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Autore: silbysilby_    21/01/2018    1 recensioni
Seul, 2015.
La notte di Halloween era sempre stata un evento storico all'Anathema, la discoteca più in voga della città. Già non era un posto raccomandabile, ma in quella occasione raggiungeva apici scandalosi. Sorprendeva pure Jimin e lui di certo non era un santo. A meno che ai santi non sia permesso fare i ballerini nei club.
Jimin si sarebbe aspettato di tutto, tranne che essere coinvolto a sua insaputa in un esperimento. In effetti, non gliene si può fare un torto; da quando in qua le mele hanno incubi, gelosia e passione come effetti collaterali? E da quando in qua le maledizioni si trasmettono con un bacio?
I suoi amici non possono saperlo. Yoongi non vuole saperlo. Non vuole avere più niente a che fare con Park Jimin.
Genere: Dark, Erotico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Min Yoongi/ Suga, Park Jimin
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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In questo capitolo c'è la scena che ha fatto nascere tutto sto mostro di storia. Vi sfido a capire qual'è e dirmelo nelle recensioni o su twitter DOVE VI ASPETTO SEMPRE EH @silbysilby 
Buona lettura. Ehe.


 
When I was in a pit of despair
I pushed you away and resented that I met you

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FIRST LOVE 

(37) November 5th, 2015 - Thursday

Le dita di Yoongi erano troppo intorpidite per snodare quel groviglio di fili che erano diventati i suoi auricolari. Si limitò a scrollarli un paio di volte, illudendosi di poter risolvere le cose a quel modo. 
Alla fine ci diede a mucchio e se li infilò alle orecchie così com'erano, con il malloppo direttamente sotto il mento. Sarebbe stato scomodissimo se stesse camminando, ma per fortuna non era il suo caso: Yoongi era ancora a letto, sdraiato al di sopra del morbido piumone. 
Erano le sette e mezza del mattino. Se non ci fosse stata religione come prima lezione del giorno sarebbe già dovuto essere su un qualche mezzo pubblico di trasporto. Questa ricorrenza settimanale era sempre stata celebrata da lui dormendo per tutto il tempo, fino all'ultimo secondo disponibile, facendo puntualmente tardi per la lezione successiva. 
Eppure, la cosa non sembrava valere per quella mattina. 
A dirla tutta, Yoongi non riusciva neanche a ricordarsi se alla fine si fosse addormentato.
Dopo che il taxi lo aveva riportato a casa la sera precedente si era buttato sul suo letto sfatto senza nemmeno cavarsi i vestiti di dosso. Si era sfilato giusto le scarpe bagnate e la cintura dei pantaloni, mollando il tutto sul pavimento. Aveva desiderato solo addormentarsi, addormentarsi e staccare la spina per un po'. 
Era esausto in tutti i modi in cui una persona poteva essere esausta, ma non era riuscito a prendere sonno. Doveva aver passato un bel po' di tempo in dormiveglia, palpebre e bocca socchiuse, ma non cadeva mai pienamente fra le tanto agognate braccia di Morfeo. 
Quando finalmente il sole aveva bussato alle imposte della sua finestra, ingiallendo tutto quanto, Yoongi non aveva saputo come reagire: da una parte si sentiva sollevato, libero di fare qualcosa che non fosse tentare di non fare niente; dall'altra gli venne solo voglia di alzarsi per chiudere la tapparella meglio. 
Doveva riuscire a dormire. Doveva. Fino a quando non avesse dormito sarebbe rimasto intrappolato nella giornata precedente, come se qualcuno gliene stesse servendo una seconda porzione. E lui non aveva digerito neanche la prima portata. 
La camera diventava sempre più calda, sempre più piccola, sempre più chiusa. Non aiutavano tutte quelle cartacce in giro, quelle pile di cose, oggetti, giornali, quaderni, libri, rovesciate ovunque, senza un filo logico, su ogni superficie disponibile. Un ospite avrebbe potuto pensare che la famiglia Min si fosse trasferita da poco, che dovevano ancora comprare mensole ed armadi, ma in realtà quella situazione di disordine era perenne, a dir poco storica. 
Yoongi sudava, eppure non mosse di un centimetro la coperta stropicciata attorno al suo corpo. Probabilmente i vestiti che aveva ancora addosso puzzavano da morire. 
Fino a quando nessuno sarebbe venuto a spronarlo giù da quel letto, lui ci sarebbe rimasto appigliato. E la cosa sarebbe potuta andare avanti per le lunghe, perché suo padre era già uscito per andare a lavoro e sua madre si stava facendo la doccia. Poteva dirlo dallo scrosciare dell'acqua, insistente contro la parete che la sua stanza condivideva con il bagno. In sottofondo si sentiva una qualche stazione radio, il volume indecente considerato l'orario. 
Il ragazzo non seppe dire se la sua mano trovò il cellulare in mezzo alle coperte o se semplicemente lo avesse impugnato per tutta la notte. 
Fatto sta che si portò il dispositivo a pochi centimetri dal viso e le dita di Yoongi non poterono frenarsi dal cercare un file preciso. Si disse che non lo avrebbe aperto. Che voleva giusto controllare che ci fosse ancora, che esistesse, come se la notte prima potesse essere stata tutta un grosso equivoco. 
Ma Yoongi era debole e masochista. Aveva schiacciato play ancor prima di finire di elencare i suoi buoni propositi.
Alla scadenza dei due minuti della durata del video, si ripromise di cancellarlo. 
Play.
Altri due minuti. Play
Play. 
Questa volta lo cancellava davvero.
Play. Play. Play.
A un certo punto, Yoongi smise semplicemente di raccontarsi storie. Ogni rimorso era stato segregato sotto una teca di vetro, lontano dalla sua ragione, quando lo fece ripartire per l'ottava volta. 
Tanto sapeva che sarebbe finita così. Era stato prevedibile dal momento in cui non aveva bloccato il video il giorno precedente, non appena aveva capito di cosa si trattasse. Quando uno dei suoi compagni di classe lo aveva condiviso in una chat di gruppo, Yoongi non aveva avuto modo di sapere cosa si sarebbe ritrovato salvato nella memoria del cellulare, ma non era una scusa abbastanza valida. 
Aggrovigliato in quella gabbia di stoffa e fili, il moro si sdraiò sullo stomaco, la fronte premuta contro un braccio. Aveva smesso di guardare il video, limitandosi ad ascoltarlo. 
Con gli occhi chiusi, l'effetto che aveva su di lui triplicava. 
Con le immagine private del potere di distrarlo, ogni soffio, ogni fruscio catturato da quello che era senz’altro un comunissimo cellulare, cacciavano la sua razionalità in un qualche buco nero della Galassia. 
Per l'ennesima volta, ad un suono ben preciso lo stomaco di Yoongi venne contorto da un piccolo spasmo. 
La volta dopo, stesso secondo dello stesso minuto del video, i suoi fianchi scattarono automaticamente in avanti.
A quel punto, Yoongi si bloccò. 
Sfilò un auricolare dalle orecchie, stando in ascolto. Il rumore della doccia c'era ancora. Quello della radio pure. 
Yoongi prese tutti i suoi valori e principi morali e li mandò a far compagnia alla sua razionalità. 
Gli occhi gli bruciavano, secchi. La sua bocca pareva aver ospitato il deserto del Sahara. Dopo aver passato una notte insonne, non ne aveva più per nessuno, neanche per sé. Avrebbe cercato la sua dignità sotto al letto più tardi. 
Sentendosi la persona più orribile e squallida del mondo, Yoongi fece scivolare un braccio a mediare tra il materasso e il proprio corpo, la schiena inarcata verso il soffitto, come un gatto. Con le nocche che sfregavano contro le lenzuola, slacciò il primo bottone dei suoi jeans e ci calò la mano dentro. 

