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Autore: Adeia Di Elferas    19/01/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Niccolò Machiavelli si rimise a sedere subito. Aveva guardato distrattamente fuori dalla finestra del suo ufficio, o meglio, dalla stanzetta umida che lui chiamava orgogliosamente 'ufficio', ma poi aveva deciso di rimettersi a scrivere, prima che arrivasse il suo superiore.

Avrebbe potuto adempire a quel dovere privato standosene a casa, ma preferiva usare carta e inchiostro della Repubblica. In fondo, era un suo dipendente e come tale non veniva mai rispettato come si sarebbe dovuto.

Il vociare che lo aveva indotto a guardare fuori arrivava solo da un gruppo di Piagnoni che aveva preso a scudisciate una donna che, a detta loro, vagava per la strada in abiti troppo succinti.

Come potesse essere così, dato che si era in dicembre, Niccolò non lo capiva, ma la distrazione aveva perso immediatamente interesse, nel vedere che erano coinvolti i fanatici di Savonarola.

Con uno sbuffo, Machiavelli si passò una mano nel ciuffo di ricci ribelli che gli si erano di nuovo rizzati sulla testa e, cercando di ritrovare la calma, cominciò a scrivere.

Era una lettere di media lunghezza, o almeno così l'aveva pensata, destinata al Cardinale Juan Lòpez, affinché finalmente riconoscesse di nuovo il possesso della Pieve di Fagna alla famiglia Machiavelli.

Gli ultimi eredi dei Pazzi, che ricominciavano a gravitare attorno a Firenze, scampato il pericolo della furia non solo del Magnifico, ma anche del suo erede che era ancora esiliato, avevano cercato di allungare le mani, pretendendo quella Pieve per loro.

Niccolò aveva deciso di calcare la mano sul fatto che quella terra era stata dei suoi avi e che dunque nessuno meritava più di lui e dei suoi familiari di riottenerla.

Lòpez era notoriamente un tipo facile da convincere coi soldi, cosa per il giovane segretario impossibile. Poteva solo sperare di vincerlo con le parole. Almeno con quelle, sapeva di essere secondo a pochi.

Con la penna ancora a mezz'aria e sulla pagina la frase a metà – 'Non ci vogliate pel contrario di tanta ignominia segnare, con grandissimo nostro disnore, se la vostra clemenza non ci si interpone, conviene si perda...' – Niccolò sobbalzò di scatto quando il suo superiore, entrato senza far rumore nel loro bugigattolo chiamato ufficio, gli diede una sonora pacca sulla spalla esclamando: “Oh, Macchia! Sempre a lavorare!”

Machiavelli incassò senza lamentarsi, ma la chiazza di inchiostro lasciata sul foglio condannava quella lettera a essere solo la brutta copia di quella che avrebbe spedito al Cardinale.

L'occhio del superiore aveva sbirciato la pagina e, capendo subito che non si trattava di cose di Stato, diede un secondo scapaccione a Niccolò, molto più forte e severo: “Le tu' cose falle a casa!”

Quel gesto, gratuito e sgraziato, al ventottenne quello che molti anni addietro il suo precettore era solito fargli.

Chiuse un momento gli occhi, per placare la tempesta della sua anima. Suo padre aveva allontanato presto il suo maestro, quando aveva capito quello che gli faceva, ma non abbastanza.

Stringendo con forza i denti, quasi fino a farsi male, Machiavelli lentamente si alzò, prese il suo foglio irrimediabilmente macchiato, e, con un mezzo inchino, lasciò l'ufficio, incurante delle grida oltraggiate del suo superiore.

“Ce n'è tanti come me – ebbe solo la capacità di dire, appena prima di varcare la soglia – che passa l'ore d'ufficio in taverna. Ecco, oggi lo faccio anche io.”

 

Caterina era uscita prestissimo per andare nei boschi. Giovanni aveva provato dapprima a opporsi, molto debolmente, mettendo la scusa del brutto tempo davanti alla paura per il bambino che sua moglie portava in grembo, e poi, in un secondo momento, aveva tentato di offrirsi ad andare con lei.

Le aveva anche citato la Casina, ma la donna aveva rifiutato in modo abbastanza secco, dicendo che aveva voglia di starsene un po' da sola.

Così il Medici, armandosi di pazienza come ormai si era abituato a fare, l'aveva guardata partire e non aveva potuto far altro che starsene alla rocca, pregando che tornasse presto e incolume.

