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Autore: Happy_Pumpkin    24/01/2018    3 recensioni
Iwo Jima - 19 febbraio 1945
Loro erano la prima ondata. I primi, appunto, a sbarcare sulle coste, a saggiare il terreno dopo i bombardamenti serrati dei mesi precedenti e a dover correre avanti, senza fermarsi, ripetendo nella propria testa:
FachenonsiaioFachenonsiaioFachenonsiaio.
Chiunque, ma non io.

[WWII!AU - Vaghi accenni SasuNaru]
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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Premessa: E' una storia di guerra? Sì, ma in senso molto lato. Perché è prima di tutto una storia di uomini, due, che si sono scontrati e incontrati in un conflitto - no, non sono guerrafondaia, buuuh la guerra è una merda, peace&love blablabla: ho analizzato un contesto bellico in quanto mi dava spunti interessanti di riflessioni sul valore della vita, sulla paura, sulle condizioni di difficoltà estrema e i legami tra esseri umani.
Ho diviso il tutto in due parti, per non farvi sorbire un pippone di quasi 30 pagine. Sarà comunque un racconto serrato nella prima parte e di sopravvivenza nel secondo, oltre a essere realistico e, per quanto possibile, ben documentato. Note a fondo capitolo, buona lettura!



Raising the Flag on Iwo Jima - Joe Rosental, 23 febbraio 1945



S.N.A.F.U.

Situation Normal, All Fucked Up



Parte Prima
The God and the Wolf



19 febbraio 1945


Iwo Jima era l’Isola dello Zolfo, un condensato di terra vulcanica grande quanto l’acqua che percorreva Manhattan, disabitata e inospitale. Eppure per anni fu contesa da due Nazioni come la più fertile delle pianure, teatro di sanguinose quanto estenuanti battaglie a partire dall’alba del 19 febbraio del 1945.