(38) November 5th, 2015 - Thursday

Il cellulare di Jimin non smetteva di vibrare un attimo. Il ragazzo lo aveva ficcato nella tasca del cappotto dopo averlo messo in muto, ma si vide costretto a togliere anche la vibrazione. 
Era abituato a ricevere tante notifiche dai social, ma quella mattina parevano essere esplose. Lui non aveva avuto la forza e la voglia di darci un'occhiata, tanto meno dopo gli avvenimenti della giornata precedente. Ignorare quell'arnese infernale non avrebbe potuto causare tanti danni, anzi.
Jimin decise di concentrarsi sul presente. Su Jungkook e quella sua mano calda che lo guidava verso il fondo dell'autobus su cui erano appena saliti. 
Doveva essere a causa dell'orario, ma il veicolo era vuoto. Gli unici a fare compagnia ai due adolescenti erano un paio di signore anziane armate di buste della spesa, un gruppetto discreto di ragazzini e l'autista. D'altronde, l'ora di punta doveva essere finita una trentina di minuti prima. Jungkook e Jimin sarebbero arrivati in ritardo a scuola, ma ne valeva la pena. 
Quella mattina, non appena Jungkook aveva zittito la sveglia, non aveva potuto fare a meno di notare come l'altro stesse dormendo profondamente. Jimin sembrava così in pace con sé stesso, così bambino con la chioma arruffata e lo stesso pigiamone della volta precedente; ronfava beato tra le coperte pesanti, un involtino di calore e sogni da scordare. Jungkook si era vestito e lavato come al solito, ma aveva chiesto alla madre se fosse possibile lasciare che l'altro dormisse mentre lui andava a scuola.
La donna, ricordando al figlio che lo studio sarebbe dovuto essere la priorità di ogni ragazzo della loro età, gli aveva detto che Jimin poteva dormire un altro po', a patto che entrambi fossero presenti a scuola per la seconda ora. 
Jungkook aveva accettato il compromesso, soddisfatto. Si era potuto ritenere fortunato del fatto che sua madre non si fosse precipitata in camera sua all'istante per svegliare il povero Jimin. Di sicuro si sarebbe fatta un paio di domande sul perché la brandina fosse vuota e il letto del figlio occupato. 
Jungkook prese posto sui seggiolini più in fondo dell'autobus, quella fila da cinque sempre occupata dai ragazzi più chiassosi. Le loro cartelle vennero appoggiate nei posti lasciati vacanti, mentre i due si sedettero in quelli centrali.
Trattandosi di un mezzo pubblico, i seggiolini non avevano nessuna comodità particolare, né per la seduta rigida né per la stoffa ispida e sporca. Il castano si costrinse ad allontanare qualsiasi pensiero si avvicinasse all'evidente scarsità di igiene. D'altra parte, Jimin sembrava meno schizzinoso di lui. Quello, oppure era ancora molto stanco. 
Il ragazzo dai capelli argentei aveva aspettato che Jungkook si accomodasse prima di sistemarsi alla sua destra; si mise tutto scomposto, con una spalla premuta contro lo schienale, le gambe al petto e le punte delle scarpe contro le cosce dell'altro. Con uno sbadiglio più grosso del suo viso, la testa gli ciondolò di lato, premendosi a sua volta sull'orlo di plastica. 
Tra l'orario a cui era andato a letto la sera prima (direttamente con le galline considerando i suoi parametri) e quello posticipato di un'oretta del suo risveglio, Jimin aveva davvero dormito per un lasso di tempo imbarazzante. Eppure era ancora stanco. 
Jungkook non commentò, si limitò a guardarlo. 
Amava come le mattine fossero così pacifiche con Jimin. Era solo la seconda che passavano insieme loro due da soli, ma poteva già dire che fossero tutte così. La filosofia spensierata dell'altro pareva valere anche in questo. C'era silenzio, ma non dava l'impressione di dover essere riempito.
Perfino il modo in cui indossava il cappotto suggeriva sonnolenza. Jimin se lo teneva tutto chiuso attorno al collo con le mani, spiegazzando come poteva quella stoffa robusta. 
Jungkook si stava scaldando le nocche delle mani sfregandole contro i propri jeans quando Jimin tornò ad aprire gli occhi, tenendoli bassi. Erano più vispi di quanto tutto il resto del suo corpo non suggerisse. 
Il suo mormorio non infranse quella bolla di placidità che li avvolgeva. Avendo la guancia premuta contro lo schienale, le parole risultarono scandite male, come se stesse masticando. "Scusami per ieri sera. Alla fine mi sono addormentato."
Jungkook sbuffò, tutt'altro che irritato. Jimin non se li sarebbe nemmeno dovuti porre certi problemi. 
"Non ti devi scusare. Neanche io ero molto in vena."
"Forse lo saresti stato se non mi fossi messo a frignare." 
Un dito del castano schioccò sotto il mento dell'altro. Il gesto ebbe l'effetto desiderato, perché Jimin alzò lo sguardo su di lui in tutta la sua tristezza disarmante.
La voce uscì un filo troppo severa a Jungkook, ma era quello di cui l'altro aveva bisogno. "Non osare sentirti in colpa, Jimin, hai capito? Non mi devi niente. Sarei davvero un amico di merda a pretendere certe cose dopo quello che è successo." 
Jimin continuò a guardarlo dritto negli occhi, insicuro. 
Jungkook aggiunse un pezzetto in esclusiva al suo discorso. Non perché ci teneva che l'altro avesse quell'informazione, ma perché sembrava la cosa giusta da dire. Era ridicolmente vera. 
"E poi ieri sera ho rischiato la morte precoce, avevo bisogno di riprendermi. Per un attimo ho creduto che Yoongi sapesse di noi due." 
La lingua di Jungkook schioccò all'interno della bocca, come per pronunciare una singola 'c'. In contemporanea, il suo pollice tracciò una linea immaginaria che percorreva la sua gola orrizzontalmente, la testa che fingeva di cadere penzoloni.
Jimin ridacchiò. Non appena Jungkook risorse dal mondo dei morti lo premiò con un occhiolino affettuoso. 
La genuinità radiosa con cui il più piccolo subito dopo gli sorrise spinse Jimin a premiarlo una seconda volta; districò una mano dal cappotto solo per andarla a posare sul retro del collo di Jungkook, sbilanciandolo tutto verso di sé fino a quando le proprie labbra non furono premute contro quella guanciotta invitante. Al posto di stamparci un semplice bacio e rilasciarlo, Jimin lo trattenne vicino per strascicare tutta una serie di bacetti rumorosi, di quelli che si danno solo alle facce paffutissime dei bambini non abbastanza grandi da ribellarsi. 
Jungkook protestò tutto il tempo, mosse di qua e di là le braccia, ma non fece davvero niente per sottrarsi a quella presa. Quando venne liberato si sfregò il viso con la manica della giacca, l'espressione stomacata. 
Jimin rideva, rideva, e il suo sorriso non sarebbe mai stato troppo dolce per nessuno. 
Seduto su un autobus pubblico diretto verso la loro scuola, vestito dalla testa ai piedi, i capelli trattenuti da una berretta invernale e con ancora il profumo di sua madre impresso nella sciarpa allacciata al collo, Jungkook pensò che tutto ciò era quanto di più vicino ci fosse a fare davvero l'amore con Jimin. 
La situazione poi si calmò, ma Jimin non tornò alla stessa serietà di poco prima. Si limitò a distendere le gambe su quelle di Jungkook, facendoglisi più vicino. Appoggiò il capo alla spalla dell'altro, impedendo ad entrambi di guardarsi in faccia. 
"E allora grazie per avermi ospitato a casa tua anche 'sta notte." 
Jungkook intortò un sorriso a denti scoperti con una smorfia, sollevando gli occhi al cielo. "Sei così riconoscente con tutte le persone con cui vai a letto o siamo noi due a essere gli amici con benefici più deprimenti di Seul?" 
Il sorriso di Jimin era percepibile dalla sua voce. 
"La seconda, definitivamente."
Quando loro due smisero di parlare, l'autobus parve farsi silenzioso. Sì, gli altri giovani chiacchieravano, della musica commerciale suonava da più punti, ma non erano comparabili. Ci volle qualche minuto in cui Jungkook e Jimin godettero semplicemente della reciproca presenza prima di ritrovare un cappio al discorso. 
"Oggi hai qualche laboratorio pomeridiano a scuola?" chiese Jimin. 
"No, vado a casa di Tae. Perché? Avevi bisogno?" 
"No, no, tranquillo. Mi chiedevo solo se avessi il club di scherma, tutto qui."
Jungkook rifilò all'altro un colpetto con il gomito, percependo l'umorismo. Non sapeva come, non sapeva perché, ma a quanto pare le motivazioni riguardo a questa sua improvvisa passione erano più ovvie del previsto.
Jimin glielo confermò quando le sue risa si ridussero ad un sorriso prima di sparire del tutto. Il nuovo silenzio con cui inzuppò Jungkook era bagnato di parole impronunciate. 
"Kookie," disse, l'aroma del dispiacere che aleggiava nella sua voce. "penso che tra Taehyung e suo cugino ci sia qualcosa."
La serenità del più piccolo si scheggiò. 
Questa volta fu lo stesso Jimin ad auto-imporsi di non sentirsi in colpa. Non esistevano i momenti giusti per quel tipo ti cose. Preferiva essere sincero con il suo amico fin da subito piuttosto che far finta di non aver notato le condizioni in cui i due cugini erano usciti dal bagno di Cup's la sera precedente. Niente di indecente, ma era abbastanza ovvio che non si erano semplicemente fatti compagnia come due amichette. O almeno, sperava fosse la cosa giusta da fare. 
Jungkook sospirò attraverso il naso.
"Lo so." 
Le sopracciglia di Jimin si arricciarono, sorprese. "Come?" 
"Tempo fa si sono baciati. Me lo ha detto Tae."
Il tono che aveva usato sapeva di rassegnazione, come se si fosse già arreso alla cosa e fosse passato oltre. Ma quella sbavatura nella voce, il modo in cui le dita parvero irrigidirglisi qualsiasi cosa stessero facendo, lo smascheravano agli occhi di Jimin. Quell'ultima vocale, più che una 'o', gli era parsa più una piscina contenente tutta la tristezza di questo mondo.
Una mano di Jimin andò a posarsi sul ginocchio di Jungkook; si sistemò sul suo seggiolino, in modo da poterlo guardare degli occhi. 
"Stai bene?" chiese. 
Si aspettava che quella piccola scheggia iniziasse a crepare, facendo collassare tutto quanto, ma tutto rimase saldo al suo posto. Invece di rispondere, Jungkook avvolse le sue braccia attorno a Jimin, quasi fosse una colonna portante. Il ragazzo dai capelli argentei venne fatto sedere direttamente sulle cosce dell'altro, il mento di quest'ultimo appoggiato al suo capo. 
Sotto di loro il motore dell'autobus era un ronzio continuo, accompagnato dalla tipica vibrazione ogni volta che si fermava ad un semaforo. 
Jungkook poteva ben vedere come mai Jimin fosse tanto richiesto. 
Con quella statura minuta sembrava letteralmente pregare di essere sovrastato, di essere stretto. E il fisico tonico, ben delineato, era una calamita per mani. 
Jimin non possedeva neanche la metà delle caratteristiche estetiche di cui dovevano essere muniti i ragazzi per essere considerati oggettivamente belli, ma risultava perfetto comunque. 
Per non parlare del suo carattere. Jimin era la persona più piacevole che Jungkook conoscesse. Se c'era qualcuno che era in grado di avvicinarlo, fargli moine ed infastidirlo senza fargli desiderare di allontanarlo, quello era lui. 
Quindi Jimin era bello, era gentile e aveva consentito ad andare a letto con lui, fattore non trascurabile.
E allora perché Jungkook non smetteva di pensare a Taehyung una volta per tutte?
Forse per lo stesso motivo per cui Jimin trovava Jungkook adorabile e divertente, ma continuava a litigare con Yoongi. 
Il castano sostituì il proprio mento con la fronte, seppellendo il naso contro la chioma di Jimin. Poté sentire le braccia muscolose dell'altro ricambiare come potevano la stretta seppure la posizione non fosse delle più comode. 
Vista la reazione taciturna, Jimin non se la sentì di insistere. Si limitò a fare una domanda retorica ad entrambi prima di chiudere gli occhi, inconsapevole che Jungkook aveva appena fatto lo stesso. 
"Non sarebbe tutto più facile se ci fossimo messi insieme io e te fin dall'inizio?"
Qualcuno chiamò il campanello della loro stessa fermata. 

(39) November 5th, 2015 - Thursday

La fiamma dell'accendino non ne voleva sapere di stabilizzarsi. Taehyung continuava a far scattare la rotellina, ma poteva già sentire la punta del pollice irritarsi. 
"Sta attento. Così ti brucerai le dita." 
Jungkook fece per togliergli di mano l'aggeggio, ma Taehyung portò il braccio dietro di sé, mettendolo fuori dalla sua portata. Urtò la credenza alle sue spalle con le nocche, ma non se ne preoccupò. 
I due migliori amici erano accucciati sul pavimento della cucina del biondo, circondati da cartacce e sacchetti di caramelle. Fuori il tempo non doveva essere dei migliori, perché la luce pomeridiana che filtrava dalle finestre era opaca, grigiastra. Avrebbero fatto meglio ad accendere il lampadario, ma entrambi erano troppo pigri per alzarsi da terra e raggiungere l'interruttore. 
Un sorrisino sbucò sulla bocca di Taehyung, le sopracciglia che gli si inarcarono verso l'attaccatura dei capelli. Sapeva benissimo quanto l'altro fosse competitivo anche per le cose più futili e vedersi sottrarre a quel modo l'accendino doveva averlo irritato. 
Jungkook lo ignorò, ma quel suo corrucciare la bocca ovviava il suo fastidio. Tentò di camuffare la cosa bevendo un sorso di aranciata; quando ebbe finito, ripose il bicchierone azzurro di plastica rigida a terra, di fianco a quello in vetro di Taehyung. 
Quest'ultimo riuscì a far brillare una scintilla, ma non successe nient'altro. "Eddai," disse Taehyung scuotendo l'accendino, come se potesse effettivamente farlo funzionare. "Non mi sono sorbito tre anni di boyscout per dovermi ridurre ai fiammiferi." 
Al millesimo tentativo fallito, Jungkook porse una mano ben aperta a Taehyung. Sbuffando, l'altro ne fece un ultimo, poi ripose l'accendino sul suo palmo. 
Quella sua espressione imbronciata si tinse di una luce rossastra quando, nella penombra della stanza, Jungkook riuscì al primo colpo a far comparire la tanto agognata fiammella.
"Non è giusto..." brontolò il biondo. Jungkook andò a riparare con la mano l'estremo dell'accendino da un'aria invisibile. 
"Prendi i marshmellow, sono nella busta." 
Sentendosi già meglio all'idea di poter finalmente proseguire con la prima fase del loro piano, Taehyung sfilò uno stuzzicadenti dall'apposita confezione, anch'essa pronta all'uso sul pavimento. Fece uno spettacolo dell'infilzare una delle tante caramelle rosate, flettendo la sua voce profonda in un gemito di piacere. 
Lo sguardo di Jungkook si sollevò su di lui, il principio di un sorriso che gli tirava la bocca semiaperta. Per un attimo il riflesso limpido della fiammella non fu l'unica cosa ad illuminargli gli occhi. 
Poi Taehyung fece per mettere il marshmellow sulla fiamma, per cui Jungkook si disse che non era il caso di farsi distrarre. Nessuno voleva che quei capelli biondi prendessero misteriosamente fuoco, men che meno lui. 
I due osservarono in un silenzio religioso come le striature di nero tinsero lo zucchero. Le dita di Taehyung facevano ruotare lo stuzzicadenti per poterlo cuocere in modo vagamente uniforme. 
"Se mia madre ci vedesse in questo momento..." 
Nonostante la frase di Taehyung presagisse un continuo negativo, il ragazzo non si levò quell'espressione sbarazzina dal viso. Come se cuocere dei dolci senza niente a riparare il pavimento pulito lo rendesse un ribelle di prima categoria. 
La luce sempre più bluastra che inondava l'appartamento tingeva ogni cosa di lui, approfondiva le ombre celate nella sua felpa, scuriva il dorso delle sue mani. Allo stesso tempo, la luce emessa dalla fiamma dell'accendino gli tingeva i palmi di calore, baciava la punta lucida del suo naso. 
Era nei momenti come quello che Jungkook si diceva che l'unica cosa al mondo che non sarebbe mai stato capace di fare neanche con forza di volontà e allenamento, era staccare gli occhi dal suo migliore amico. 
Tenendo gli occhioni ben aperti, come per concentrarsi sul gusto, Taehyung si portò lo stuzzicadenti davanti al viso, ci soffiò appena e diede un primo morso. 
Il castano aspettò il verdetto. La lingua dell'altro fece capolino tra le labbra per raccogliere un filamento di zucchero bianco. 
"Com'è?" 
Taehyung non rispose. Si limitò a poggiare la metà restante del marshmellow sulla bocca di Jungkook che si ritrovò genuinamente curioso di sentirne il gusto. 
I due migliori amici si guardarono negli occhi, entrambi intenti a masticare. Quando presero ad annuire con il capo all'unisono, i volti della soddisfazione, scoppiarono a ridere. 