Sul forlivese si stava spandendo una nebbia ghiacciata che non prometteva nulla di buono. In terra c'era ancora un po' di neve, ma la cosa più fastidiosa restava la fortissima umidità.

Di quel passo, dicevano certi contadini, il raccolto sarebbe stato catastrofico, visto che già molto colture si stavano rovinando.

La Sforza aveva preso quell'ipotesi come una sfida personale del fato. Le pareva un accanimento del caso, infatti, proprio in quell'inverno in cui sentiva di aver ritrovato un certo equilibrio, per quanto precario.

Era ancora prima mattina, quando la Contessa si trovò a cavalcare a spron battuto dalle parti del confine con Faenza.

Aveva pensato molto, in quegli ultimi giorni. Aveva ripensato parecchio alla sua situazione, a quella del suo Stato. Aveva anche ripensato ad Anna Maria, al modo in cui le era stato riferito che fosse morta e alle possibili implicazioni di uno scioglimento di alleanze tra Milano e Ferrara.

E più di ogni altra cosa, contro la sua volontà, si era ritrovata a ripensare molto di frequente a Giacomo.

Probabilmente la colpa, se così la si poteva chiamare, era di Bernardino che, negli ultimi tempi, aveva cominciato a cercarla sempre più spesso, pretendendo, senza mai cercare realmente di imporsi, la sua compagnia e la sua approvazione.

Il bambino, sempre di più, assomigliava al padre. Benché avesse innegabilmente anche qualcosa di Caterina, il modo in cui si atteggiava e spesso le espressioni che faceva erano per la Sforza una pugnalata, ogni singola volta.

Trovarsi davanti quel vivo ricordo di Giacomo quotidianamente l'aveva portata a non trovare pace nemmeno quando stava sola con Giovanni.

Anche quella notte – e questo era stato il vero motivo che l'aveva portata a prendere un cavallo all'alba per andare a galoppare in mezzo ai boschi – mentre era con suo marito, stretta tra le sue braccia, le labbra sulle sue e il suo corpo caldo sotto di lei, c'era stato un momento, una frazione di secondo appena, in cui aveva dimenticato chi era l'uomo che stava amando.

Si era resa conto in fretta del proprio smarrimento e il modo in cui aveva cercato di tornare presente a se stessa non era sfuggito al Medici che, però, aveva tentato di far finta di niente, com'era successo la prima volta.

Tuttavia, quel brevissimo attimo le era bastato per non chiudere più occhio, nemmeno quando anche suo marito, stanco e appagato, per quanto vagamente ferito da quel piccolo incidente, aveva preso sonno con le dita di una mano intrecciate alle sue.

Un movimento del bambino che cresceva nel suo ventre, fece capire alla Tigre che era il caso di rallentare. Proprio in uno dei punti più fitti del bosco, fece fermare il cavallo e smontò di sella.

Lo legò a un ramo e poi, le mani sulla pancia, camminò un po', bisbigliando frasi rassicuranti al piccolo che portava in sé.

Il bambino si tranquillizzò subito e così Caterina, scoprendosi molto stanca per la notte insonne, si andò ad appoggiare con la schiena contro un tronco. Non osò sedersi in terra, perchè la neve ghiacciata le avrebbe inzuppato in fretta la veste.

Restò allora così per qualche minuto, ricordandosi degli ultimi tempi con Giacomo. Dopo Mordano, non si erano mai riappacificati davvero. L'aveva perso, prima di riuscire a essere in perfetta sintonia con lui non solo tra le lenzuola, ma anche fuori dalla camera da letto ed era questo che le bruciava più di ogni altra cosa.

Quasi più che sapere di avere ancora in casa gli assassini dell'uomo che aveva amato così a fondo.

Non aver avuto il tempo, né la capacità, di appianare le divergenze e guarire le ferite tra loro, ecco cos'era a farla sentire sempre così in colpa. Le era successo esattamente come con suo padre, che era morto all'improvviso, sotto i colpi di un pugnale, senza che lei fosse in grado di fargli sapere quanto ancora lo amava, malgrado tutto il male che le aveva fatto.

La Leonessa chiuse con forza gli occhi, appoggiando la nuca al legno ruvido della pianta e, accompagnata solo dal fischio del vento freddo che le spettinava i capelli, sollevandoli in ciocche bionde e bianche davanti al suo volto, provò a pregare, ma tutto quello che riuscì a fare fu solo lasciarsi scappare un paio di lacrime silenziose.