Se c’era una cosa che Naruto Uzumaki, sottoufficiale e medico soccorritore nel V corpo anfibio dei Marines degli Stati Uniti d’America, anche a distanza di anni ricordava di quel giorno era... il colore del cielo e della terra.
Sì, il primo dettaglio che colpì il soldato fu il modo in cui la terra sabbiosa tendeva al nero metallico, mentre il cielo sembrava grigio quanto asfalto, come se il sole fosse stato assorbito da quello spicchio di terra desolato per poi risputarlo in chiazze di piombo.
Avvicinandosi con il suo plotone alle coste a bordo di un LVTP cingolato anfibio, si era sentito come schiacciato da quel cielo grigio, capace di pesare sulla terra scura e le acque altrettanto metalliche del mare. Persino la spuma che si infrangeva rabbiosa, schiaffeggiata dall’antiestetico mezzo di trasporto, ricordava chiodi infranti contro una parete d’acciaio.
Chiuse un istante gli occhi, stringendo il lembo della cintura consumato dall’usura. Sentiva solo il rumore del mare, delle onde schiantate contro l’LVTP che divorava le distanze dai nemici giapponesi che li attendevano, invisibili; in sottofondo, il motore ronzava irrequieto, mischiando il suo brusio a quello dei respiri dei soldati.
Alcuni annaspavano, guardando fisso davanti a loro: puntavano lo sguardo verso la nuca del compagno posizionato di fronte, oppure verso il mare, senza nemmeno rendersi conto di ciò che li circondava; in testa, le immagini della morte e della lotta per sopravvivere. Tutto per un pezzo di terra dimenticato.
Altri, invece, non fiatavano. L’acqua spruzzava loro addosso parti del mare, con la sua schiuma e il suo sale, ma non chiudevano occhi, non sussultavano, rimanevano semplicemente immobili. Come se la mente non fosse lì, o forse c’era, però era rinchiusa in un carroarmato che avanzava cercando di schiacciare le emozioni.
Tutti, in fin dei conti, avevano paura. Silenziosi, rumorosi, immobili o scossi da tic, tremiti, gesti disperati di vita prima di impugnare un fucile e scattare. Qualcuno la dimostrava, quella paura, qualcun altro la teneva per sé, come se si fosse trattato di una faccenda privata, da gestire nella propria testa e non da condividere con altri.
Loro erano la prima ondata. I primi, appunto, a sbarcare sulle coste, a saggiare il terreno dopo i bombardamenti serrati dei mesi precedenti e a dover correre avanti, senza fermarsi, ripetendo nella propria testa FachenonsiaioFachenonsiaioFachenonsiaio.
Chiunque, ma non io.
Qualcuno, mentre il mezzo ondeggiava cullato dal movimento del mare, si pisciava addosso. Manco allora batteva ciglio. Continuava a guardare avanti, con la bocca riarsa, gli occhi asciutti, il pomo d’Adamo sporgente sotto la pelle tirata del collo magro; i pantaloni erano macchiati d’urina, che gocciolava tra le gambe e finiva lì, sulla base metallica dell’LVTP. A nessuno importava, né del piscio, né della paura. Perché c’era la morte e il nemico davanti, nascosto forse dopo la collina, e allora persino urinare sarebbe stato un lusso.
Naruto si umettò le labbra, dilatando le narici per respirare a fondo. Smise ti toccare la cintura, distese le dita di fianco alle cosce e prese a ripetere mentalmente l’equipaggiamento che aveva portato con sé per il primo soccorso. Sperò di non esaurire le bende, di avere sufficiente morfina, di... di…
Atterrarono.
Aprì appena le braccia per rimanere in equilibrio nonostante lo scossone con la terraferma, poi guardò i suoi compagni afferrare i fucili e piegare istintivamente la schiena, come per proteggersi meglio dai colpi e rimanere riparati dietro il portellone chiuso.
Ancora nessuno sparo.
Se si fossero trovati in un qualsiasi lembo di spiaggia di Omaha Beach, durante l’Operazione Overlord e lo Sbarco di Normandia, qualche testa sarebbe già saltata.
Il soldato vicino a lui si fece il segno della croce, un altro accarezzò il grilletto con un dito, un ultimo gesto di piacere prima di affondare dentro di lui e sparare.
FachenonsiaioFachenonsiaioFachenonsiaio.
Poteva quasi sentirlo, sussurrato come un mantra da oltre le labbra spaccate e attraverso gli occhi immobili, lacrimanti salsedine.
Però… non ci furono spari, grida, corse delle fottutissime Facce di Tojo con in mano cariche esplosive.
Solo il silenzio, interrotto dal rumore degli Lvtp.
Naruto, allora, scese assieme ai suoi compagni; scattarono oltre il portellone metallico aperto per fare da rampa, gli anfibi che colpivano la superficie metallica dei mezzi con un clangore ovattato e affondavano nel terreno sabbioso.
Ma i cingolati fecero fatica ad avanzare: il luogo era ripido e instabile, i mezzi affondavano anch’essi nella sabbia vulcanica dal leggero odore sulfureo che assalì le narici degli uomini, abbracciati da un opprimente cielo metallico, lo stesso che Naruto aveva visto da lontano e che sembrava volerli condannare, schiacciandoli fin dentro le sabbie impregnate d’acqua.
A posteriori, per chiunque avesse potuto leggere qualcosa di storia e comprendere le dinamiche dello sbarco a Iwo Jima, il Day 1 sarebbe potuto sembrare decisamente sottotono rispetto al glorioso Sbarco di Normandia. Ma all’epoca, per chi era arrivato su quelle coste e lottava nella sabbia, nel mare e nel sudore in modo da consentire l’avanzata, non importava davvero nulla della gloria; la gloria non faceva vivere più a lungo, non scansava i colpi di proiettile, né rendeva la morte davvero migliore.
Semplicemente, quando le cose erano difficili si pensava solo a vivere un giorno in più, rammendandosi alla buona gli stivali usurati o la divisa lacerata.
A quel punto, viste le condizioni difficili i soldati della marina americana sistemarono delle grelle in grado di rendere il terreno meno cedevole e far avanzare i cingolati. Fecero abbastanza in fretta per via della competenza acquisita nel corso degli anni, ma si trattò comunque di un ritardo importante sulla tabella di marcia.
Finalmente, risalirono il terreno collinare.
E nemmeno dopo quella fatica immane, con in testa il pensiero snervante del nemico che ancora non si faceva vedere, Naruto si era pentito della sua scelta di arruolarsi come medico combattente. O del fatto che, per quella scelta, viaggiava con solo le sue bende, la morfina, della stupida polvere sulfurea e la pistola d’ordinanza. Niente fucili, niente armi aggiuntive: il suo compito era raggiungere i feriti, non sparare; un’arma pesante più di sette chili da portare in braccio mentre correva avanti e indietro per il campo di battaglia era solo un ingombro. Per questo, prima ancora che per dictat della Convenzione di Ginevra emanati ufficialmente solo anni dopo, praticamente nessun medico combattente girava armato.
In guerra, soldati senza armi.
Quando infine le prime divisioni giunsero ai piedi del monte Suribachi, erano quasi le dieci del mattino.
Tanti soldati, mezzi, oggetti, accumulati dopo un arrivo disastroso e difficile. Del nemico, per contro, non c’era traccia.
Dopo ore di fatica, di lavoro, di ringhi soffocati per spostare i blocchi e far avanzare i plotoni, quell’improvviso silenzio era quasi surreale.
Naruto guardò uno dei suoi compagni. Fu solo un attimo, un istante. E in quell’attimo, vide i suoi occhi sgranarsi, quasi con lentezza, il volto contorcersi in una smorfia di paura.
Fu allora, in quel preciso momento, che giunsero alle orecchie i rumori degli spari, secchi, simili a schiaffi in pieno volto: l’esercito giapponese, nascosto dentro tunnel scavati nella terra che gli americani non erano invece riusciti a domare, aveva cominciato a fare fuoco su di loro, stanchi, ammassati, un gregge di pecore al macello mentre i lupi, pochi, rachitici, sopravvissuti ai bombardamenti… sì, i lupi avevano fame.
Ed erano disperati.
Per questo, quel giorno, i lupi vinsero.

*

Il sottotenente Sasuke Uchiha cercò di deglutire, ma non aveva abbastanza saliva da mandar giù; il gesto rimase lì, bloccato, senza nemmeno riuscire a far schioccare la lingua gonfia per la sete contro il palato.