Jungkook e Taehyung erano sulla buona strada per onorare gli ultimi rimasugli di Halloween. Il sacchetto di marshmellow aveva fatto in fretta a finire; pure Eonjin si era presentata in cucina, reclamando qualche schifezza anche per lei e Jeonggyu che l'aspettava in camera. 
Come Taehyung aveva temuto, la sorellina se ne era approfittata. Mentre aspettava che il fratello arrostisse abbastanza caramelle, aveva buttato le braccia al collo di Jungkook. Avendolo lì, seduto sul pavimento, per una volta alla sua portata, non aveva neanche provato a resistere alla tentazione. Poi, come era prevedibile, la bambina aveva iniziato a far storie quando Taehyung ebbe finito, dicendo di voler restare lì con loro. 
Alle solite, Jungkook aveva provato a dire che gli stava bene, che la presenza della piccola non gli era di alcun fastidio, ma l'altro era entrato in modalità voglio-poter-stare-con-i-miei-amici-senza-marmocchi-intorno. Aveva messo il piatto pieno di marshmellow nelle mani della sorellina e le aveva fatto segno di lasciarli in pace, ignorando le sue proteste. Eonjin aveva lasciato la cucina sbuffando, il passo più pesante che una bambina delle elementari riuscisse a produrre. Quando arrivò alla porta che dava sul corridoio si voltò un'ultima volta, una boccaccia dispettosa sul viso. 
Da fratello maggiore qual'era, un ragazzo maturo con una decina di anni in più di esperienza, Taehyung le aveva fatto il verso. 
Si sentì la porta della cameretta di Eonjin sbattere. A seguire, un lungo silenzio. 
Questo tipo di battibecchi non erano certo una novità per Jungkook (anzi, erano la prassi giornaliera), ma non avrebbero mai smesso di imbarazzarlo un minimo.
Di solito il disagio veniva spazzato via semplicemente continuando a fare quello che si stava facendo prima dell'interruzione, o facendo cose nuove, ma nessuno dei due amici prese l'iniziativa. Continuarono a spizzicare tra i vari sacchetti, passando dal dolce al salato come niente fosse. Solo il rumore della plastica e dello scrocchiare delle patatine sotto i loro denti riempiva la cucina. 
Per quanto cercasse di non darlo a notare, il cambio di umore in Taehyung era lampante agli occhi di Jungkook. 
Normalmente addirittura il suo masticare era rumoroso e di presenza, ma sembrava che qualcuno gli avesse staccato la corrente. Teneva gli occhi bassi, lo sguardo nascosto sotto le lunga ciglia. Quando iniziò a prendere le patatine una alla volta al posto di ficcarsene una manciata in bocca, Jungkook si preoccupò. Smise di mangiare a sua volta, deglutendo il boccone prima di parlare. 
"Sono stato cattivo?" 
Taehyung lo aveva preceduto. 
Il castano si ritrovò spiazzato. Come avrebbe dovuto rispondere?
Cattivo non era la parola giusta, poco ma sicuro. Cattivo Taehyung lo sarebbe stato se avesse alzato la voce, se avesse torto un capello a qualcuno, se si fosse permesso di parlare al posto di loro madre, se avesse mandato via la sorellina dal principio. 
Jungkook era figlio unico e non aveva neanche tutto questo gran rapporto con cugini o altro, per cui non poteva davvero dare il suo giudizio per buono. Escluse a priori la possibilità di mentire: non ci avrebbe creduto nessuno dei due. 
"Cattivo no. Forse un po' prepotente."
Un sorriso amareggiato crepò le labbra di Taehyung, gli occhi gialli a terra. 
"Ultimamente non faccio che rispondere male a tutti." 
La mano di Jungkook volò automaticamente sul suo ginocchio. Non seppe cosa lo colpì di più, le parole di Taehyung o il modo in cui le aveva pronunciate. 
"E' un periodo stressante." provò. "E' normale che ti venga da sfogare così le tue-"
"No, Jungkook, non è normale. Non importa se sono stanco o altro, se tratto male gli altri sono una persona di merda a prescindere."
Taehyung aveva raddrizzato la schiena e ora guardava l'altro dritto nelle pupille. La pelle sulla sua mandibola era tesa, le sopracciglia screziate.
Jungkook si dovette ricordare che Taehyung non era arrabbiato con lui, ma con sé stesso. 
Tutte le volte che lo vedeva triste, arrabbiato, giù di tono, agitato, non poteva non sentirsi responsabile, anche quando non centrava niente. Come se fosse compito suo, in quanto migliore amico, mantenerlo stabilmente felice.
Jungkook sospirò, ritirando la mano. 
"Hai voglia di parlarne?" 
Taehyung tuffò una mano nei propri capelli, tirando appena una manciata di ciocche bionde. Tagliò i ponti con lo sguardo del ragazzo di fronte a lui, facendolo girovagare per i mobili della cucina. "Non è che ci sia molto da dire. Solo che negli ultimi tempi mi sento ancora più stupido del solito. Non faccio altro che perdere tempo e oziare, dalla mattina alla sera. Mi dico ogni giorno che quello successivo combinerò qualcosa, ma non muovo mai un dito. Siete tutti così impegnati con le vostre cose, con il lavoro, le scelte universitarie, le vostre passioni e a me sembra solo di rubare il vostro tempo."
Buttò giù un sorso di spremuta, come se il liquido potesse ammorbidirgli le pareti della gola e rendere meno evidente l'incrinarsi della sua voce. 
"Non so, ti sei mai sentito una totale nullità? Non nel senso di persona non popolare o con pochi amici, intendo più... non avere personalità. Non essere in un certo modo, non avere qualcosa che ti distingua dagli altri. Non essere insostituibili." 
Jungkook fece per aprir bocca, ma non ne venne fuori niente. 
Voleva essere comprensivo, far capire a Taehyung che quel che provava era normale, che non era il solo. Ma la verità era che poteva capirlo, ma non percepirlo. Jungkook aveva sempre così tante cose da fare, obbiettivi da raggiungere, allenamenti, corsi. Lui non aveva avuto neanche il tempo di fermarsi e guardarsi intorno, confrontarsi con gli altri. Era sempre stato troppo occupato a seguire la sua indole, semplicemente. 
A questo doveva star pensando anche Taehyung. Si lasciò sfuggire una risatina dal nulla, più un colpo di tosse che altro. 
"No. Ovvio che no." 
Taehyung si strinse nelle spalle, annuendo con il capo ad un pensiero a cui Jungkook non aveva accesso. 
La mente di quest'ultimo era una tavola rasa. Una vocina continuava a spronarlo di fare qualcosa, di mettere fino a questo sfogo che non aveva visto arrivare, a far tornare il buon umore così da potersi divertire insieme come prima. L'altra gli intimava il silenzio; che Taehyung stesse ferendo lui, sé stesso o entrambi, era uno spettacolo a cui doveva continuare ad assistere.  
Il ragazzo biondo era un fiume in piena. Era ovvio dal modo in cui parlava, dal peso di ogni sua parola pronunciata come fosse una condanna, che doveva essersi tenuto tutti quei pensieri per sé da molto tempo. 
Da parte sua, Taehyung si pentiva di ogni frase nel momento stesso in cui gli scappava dalla bocca. 
Era consapevole di star solo dando aria ai denti; non era certo parlandone che avrebbe risolto le cose. L'unica persona che aveva da biasimare era sé stesso, l'unico con il potere di cambiare le carte in tavola. Confidarsi con un'altra persona non aveva senso: stava solo aggiungendo un'ulteriore nota stonata alla sua immagine già imperfetta.
"Ti saresti potuto trovare un migliore amico migliore, Jungkook. Qualcuno che fosse speciale."
Taehyung sbuffò per un'ultima volta, esasperato. Arraffò con una mano la ciotola vuota sul pavimento e si alzò. L'altra mano appallottolò la manica lunga della maglia e strofinò ruvidamente una gota. 
Jungkook si alzò in piedi a sua volta. Fece un paio di passi nella stessa direzione, calpestando qualche cartaccia delle caramelle appena mangiate. Taehyung aveva raggiunto il non così lontano ripiano in marmo della cucina e, come aveva previsto, era intento a scuotere un sacchetto di patatine verso il basso, ammonticchiandole all'interno del contenitore. L'altro poteva solo fronteggiare la sua schiena, le spalle curve ed il capo chino. 
Certo, Jungkook si era sentito pungere il petto durante tutto il discorso di Taehyung, ma percepì comunque la differenza quando un fuoco parve premergli all'interno della bocca. Faceva male, un male bestia, ma non era descrivibile come un dolore fisico. Era come quando, mentre guardava un film, qualcuno veniva colpito a morte in modo particolarmente cruento; veniva naturale tastarsi la  parte del proprio corpo corrispondente, sentire ferite inesistenti. 
Una cosa era certa: non era la prima volta che provava qualcosa di simile.
Jungkook considerò l'idea di bere qualcosa, ma sapeva già che sarebbe stato inutile. Quel bruciore pareva volergli aprire le labbra a forza, ma lui avrebbe resistito. Sapeva che parole ne sarebbero uscite. 
Se lo era giurato tanti mesi prima. Non le avrebbe pronunciate.
Ma, per quanto fosse risoluto, il ragazzo riuscì solo a deviarne la forma.
"Lo sei. Speciale." 
Gli erano fuggite via, come pesciolini che nuotano controcorrente.
Jungkook restò fermo dov'era, le mani strette a pugno. Okay, non era stato in grado di tacere completamente, ma poteva ritenersi fortunato. 
Nonostante tutto, la casa gli parve all'improvviso dieci volte più silenziosa, dieci volte più vuota, dieci volte più blu. Deglutì, ma un altro pesciolino sfuggì alla sua rete. 
"Per me." 
Taehyung ripose il sacchetto nella credenza dopo averlo chiuso con un elastico. Restando appoggiato al ripiano della cucina si voltò verso l'altro ragazzo, gli occhi tristi e il sorriso grato. 
E' così bello, pensò Jungkook. Così infinitamente bello. 
Pur di vedere quel sorriso splendere un po' di più, la bocca di Jungkook quasi si aprì senza l'aiuto della maledizione della mela. Altre due paroline erano tutto quello che bastavano. 
Jungkook si dimenticò momentaneamente di tutte le cose che non andavano, dell'anno all'estero che doveva affrontare, della conversazione avuta con Jimin quella mattina. 
Dimenticò tutto e vide solo Taehyung. Taehyung così vulnerabile, con le sue ciglia lunghe, il viso sottile e le mani grandi. 
Per cui Jungkook si preparò a dirlo, una volta per tutte.
"Taehyung, ti-"  
Il campanello di casa squillò, irrompendo nell'atmosfera latente dell'appartamento. La persona alla porta doveva essere parecchio di fretta, perché due secondi dopo tornò ad attaccarsi al campanello, suonando a intermittenza. 
Il biondo camminò veloce verso la porta, le spalle rigide dalla sorpresa. Fece appena in tempo a scansarsi quando, non appena l'ebbe aperta, un esemplare selvatico di Kim Namjoon entrò in casa con la delicatezza di un ippopotamo. 
"Hoseok è qui?" 
Non si capì bene a chi stesse rivolgendo la domanda, ma il suo sguardo, dopo essersi guardato intorno come una furia, finì su Jungkook. Quest'ultimo batté le palpebre una, due volte, ma la sua espressione rimase impassibile. 
La realizzazione colpì il più piccolo del gruppo una manciata di secondi più tardi, mentre Taehyung era intento a dire al loro amico che il cugino non si trovava in casa in quel momento. Si diede un grande schiaffo da solo quando si tappò la bocca con una mano, incredulo. 
Jungkook si diede una scantata. Vide appena in tempo Namjoon uscire nello stesso modo in cui era entrato, più frenetico di quanto lo avesse mai visto. 
"Namjoon!" chiamò Taehyung dallo stipite, quel nome che rimbombava per le scale. "Tutto bene, amico?" 
"Non voglio parlarne con voi," fu la risposta dell'altro, la sua voce lontana. "mi serve un parere oggettivo!" 
Il biondo restò con lo sguardo fisso oltre la porta per un po' prima che qualcosa gli balenasse in mente. Tornò a rivolgersi a Jungkook, il suo tono di voce normale. "A proposito di Hobi."
L'aria afflitta che fino a un minuto prima aveva afflitto Taehyung pareva essergli stata sbalzata via dalle spalle con l'arrivo di Namjoon. Se fosse per autodifesa o altro, Jungkook non avrebbe saputo dirlo. Sapeva solo che, conoscendosi, entrambi ne avrebbero approfittato per riportare il loro pomeriggio su una strada più allegra, come se non si fossero mai aperti l'uno con l'altro.
Taehyung si voltò verso Jungkook, un nuovo tipo di imbarazzo ad impatinargli il viso. "Avrei un favore da chiederti." 
Jungkook si ripromise che più tardi avrebbe ringraziato Dio per avergliela fatta scampare bella. Se l'altro gli avesse chiesto di finire cosa stava dicendo prima non avrebbe saputo cosa inventarsi. 
"Dimmi pure." 
Taehyung appoggiò la mano a un fianco, rimanendo dalla porta che stava dimenticando di chiudere. "Non è che domani mi terresti Eunjin e Jeonggyu?" 
"Intendi prima di uscire con il gruppo?" 
L'altro annuì.
"Uhm, okay. Direi che non c'è problema. Hai qualche impegno particolare?" 
Il castano lo chiese per pura curiosità. Arrivato a metà della risposta di Taehyung, capì che avrebbe preferito rimanerne all'oscuro.  
"Mia madre e mia zia staranno fuori tutta la giornata e ci hanno detto che torneranno per cena. Sai, Hobi ed io, ecco..." 
Un sorriso, diverso da tutti quelli che erano mai stati rivolti a Jungkook. 
"...domani vorremmo portare un po' di roba al nuovo appartamento. Dovrei lasciare i due marmocchi da soli, e se combinano qualcosa mamma mi uccide. E poi dobbiamo parlare e a casa non esiste la privacy." 
"Oh," fu l'unica cosa che riuscì a dire Jungkook. Oh
Lui non era stupido, e non era neanche cieco, ma la cosa lo prese alla sprovvista. Un conto era sapere, immaginare cosa legasse i due cugini. Un altro era venire coinvolto per facilitargli il tutto, qualsiasi cosa tutto fosse.
Per la terza volta nel giro di una sola chiacchierata, Jungkook sentì un altro tipo di dolore. 
Taehyung, d'altro canto, non era mai stato un gran osservatore, su questo Yoongi aveva ragione. Al disagio dell'altro cercò di far ammenda con una risata nervosa, grattandosi il capo. 
"Giuro che per oggi i discorsi imbarazzanti sono finiti. Ti va di giocare alla Wii?" 
La risposta di Jungkook sarebbe tardata ad arrivare anche se un ciocco non fosse risuonato per le scale del corridoio. Lo seguì quello che era senza dubbio un gemito di Namjoon che nel giro di mezzo minuto fu di nuovo all'interno dell'appartamento. Entrò tenendo il cellulare in bella mostra davanti a sé, come fosse un pass o il distintivo di un poliziotto. Con i frammenti dello schermo distrutto che ancora cadevano a terra, prese il telefono di casa di Taehyung, blaterando scuse su scuse. 
Sempre più confusi dal comportamento atipico del ragazzo, i due migliori amici guardarono Namjoon attraversare la porta a vetri che dava sul balcone, chiudendosela alle spalle. 