Tornando padrona di se stessa, la Contessa disse ancora qualcosa alla piccola vita che aveva dentro di sé. Per lo più si trattava di promesse con cui si impegnava a proteggerlo e a crescerlo.

Alla fine, vedendo come il vento stesse spazzando via la nebbia, ma portando nuvole cariche di neve, la donna si convinse a risalire in sella e tornare a Ravaldino.

Cavalcò come una furia, spingendo la bestia che aveva scelto per quel giorno quasi fino allo sfinimento. Correva tanto forte che, quando passò sotto alla statua bronzea del suo Giacomo, l'immagine le risultò così sfuocata da essere quasi irriconoscibile.

Varcò come una furia il portone della rocca, scendendo poi a cavallo non ancora fermo appena dentro al cortiletto d'ingresso.

Giovanni, che stava discutendo con il Capitano Mongardini vicino al pozzo, la guardò con tanto d'occhi e le andò subito incontro, aiutandola a frenare il cavallo prendendolo per le redini.

“Dovresti stare più attenta a fare certe cose.” la rimproverò, a voce bassa, ma estremamente seria.

Ancora immersa nei suoi pensieri, Caterina non prese bene quell'appunto e lo guardò storto, pronta a riprenderlo con durezza.

Tuttavia, quando nei suoi occhi chiari riconobbe solo paura e preoccupazione, la sua furia si placò all'istante.

Diede le redini del cavallo a Mongardini e poi prese per mano suo marito, senza sollevare tra i soldati di passaggio nemmeno un commento o uno sguardo in più. Ormai, almeno alla rocca, la verità era così tanto sotto agli occhi di tutti, che nessuno se ne stupiva più.

Arrivati in un angolo tranquillo, vicino all'imboccatura delle scale, Caterina fece appoggiare la mano al marito sul suo ventre e gli sussurrò: “Sta bene.”

Giovanni si morse il labbro, guardando altrove, ma premendo un po' con le dita sulla pancia della moglie, come ad assicurarsi che quello che diceva fosse vero e poi, con un soffio, disse: “Va bene.”

La Sforza gli accarezzò la guancia, chiedendosi che mai si agitasse in quel momento nella sua anima. Forse lei si stava comportando con troppa leggerezza. In fondo il Medici aveva perso sua madre proprio per un parto complicato. Non l'aveva mai potuta conoscere e dunque era plausibile che avesse paura di vedere la storia ripetersi con suo figlio.

Da quando era arrivata a Forlì la notizia della morte di Anna Maria, qualcosa in Giovanni era cambiato. Caterina se n'era accorta in modo chiaro, ma non sapeva come lenire le sue preoccupazioni.

Avrebbe potuto starsene più tranquilla, fare un po' come quando aspettava Bernardino. Riposare, evitare gli sforzi, cercare di avere un sonno regolare...

Abbracciò con lentezza il marito e poi, mentre alle loro spalle arrivava Cesare Feo per richiamare la loro attenzione per parlare di alcune faccende, gli diede un rapido bacio, sottolineando: “Devi stare tranquillo. Se ti perdi tu, mi perdo anche io.”

Il fiorentino annuì appena, ma anche quando seguì la moglie al piano di sopra fino allo studiolo del castellano, per riepilogare i punti della lettera da inviare alla Signoria per mandare Ottaviano a Pisa, la sua mente continuava a tornare alla paura.

Aveva paura di perdere Caterina. In più di un senso. Forse era il Diavolo, il suo consigliere, come aveva scritto Simone nella sua ultima lettera personale, quando, nel vederla osservare i soldati al quartiere militare, lui già se la immaginava intenta a sceglierne uno che lo potesse sostituire. O forse era solo realismo.

Se fosse arrivato a perdere in modo definitivo la salute, Caterina avrebbe cercato un uomo in grado di supplire alle sue mancanze? Il suo cuore voleva rifiutare l'idea, ma la logica che governava la sua testa continuava a metterlo davanti alla soluzione più semplice.

La gelosia, un sentimento che Giovanni non sopportava di provare, lo colpiva sempre più spesso e quando meno se lo aspettava. Anche quella notte, mentre lui e sua moglie erano insieme, c'era stato un istante, poco più di una frazione di secondo, in cui aveva capito dallo smarrimento di lei che lei stava pensando a qualcun altro.