L’acqua era stata razionata già da tempo, così come le scorte di cibo.
Ironico, rimanere senz’acqua circondati da un oceano.
Ma in quei giorni, abituato alla rigidità dell’esercito e ai ritmi massacranti imposti dai superiori, Sasuke aveva finito semplicemente per non pensare alla sete, relegandola in un angolo della sua testa come se si fosse trattato di un bisogno secondario.
Persino quella mattina del 19 febbraio, Sasuke non pensò alla sete, anche se non beveva da tutta la notte e da dopo quelle prime ore dell’alba; forse, non avrebbe più potuto farlo.
Sin da quando gli americani erano sbarcati, Sasuke non si era mosso da dove si trovava, all’interno del bunker costruito nella terra sabbiosa e sorretto con ingegno architettonico da mesi di lavoro. Immobile, gli occhi che ogni tanto sbattevano  le ciglia secche, il fucile puntato e appoggiato attraverso la fessura che spaziava sulla costa, Sasuke Uchiha fissava l’esercito degli Stati Uniti arrancare lungo la spiaggia.
Il generale Kuribayashi era stato chiaro, con una strategia pianificata accuratamente in quei mesi di permanenza ad Iwo Jima, mentre gli aerei dell’Alleanza bombardavano a tappeto l’isola nella speranza di farli desistere: loro dovevano aspettare e non sparare subito, anche se le teste dei soldati erano lì, a portata di mano, quando goffi, ridicoli, presuntuosi scendevano dai loro mezzi cingolati e avanzavano a fatica.
Fu solo nel momento in cui i marines cominciarono ad accumularsi e a credere che il loro avversario non si sarebbe fatto vedere, che dalle fila giapponesi giunse l’ordine: fare fuoco.
Sasuke tirò un profondo respiro, stringendo la presa sul suo Arisaka Type 99. Era un fucile di più di un anno, meglio comunque degli ultimi prodotti fatti con materiali di pessima qualità da dopo il blocco sottomarino degli Stati Uniti, talmente inaffidabili da aver preso il soprannome di Ultima Speranza.
Quindi, in quel frangente Sasuke fu contento di non doversi affidare ad alcuna Ultima Speranza per sopravvivere.
Quando venne dato l’ordine, mirò alla testa di un americano e sparò.
Giovane uomo, adulto, bello, stupido o malato. Non aveva importanza. Era il suo nemico e lui, parte della grande Marina Imperiale Giapponese, doveva ucciderlo.
Gli vide il sangue schizzare dalla testa, il proiettile che aveva trapassato l’elmetto per poi rimanere incastrato lì, nell’encefalo, come se la sua scatola cranica desiderasse ancora custodire qualcosa d’importante.
Sasuke batté solo una volta le ciglia. Non c’era tempo per pensare, nemmeno per respirare. La mano non tremava, quello era un giorno buono.
Un nuovo colpo, il cling del proiettile saltato da oltre il caricatore, a seguire la ricarica bolt action e infine un altro sparo, un altro americano morto, stramazzato a terra.
Non pensare. Non farlo o muori anche tu, esattamente come loro. Tanto morirai comunque su quest’isola. E’ il tuo dovere.
Ci fu un’esplosione dovuta a una granata.
Poi, appena si sollevò la leggera cortina del fumo, vide qualcuno correre tra le grida di chi lo chiamava disperato; in quella corsa, Sasuke lo seguì con il fucile. Vide che portava una fascia da soccorritore al braccio, anche se usurata era perfettamente riconoscibile.
Un medico. E i medici, prima ancora rispetto a qualsiasi altro soldato, dovevano morire.
Puntò. Fece per premere il grilletto mentre vedeva il bersaglio schiacciare le mani contro il petto del suo compagno per tamponare il sanguinamento. Sbatté un istante le ciglia, uno solo.
Ma... qualcuno sparò, prima di lui.
E il medico cadde riverso sul soldato, agonizzante.
Allora, la mano di Sasuke tremò impercettibilmente.
Espirò una sola volta dalle labbra secche appena aperte. Le orecchie fischiavano, gli echi dei colpi d’arma da fuoco rimbalzavano nel bunker e nelle gallerie scavate nella terra, come se fossero stati vermi.
Tornò a concentrarsi sul campo, passando oltre, oltre quei cadaveri e quel medico; il resto degli americani stava avanzando, lasciando indietro i morti. Fu allora, in quel preciso istante, che vide un soldato nemico... indietreggiare. Sì, stava tornando sui suoi passi.
Fugge? Dove vuole scappare?
Davvero gli americani, con tutta la loro potenza e la loro presunzione avevano così poco onore?
Poi, realizzò di aver sbagliato: il soldato non stava fuggendo, al contrario, era ritornato per soccorrere i feriti, tra i quali c’era il collega medico preso da un colpo di fucile.
Perché?
Perché rischiare a quel modo la vita per persone che tanto sarebbero morte ugualmente lì, in quella sabbia sulfurea già pregna di sangue? Sarebbero morte in maniera onorevole, come spettava a un soldato. A cosa serviva, a quel punto, cercare di trascinarle via da un destino inevitabile?
In quell’attimo folle, Sasuke riconobbe nuovamente una fascia da medico combattente e un istante dopo… vide l’elmetto saltare, scoprendo dei capelli biondi, il volto sporco sudato e la morte nei suoi occhi.