(40) November 5th, 2015 - Thursday

Le dita di Yoongi affondarono tra i tasti del pianoforte. 
Le lezioni erano finite, i laboratori pomeridiani iniziati, tanti studenti se ne erano tornati a casa e altri avevano pranzato insieme. Non che gliene fregasse molto. Per lui l'importante era che l'aula di musica si fosse svuotata. 
Tecnicamente non si sarebbe dovuto trovare lì; il patto con il professore era valido una volta a settimana, ma Yoongi riteneva che almeno un'eccezione gli fosse concessa. Non progettava di allenarsi per ore ed ore, gli sarebbe bastato sgranchirsi le dita per una ventina di minuti e poi avrebbe lasciato l'edificio senza dare problemi a nessuno. 
Doveva soltanto sperare che i bidelli non lo chiudessero dentro a chiave per ripicca, che a pensarci bene non sarebbe stata comunque una cosa così grave. Quasi trovava l'idea allettante. Yoongi poteva nascondersi nel grosso armadio delle percussioni e passare la nottata all'interno dell'aula, pronto a tornare a lezione l'indomani mattina. 
Non aveva neanche il problema del cibo: chiuso com'era il suo stomaco, non sarebbe riuscito a buttar giù qualcosa neanche se lo avesse avuto con sé. 
Per far passare tutto quanto gli bastò arrotolarsi le maniche della maglia oltre il gomito, la felpa e la giacca che pendevano dall'attaccapanni riservato agli insegnanti. Con il bordo sfilacciato dei jeans ancora nero di pioggia, Yoongi pigiò uno dei pedali del pianoforte, regolandone il suono. 
Chiuse gli occhi ancor prima di iniziare a suonare. 
Non aveva preso spartiti con sé, non aveva niente sui cui esercitarsi o nuove scale da memorizzare. Aveva tutte le intenzioni di lasciarsi andare, di far scorrere le dita sotto dettato dell'istinto, pescare in un mare di note l'unica melodia che potesse assomigliare a quello che si teneva dentro. 
Quando faceva così capitava spesso che incappasse in melodie già familiari, magari studiate tempo prima, ripetute al punto che le sue dita ne seguivano automaticamente il percorso già tracciato. Di solito non appena se ne accorgeva si limitava a stravolgerle, a mischiarle con altro, fino a renderle irriconoscibili. 
Ma questa volta Yoongi si estraniò al punto da non riconoscere lui stesso quel motivetto già sentito. E si sarebbe anche dovuto accorgere che qualcos'altro non andava, che qualcos'altro si stava velocemente facendo strada in lui. 
Se non fosse stato così travolto dai suoi sentimenti, il moro avrebbe potuto sentire quel qualcos'altro nascere la sera prima, aggrovigliarsi alle sue viscere e appisolarsi lì. Era solo grazie a quel suo reprimere le emozioni troppo forti che la maledizione della mela non era riuscita a far presa su di lui nell'immediato, quando Jimin lo aveva baciato. 
Ma adesso Yoongi aveva abbassato le difese per trasformare ogni cosa in musica, esponendosi. Non sarebbe stato risparmiato. 
La maledizione non parve neanche inglobarlo in un sol boccone. Ne venne assorbito gradualmente, come se la realtà stessa si stesse trasformando. Yoongi non percepì la differenza; continuò imperterrito a suonare alla cieca, l'ombra che cadeva tutt'intorno a lui sotto forma di polvere.
Aprì gli occhi solo quando tutto si era fatto nero. 
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La stanza non possedeva più pareti. O forse era semplicemente il mondo a non esistere più. 
A Yoongi non importava, come sempre del resto. 
Aveva il suo pianoforte, un pianoforte a coda magnifico che in nessuna vita passata o futura avrebbe mai potuto descrivere come suo, e aveva tutto il tempo per suonarlo.
L'acustica era perfetta. Le note erano cristalline, pulite, accordate con precisione. 
Se si fosse trattato di un sogno qualsiasi, se Yoongi fosse stato di un altro umore, ci avrebbe suonato la più fine delle melodie, la più dolce delle ninne-nanne.
Peccato che lo spirito di Yoongi fosse tutto acido e fumo.  
Le sue mani piombarono sui tasti, pesanti, veloci. Correvano furiosamente su e giù, picchiavano con cattiveria sui toni più bassi per poi farli stridere con una seconda voce acutissima. 
Non lasciava neanche il minimo respiro tra una nota e l'altra, riempiva il silenzio di rumore e caos. La melodia originaria si percepiva appena sotto tutto quel trambusto e Yoongi continuava a seguirla facendola crescere, crescere, crescere, lavorandoci sopra, improvvisando scale sempre più fisicamente contorte e veloci da eseguire. 
I capelli scuri del ragazzo gli si attaccarono alla fronte per il sudore mentre trovava sempre più difficile rimanere seduto allo sgabello. Il suo viso era una maschera di rabbia, gli occhi docilmente chiusi fino a pochi attimi prima ora strabuzzati, le pupille piatte, dure e color giallo. 
Yoongi calciò via lo sgabello che cadde alle sue spalle con un tonfo tremendo. Tenendo le ginocchia piegate, continuò a suonare all'impazzata, ogni mano che andava per i conti propri.
Fu allora che si accorse di una macchiolina color porpora sulla sua maglietta. 
La musica stonò, tuonando. 
Per un attimo la testa di Yoongi si svuotò completamente dalla curiosità. 
Con le mani dolenti, andò a premere l'indice sulla macchiolina in estensione. Non solo gli parve di pungersi, ma la punta del suo dito si macchiò dello stesso rosso. 
Yoongi si sollevò la maglietta verso l'alto senza sfilarsela, scoprendo giusto la zona interessata. Il suo sussultò risuonò dieci volte più forte in quel silenzio di tomba. 
Qualche centimetro sopra il suo ombelico e sotto il costato, una piccolissima puntina triangolare spuntava dal suo stomaco. Ne avrebbe potuto vedere il bianco cangiante se non fosse stata ricoperta di sangue. 
Cercando di mantenere la calma, Yoongi la prese tra l'indice e il pollice e la tirò in avanti, come se si trattasse di una scheggia. Con suo orrore, la ferita si allargò di conseguenza, provocandogli un dolore lancinante che lo piegò in due. Quella che prima era una puntina di bianco ora era una vera e propria linguetta di carta. 
Con le lacrime agli occhi e i denti digrignati, Yoongi la strattonò via dal suo corpo. In un qualche modo ne sentì subito la mancanza, come se fosse stata per tutto quel tempo stretta tra due lembi di carne viva che ora trovavano difficile riallacciarsi tra di loro.  
Yoongi si premette forte una mano contro lo stomaco, pregando che il gesto potesse rallentare, se non fermare, la perdita di sangue. Si appoggiò con l'altra mano al pianoforte, raschiando aria per i suoi polmoni. Solo in un secondo momento si decise a dare un'occhiata a cosa cavolo si era sfilato di dosso. 
Quando i suoi occhi si posarono sul quel rettangolo cartaceo, che per sua fortuna non era più largo di un palmo della mano, gli venne voglia di piantarsi le unghie nella ferita ed allargarla per vedere se sarebbe morto dissanguato. 
Se fosse stato lucido avrebbe potuto capire anche solo al tocco che quel tipo di carta rigida era quella che si usava per stampare fotografie. 
E infatti era quello che si era ritrovato tra le mani. Una fotografia venuta un po' mossa, macchiata in più punti di un rosso che le dita di Yoongi si affrettarono a far scivolare via. 
Jimin, sempre così posato, così invulnerabilmente fine, aveva le gote chiazzate di rosa, le ciglia più visibili perché bagnate. Teneva le mani strette a pugno vicino al petto, incapace di rilassarle contro le cosce. Gli angoli della bocca erano rivolti verso il basso in un'espressione prossima al pianto. 
Cazzo.
Come cazzo era possibile. Come. 
A giudicare dalla prospettiva, dal modo in cui gli occhi di Jimin così rossi e grandi guardavano dritto nell'obiettivo, pareva fosse stato Yoongi stesso a scattare la foto. 
Il moro non si diede tempo di pensare. 
Aprì il coperchio superiore del pianoforte a coda e lasciò cadere l'immagine al suo interno. La osservò finire subito in basso, appesantita dal liquido che la impregnava almeno in parte. Quando atterrò non venne accolta dagli interni dello strumento; una distesa di fotografie della stessa misura tappezzava tutto quanto, si infilava negli ingranaggi e veniva stropicciata da questi ultimi. Incredulo come non mai, Yoongi allungò una mano verso una manciata di loro, portandosele vicino al viso. 
Jimin. 
Jimin. 
Ancora Jimin. 
Jimin alle medie, Jimin in seconda superiore. 
Erano tutti momenti su di lui, tutti ricordi che per Yoongi avevano un certo peso, che fosse positivo o negativo. Erano tutti quegli episodi a cui ripensava quando suonava il pianoforte. 
Ormai il moro si muoveva in automatico, senza rispondere più al cervello. 
Sfilò dalla tasca dei pantaloni il suo accendino e diede fuoco alle fotografie che aveva in mano, per poi farle ricadere dove le aveva trovate. Restò a guardarle contagiare tutte quelle intorno, dando inizio a un crepitio leggero leggero che accompagnava l'aggrinzirsi dei bordi e l'oscurarsi delle immagini. 
Un minuto dopo, Yoongi, ritrovata la sua calma flemmatica, andò a raccogliere lo sgabello da terra e si risedette al pianoforte.
Come lo strumento potesse suonare tanto bene quando persino gli ingranaggi interni stavano prendendo fuoco era un mistero. 
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(41) November 5th, 2015 - Thursday

