fatta e che al contempo non ce l’aveva fatta. Per un istante, solo per uno… si chiese se non fosse quella la vita che meritava: una donna che lo amava con tutta se stessa, che si ricordava del suo compleanno, che non metteva in pericolo la sua incolumità…
La spinse dolcemente via, studiando con somma sofferenza l’espressione smarrita sul volto di lei. “Che c’è?”
E tutto quello che riuscì a proferire fu un flebile e maledetetto: “Mi dispiace.”
Due parole piccole, semplici, banali. Due parole in cui Mary lesse tutto ciò che c’era da leggere. “Bastardo…” sussurrò mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. “Bastardo…” iterò avvicinandosi di nuovo a lui e sferrandogli uno schiaffo poderoso. “Bastardo…” disse mentre lo spingeva verso la porta sferrando pugni e colpi alla cieca, con lacrime gonfie di dolore che scorrevano sulle sue guance. “Bastardo!” urlò mentre le dita di John le si chiudevano attorno ai polsi, immobilizzandole le mani. “Bastardo.” singhiozzò abbandonandosi a lui, crollando senza forze a terra, scossa dai singulti.
Lui le cinse il corpo tremante con le braccia, stringendola forte a sé. “Perdonami, Mary. Non era mia intenzione farti del male, te lo giuro. Te lo giuro.”
Ma quelle parole, invece che calmarla, le scaricarono addosso la frustrazione necessario per farla balzare in piedi e allungare un braccio verso il vaso dove, tanto tempo prima, aveva poggiato delle rose rosse, regalate proprio da John. Lo sollevò, alto sulla sua testa, senza smettere di piangere lacrime di rabbia e di umiliazione. “Vattene.” sibilò tremando. Watson provò a muovere un passo verso di lei, ma Mary scagliò il vaso a un soffio dal volto di lui. “Vattene!” urlò senza più ritegno. E solo allora John si decise a voltarsi e ad andarsene.
 
***
 
 
Baker Street era avvolta nelle spire del silenzio. Anche il 221B era stranamente taciturno. Solitamente brulicava degli spari di Sherlock contro il muro, delle sue urla contro qualche povero disgraziato, dei suoi sproloqui quotidiani, dei suoi monologhi senza capo né coda… Ma quella sera il 221B taceva. Sherlock taceva.
John superò l’ultimo gradino come l’unico ostacolo che divide un corridore dal traguardo. Anzi, no. Non c’era adrenalina, non c’era speranza di raggiungere la fine della pista, non c’era niente di niente. Solo un vuoto immenso.
“Oh, John. Bentornato.”
Il medico neanche si voltò verso Sherlock e proseguì verso la cucina, per prendersi un bicchiere d’acqua. No, Sherlock non poteva capire. Sherlock non avrebbe mai capito.
“Sai… Ho saputo quello che hai fatto. Insomma… sei stato bravo. Lestrade mi ha chiamato poco fa informandomi che gli artificieri hanno neutralizzato gli esplosivi sull’ostaggio. E’ tutto merito tuo.”
Watson ingoiò in un sorso tutta l’acqua, ignorando le parole dell’altro. Se Sherlock credeva che aveva già dimenticato il pezzo che gli aveva fatto quel pomeriggio, si sbagliava di grosso. Si trascinò fiaccamente verso la camera al piano di sopra, sperando che la signora Hudson avesse ritirato lenzuola e coperte dalla lavanderia.
“Dove vai?”
“A letto, ho avuto una giornata difficile.”
Holmes deglutì a vuoto e si alzò dalla poltrona, camminando frettolosamente verso di lui. “Se è per quello che ho detto prima, ecco, io…”
“Non ti scomodare a dirmi che ti dispiace, non serve. Spero che tu e quel pazzo vi stiate divertendo.” lo bloccò freddamente.
“Credi che io mi stia divertendo, John?”
“Sì, Sherlock. Lo vedo dal modo in cui aspetti un segno di vita da questo… questo folle. Lo vedo da come cambi espressione quando ti arriva una foto o una chiamata. E’ diventata la tua unica ragione di vita o quasi.”
Sherlock sorrise, scioccato. “Che cosa te lo fa pensare?”
John si appoggiò allo schienale della sua poltrona. “Ci sono delle vite in gioco, Sherlock! Vite di gente reale! Tanto per sapere, ti importa vagamente?”
“Preoccuparmene mi aiuterà a salvarle?” replicò distaccato il consulente investigativo, congiungendo le mani sotto il mento.
“No.”
“Allora continuerò a non commettere quell’errore.”
“E lo trovi facile, giusto?”
“Sì, molto.”
Quelle parole caddero tra loro rimbombando. John scosse la testa con rassegnazione e fece per andare in camera sua, ma la voce di Sherlock lo trattenne. “Ti ho deluso, vero?”
“Bravo, è una buona deduzione.” rispose aspramente il medico.
“L’incontro con Mary deve averti spiazzato. Chissà, forse in fondo ti sei reso conto che il dinamitardo ti ha portato a fare soltanto ciò che tu volevi fare. Ho visto le vostre foto, belle. Cos’è, hai avuto un ripensamento?”
John scattò verso di lui e nel farlo urtò con la gamba destra la sedia del tavolo da pranzo, facendola rovesciare a terra e creando uno schiamazzo frastornante. “Se è questo che pensi di me allora sai che c’è, Sherlock?” sibilò a un soffio da lui, con espressione dura. “C’è che non hai la minima idea di chi io sia. Riesci a immaginare come stia adesso quella donna? L’ho illusa portandola all’altare, l’ho umiliata lasciandola davanti a tutti gli invitati, le ho ridato una speranza a causa di questo stupido gioco che come scopo ha soltanto quello di rovinare la vita alle persone. Sono un mostro, Sherlock. Un mostro. Ecco perché sto così, ecco perché non riesco a… divertirmi come fate tu e il dinamitardo.” Si allontanò da Holmes guardandolo glaciale un’ultima volta. “La prossima volta che dici che tutto questo non mi riguarda, ricorda quello che ho fatto oggi. Ho salvato una vita, è vero, ma ne ho distrutto un’altra.”
E senza aggiungere altro salì, zoppicando leggermente.
 
