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Autore: Vago    20/01/2018    3 recensioni
Questo mondo è impazzito ed io non posso farci nulla.
Non so cos'hanno visto in me, ma non sono in grado di salvare chi mi sta vicino, figurarsi le centinaia di persone che stanno rischiando la vita in questo momento.
Sono un allenatore, un normale allenatore, non uno di quegli eroi di cui si parla nelle storie sui Pokémon leggendari.
Ed ora, isolato dal mondo, posso contare solo sulla mia squadra e sulle mie capacità, nulla di più.
Sono nella merda fino al collo. No, peggio, sono completamente fottuto.
Non so perchè stia succedendo tutto questo, se c'entrino davvero i leggendari o sia qualcosa di diverso a generare tutto questo, ma, sicuramente, è tutto troppo più grande di me.
Hoenn, Sinnoh, due regioni in ginocchio, migliaia di persone sfollate a Johto dove, almeno per ora, pare che il caos non sia ancora arrivato.
Non ho idea di come potrò uscirne, soprattutto ora che sono solo.
Genere: Avventura, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Rocco Petri
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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Fissai per un paio di minuti lo schermo che mi stava davanti, con la mano appoggiata sulla consolle del computer, incapace, però, di premere alcun tasto.
Che diavolo poteva volere mia madre? Che l’ondata di distruzione fosse arrivata anche a Johto?
Sarebbe stata drammatica la situazione.
Dovevo chiamare Rudi per chiedere aiuto. Quello era l’obiettivo principale.
Certo che…
Dovevo assicurarmi che mia madre stesse bene. Tanto, al massimo, mi avrebbe portato via un paio di minuti, quella chiamata.
Premetti il tasto “richiama” che campeggiava accanto alle notifiche di chiamata persa.
L’avrei fatta essere una chiamata rapida, mi ripromisi.
Lo schermo riuscì a pulsare appena un paio di volte, prima che, dall’altra parte della chiamata, non risposero.
La faccia di mia madre, troppo vicina alla videocamera per essere presa completamente, comparve sullo schermo.
- Nail! – esclamò, facendo sobbalzare l’immagine trasmessa – Sei tutto sporco! Stai bene? –
- Si, mamma, sto abbastanza bene. E quando avrò tempo mi farò una doccia. –
- Sei sicuro di stare bene? Qui i telegiornali fanno vedere delle immagini paurose da Hoenn. Davvero il cielo è diventato rosso come dicono? –
- Si, è rosso ma… ma ci stiamo lavorando. Ora sono in una squadra più grande. –
- Ma, scusa. Oramai sono stati tutti sfollati, perché non vi lasciano andar via da lì, finché non torna tutto alla normalità. –
- Non possiamo, mamma. Stiamo lavorando. –
- State lavorando? State rischiando la vita! –
- Mamma, al momento siamo gli unici, qui, che possono fare qualcosa, dobbiamo farlo. – Stavo cominciando a perdere la pazienza. Involontariamente le dita della mano destra si strinsero attorno alla tastiera, cercando di allentare il nervoso che mi stava crescendo nel petto.
- Non devi fare proprio niente. Anche tuo padre doveva far tutte quelle sue cose e tutto quello che ne ha guadagnato è stato essere sempre lontano dalla sua famiglia. Lui e quella sua chincaglieria che collezionava, non voglio che ti riduci così. –
Sono abbastanza sicuro di non aver mai visto mio padre affezionarsi a qualcosa.
- Che chincaglieria collezionava, papà? –
- Non lo so, roba che trovava in giro durante i suoi viaggi. Ne aveva una scatola piena in cantina. Ma questo non è importante! L’importante è che tu torni da me sano e salvo! –
- Mamma, smetti un attimo di dare di matto e cerca di rispondermi seriamente. Papà davvero portava a casa delle cose dai suoi viaggi di lavoro? Cos’erano? –
- Non lo so, non ho mai guardato cosa metteva in quella scatola. Ma tanto sarà tutto bruciato nell’incendio, quindi è inutile starci a pensare ora. –
- Si, si… vabbè. Comunque vedrò di farmi mandare a Johto il prima possibile. –
- Aspetta, Nail, volevo di… -
Chiusi la chiamata il più in fretta possibile.
Avevo una nuova possibile pista.
Rocco mi ha detto che i viaggi di mio padre erano per via delle ricerche che tenevano qui e io so da Mary che lui stava cercando di capire quali intenti avessero i ricercatori.