*

“Doc!”
Naruto si sentiva chiamare da ogni direzione.
Da quando i giapponesi avevano aperto il fuoco era stato un massacro.
Andare avanti. Correre era l’unica soluzione: dato il dislivello e la totale copertura del nemico, non c’era altra alternativa, oltre a sperare, sperare davvero, di non essere colpiti.
Naruto corse. Corse per la salita, affondò con gli stivali nel terreno sabbioso e trascinò un soldato ferito con sé, schiacciandosi al suo fianco per cercare di non esporsi troppo mentre sfruttava il terreno ondulato. L’uomo aveva un braccio colpito, schizzava sangue e, dalla pressione, sembrava essere stata recisa un’arteria. Fottuto, fottuto, è fottuto.
Naruto lo vide piangere e portarsi istintivamente la mano sull’arto per fermare il flusso del sangue.
“Ci sono io, ci penso io.”
Gli disse con voce roca, mentre attorno a lui qualcosa esplodeva, forse una granata, c’era del fumo e le orecchie fischiavano; i colpi d’arma da fuoco gli rimbombavano ovattati nella testa.
Applicò la polvere sulfurea e con gesti rapidi, impacciati per il terreno scosceso, Naruto dette dei giri di bende, stringendo il necessario per cercare di fermare il flusso sanguigno tamponato con delle garze. Sapeva che, in quel momento, il soldato lo ascoltava solo in parte.
“Ok, avanziamo, stringi i denti Leyden.”
L’altro annuì ma urlò quando venne sollevato da Naruto e, con il fucile in spalla, dovette correre lungo il pendio; il medico lo sospingeva, gridando a sua volta per spronare lui e gli altri a correre.
Erano a buon punto, Naruto scorse con la coda dell’occhio l’artiglieria pesante avanzare: vennero gettate le prime granate nei bunker e gli uomini con il lanciafiamme presto avrebbero azionato il fuoco. Una morte terribile, un’agonia. C’erano notti, quelle rare volte in cui Naruto cercava di dormire, in cui sentiva nella testa le urla di uomini bruciati vivi.
Udì altre grida. Qualcuno lo chiamava.
Voltò un istante la testa.
Un soldato, un altro medico come lui. Gracchiava aiuto, riverso sopra il corpo di qualcuno che forse a sua volta aveva cercato di salvare.
Merda.
Il buonsenso gli diceva di proseguire e non tornare indietro, bersaglio sicuro dell’esercito giapponese che, lo aveva visto anche a Guadalcanal, mirava di proposito ai medici; il fatto che in tutto quel caos e quelle battaglie lui fosse ancora vivo era, sostanzialmente, un miracolo.
Ma Naruto non credeva ai miracoli, credeva nelle seconde possibilità: credeva che se era vivo, ancora, doveva approfittarne e l’avrebbe fatto fino all’ultimo, compiendo quello per cui aveva percorso tutta quella strada. Portare i suoi compagni in salvo a qualunque costo, o, almeno, offrire una degna morte a chi stava soffrendo.
Lasciò Leyden agli altri, poi, scattò.
Danzò tra i proiettili, le schegge delle granate, il fumo e la sabbia che si sollevava a nugoli, con il cuore che gli pulsava in gola, il respiro mozzato, le orecchie che fischiavano e la percezione di un mondo che stava per crollare. Finì per lanciarsi contro il soldato a terra, quasi come per proteggerlo, gli urlò qualcosa, nemmeno lui sapeva esattamente cosa gli stesse dicendo; forse erano tutte stronzate, perché Naruto, in quel momento, aveva bisogno di urlare e gridare, far uscire aria dai polmoni per sapere di essere vivo.
Cercò di tamponare la ferita, ma era un colpo in pieno petto, aveva perforato la cassa toracica e l’uomo ora lo guardava, supplicandolo rantolando sangue di salvarlo, di salvargli la vita.
Non sono Dio. Eppure ti illudo lo stesso.
Freneticamente, con le mani sporche di sangue e sabbia, le bende che continuavano a inzupparsi come se fossero state direttamente bagnate nel mare, Naruto cercò nelle tasche dell’uomo il suo kit medico, ogni soldato ne aveva uno. Vide la morfina, la prese, tolse il cappuccio protettivo con un morso, sputandolo a terra, e la piantò nella coscia dell’uomo per poi dirgli, mentre senza pensarci gli accarezzò una volta i capelli sudici:
“Passerà, passerà, non farà più male.”
Lo ripeté, quasi senza pause tra una parola e l’altra, perché non c’era tempo e l’aria mancava.
L’uomo, con gli occhi sgranati, gli afferrò la mano, annuì, ma non parlò.
Nemmeno allora Naruto lo lasciò, guardandolo mentre moriva. Non se ne sarebbe andato del tutto senza dolore, forse in quel caso servivano due dosi di morfina, ma... usarla su di lui sarebbe stato uno spreco, questo anche un idealista come Naruto lo sapeva. Il soldato non aveva arti spappolati, né intestini che fuoriuscivano. Aveva solo un buco in petto, alleviargli parte del dolore fino alla morte era l’unico atto di gentilezza che potesse concedergli.
Poi, quando il soldato smise di respirare, Naruto fece per voltarsi e correre, dopo aver preso la seconda dose di morfina in dotazione a ogni uomo e le sue bende, consapevole che ben presto l’una e l’altra cosa sarebbe scarseggiata.
Nel momento in cui si mosse, però, sentì qualcosa arrivargli in testa.
Fu come ricevere un pugno diretto sulla fronte, violento, preciso come una frustata. Sentì il collo quasi piegarsi per l’urto, il cranio farsi più leggero e l’encefalo spostarsi, galleggiando scosso nella scatola cranica.
Naruto sgranò gli occhi, boccheggiò, smettendo di sentire il peso dell’elmetto sul capo.
Si portò una mano tremante sul volto, poi sulla fronte, tastando con le dita che non stavano ferme la pelle sudata.
Morto, sono morto, morto.
Credette stupidamente di sentire il sangue, infine, il buco di un proiettile piantato dentro la testa.
Invece… nulla, non c’era nulla. Solo le sue vene pulsanti di vita e di terrore che scorreva in rivoli gelidi lungo il volto accaldato. Incapace di chiudere gli occhi, boccheggiando guardò l’elmetto a terra e realizzò che il proiettile lo aveva preso di striscio. Sotto shock per la comprensione di aver sfiorato la morte, sollevò gli occhi, come cercando un nemico visibile tra le insenature artificiali della montagna.