***
 
Sherlock si buttò sul letto con un sospiro. Quella sera non sarebbe salito, no. L’aveva capito dal tono di voce di John, dal suo sguardo, dal modo in cui gli si era avvicinato, quasi minaccioso. Quella sera non sarebbe riuscito a ricongiungersi a lui neanche se l’avesse voluto. Perché, da un lato, non voleva. Insomma, lo infastidiva il fatto che John non lo accettasse per quello che era. In quegli anni, era cambiato tanto solo per lui, per renderlo felice e per essere degno del suo amore, ma ora… Ora si sentiva come intrappolato dalla rete di quell’amore che ormai sembrava strattonarlo più che spingerlo a dare il meglio.
Cosa credeva, che per lui fosse stato facile guardarlo dichiarare il proprio amore, anche se finto, ad un’altra persona? La verità era che… Che fino all’ultimo non aveva capito quello che stava succedendo. Non aveva fatto caso all’auricolare, agli sguardi fugaci di Watson in direzione della telecamera grazie a cui lui stava osservando la scena, alle pretese insensate del medico nel sentirsi dire quel ti amo. John Watson era il suo tallone d’Achille, lo rendeva vulnerabile ad ogni fattore esterno, fragile. Solo dopo che aveva guardato lui e Mary baciarsi, avvertendosi dentro una lacerazione profonda, la voce dell’ostaggio gli aveva confessato che quella prova riguardava anche e soprattutto John. Che il dinamitardo, attraverso la voce del secondo Incompleto scappato dalla fabbrica, aveva contattato anche il coinquilino, obbligandolo a strappare quella dichiarazione prima che il conto alla rovescia scadesse, causando l’esplosione del materiale addosso all’ostaggio. Una volta che Watson se n’era andato dalla casa di Mary, Hanry Williams, l’Incompleto che fino ad allora aveva parlato sotto indicazioni altrui, lo aveva richiamato, implorandolo di venire a prenderlo e di trovare sua zia, cieca, anche lei rapita dal dinamitardo. Era bastato avvisare Lestrade come aveva fatto per la signora Camilla che, al sicuro nella fabbrica, ancora aspettava di abbracciare suo figlio piccolo.
Ma quella reazione da parte di John proprio non se l’era aspettata. E ancora le parole del fidanzato gli echeggiavano in testa, logorandolo. No, stavolta non sarebbe stato lui a strisciare ai piedi dell’altro, chiedendogli perdono. No.
Si rigirò nel letto per quelle che gli sembrarono ore che in realtà corrispondevano a pochi minuti. Non capiva che gli stava succedendo. Aveva bisogno di qualcosa, di… qualcuno.
Afferrò meccanicamente il proprio cellulare, senza far neanche caso a quello che stava facendo. Digitò il numero alla svelta, anche se lo aveva salvato nella rubrica e attese.
“…Sherlock?” La voce di Victor era strascinata, impastata di sonno.
“Ciao, scusa se chiamo a quest’ora.”
“…Fa’ niente, tranquillo. E poi non stavo dormendo. Solo gli anziani dormono a quest’ora.”
Sherlock sorrise al suono di un plateale sbadiglio. “E’ l’una e mezzo di notte, Vic.”
“Appunto! Abbiamo ancora tutta la notte a disposizione per… dormire? Dio, Sherlock, ma tu almeno sai che cosa vuol dire dormire?”