Potrebbe avermi lasciato in eredità il suo lavoro, quel vecchio.
Oh, cazzo.
Merda.
Quel vecchio di merda che ha evocato Arceus, lui ha ucciso i ricercatori. Quindi può essere lui che ha dato fuoco a casa mia. Jacob all’epoca non sarà stato neppure maggiorenne.
Merda…
Comunque, devo tornare a casa. La cantina era in buono stato dopo l’incendio e ci abbiamo ricostruito sopra la nuova casa, probabilmente la roba che c’era prima è rimasta là sotto anche dopo i lavori.
Devo dormire.
Devo assolutamente dormire.
- Ranger! – urlai voltandomi, sobbalzando nel vederlo alle mie spalle.
- Io comunque sono Loren. – mi rispose quasi risentito.
- Va bene, Loren. Ho una pista per sistemare questo casino. Ho bisogno però che tu faccia una cosa per me, posso fidarmi? –
- Certo. – disse con voce ferma, riprendendo un poco della rigidità da militare che doveva avere in condizioni normali.
- Io devo assolutamente dormire per mandare un messaggio. Ho bisogno che tu prenda tutti quelli in grado di muoversi  e vi mettiate a imparare come funzionano le apparecchiature qua dentro. Dovrebbero esserci già tutte le password inserite. Ho bisogno che monitoriate la situazione, ho visto Arceus, là fuori, e voglio evitare di trovarmelo sulla strada. Mary ti ha fatto vedere dove abbiamo messo i vostri Styler e le sfere, vero? –
- Si, certo. –
- Ottimo. Io adesso vado a sdraiarmi. Mi fido di te. –
Lo superai a lunghi passi, dirigendomi verso il dormitorio ancora in buona parte occupato. Salutai appena i ragazzi svegli che incrociavo, dedicandogli appena un cenno della mano.
Dovevo addormentarmi in fretta.
E dovevo sognare.
Mi sdraiai su un polveroso letto vuoto, chiudendo gli occhi per evitare che la fastidiosa luce dei neon sopra la mia testa potesse penetrarmi nel cervello.
All’improvviso tutte le sensazioni che il mio corpo provava si fecero più vivide, facendomi contrarre i muscoli della faccia in una smorfia.
Il braccio rotto formicolava fastidiosamente. Forse mi avevano cambiato il gesso, mentre ero incosciente, ma non avevo voglia di controllare.
Le bende sul braccio destro tiravano e le ferite che mi ero fatto infliggere sull’avambraccio bruciavano come se mi avessero posato dei tizzoni ardenti sulla pelle.
Tutte le ferite e i tagli che avevo sparsi sul corpo pulsavano ritmicamente a ritmo con il battito del mio cuore, ma mi appariva come un vago fastidio, comparato alle altre sensazioni.
Cercai di regolarizzare il respiro, lasciandomi scappare uno sbadiglio.
Sarebbe stato facile addormentarmi, probabilmente.

Mi ritrovai in una stanza grigia, di pietra, senza né porte né finestre. Una lampadina consumata pendeva dal soffitto, oscillava lievemente, facendo così allungare e accorciare ritmicamente le ombre sulle pareti.
Ero legato a una sedia da cinghie strette.
Un’ombra scura mi apparve di fronte, il viso, se di viso potevo parlare, era incorniciato da una criniera bianca ondeggiante.
Fui preso dal panico e cominciai a dimenarmi, cercando di liberarmi dalla stretta che mi teneva bloccato.
- Che succede? – chiese la voce cupa della creatura.
Cercai di calmarmi, di mettere ordine tra i miei pensieri  e ricordarmi perché tutto quello stesse succedendo.
- Sono a Ciclanova. – dissi con la voce tenue di un bambino spaventato che cerca di farsi forza – Ho… ho forse trovato una traccia, ma non è sicura. Non appena mi sarò svegliato andrò a controllare. Voi… voi rimanete nascosti. State bene? –
Il signore degli incubi voltò appena la testa di lato, perdendo interesse in me, in favore di qualcosa che non riuscivo a vedere.
- Stiamo bene. – rispose finalmente la creatura dopo una pausa interminabile.
La stanza scomparve di colpo ed io aprii gli occhi madido di sudore.
Preferivo migliaia di volte i risvegli che mi provocava Cresselia.
Mi alzai a fatica dal materasso, rabbrividendo al contatto dei vestiti umidi sulla mia pelle.