*

Sasuke lo guardò, con il fucile diretto contro di lui. Guardò il medico e sentì improvvisamente i suoi occhi puntati addosso. Ma non poteva vederlo, non con l’ombra della grotta e il caos della battaglia, impossibile. Allora perché, perché sentiva quei dannatissimi occhi azzurri, così tanto americani, piantati contro?
Si umettò un labbro secco, sprecando la sua saliva praticamente inesistente.
Fuggi, stupido. Che stai aspettando?
Non seppe perché si ritrovò a pensare quelle parole, non lo comprese. Qualcuno degli altri uomini urlò: dovevano ripiegare e rifugiarsi verso l’interno, nelle gallerie, prima di finire bruciati vivi dai lanciafiamme o di saltare in aria per la frammentazione di una granata.
Per un ultimo istante vide il medico correre avanti, ancora, con un disperato attaccamento alla vita che Sasuke non aveva mai visto in nessun altro.
Espirò, imbracciando il fucile per ripiegare. In quell’istante, contravvenendo agli ordini uno dei soldati si schiacciò una granata in testa, premendo l’innesco contro l’elmetto. Un secondo dopo scavalcò il bunker scavato nella terra e andò incontro ai primi soldati americani, facendosi esplodere tra le urla e il sangue.
Fottuto bastardo.
Imprecò Sasuke, correndo assieme agli altri. Si sentì disonorevole per quelle parole, così poco giapponese, così tanto meschino. Erano stati i suoi studi all’estero? L’università capace di dargli quella prospettiva assurda del ritenere giusto sopravvivere, anche quando tutto ciò che rappresentava il Giappone, la sua terra, si stava sbriciolando, sgretolandosi verso un punto di non ritorno?
Avrebbe sinceramente voluto pensare che si sarebbe immolato volentieri per il proprio paese. Ma nemmeno in quei giorni di disperazione e di odio maturato nei confronti degli americani, Sasuke riuscì a illudersi di essere capace di farsi esplodere come aveva fatto quel soldato lanciato contro il nemico.
Se mai fosse capitolato, e la cosa razionalmente pareva plausibile, lo avrebbe fatto combattendo fino all’ultimo, con la katana al suo fianco. Poi, se gli dei avessero voluto e lui avesse avuto ancora un alito di vita, avrebbe fatto seppuku, per coprire il disonore della sconfitta e di una vita che, in fondo, forse non valeva la pena vivere.
No, non era quel medico americano che correva nel campo, follemente bisognoso di aiutare gli altri e, magari, fare la cosa giusta. Ma nemmeno era il kamikaze capace di farsi saltare in aria. Anche se c’erano giorni in cui Sasuke, contraddittoriamente, sentiva di comprendere entrambi e non sapeva, davvero non sapeva, chi avesse realmente ragione.


14 marzo 1945


Sasuke guardò la propria mano tremante; la vide sporca, magra, la mano di un vecchio, con dei calli tremendi di chi scavava la terra non per coltivare, bensì per sopravvivere, come un topo in fuga dal gatto. Ormai non sentiva più la fame, né la sete: il suo corpo sembrava aver capito che non serviva a granché lamentarsi per qualcosa di sporadico come il cibo o l’acqua. Ogni tanto, quando i muscoli tremavano per lo sforzo e l’assenza di energie, Sasuke si ricordava delle privazioni ma metteva subito a tacere le fitte allo stomaco.

Guardò i suoi compagni che in quel momento, come lui, cercavano di trovare un attimo di riposo seduti sulla terra, chiudendo gli occhi quando potevano, anche se cadevano semplicemente in un dormiveglia nel quale non si dormiva mai davvero. Ufficiali e soldati pativano le stesse identiche condizioni, eppure… nessuno aveva intenzione di arrendersi: continuavano, in una toccata e fuga nelle viscere scavate nell’isola, senza mai lamentarsi o temere la morte.
Sasuke si chiedeva come facevano, cosa li spingeva a devolvere ogni istante della propria vita a una nazione che non aveva mai dato nulla in cambio eccetto un appezzamento di terra per i contadini, o una barca per i pescatori; tanti di quei ragazzi provenivano dalle campagne o dai villaggi e non avevano mai visto né l’America, né l’Europa, eppure combattevano nel fango contro potenze spaventose, parte di un immaginario più che di una realtà occidentale.
Lui aveva studiato in America, come una buona parte dei giapponesi facoltosi la cui famiglia si era potuta permettere di mandare i figli ed eredi negli USA per studiare nelle università di prestigio e importare in Giappone, per le proprie aziende, le competenze dei grandi imprenditori fuori dalla propria reclusa isola. E l’America, Sasuke lo aveva visto con i propri occhi, non aveva nulla delle tradizioni e della cultura giapponese, decisamente nulla; per certe cose era avanti anni luce, per altre era un mostro ingordo e rivoltante. Mostro che, però, li stava schiacciando e sosteneva di essere nel giusto, nel combattere una guerra nobile; forse, si ritrovava a pensare Sasuke, era davvero così e loro, tutti quei ragazzi che si facevano saltare in aria per portare con sé il nemico del Sol Levante, erano pazzi, pazzi e disperati.
Si morse un labbro, spaccato per la disidratazione. Si vergognava per quei pensieri, anche se l’idea di morire in quell’isola a volte sembrava abbastanza da controbilanciare.
All’improvviso, sentì delle urla e, a seguire, un’esplosione. Scattò in piedi, mentre la polvere della terra smossa gli accarezzò la pelle, come se avesse dovuto prepararsi a schiaffeggiarlo e a metterlo sotto di sé.

*

“Pazzi. Sono dei pazzi fottuti.” Sbottò uno dei soldati, indossando la cinghia con il fucile M1 Garand.