L'appartamento di Taehyung faceva parte di un condominio. Anche se l'informazione fosse passata prima per la testa di Namjoon, il suo problema era così urgente che se ne sarebbe fregato comunque. Gli altri condomini erano tutti molto vicini, gli appartamenti dello stesso in cui si trovava ancora di più, e di sicuro lui non era conosciuto per la sua vocina delicata. Mezzo mondo avrebbe sentito la sua telefonata, era ufficiale. Almeno avrebbe ravvivato il loro noioso giovedì pomeriggio.
Namjoon premette veloce i tasti sul telefono, portandosi l'aggeggio all'orecchio. Mentre aspettava che la chiamata partisse si voltò verso l'interno della casa, le gambe che non riuscivano a stare ferme. Attraverso la vetrata, Taehyung e Jungkook ancora lo stavano fissando; fece segno loro di sparire, intimandogli di non origliare. Scambiandosi occhiate confuse, i due furono accondiscendenti e si diressero verso il salotto lì a fianco. 
Namjoon saltellò, batté la mano libera contro la coscia, improvvisò un motivetto con la punta del piede, ma niente lo aiutò a far passare più velocemente gli interminabili secondi che ci vollero a Hoseok per rispondere. 
"Pronto?"
"Ehi, Hoseok. Sono Namjoon, l'amico di Tae. Mi serve un parere oggettivo. Ti disturbo? Giuro, ci vorrà poco." 
Anche se non avesse precisato quest'ultima cosa, Hoseok lo avrebbe dedotto comunque. Qualsiasi conversazione mantenuta allo stesso ritmo con cui Namjoon aveva appena parlato, iniziando una frase ancor prima di finire l'altra, non mangiandosi ma ingurgitandosi le parole, non sarebbe durata a lungo. Era già tanto che fosse riuscito a capirci qualcosa. 
"No, non mi disturbi. Hai detto che hai bisogno di un parere oggettivo?" 
"Hai presente Seokjin? Spalle larghe, capelli rosa, risata stramba? Ecco, lui è il mio ragazzo. Noi due siamo innamorati. Vuol dire che stiamo insieme. Facciamo sesso." 
Il principio di una risata scappò ad Hoseok. Non aveva certo avuto molte occasioni per conoscere l'altro, ma questo ragazzo con cui stava parlando al telefono tutto agitato e logorroico gli stava già in simpatia. "Si, lo avevo notato." 
Namjoon si aggrappò con una mano alla balconata, sfidandosi a rimanere fermo per più di cinque secondi. Aveva già dedotto che il balcone era lungo e largo abbastanza per farci avanti e indietro una decina di volte (o un centinaio).  
Lo stava per dire ad alta voce, lo stava per rendere reale. Solo al pensiero gli si stringeva la gola. 
"Credo mi abbia chiesto di sposarlo." 
Il silenzio dall'altra parte della linea durò un nanosecondo prima che la voce di Hoseok esplose, di un paio di ottave più alte. 
"Oh mio Dio! Congratulazioni!" 
"Nonono, non congratulazioni! E' un gran casino! Stavamo dormendo e lui a un certo punto me lo ha chiesto e io ho detto sì e lui è tornato a dormire e io sono rimasto sveglio tutta la notte a pensare, quando avrei dovuto pensarci prima! Insomma, stiamo insieme dall'era dei dinosauri, ma siamo giovani, è presto, e inoltre io e lui ci confrontiamo sempre su ogni minima cosa, anche sulla politica o sui nuovi cartoni animati di Barbie, che a quanto pare sono ancora più ignoranti di quando eravamo piccoli noi, com'è possibile che non abbiamo mai, e dico mai, parlato di matrimonio? E' per questo che non riesco a credere che l'abbia fatto. Magari era ubriaco marcio e io non me ne sono accorto."
I polmoni di Namjoon lo costrinsero a inalare un filino d'aria, o sarebbero collassati.
"Ma adesso come faccio? Non posso affrontarlo. Se lui stava scherzando e io gli chiedo se era una vera proposta risulterò pietoso e un idiota, se invece glielo chiedo ed era serio penserà che allora sarò stato io a rispondergli alla leggera, scambiando uno dei momenti più importanti della nostra storia- ma che dico, uno dei momenti più importanti delle nostre fottute vite, per una barzelletta e rovinerò tutto, in entrambi i casi. Ommiodio. E se la prossima volta mi chiede i nomi dei nostri figli?" 
"Namjoon. Frena. Prendi fiato."
Il ragazzo dai capelli verdi seguì le istruzioni. Era nei momenti come quello, quando si faceva prendere dal panico e blaterava parole su parole, che si diceva che in un'altra vita avrebbe benissimo potuto perseguire la carriera del rapper. Altroché lavoro d'ufficio. 
"Non fasciarti la testa prima di romperla. Vediamo di affrontare una questione alla volta." 
"Okay." rispose Namjoon. Tentò di riprendere il controllo di sé, costringendosi a svuotare liberare la testa e pensare in modo chiaro e pulito. Si appoggiò con la schiena alla parete alle sue spalle, il berretto rosso che attutiva il contatto tra la sua nuca e i mattoni. 
"Rispondi a una semplice domanda: Namjoon, tu vuoi sposare Seokjin? Sì o no?" 
Sposare Seokjin. 
Già solo quelle due parole gli sapevano di calore. Di promesse. Di pan di zenzero e cioccolata.
Namjoon si ritrovò a socchiudere le palpebre. Un sipario calò su quel cielo plumbeo che si stagliava sopra di lui. 
"Si." disse, la voce ferma. "Lo voglio." 
Il sorriso di Hoseok era percepibile attraverso la linea.
"E allora il problema qual'è?"
Una fossetta fece capolino sulla guancia dell'altro. Sembrava tutto così semplice messa così. Forse lo era davvero.
Intuendo che Namjoon avesse bisogno di pensare, Hoseok lo rassicurò come meglio poté. 
"Non avere paura di parlarne con Seokjin; scommetto che anche lui è nella tua stessa situazione ed è indeciso se affrontarti o meno. Vedrai che andrà tutto bene. Solo, non menzionare la cosa dei vostri figli, magari." 
Namjoon annuì, anche se l'altro non poteva vederlo. 
Era definitivamente più tranquillo. Non del tutto, ma di più. Non sapeva se la cosa fosse dovuta al semplice potere terapeutico dello sfogarsi, ma l'importante era che fosse servito a qualcosa. E aveva fatto bene a cercare Hoseok; gli altri erano troppo coinvolti, sarebbero stati di parte. Yoongi non avrebbe cavato un ragno dal buco, Jungkook avrebbe trovato mille e più motivi per cui la cosa era troppo precoce e Taehyung si sarebbe impuntato per essere quello a consegnare loro le fedi durante la cerimonia. 
"Grazie, Hoseok. Sei un amico, davvero." 
"Non c'è di che. Dovere." 
Con un ultimo ringraziamento, Namjoon pose fine alla telefonata. Questa volta, sospirare fu un sollievo. 
Dall'altra parte di Seul, Hoseok appoggiò il cellulare sul divano a cui era seduto con un sorriso. 
"Cosa ha detto?" 
Di fronte a lui, tutto accucciato in una poltroncina dal design elegante, Kim Seokjin lo guardava con occhi speranzosi, due guance chiazzate di rosso e una montagna di fazzoletti umidi ammonticchiati sulle ginocchia.