Mi sarei dovuto cambiare, prima o poi. Portavo ancora indosso gli abiti con cui ero partito, fatta eccezione per la maglia bianca che avevo preso dal centro medico di Memoride, a Sinnoh.
Mi facevo schifo da solo.
Non potevo però pensarci, in quel momento.
Sistemai le sfere nei loro supporti e feci uscire Gardevoir,  in modo che potesse portarmi alla mia meta.
Loren mi raggiunse con uno sguardo preoccupato che cominciava a darmi sui nervi.
- Tornerò nel giro di un’ora. Mi raccomando. – gli dissi, per poi deviare la mia attenzione sul mio compagno – Andiamo a casa. –
Di nuovo, il mondo intorno a me perse solidità, mentre sfrecciavo in quel mondo dipinto sotto la guida della mano di Gardevoir.
Era da tanto che non tornavo a casa.
Tra l’impiego nella palestra di Bluruvia e i vari impegni, probabilmente, l’ultima volta che avevo aperto quella porta era stato per il compleanno di mia madre.
Comparii poche centinaia di metri fuori dal centro abitato di Mentania, di fronte alla porta chiusa di un’abitazione bassa e tozza.
Casa…
Provai ad abbassare la maniglia della porta d’ingresso, ma la serratura chiusa si oppose al mio sforzo.
Ovvio, ha chiuso a chiave prima di andarsene e il mio mazzo… sarà in fondo all’oceano, a questo punto.
Che sfiga.
Vabbè, Gardevoir mi toglierà anche questo problema, spero che l’antifurto non sia in funzione, visto che le linee elettriche sono tutte interrotte.
- Dai, Gardevoir, fai ancora un piccolo sforzo. Portami dentro. –
Quanti teletrasporto le avevo fatto usare? Dal Monte Camino a Ceneride, da Ceneride a Ciclanova, da Ciclanova a Mentania e poi questo.
Quattro volte.
No, scherzavo.
Solo due volte. L’ho fatta riposare al centro medico del laboratorio di Ciclanova.
Sono tranquillo, non avrò problemi per la mancanza di PP.
Ricomparii all’interno dell’abitazione di mia madre, concedendomi un momento per guardarmi attorno.
Tutte le spie dell’antifurto erano spente.
Meno male.
Puntai direttamente verso la porta che mi avrebbe portato in cantina, per poi aprirla e gettarmi nell’oscurità più totale che c’era dalla parte opposta.
Sarei potuto cadere su uno di quegli scalini dissestati e spaccarmi il naso in meno di un secondo, in quella condizione.
Feci rientrare Gardevoir nella sua sfera lucida, scambiandola per Blaziken.
Le fiamme divamparono dai polsi del mio compagno, illuminando le pareti in cemento che circondavano la mia discesa.
La cantina era umida e fredda. La parte alta della stanza, per chi sapeva dove guardare, appariva leggermente annerita dall’incendio che l’aveva lambita.
La roba di mio padre era stata ammucchiata tutta in un armadio di ferro recuperato chissà dove e lasciato lì ad arrugginire. Mia madre, almeno per i primi anni, non voleva doversi confrontare con il ricordo di mio padre e, anche quando aveva superato la sua morte, non aveva mai ripreso in mano i suoi oggetti.
Sforzai sulle ante incastrate, facendole aprire con un cigolio.
La roba all’interno del mobile era in buona parte consumata dal fuoco e poi ricoperta da strati di polvere accumulati nel tempo.
Sarebbe stata una lunga ricerca.
Scatole, scatole e altre scatole.
In legno, in cartone, in ferro.
Tutte cose inutili. Per lo più erano vecchi prodotti scaduti per la cura delle pokéball, tolta una piccola cassetta con dei cacciaviti buttati dentro alla rinfusa.
Aprii l’ennesima cassetta alla tremolante luce delle fiamme di Blaziken, trovandoci dentro una seconda scatola. Dentro questa, ad attendermi, ci trovai una piccola pennetta USB avvolta in diversi strati di carta per imballaggi.
Avevo bisogno di un dannato computer.
Quella era la prima cosa degna di interesse che fossi riuscito a trovare tra la chincaglieria e i prodotti scaduti di sottomarca.
Scavai ancora tra le poche cose rimaste nel mobiletto, ma null’altro di strano mi saltò all’occhio.
Sarei dovuto tornare a Ciclanova e scoprire in uno di quei computer cosa nascondeva la pennetta che tenevo in tasca.
   
 
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