Naruto finì di aspirare l’ultima boccata della sigaretta, poi lanciò il mozzicone a terra, gettando il pacchetto vuoto nella fascia dell’elmetto: era l’ultima, avrebbe dovuto rinunciare anche a quel vizio preso a Guadalcanal. Scrollò le spalle, incapace di dare del tutto torto all’uomo, non senza però provare una sorta di malsana ammirazione per i nemici giapponesi: in quelle settimane di guerriglia, perché Iwo Jima nulla aveva a che fare con un fronte come quello dello sbarco di Normandia, i soldati avversari si erano dimostrati tenaci combattenti, ancora più recidivi di quanto fosse accaduto nel resto del Pacifico.
Semplicemente, sembrava che non gliene fottesse nulla di morire, anzi, se ammazzavano americani lasciandosi esplodere in gallerie minuscole o in campo aperto, traforati da pallottole, era ancora meglio. Poi, pareva che non avessero nemmeno bisogno di mangiare, né di dormire, come posseduti da una qualche forma di demone capace di mandarli avanti anche in condizioni totalmente disumane; non che l’esercito americano se la stesse passando meglio, visto che avevano subito numerose perdite e, nonostante tutto, ancora si trovavano circondati dalla loro stessa merda.
Vennero dati gli ordini e proseguirono la loro avanzata da un altro accesso delle gallerie scavate nell’isola, mentre nell’aria risuonavano richieste categoriche di resa alle quali i giapponesi non avevano mai aderito. In America già girava la propaganda, falsa, che annunciava la vittoria delle truppe statunitensi a Iwo Jima, quando invece la situazione era ancora tutto meno che risolta.
Ma c’erano state troppe vittime e pochi risultati perché la pubblica opnione si quietasse, dunque anticipare mediaticamente la fine di un conflitto era sembrata l’unica cosa da fare, seppur fomentando di conseguenza l’acredine del Sol Levante e l’incredulità di soldati americani che magari si sarebbero ritrovati a morire comunque in un territorio già dichiarato preso.
“Può essere – mormorò Naruto, seguendo i suoi compagni che si stavano accingendo a entrare in una delle gallerie  – forse siamo solo disperati entrambi.”
Poi, avanzò in uno degli accessi ai tunnel.
Sentì il famigliare rumore di passi degli stivali sul terreno, la polvere che si sollevava o scendeva dal soffitto come neve antica, le luci soffocanti che ogni tanto mancavano, regalando attimi di buio.
Dopo qualche secondo, però, udì delle urla che ricordavano quasi dei ringhi. Seguì nel giro di brevissimo un conflitto a fuoco altrettanto rapido, durato secondi pari a frenetici battiti di ciglia, alla fine del quale dei giapponesi corsero loro incontro abbracciandosi ciascuno a una granata, un ultimo gesto d’affetto prima di morire.
“Sparate a quei fottuti stronzi!”
Urlò uno degli ufficiali. Gli uomini cominciarono a sparare, perforando di tanto in tanto qualche muro friabile e l’eco dei colpi rimbalzò fin dentro i timpani.
Due soldati giapponesi caddero ed esplosero con le granate tra le mani, facendo tremare le gallerie mentre si sollevavano nugoli di polvere. Qualcun altro urlò, ma nessun americano rimase ferito, perché gli orientali non fecero in tempo a raggiungere il disordinato schieramento statunitense.
Fu approfittando della polvere e del caos, che un terzo soldato giapponese riuscì a passare oltre.
Gridò, lanciandosi contro gli invasori, sentendosi davvero parte del vento millenario che avrebbe cancellato ogni disonore di sconfitta, di attacco alle proprie terre in cui viveva l’Imperatore, manifestazione del Sole sulla Terra.
Naruto imprecò. Cercò di muovere un passo, ma uno degli altri soldati lo trascinò indietro; in quell’istante la granata esplose e alcuni suoi compagni di squadra vennero travolti in pieno dall’urto, massacrati dalla deflagrazione che flagellava la carne e strappava la pelle.
Ci furono altre urla di dolore, di qualcuno che aveva perso degli arti e, presto, la vita.
I soffitti già martoriati da una guerra giocata di sfuggita crollarono e Naruto, trovatosi sbalzato indietro per l’esplosione, atterrò con la schiena a terra, inghiottendo polvere, sabbia e l’odore metallico del sangue.
Tossì, sentendosi il petto sconquassato e le costole che piangevano per l’impatto.
Dopo un istante, nel silenzio ovattato della galleria quasi inconsciamente si tastò le braccia e le gambe, per assicurarsi che tutti i pezzi fossero ancora attaccati; a volte, il male era talmente forte da arrivare in ritardo alla testa e la mente, folle, non riusciva del tutto a realizzare di aver perso qualcosa del corpo.
Ansimò, con gli occhi sgranati che bruciavano.
Tutto a posto, tutto a posto. Sono vivo. Vivo. Ancora vivo. E le gambe, le braccia. Tutto, c’è tutto, tutto a posto.
Deglutì, rantolò in cerca d’aria, tentò di normalizzare la respirazione. Barcollando si alzò in piedi, poi vide il suo compagno a terra, lo stesso che aveva cercato di trascinarlo via con sé.
“Puller! Puller!” lo scosse, chinandosi su di lui. Sentì in lontananza il rumore di uno sparo, ma gli arrivò ovattato alle orecchie.
Lo chiamò, pur vedendo la sua faccia dilaniata dai frammenti metallici della granata e un occhio vacuo, aperto verso il nulla.
“Cazzo...” mormorò alla fine, indietreggiando. Per abitudine, per stupida, sciacalla abitudine, prese dal kit medico dell’uomo la morfina e le bende, anche se il passaggio era bloccato da calcinacci, sabbia e malta, mentre le poche luci collegate al generatore tremolavano, come candele scosse dal vento.