Quasi per certo si trattava di Giacomo. Il Medici aveva fatto abbastanza pace con quel fatto. In fondo, si era detto, cercare di vincere contro un fantasma era impossibile. Eppure, contro la sua stessa volontà e il suo stesso buon senso, nulla gli toglieva di mente che potesse trattarsi anche di qualcun altro.

Aveva paura di perdere il figlio che ancora non conosceva. Il modo in cui sua moglie si comportava, senza alcuna cura aggiuntiva, anzi, con ancor più noncuranza del suo solito, gli faceva venire i brividi ogni volta.

Se la vedeva uscire da sola a cavallo, non poteva evitare di pensarla mentre cadeva o veniva aggredita da qualche delinquente. Se la vedeva allenarsi nel cortile coi soldati, temeva che qualcuno la colpisse troppo forte o che cadesse, facendo male a sé e al bambino. Perfino saperla insonne per notti intere, lo metteva in ansia.

Anche se si era ripromesso di fidarsi di lei in modo cieco e sordo, non poteva mettere a tacere la parte cauta di sé, che l'avrebbe voluta più accorta.

E infine, aveva una paura folle di morire. Voleva conoscere suo figlio e voleva crescerlo. Non aveva mai voluto tanto qualcosa – eccezion fatta per l'amore di sua moglie – come quella possibilità.

E così, mentre il castellano, chiamato anche l'Oliva e Luffo Numai, elencava i punti che Firenze avrebbe auspicabilmente dovuto accettare, Giovanni annuiva e prendeva nota, ma, in realtà, non desiderava altro che lasciare quello studiolo e passare tutto il tempo che Dio aveva deciso di concedergli ancora assieme a sua moglie.

Doveva spiegarle ancora tante cose, doveva metterla in guardia su molte persone... Doveva ancora finire di preparare il terreno a quel piccolo che sarebbe venuto al mondo, come tutti, nudo e indifeso, per quanto coriaceo e tenace, come Caterina sembrava convinta che sarebbe stato.

“Tutto chiaro?” chiese Numai, alla fine, appoggiando la mano nodosa sull'avambraccio del Medici.

L'uomo, le labbra incurvate verso il basso e gli occhi assorti, fece segno di sì con il capo, ingannando i Consiglieri della Sforza, ma non la Tigre che, nel vederlo così, avvertì una stretta al cuore tale da farle quasi male.

 

Lucrecia era sfinita. Quell'ultima seduta processuale, in quel freddo 22 dicembre, le stava facendo sentire tutto il peso del mondo addosso.

La ragazza aveva dovuto dar fondo a tutto il suo coraggio, per presentarsi tanto assiduamente davanti ai suoi giudici. Aveva sudato freddo, quando le aveva chiesto con precisione se fosse vero che il matrimonio non era mai stato consumato, ma, seguendo le precise indicazioni di suo padre, aveva risposto in modo tanto preciso e puntuale che alla fine i suoi ascoltatori aveva perfino deciso di non farla controllare dalle matrone, fidandosi del precedente consulto del medico che l'aveva visitata.

La giovane Borja anche quel giorno indossava abiti e soprabiti di ogni tipo, imbacuccata come mai in vita sua, a scapito dell'eleganze. La sua dama di compagnia Pantasilea era stata categorica a riguardo.

Ormai Lucrecia era di circa sei mesi e dunque su un fisico snello e aggraziato come il suo, il ventre rigonfio si sarebbe notato subito, senza quell'ingombrante espediente.

Quando finalmente il portavoce della giuria si sistemò davanti agli altri per leggere la sentenza, la ragazza sentì il cuore balzarle nel petto e il figlio che portava in grembo voltarsi sul fianco.

Riuscì a trattenere la mano che, di solito, a quei movimenti correva sempre protettiva sul pancione e restò con gli occhi fissi sull'uomo che si stava schiarendo la voce.

Era così tesa che nemmeno sentiva più il fiato di suo fratello sul collo. Anche se era a molti metri da lei, Cesare l'aveva fissata per tutto il tempo senza mai darle tregua, e questo l'aveva messa ancor più in difficoltà che non le domande della giuria. Nei suoi occhi di brace c'era qualcosa, un sospetto, forse, un dubbio, o solo gelosia, ma tanto bastava alla Borja per sentirsi scoperta.