(42) November 5th, 2015 - Thursday

Un gran bel paio di bicipiti tenevano Jimin stretto ad una parete. Erano notevoli, soprattutto se esposti a quel modo. 
Il ragazzo rimasto in canottiera che lo sovrastava era a dir poco altissimo; doveva starsene tutto curvo con la schiena per poter arrivare con la bocca alla sua gola. Jimin avrebbe tanto voluto dire di starsi godendo la cosa, incoraggiare l'altro a far di più, ma quel giorno non era proprio in vena di bugie. 
Non era sicuro che quel Dean gli stesse facendo un succhiotto. Era più probabile che stesse tentando di prosciugargli tutto il sangue che aveva in corpo a giudicare da quella sua tendenza ad affondare un pelino di troppo i denti. La sua presa sui polsi del più piccolo era troppo ruvida, come se lo volesse appendere al muro. 
I due si trovavano all'interno dello sgabuzzino dei bidelli, stretti tra credenze di prodotti per pulire, interi pacchi di rotoli di carta igienica e mocci. Jimin si sarebbe completamente scordato di quell'impegno se non glielo avesse ricordato il suo cellulare con un promemoria. Era già da qualche settimana che Dean insisteva affinché si trovassero il giovedì, dopo le lezioni: la sua ragazza a quell'ora aveva il club di cucina, ma voleva comunque essere aspettata fino a fine lezione per tornare a casa insieme. Inutile dire che, in quell'ora di attesa, Dean si era sempre annoiato a morte. 
Quando si erano dati appuntamento, Jimin non ci aveva visto niente di male, anzi.
Invece adesso sembrava tutto così sbagliato. 
Non perché Dean fosse impegnato, quella era una storia che aveva sentito troppe volte per poterlo vagamente scalfire. Per quello si era sempre detto che certe persone semplicemente non erano nate per le storie d'amore esclusive o avevano bisogno di una distrazione dal solito partner di tanto in tanto. 
Jimin si sentiva sbagliato perché non riusciva a divertirsi. Non riusciva a farsi coinvolgere dalla passione dell'altro, non sentiva risvegliarsi quel lato giocoso che aveva sempre la meglio su di lui in questo tipo di occasioni. Il corpo che premeva contro il suo era solo un peso. 
La cosa gli ricordava vagamente di quando da piccolo si addormentava sul divano; sua madre insisteva nel mettergli la coperta, anche se era estate e faceva caldo.
Mangiarsi una barretta al cioccolato fondente per colazione era stato dieci volte più appagante. Ecco, ora che aveva fatto questo paragone, Jimin poteva vedere con chiarezza il suo futuro: sarebbe diventato una palla di ciccia apatica. Di sicuro era sulla buona strada. Con il mento oltre la spalla di Dean, fissava con occhi vacui quell'unica lampadina nuda appesa al soffitto.
Jimin si sarebbe voluto raccontare di non sapere perché si sentisse così. Eppure, quando prima aveva evitato di proposito un bacio diretto sulla bocca, lo aveva capito benissimo. 
Al contrario, Dean non doveva essere uno molto perspicace. Aveva continuato dritto per la sua strada, indisturbato. Jimin lo aveva lasciato fare, ma pensò che fosse il caso di mettere un punto alla cosa quando un paio di mani andarono ad aggrapparsi alla cintura dei suoi jeans.
"Dean," chiamò. Appoggiò i palmi delle mani sul petto dell'altro, allontanandolo. "Non sono dell'umore oggi. Scusa."
Lo spilungone non batté ciglio. Fece subito per chiudere il nuovo spazio tra di loro. "In teoria queste cose non si fanno per migliorarlo l'umore?"
"Non insistere. Non ne ho voglia." 
Jimin fece forza con le braccia e si guadagnò un po' di ossigeno. Capendo l'antifona, Dean si limitò ad appoggiarsi con la schiena sulla prima superficie verticale a disposizione in quello spazio ristretto. La delusione sul suo viso era evidente, così come lo era il rigonfio sotto i suoi pantaloni.
Il ragazzo dai capelli argentei era intento a richiudersi i bottoni della camicia quando le parole dell'altro lo interruppero. 
"E' per via del video? Ti hanno dato noie?" 
Dean venne guardato con tanto d'occhi. 
"Che video?" 
"Quale video secondo te?" 
La domanda di Dean era ironica, come se il soggetto della loro chiacchierata fosse più che ovvio. Evidentemente l'espressione dell'altro era abbastanza confusa, perché gli diede un indizio, come a voler risvegliare la sua memoria. 
"Dai. Il video. E' iniziato a girare ieri sera. Tu e Fred Johnman." 
In un tentativo di capire, Jimin ripeté pari pari. Si indicò il petto con l'indice, inconsciamente. 
"Io e Fred Johnm-"
Capì. 
Jimin capì. 
Jimin capì e gli venne voglia di urlare. 
Gli balenò tutto alla mente in un secondo: la mattinata dopo Halloween, la camera da letto; quella strana ragazza seduta a terra, la sorella di Fred Johnman; "Me lo ha chiesto lui. Di filmare, intendo."
Aveva detto che non l'avrebbe messo in rete e Jimin si era fidato, da stupido qual'era. Avrebbe dovuto farle cancellare tutto a prescindere. Aveva ogni diritto di farlo eppure non aveva mosso un dito. 
Una seconda consapevolezza colpì Jimin, dritta come un pugno sul naso. L'esistenza di un suo sex-tape spiegava tante cose, ma il fatto che fosse stato pubblicato proprio la sera precedente ne spiegava una in particolare. 
Spiegava perché, dalla primissima frase con cui aveva attaccato Jimin e Jungkook, Yoongi non avesse mollato il cellulare neanche un secondo. Spiegava da dove era sfociata tutta quella rabbia, così fuori posto, così violenta, così imprevista durante quella serata tra amici.
E ci credeva che Yoongi fosse andato letteralmente in bestia. Con il moro bastava la minima battuta, il minimo sguardo per scatenare un putiferio. Figurarsi un sex-tape. 
Jimin aveva scazzato. 
Aveva davvero, davvero scazzato. 
Non poteva neanche immaginare come si doveva essere sentito Yoongi. La reazione se l'era sorbita tutta, invece, personalmente ed in diretta. 
Si rivide d'avanti agli occhi quello sguardo furioso, il modo in cui gli era apparso spezzato dentro. E lui l'aveva pure preso a schiaffi. 
Senza grandi congedi, Jimin uscì dallo stanzino. Dean sembrava stargli dicendo qualcosa riguardo al sentirsi per messaggio, ma lui era già a metà del corridoio. 
Tutto quello a cui pensava era cercare Yoongi, chiamarlo al cellulare, dargli delle spiegazioni, ma la cosa non gli andava totalmente giù. Sarebbe stato come porgli le sue scuse e Jimin non aveva oggettivamente niente di cui scusarsi. Yoongi non aveva alcun diritto su di lui. 
Tutte queste pare mentali si rivelarono inutili quando una melodia familiare giunse alle sue orecchie, lontana.
I piedi di Jimin si piantarono sul posto, immobilizzandolo al centro del corridoio vuoto. 
Era un pianoforte. Era senza dubbio un pianoforte. Non si trattava di un cd di una qualche orchestra. Era un pianoforte e quello a suonare era lo stesso pezzo che era stato eseguito da Yoongi al concerto delle medie. Sembrava in un qualche modo diverso, più tetro, ma avrebbe riconosciuto quella manciata di note arrangiate in tutti i modi possibili. 
Un senso di leggerezza gli prese il petto, la testa, tutto. 
Jimin si mise a correre per i corridoi della scuola, sapendo perfettamente dove trovare l'unico pianoforte presente nell'edificio. Quando ormai fu in procinto di avventurarsi all'interno dell'aula di musica, la melodia così forte da rimbombargli nella testa, i suoi occhi si erano fatti gialli. 
La porta non era stata chiusa a chiave, per cui gli bastò abbassare la maniglia e spalancarla; il pensiero di bussare educatamente non gli sfiorò nemmeno il cervello. 
Min Yoongi gli dava le spalle ed era così preso a suonare che non si accorse del suo arrivo. 
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Tutto era così buio, come la prima volta in cui Jimin era caduto nella maledizione della mela. L'unica luce a divampare al centro della stanza stava letteralmente divorando il legno del pianoforte. Le fiamme si facevano sempre più alte, assorbivano tutto l'ossigeno di cui disponevano. 
Accolto in un secondo momento dall'odore di bruciato, Jimin raggiunse lo strumento musicale per sbirciare all'interno del cofano; era lì che l'incendio pareva avere origine.
Oltre agli ingranaggi, le aste, le corde, si intravedevano delle fotografie. Tante fotografie. Decine su decine. 
E tutte ritraenti lui. 
La maggior parte erano già carbonizzate, ridotte a un friabile ricciolo nero, ma altre erano ancora fuori dal tiro delle fiamme. Jimin allungò automaticamente una mano. 
"Lasciale lì." 
Lo sguardo di Jimin saettò su Yoongi, colto di sorpresa. Fino a un attimo prima l'altro pareva essere immerso in un profondo stato di trance; aveva continuato a suonare imperterrito da quando l'altro era entrato nell'aula di musica, senza battere ciglio. Neanche in quel momento le sue mani smisero di pigiare su quei tasti bianchi, tasti che solo adesso notava essere sporchi di ditate scure. 
"No," deglutì Jimin, la gola resa secca dal fumo. "Sono mie." 
"Sono mie." lo corresse Yoongi, impassibile. 
Nessuno si stupiva più ormai di quanto azioni e parole venissero fuori naturalmente sotto la maledizione della mela: Jimin affondò una mano all'interno del cofano del pianoforte, fregandosene delle fiamme. Ne venne fuori con una manciata di fotografie che strinse nel pugno, come per mostrarle bene a Yoongi. 
"Io non sono tuo." 
Detto questo, Jimin scattò verso la direzione da cui era venuto, fuggendo via con la refurtiva. Yoongi gli fu dietro in un nanosecondo.
Era da pazzi, il moro lo sapeva, ma quelle fotografie dovevano sparire tutte quante. Se lo avessero fatto, forse lui avrebbe iniziato a dimenticare. E dimenticare era la sua priorità assoluta dopo la sera precedente. 
Jimin correva come un forsennato, il panico e l'adrenalina dell'inseguimento che mettevano le ali alle sue gambe. Non si voltava all'indietro per paura di perdere terreno, non si guardava intorno per la stessa ragione. Non si accorse neanche di non trovarsi più nella sua scuola. 
Quello in cui si muovevano era un nuovo spazio. Sempre di corridoi si trattava, ma parevano più quelli di un ospedale abbandonato. I loro ansimi lo riempivano tutto, il rumore dei loro passi frettolosi parevano spezzarne l'incantesimo. Da qualche parte, il pianoforte continuava a suonare. 
Il pavimento era visibilmente sudicio e Jimin dovette rallentare quando intravide il tipico riflesso di una superficie bagnata. Senza mai smettere di correre, cercò con gli occhi una zona che potesse attraversare senza rompersi l'osso del collo, ma esitò un istante di troppo. 
Yoongi placcò Jimin da dietro. Andò contro la sua stessa politica dell'evitare contatto fisico, come se si trattasse dell'ultimo sacrificio necessario per scacciare via un male peggiore. A malapena riusciva a realizzare di aver serrato entrambe le braccia contro lo stomaco dell'altro, di starselo premendo addosso al proprio corpo. La macchia di sangue sulla sua maglietta si stampò sulla camicia di Jimin.