Si umettò la lingua secca, sporca, come era sporca ogni parte di lui, coperto di polvere, sangue e sudore.
Sentì, vagamente, dei lamenti dalla parte opposta, ma passare oltre era impossibile: smuovere qualcosa di quella pila di terra era rischioso, avrebbe potuto minare il sostegno precario della struttura e farlo crollare.
“Resistete! – gridò, sebbene a fatica – faccio il giro e vi raggiungo!”
Anche se nemmeno sapeva dove accidenti portassero quei cunicoli, né se avrebbe avuto luce o aria nelle ore a seguire. Fece per correre avanti poi, all’ultimo, si voltò verso il suo compagno. Espirando appena gli prese il fucile, ma lo portò dietro la schiena con la cinghia perché l’arma era pesante e scomoda; lui doveva avanzare, sperando di non incontrare alcun nemico, solo l’uscita.
Proseguì per diversi metri, fece per svoltare una curva quando all’improvviso… qualcuno sparò.
Un colpo di proiettile penetrò nel terreno, mancandogli di pochi millimetri il piede spostato per un riflesso istintivo.
Con il cuore che batteva ferocemente nel petto, Naruto schiacciò la schiena contro la parete, cercando quasi di sparire contro di essa. Sentì il corpo del fucile premergli contro le vertebre e la sabbia secca mischiata alla calce sulle mani sudate. Con gli occhi sbarrati, respirando attraverso la bocca, imprecò ma non si sporse nemmeno di un millimetro, consapevole che se solo fosse uscito, sarebbe morto.
Chiuse un istante le palpebre.
Non c’era via d’uscita.
Si spostò appena per imbracciare il fucile. In tutta quella dannatissima guerra aveva sparato pochissime volte: sapeva come si faceva, era stato comunque addestrato, quello a cui non era pronto, ancora, era morire. Nonostante tutte le vite che aveva visto spegnersi, nonostante la spericolatezza del correre lungo i campi di battaglia tra la giungla e la sabbia, in quel frangente si sentiva uno stupido, inutile, codardo. Perché non c’era nessuno da aiutare, non c’era alcuna corsa o emergenza che gli avrebbe permesso d’andare avanti, né colpi d’arma di fuoco.
C’era soltanto lui e, oltre quell’angolo, il nemico, in posizione di vantaggio.
Dilatò le narici. Pensò un ultimo istante alla sua casa, ai suoi genitori, al paesino minuscolo ma vivace in cui viveva e si ritenne felice di aver combattuto per loro, così come di aver aiutato i suoi compagni. Poi annuì, consapevole di essere vivo, ed era sbagliato, allora, ritenersi già morto.
Non urlò, ma dentro di sé gridò fino a spaccarsi il petto con la violenza di un’ascia piantata in una quercia secolare.
All’improvviso, in uno scatto istintivo, serrando la presa sull’impugnatura del fucile fino a farsi venire le dita bianche, Naruto si sporse da oltre l’angolo e premette il grilletto.
Vide, in quel preciso istante, il giapponese – solo, era solo, non seppe come riuscì a realizzarlo – dall’altra parte fare lo stesso identico gesto: sparare.
Click.
Quel rumore, quell’unico rumore risuonò simile al gocciolio del rubinetto mai chiuso, riecheggiando nella galleria.
Ansimando, con nelle orecchie il suono del battito cardiaco, il respiro assente, la bocca appena aperta di chi non riusciva a parlare, i due uomini si fissarono, immobili.
Naruto non si mosse. Deglutì, una sola volta, e realizzò di essere vivo. La sua arma si era inceppata, anche se c’erano ancora dei colpi nel caricatore.
Dall’altra parte, l’uomo fu più rapido. Cercò di sparare ancora, un’ultima volta, ma... non ci riuscì. Perché non c’erano più proiettili da sparare, solo una baionetta arrugginita e poco lontano della stupida polvere da sparo.
Ancora, i due rimasero immobili.
Allora, Naruto fece un gesto che gli sarebbe valso il congedo con disonore dall’esercito, se non addirittura la pena di morte al tribunale militare. Sollevò una mano, lasciando andare il fucile sul petto, in segno di pace.
“Non sparo. Non sparo.”
Ripeté, in giapponese.
Dall’altra parte, parzialmente riparato dietro delle casse, il sottotenente Sasuke Uchiha rimase immobile ma sgranò gli occhi, sorpreso, dal sentire delle parole nella sua lingua provenienti dalla persona più estranea di sempre, specie dopo aver creduto di sentire un proiettile infilarsi fin dentro l’encefalo.
“Non muoverti – riuscì a dire, secco, controllando il tremito alla mano – sta’ fermo.”
Aveva ancora la sua katana. Avrebbe potuto ucciderlo e trascinarlo via con sé.
Naruto sollevò anche l’altra mano, occhieggiò un soldato americano morto, probabilmente andato avanti durante l’esplosione. Doveva averlo ucciso il giapponese che, ostinato, sembrava proprio non volersi lasciare uccidere.
“Sono fermo. La galleria è bloccata, non ha senso ammazzarci giunti a questo punto, ti pare?”
Disse alla fine. Nel sollevare le braccia sentì i muscoli far male per lo sforzo e la stanchezza; era stanco, stanco di quell’odore di piscio, feci, malattia e morte. I suoi compagni, tutti, erano morti. Davanti a sé aveva solo un uomo dal volto scavato, sporco come lui, con un fucile senza colpi e l’aria di chi aveva assistito ad altrettanta desolazione.
“Ha senso morire – ribatté Sasuke, offeso dal ragionamento stupido di uno stupido americano che credeva di conoscere la sua lingua – se posso uccidere anche te. Un americano in meno.”
Poi, vide la benda medica al suo braccio. Occhieggiò un istante i capelli. Biondi, com’erano biondi quelli di molti americani, ma... lo riconobbe. Riconobbe il soldato che sotto il fuoco delle armi era corso a soccorrere uomini morenti, come se fosse stato in grado, così, di fermare uno sterminio.