Non gli aveva ancora detto di essere incinta, così come suo padre le aveva consigliato di fare, e non l'aveva più incontrato, restando trincerata a San Sisto. Tuttavia sapeva che, come che fosse finito quel processo, presto avrebbe dovuto lasciare il convento e allora...

Era così immersa nelle sue elucubrazioni che quasi si perse il fulcro centrale della sentenza che, in modo ufficiale e irrevocabile, la dichiarava 'virgo intacta', accettando l'ipotesi dell'impotenza di Giovanni Sforza e annullando il matrimonio per mancanza di consumazione dopo oltre tre anni.

Con l'attenzione di tutti rivolta su di sé, Lucrecia si preparò al discorso di accettazione che aveva minuziosamente preparato, ripetendolo a memoria giorno e notte, pregando che ci fosse davvero l'occasione di esporlo alla giuria.

Le sue parole, in un latino eccellente, lasciarono tutti così ben impressionati che perfino l'ambasciatore milanese Taverna, quella sera, rientrato in camera, quando si apprestò a scrivere un resoconto al Duca Sforza suo signore, non trovò modo migliore di descrivere la scena se non dicendo che la figlia del papa aveva parlato 'con tanta eleganza e gentilezza che se fosse stato un Tullio non avrebbe potuto dire più argutamente e con maggior grazia'.

Era la vigilia di Natale e alla rocca di Forlì il tempo sembrava sospeso. Quella sera, dopo la messa, ci sarebbe stato un piccolo banchetto che la Contessa aveva deciso di aprire non solo agli esponenti della nobiltà, ma anche ai mercanti e agli artigiani più facoltosi.

Aveva anche permesso che si festeggiasse per le strade, se i quartieri erano disposti ad accollarsi la spesa e aveva ridotto i turni al quartiere militare, permettendo alla gran maggioranza dei soldati di passare quella notte con le rispettive famiglie.

Malgrado la neve stesse ricoprendo palmo a palmo la città, dando a tutto quanto un'aura di tranquillità e silenzio, ancora nel pomeriggio, a poche ore dal ricevimento, le sale del potere di Ravaldino ribollivano.

La notizia dell'avvenuto scioglimento delle nozze tra Giovanni Sforza e Lucrecia Borja aveva scosso nelle fondamenta il Consiglio della Contessa, in quanto quell'allontanamento del papa dagli Sforza andava a sommarsi alla freddezza mantovana e al silenzio estense.

“Secondo le mie fonti – stava spiegando Oliva, un gomito appoggiato al bordo del camino e un calice di vino caldo in mano – vostro zio Ludovico è rimasto molto indifferente a questa notizia, ma secondo me avrebbe dovuto mostrarsi più infastidito.”

“Ma siamo certi che al funerale di Anna Maria, suo marito Alfonso non ci fosse solo perché era malato?” chiese Caterina, che dava ragione all'Oliva.

L'assenza di Alfonso alle esequie, a meno che non fosse davvero scusata da una terribile malattia, era inammissibile.

“Chi può dirlo con certezza.” fece l'uomo, alzando le sopracciglia: “In compenso dicono che a seguire il feretro vi fosse una schiavetta africana che ha pianto tanto da svenire più di una volta.”

La Tigre strinse le labbra. Aveva sentito più volte certi pettegolezzi su sua sorella, e quel fatto andava a confermarli, ma non credeva fosse il caso di parlarne ancora.

“Ciò che conta per noi – intervenne Giovanni, seduto accanto alla moglie sul divano davanti al fuoco – è che Milano è sempre più sola, mentre noi ne avremmo bisogno come garanzia.”

“Non c'è già Firenze, come garanzia?” chiese, pungente, Luffo Numai, gli occhi che correvano involontariamente alla pancia della sua signora.

“Firenze è in preda al caos, ora come un anno fa.” ammise a malincuore il Medici: “Per riportare l'ordine, sarebbe indispensabile per la mia famiglia avere alle spalle qualcuno come il Duca di Milano.”

“Dunque stiamo parlando di Firenze, di Milano o di Forlì e Imola?!” si infiammò il Consigliere Giuliano Rossetti: “Medici, Sforza..! Qui tutti parlano, ma nessuno pensa a...”

“Attento a voi, Rossetti!” lo redarguì la Tigre, alzandosi di scatto e puntandogli contro l'indice: “Se oserete insinuare ancora certe cose, la vostra testa finirà sulla Torre del Pubblico a far compagnia a quelle degli assassini di mio marito!”