“Dormire è noioso.” ribatté semplicemente il consulente investigativo, appallottolandosi nelle coperte calde e scacciando il pensiero di John che, al piano di sopra, avrebbe anche potuto star gelando in quel momento.
“Va tutto bene?”
“Sì, perché me lo chiedi?”
Victor sbadigliò ancora. “Non so, sei solito chiamare nel cuore della notte poveri cittadini che dormono beatamente?”
“Di solito sveglio John.” farfugliò tristemente l’ex inquisitore osservando il soffitto e immaginandoselo dolcemente assopito, bello.
“Avete litigato?” domandò ancora Trevor.
“No, noi non… perché pensi che abbiamo litigato?”
L’amico sospirò. “A meno che tu non abbia deciso di sostituirlo con me, cosa che ritengo assai improbabile, deve per forza essere successo qualcosa tra voi se hai deciso di svegliare me e non lui.”
“Perché assai improbabile?”
“Eh?”
“Hai detto a meno che tu non abbia deciso di sostituirlo con me, cosa che ritengo assai improbabile. In che senso?”
“Ma in nessun senso, Sherlock!” rispose Victor alzando la voce. “L’ho detto così, tanto per dire. Sembrate ottimi amici, tutto qui.”
“Lo siamo, infatti.”
“Bene, buono a sapersi. Ma se non avete litigato, perché stai parlando con me e non con lui?” insistette Victor.
“Per nessun motivo particolare. Avevo voglia di… sentirti. Tutto qui.”
L’amico tacque per qualche istante, infine esclamò: “Misurati la febbre. Anzi, chiama direttamente John, che è medico.”
Quel commento che voleva essere innocente, ironico, buttato lì per alleggerire l’atmosfera, provocò in Sherlock una rottura. “E va bene! Visto che pare che tutti mi consideriate uno stronzo senza sentimenti vi asseconderò, contenti?”
E buttò giù, senza attendere la risposta dell’amico. Nei minuti successivi il telefono squillò diverse volte, ma Holmes lo ignorò, masticando le parole di John e quelle di Victor. Perché tutti lo credevano una macchina fredda? Lui non era così. Non era così.
La notifica di un messaggio lo costrinse a voltarsi. Si immaginò, fuori da ogni logica, che fosse John, che gli chiedesse scusa per quello che aveva detto e che gli chiedesse di raggiungerlo di sopra, per prenderlo fra le proprie braccia e scaldarlo. Ma l’unico messaggio che gli era arrivato proveniva da Victor.
 
Ehi, amico, mi dispiace, non intendevo ferirti. Mi ha fatto semplicemente strano sentirti dire quelle cose così diverse da quelle che avrebbe detto lo Sherlock di una volta. Non fraintendermi, mi piaci molto di più ora. Se non hai voglia di parlare lo capisco, ma sappi che io sono qui per te. V
(Sat, 1:38 a.m.)

 
Sherlock lesse e rilesse quell’sms così semplice eppure così bello. Si sentì uno stupido per aver trattato l’amico in quel modo. Non se lo meritava. Forse, John aveva ragione e lui stava come al solito distruggendo una delle cose belle che gli era capitata tra le mani. Poteva tollerare di perdere Victor, ma non John. Senza John, lui non era niente, solo un corpo in stato vegetativo che respirava ma non viveva. Che peso amare qualcuno…
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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