Con la rabbia che gli impediva di distrarsi, Yoongi immobilizzò alla cieca una di quelle manine, cercando di scagionare le fotografie dalla gabbia che erano le sue dita. Stava sottovalutando la forza fisica di Jimin, perché all'altro bastò pestargli il piede con tutta l'energia che aveva in corpo per liberarsi dalla sua presa. 
Un paio di foto caddero a terra, ma nessuno dei due si fermò a raccoglierle. 
Approfittando del fatto che Yoongi era rimasto chino a terra a tenersi il piede dal dolore, Jimin fece una svolta brusca a sinistra, filandosela oltre una porta nella speranza di farla franca. 
Aveva sperato male, perché non si ritrovò nell'ennesimo corridoio, bensì in un'unica stanza.
Più specificatamente si trattava di una sala da bagno piccola e diroccata. Non c'erano i comuni servizi igienici, c'era solo questa vasca da bagno molto larga, evidentemente pensata per poter ospitare i pazienti con impedimenti alle gambe.
 Lo squallore che provocò a Jimin non fu un toccasana per il suo stomaco. La vasca era piena d'acqua fino all'orlo, come se qualcuno ne fosse uscito un minuto prima. Strisciate bianche di quello che lui voleva sperare fosse sapone galleggiavano sulla superficie del liquido, mentre sul fondo si potevano intravedere rimasugli di intonaco. 
Oltre alla vasca quella, c'erano solo pile di asciugamani, armadietti dondolanti e una piccola panca.
Nessuna via di uscita, neanche una finestra. 
Jimin fece subito per uscire, ma quasi non fece un frontale con Yoongi. Impotente, il primo si ritirò subito di qualche passo, mentre lo sguardo del secondo analizzava velocemente la nuova ambientazione propostagli dal loro incubo; in tutta la sua magrezza, Yoongi sembrava ancora più spigoloso con quella postura in allerta, come se fosse pronto a riprendere l'inseguimento. 
Nello sguardo buio di Yoongi si poté vedere il preciso istante in cui realizzò la cosa. Qualcosa cambiò. Come se qualcuno avesse inserito una chiave all'interno della serratura che erano i suoi occhi e l'avesse girata nella toppa, lasciando la porta chiusa. Tutte le possibilità erano ancora lì, intatte. Stava a lui decidere di cosa farsene. Se aprire la porta o no. 
Vicolo cieco. Fine della corsa. 
Quella fottuta porta andava aperta. 
Con quei capelli neri e il silenzio incauto che lo avvolgeva, Yoongi ricordò a Jimin di una pantera. 
Dal modo in cui gli si avventò contro di sicuro poteva essere definito come tale. La nuca di Jimin colpì la parete alle sue spalle con un suono sordo, le sue spalle spinte all'indietro dalle mani di Yoongi. 
Jimin non fece neanche in tempo a gemere dal dolore, a portarsi le mani dietro il capo per tastare i danni, che subito quelle mani tornarono ad artigliarsi attorno alle sue clavicole e lo scaraventarono all'interno della vasca da bagno.
La temperatura dell'acqua fu la prima cosa che lo colpì. Era calda, giusto ad un soffio dall'essere tiepida. Il ritrovarsela tutta d'un tratto ovunque gli mozzò il fiato, come quando al mare si decide di buttarsi direttamente anziché bagnarsi una parte del corpo alla volta. 
Spodestata dal suo corpo, l'acqua lasciata a decantare si rovesciò tutta sul pavimento, facendo gara a chi si tuffava prima dal bordo. Ne cadde una quantità ancora maggiore quando anche Yoongi si calò all'interno della vasca, immobilizzando Jimin in quella posizione semi-sdraiata; piantò entrambe le ginocchia ai lati del suo bacino, sovrastandolo. 
Dove fossero finite le tanto disputate fotografie non importava a nessuno. 
Il ragazzo dai capelli argentei venne distratto. Con il viso all'altezza del petto dell'altro, non poté fare a meno di notare come l'acqua si faceva rosata a contatto con il corpo di Yoongi. Un tipo di panico differente da quello che lo aveva posseduto per tutta la corsa gli salì al petto quando vide appieno la chiazza di sangue sulla maglietta. 
Era ferito? Si trattava di sangue raffermo o stava avendo un'emorragia in corso? Se era così, Jimin doveva assolutamente fare qualcosa, cercare una qualche benda, un kit del pronto soccorso, un dannato medico; dopotutto erano in un ospedale, ci doveva essere qualcuno a cui chiedere aiut- 
Yoongi gli spinse la testa sott'acqua. 
Uno, due, tre secondi e lo lasciò riemergere. 
I capelli, il viso, le ciglia di Jimin erano zuppe d'acqua, il fiato corto. Gli occhi erano sgranati, pieni di sorpresa.
"Stronzo-"
Il respiro di Jimin si perse una seconda volta nell'acqua. Decine di bollicine d'aria si dispersero nella nuvola che erano diventati i suoi capelli argentei.
Uno, due. 
Il ragazzo prese a scalciare, ad agitarsi, a graffiare quelle braccia che lo trattenevano sul fondo della vasca.
Tre, quattro, cinque, Yoongi lo lasciò tornare in superficie. 
Quest'ultimo osservò come l'acqua grondò dal mento di Jimin, come le sue guance fossero paonazze, come i suoi respiri gli sollevassero il petto, ogni movimento reso più evidente dalla camicia che vi aveva aderito.
Una parte di Jimin era piena di terrore. L'altra era tranquilla come la morte. 
Tutto quello stava succedendo era così vero e irreale allo stesso tempo, come se lui e Yoongi fossero personaggi di un videogioco con la realtà aumentata; nel caso l'altro l'avesse affogato davvero avrebbero sempre potuto annullare la partita e ricominciare da capo.
Un strozzato per favore gli sfuggì quando Yoongi affondò le dita nei suoi capelli. 
Jimin tornò con la testa sotto.
Uno, due. 
Al terzo conto le mani di Yoongi si spostarono dietro alla sua nuca e Jimin si sentì strattonare verso l'alto. Il suo viso non fece neanche in tempo a riemergere del tutto che un paio di labbra si erano già fiondate sulle sue, i denti che sbattevano insieme. Boccheggiando, Jimin ricambiò immediatamente il bacio, come se lo avesse aspettato per tutto quel tempo.   
Le stesse braccia che fino ad un momento prima avevano lottato per liberarsi, fendendo pugni a destra e a manca che venivano attutiti dalla pesantezza dell'acqua, ora si appesero al collo di Yoongi, decise a non lasciarlo andare mai, mai più. 
I due si baciarono senza darsi tregua. Con lo spillare dall'acqua fuori dalla vasca a fargli da colonna sonora, quel loro respirare affannoso e irregolare dal naso era l'unico suono ad ovattare completamente la stanza, accompagnato dallo schioccare continuo delle loro lingue insieme.
Ad una prima occhiata non si sarebbe detto se si stessero azzuffando o se stessero facendo l'amore. Entrambi si stringevano a vicenda così forte, tutte carezze rudi e permessi non chiesti. 
Con le bocche lubrificate dall'acqua che scivolavano l'una dentro l'altra, si riacchiappavano, cercavano dominio, Yoongi capì di essere morto ed essere finito per un qualche disguido in paradiso quando poté, dopo aver bramato per così tanto tempo il minimo tocco dell'altro, inglobare il labbro inferiore di Jimin tra i denti. Sentì quanto fosse veramente carnoso e morbido, provò a succhiarlo appena.
Yoongi non aveva tutta questa esperienza, ma poteva dire con certezza che Jimin con i baci ci sapeva fare. 
Nulla in tutta la sua vita gli aveva mai stretto lo stomaco tanto quanto fece il ragazzo dai capelli argentei quando cambiò l'inclinazione dei loro visi, quasi a voler cercare l'angolazione perfetta per arrivare più a fondo, per ritirarsi un pochino e tornare a spingere la lingua contro la sua con più decisione di prima, ogni volta, ripetitivamente.
Le dita di Yoongi si piantarono nella schiena scaltra di Jimin, cercando sollievo nel premerselo addosso quanto più potesse. Avendo fatto aderire i loro petti ed essendo incapace di lasciare andare, le ginocchia sulla quale era rimasto puntato per tutto quel tempo gli slittarono all'indietro, facendolo cadere di conseguenza in avanti. 
Per un attimo i due furono una cosa sola. 
Si ritrovarono completamente immersi, il fondo della vasca e la superficie dell'acqua intoccati da entrambi che li chiudevano insieme. Non si capiva quale braccio appartenesse a chi, dov'era lo strato di carne che li teneva separati in due entità diverse. Ciocche argentee brillavano in un mare di nero. 
Per via di tutto quel movimento il livello dell'acqua sopra di loro altalenava: a momenti sì e a momenti no bagnava i polpacci di Yoongi che sbucavano fuori dalla vasca, le scarpe da ginnastica zuppe che gocciolavano. 
Il bacio fu interrotto solo dal bisogno urgente di tossire. 
Riemergendo, Yoongi si mise da una parte della vasca, lasciando che Jimin si potesse finalmente mettere seduto nell'altra. Quest'ultimo si appoggiò con la schiena all'indietro, respirando a pieni polmoni per la prima volta negli ultimi due minuti. 
Ad un metro da lui, il moro era un po' curvo in avanti. Anche i suoi vestiti ora erano completamente bagnati, la macchia rossa sulla maglietta ormai sfumata. Con la frangia ridotta a ciocche spesse che gli calavano sugli occhi, tossicchiò un paio di volte senza mettersi la mano davanti alla bocca. 
Nel giro di poco un silenzio irrequieto tornò a regnare. 
Jimin non voleva silenzio. Jimin non voleva distanza. 
Non voleva rimuginare su quello che era appena successo. Voleva che continuasse a succedere.
Non guardando nella sua direzione, Yoongi vide l'altro allungare le mani solo con la coda dell'occhio. Lo sfruscio dell'acqua che veniva scostata precedette un paio di mani che si aggrapparono al colletto della sua maglia; Jimin appoggiò la propria fronte contro una delle sue tempie, le labbra chiuse sulla sua guancia. 
Yoongi venne sospinto verso un estremo della vasca, quello opposto al precedente in cui Jimin si era ritrovato prigioniero, fino a quando non se ne ritrovò la parete contro la schiena. Con una delicatezza sovrumana nelle dita, Jimin mise una delle sue mani attorno al coppetto di Yoongi, l'altra che divagava su una delle sue spalle; chinandosi verso il basso, baciò a stampo il pomo d'Adamo dell'altro, poi sollevò di poco la traiettoria, puntando alla gola. 
Tenendo la testa rovesciata all'indietro sul bordo, Yoongi sospirò, la schiena completamente rilassata che si adattava alla forma della vasca. Non si rendeva neanche più conto della propria presa salda sui fianchi di Jimin, i fianchi di Jimin, come a tenerlo sul posto. 
Il tocco delicato delle labbra di Jimin si posò sul suo mento, salendo ancora. 
Yoongi socchiuse gli occhi. Dietro le sue palpebre, l'ombra dell'altro ragazzo torreggiava sulla luce. 
A contrasto con i brividi di freddo che gli percorrevano braccia e schiena quando un soffio d'aria smuoveva quell'acqua ormai tiepida, quel raschiare così intimo delle dita di Jimin sul retro del suo collo era caldo, promettente. 
Il moro socchiuse la bocca per sospirare una seconda volta, aspettando solo che Jimin accogliesse quel gemito contro la propria.
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(43) November 5th, 2015 - Thursday