Nessuno dei presenti osò fare commenti. Qualcuno guardò altrove, un po' in imbarazzo, altri abbassarono la testa, muti.

A Giovanni quello scatto non aveva dato particolare fastidio, né l'aveva impensierito. Ormai si era abituato a quel genere di reazioni. Ma sentirla dire 'mio marito' parlando di Giacomo... Quello era sto davvero un brutto colpo, per lui.

“Forse sarebbe meglio andarci a cambiare per la Messa.” disse il Popolano, un po' irrigidito, quando il silenzio si prolungò troppo.

La Contessa, che ancora fissava Rossetti, sbiancato e tacitato, annuì appena e poi, con un respiro lento e profondo, concluse: “La riunione è riaggiornata dopo Santo Stefano. Ragionate attentamente su quanto s'è detto oggi. Dovremo decidere una linea di pensiero da sostenere con gli emissari esteri.”

Uno dopo l'altro, i Consiglieri e gli uomini di fiducia della Leonessa lasciarono la stanza e quando rimasero soli, Caterina e Giovanni per un po' non trovarono nulla da dirsi.

Il bussare discreto e ritmico di qualcuno alla porta li fece voltare. Entrambi sembravano felici di avere una scusa per non doversi confrontare subito.

Entrò il castellano, con una lettera, dicendo: “Questa è appena arrivata da Roma. Da parte del Cardinale Sansoni Riario.”

Caterina lo ringraziò e prese il messaggio. Raffaele non si era dilungato molto, e anzi aveva scritto in modo conciso e preciso, come se non volesse distogliere l'attenzione su ciò che gli premeva davvero comunicare.

'Ora che madonna Lucrecia è stata dichiarata virgo intacta e il suo infelice matrimonio è stato sciolto – aveva scritto – Sua Santità ha in animo di trovare alla figlia sua prediletta un miglior sposo e pensa, su mio umile suggerimento, di iniziare le trattative con voi per uno sposalizio con Ottaviano vostro figlio e figlioccio suo.'

La Sforza dovette rileggere più volte, prima di afferrare il reale senso di quelle parole e poi proseguì, trovando scritto: 'Prima di dar rifiuto, pensate bene, cugina cara. La protezione che tanto andate cercando potrebbe arrivare assieme allo scongiurare una guerra'.

Senza sapere come prendere quelle frasi, la donna porse la lettera al marito. Giovanni la lesse in silenzio e poi la ripiegò e gliela restituì.

Fecero entrambi un cenno al castellano, per congedarlo e la Tigre aggiunse: “Dite al messaggero che risponderò presto, ma non stasera. Che torni pure a Roma. Manderò una mia staffetta di fiducia con la mia lettera appena sarà possibile.”

Cesare fece un breve inchino e sparì.

“Che ne pensi?” chiese Caterina, cercando lo sguardo di Giovanni.

Questi soffiò e ammise: “Sarebbe una soluzione più indolore di altre.”

“Il papa non può volere uno come Ottaviano come genero.” disse la Contessa, scuotendo il capo.

“E tu che ne sai? Potrebbe essere il suo genero ideale, invece. Un burattino che gli lascia fare tutto quello che vuole.” la contraddisse il Medici.

“Ottaviano è un violento. Avere davanti la figlia del papa non lo renderà diverso. Potrebbe farle del male e lei di certo non se ne starebbe zitta. Non appena Lucrecia restasse incinta, lo farebbe uccidere per liberarsi di lui, di tutti noi, e prendersi lo Stato.” valutò la Tigre.

Il Popolano ci pensò su e poi fece una smorfia abbastanza significativa, ma evitò di sbilanciarsi dicendo apertamente la sua: “Pensiamoci con calma. In fondo il papa non ha ancora avanzato pretese chiare.”

“Certo, ma quando lo farà, rifiutare potrebbe significare una guerra.” soffiò la donna.

“Per stasera, pensiamo solo a mangiare e divertirci.” tagliò corto Giovanni, mettendole un braccio attorno ai fianchi: “Domani penseremo alla politica. Dobbiamo goderci quello che la vita ci offre adesso, Caterina.”

La Leonessa sospirò e poi si gli sorrise: “Va bene, ci penseremo dopo. Adesso andiamo a prepararci. Per la politica avremo tempo domani. Stasera anche io voglio solo mangiare, divertirmi e stare con te.”

 
   
 
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