Una pioggierellina autunnale ticchettava contro i vetri dell'aula di musica. 
Se uno studente ritardatario o un bidello fosse passato di fretta davanti alla porta rimasta aperta non avrebbe visto nulla di insolito: il pianoforte forse era leggermente girato verso il centro della stanza, ma per il resto tutto uguale. 
Una seconda occhiata più approfondita avrebbe permesso di notare quel paio di gambe inermi che spuntavano da dietro i tamburi. Seduto a terra con la schiena contro il muro, Yoongi tratteneva Jimin vicino a sé per i lembi della camicia. Come se Jimin, seduto tra le sue gambe, non fosse stato troppo impegnato per pensare minimamente di andarsene. 
I due si limitavano a tenere premute insieme le bocche con la dolcezza di un primo bacio. Ogni tanto qualcuno strofinava appena di più le labbra su quelle dell'altro, senza fretta. 
Yoongi contò ognuno di quei singoli tocchi, se li stampò sul cuore. Ad ogni tre o ad ogni quattro si diceva che poteva andare bene così, che erano più che abbastanza, ma non era vero. Voleva un bacio per tutte le volte che non ne aveva potuti dare e non era esattamente un calcolo fattibile sulle dita di una mano. 
Un tripudio di suoni argentini parvero esplodere nella placidità quando un cembalo cadde dal chiodino che lo teneva appeso alla parete. Jimin e Yoongi sussultarono uno nella bocca dell'altro, risvegliati dalla maledizione della mela.
Automaticamente si erano voltati all'unisono verso la fonte di quel rumore. Non appena ebbero individuato l'innocuo cembalo, i loro sguardi divagarono, riconoscendo l'aula di musica. Le loro posture si fecero pietra. 
Jimin si voltò verso Yoongi, quei suoi occhioni scuri così troppo vicini. La mano parve farglisi nuovamente tattile quando percepì i capelli ispidi dell'altro contro il palmo, le punte delle falangette che sfioravano un orecchio. I loro nasi si toccavano ed i loro respiri si infrangevano uno contro l'altro come correnti opposte.  
L'espressione di Jimin era friabile quanto la neve. 
Una lacrima rotolò giù dalla guancia di Yoongi. 
Adesso tutto sarebbe tornato come prima, vero? 
"Yoongi,"
"Lascia stare."
Il moro riuscì ad alzarsi con un po' di difficoltà prima che Jimin capisse da sé di doversi fare fisicamente da parte e arretrare.
Senza aggiungere un'altra parola o dare una seconda occhiata, la porta si chiuse alle spalle di Yoongi quando ne uscì. Scosse la testa per tutto il breve tragitto, come se no fosse la risposta ad ogni domanda. 
Dalla finestrella in vetro si poteva vedere Jimin all'interno dell'aula di musica ancora seduto sui talloni,  le mani in grembo e lo sguardo perso.

(44) November 5th, 2015 - Thursday

La batteria del cellulare di Jimin era morta. 
Considerando la luce naturale potevano essere le sette, le otto di sera. 
Stava camminando da quello che sembrava un decennio, tutto solo, soletto per le vie residenziali di Seul. 
Non erano stati quelli i piani, in realtà. Dopo essere rimasto in catalessi totale nell'aula di musica ed essere stato sbattuto fuori dai bidelli, i suoi pensieri erano subito volati ad amici, locali, paesaggi notturni. Aveva preso un autobus con destinazione il centro, ma si era ritrovato a scendere alla primissima fermata. 
Da quanto era che non tornava a casa? 
Secondo i suoi calcoli da lunedì. 
Jimin non poteva credere di aver davvero passato quattro giorni senza far vedere la sua faccia a sua madre. Okay, si erano scambiati un paio di messaggi quando le aveva riferito che sarebbe rimasto a dormire da Jungkook, ma per il resto il vuoto più totale. 
Così era sceso e aveva deciso di farsela a piedi. 
La strada era lunga, ma in quelle condizioni Jimin non si faceva certo problemi per il tempo che avrebbe perso. Tanto non avrebbe combinato nulla di buono neanche una volta arrivato. 
Si sentiva prosciugato. Completamente prosciugato. 
Come se le emozioni ed i pensieri fossero stati talmente tanti che arrivati ad un certo limite si erano dati alla fuga per evitare di fargli saltare il cervello. Si limitava a mettere un piede davanti all'altro per inerzia, la testa di una leggerezza pericolosa. 
Se c'era una cosa che Jimin desiderava in quel momento, quel desiderio era uno dei suoi vecchi felponi con il cappuccio dai colori smorti. Forse con quello addosso sarebbe riuscito a mimetizzarsi almeno con il cielo plumbeo. 
Per l'orario a lui sconosciuto a cui arrivò all'inizio della sua via, c'era il crepuscolo. I lampioni illuminavano già tutto con la loro luce biancastra nonostante per la strada ci si vedesse ancora. 
Jimin non ebbe neanche il tempo di crollare dalla stanchezza una volta per tutte alla vista della propria casa, perché il destino quel giorno pareva avercela a morte con lui. 
Fu proprio calando lo sguardo da uno dei suddetti lampioni che il ragazzo notò i volantini. Erano del classico formato da stampante ed erano a decine. Parevano essere ovunque: appesi ai lampioni, appiccicati sui cancelli delle case, a infestare i muretti. Addirittura ce ne erano di caduti a terra, marchiati dai pneumatici di un'automobile. 
Più Jimin si addentrava per la via, più ce ne erano. Erano impossibili da non notare, come uno stormo di carta schiantato a terra. Se fossero stati presenti anche per le strade che aveva appena percorso se ne sarebbe accorto.
Un leggero venticello ne sollevava gli angoli, mostrandogli il contenuto in controluce; preso un minimo dalla curiosità, il ragazzo si avvicinò ad un palo della luce e ne appiattì uno.
Jimin ne aveva vissuti parecchi di brutti momenti, ma quello li batté tutti. 
Era una foto in bianco e nero. Si trattava evidentemente di un fermo-immagine fatto da un cellulare considerando tutti i vari loghi delle app che incorniciavano uno dei lati corti. Al centro si poteva vedere una massa mal definita di braccia e gambe, un groviglio di corpi nudi, i volti non visibili per via dell'inquadratura. 
Se ci fosse stato qualche dubbio in merito all'identità dei due protagonisti era chiarito dalla stanza di Fred Johnman che fungeva da sfondo e dal numero privato di cellulare di Park Jimin, scritto a caratteri cubitali da un pennarello rosso. 
L'apatia che aveva afflitto Jimin per tutto il pomeriggio gli scivolò giù dalle spalle come olio sull'acqua. 
Volò di palo in palo, di cancello in cancello, di muretto in muretto. I volantini erano tutti identici, l'unica cosa a cambiare erano le calligrafie e i colori con cui insulti e nomignoli facevano compagnia a quella manciata di cifre. Jimin iniziò a staccarli tutti quanti, uno per uno, senza curarsi minimamente dello scotch che rimaneva attaccato alle diverse superfici. 
Nel giro di un minuto, tra le sue braccia si era già formato un bel bouquet di carta stropicciata, il premio di una sgualdrina. 
Jimin continuava imperterrito a staccare, staccare, staccare, e più staccava più i suoi occhi si facevano umidi. 
Che stupido che era stato a pensare che la cosa non gli faceva ne caldo ne freddo. A dirsi che poteva benissimo passarci sopra, che tanto il suo era solo un corpo nudo, niente che la gente non avesse mai visto, colto in un'azione che non fosse niente che la gente non avesse mai fatto. 
C'erano delle cazzo di foto di un suo sex-tape appese per la via di casa sua, dove abitavano le persone che lo avevano visto crescere, dove aveva imparato ad andare in bicicletta, dove aveva giocato per pomeriggi interi con i figli dei vicini e un paio di gessetti colorati. 
Dire che Jimin si sentiva totalmente umiliato era un eufemismo. 
Vista da fuori, le luci di casa sua erano spente, ma lui sapeva che la sua famiglia doveva trovarsi in salotto, a guardare la televisione dopo aver cenato. 
Con quel malloppo di carta sottobraccio, Jimin aprì il portone d'ingresso il più discretamente possibile. Non accese neanche lui le luci, non si tolse le scarpe sullo zerbino come i suoi avevano sempre raccomandato di fare; si infilò subito in cucina prima di poter incontrare qualcuno. 
Con la sera che ormai si affrettava ad arrivare, anche quell'ambiente era tutto un grigiore. Jimin andò direttamente allo sportello sotto il lavandino, dove sapeva esserci la pattumiera.
Una voce lo chiamò, qualche stanza più in là.
"Jimin? Sei tu?" 
Jimin si affrettò a tirare fuori il cestino del pattume. Sollevò con le mani quanti più rifiuti poté, intenzionato a nasconderci sotto i volantini. 
Con i sudori freddi, poteva sentire un rumore di passi farsi sempre più vicini. 
Jimin cercò di ficcare più brutalmente tutta quella carta nella pattumiera, ma sembrava essere troppo piena per poterla contenere. 
La luce della cucina venne accesa. 
Il primo pensiero di Jimin, chino sul pavimento con uno sproposito di volantini fra le mani che lo raffiguravano fare sesso con uno sconosciuto e sua madre alle spalle, fu: voglio morire. 
Il suo secondo pensiero fu: voglio morire
Ci credeva che non riusciva a farci stare i suoi volantini: ora che le ombre erano sparite poteva ben vedere che il fondo del sacco della spazzatura era già foderato da una ventina di fogli identici. 
Jimin si appoggiò con il braccio al bordo del contenitore, la fronte che subito ci si nascose contro. Se avesse avuto con sé quella pozione di Alice nel paese delle meraviglie se la sarebbe trangugiata tutta pur di diventare piccolo, piccolo, piccolo, piccolo.  
Si costrinse a parlare, semplicemente perché doveva. Lo fece anche se la voce gli uscì roca, piena di pianto. 
Arrivati a questo punto, dopo quella giornata, dopo quella settimana, dopo quell'anno, Jimin non sapeva neanche più per cosa stesse piangendo esattamente. 
Piangeva per sua madre, per quello stupido video, per Yoongi, per Chase, per la sua prima volta buttata via. 
"Mi dispiace, mamma." 
Le sue parole furono seguite da un rumore di chiavi, la zip di una cerniera che veniva sollevata.
Quando Jimin si decise a guardare in su dalla sua posizione accovacciata, sua madre era sullo stipite della porta vestita di tutto punto, la borsa alla mano. Non seppe dire se gran parte fosse dovuta dalla vecchiaia avanzata in soli quattro giorni, ma quella sul suo viso era la più stoica, la più seria, la più autorevole, la più incazzata espressione di sempre. 
"Rimetti il cappotto. Andiamo a sporgere denuncia a chiunque sia il bastardo." 


   
 
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