“Pazzo. Demone pazzo.”
Sussurrò, serrando poi i denti.
“E’ già finita – disse all’improvviso Naruto, abbassando le braccia senza sfiorare il fucile – per voi, come per noi. Tutte queste morti... sei ferito?”
Domandò all’improvviso, notando che l’uomo teneva il fucile puntato con una sola mano, mentre l’altra era lungo il fianco e c’era sangue.
“Non ti riguarda.”
Replicò l’avversario, gelido, provando una fitta alla spalla perforata dal proiettile del soldato che poco fa aveva ucciso.
“Posso aiutarti.”
Replicò Naruto, muovendo un passo avanti.
Sasuke urlò: “Ti ho detto di stare fermo! Non voglio il tuo aiuto.”
“Oh – sbottò l’altro, scuotendo la testa – piuttosto che farti toccare da un americano ti lasceresti morire dissanguato? Complimenti, ragionamento che fila. Geniale quasi quanto farsi saltare in aria!”
“Sta’ zitto! – sbraitò Sasuke, con voce però rotta dal male e dalla disidratazione – Tu non capisci.”
Neanche lui, in fondo, capiva. Perché il Sol Levante si fosse dovuto imbarcare in una guerra più grande, retta da potenze ottuse, micidiali, che non sapevano nulla dell’onore di un soldato, del sacrificio, della via della spada seguita da un samurai.
“La convenzione di Ginevra: il trattamento dei feriti sul campo di battaglia. Questo lo comprendo, per esempio. E non ho intenzione di ignorare alcun soldato che necessiti di cure mediche; giapponese o americano, per me non fa alcuna differenza.”
Appoggiò di più il peso su un piede, mentre parlava.
Istintivamente Sasuke sentì più debole la presa sul fucile. Dovette appoggiarlo sulla cassa, continuando comunque ostinatamente a tenerlo puntato.
“Stupidi medici. Siete tutti stupidi. A gettarvi in mezzo al campo senza armi.”
“E voi ci bersagliate di proposito, giusto?” rimarcò l’altro, con sarcasmo.
Sasuke tacque.
Dopo un istante fece presente: “Scaviamo nella terra come topi, per sopravvivere, e voi ci seguite: è tanto più dignitoso?”
“Dignità? Onore? Tutte parole sopravvalutate in guerra, la guerra vera intendo, quella uomo contro uomo. Dare importanza a simili parole sarebbe come dare importanza alla guerra stessa, quando si tratta alla fin fine solo di mera sopravvivenza, non trovi? – dopo un istante domandò, con un mezzo sorriso sul volto stanco – Posso almeno sedermi?”
Sasuke assottigliò gli occhi. Era stupido o cosa? Sedersi? Lì, di fronte al suo nemico. Avrebbe potuto saltare verso di lui e ucciderlo, anche con un braccio menomato.
“Dare importanza alla guerra implica rispettare le persone che si sono sacrificate per permetterci di andare avanti – fece una smorfia – siediti. Ma non avanzare.”
Sollevato, Naruto si sedette a gambe incrociate. Espirò un istante, poi commentò:
“Le persone dovrebbero essere considerate importanti in vita, non con la morte, ti pare?”
Tutto quello che udì fu un flebile tsk provenire dal giapponese che dopo un istante sbottò:
“Che ragionamento del cazzo. L’America, l’ottimismo e il buonismo ipocrita.”
Assottigliò le labbra. L’ultima cosa che aveva intenzione di fare era intrattenere una conversazione con il suo nemico, quello per cui aveva dovuto arruolarsi, lasciare gli studi e ritrovarsi a morire in un buco.
“Come ti chiami?”
Gli domandò invece l’altro all’improvviso.
Certo, erano sottoterra, dispersi in un’isola nel mezzo di una guerra che si stava estinguendo in un triste conteggio di morti, e quello stupido dai capelli biondi, luridi, gli chiedeva il nome.
Sasuke si limitò a ribattere secco: “Vediamo di risolvere la faccenda. Non posso lasciarti andare via di qui vivo. Tu puoi spararmi. Facciamola finita, il tuo nome non m’interessa, così come non ti deve importare del mio.”
“Naruto Uzumaki.” Replicò invece, ostinato.
“Cos... ma mi stai ascoltando? Uzumaki? – domandò suo malgrado Sasuke, quasi con rabbia – Pensi di essere divertente, di prendermi per il culo?”
Naruto rise, una risata stanca com’era stanco il sorriso che gli si era incollato addosso, simile alla polvere e al sangue:
“Ho dovuto chiedere di arruolarmi tre volte: alla prima mi hanno rifiutato, alla seconda mi hanno detto che come pelle gialla ero buono solo per le cucine delle navi assieme ai negri. Alla terza... beh, alla terza mi hanno accettato perché sapevo parlare giapponese e, data la merda che stava accadendo nel Pacifico, uno che sapesse comunicare con le scimmie asiatiche poteva tornare utile – scrollò le spalle – del fatto che stessi studiando medicina non importava niente a nessuno, anzi, non ero nemmeno ancora laureato, dunque sono partito da semplice cadetto.”
Sasuke cercò un istante di chiudere le dita della mano ma non ci riuscì, erano gonfie e la circolazione pessima, mentre continuava a perdere sangue. Quell’uomo... da dove arrivava quell’uomo?
“Hai scelto gli USA, anziché il Giappone. Già solo per questo tradimento meriteresti di morire.”
Le sue parole, forse per il male, forse per le energie che mancavano, non suonarono poi così cariche di disprezzo.
“Sono un sansei, giapponese di terza generazione nato e vissuto in America, e ho scelto la terra in cui sono cresciuto. Ma non ho rinnegato le mie origini. Mi sono arruolato perché in tutto questo schifo la gente muore, mentre gli altri avanzano. Allora sarò io quello che si ferma dai feriti e dai morenti, affinché non siano soli. In questo modo mostro il mio rispetto e il mio affetto verso chi ha combattuto e ha permesso, come dicevi tu, agli altri di andare avanti.”
Sasuke ripensò a qualche settimana prima, a quando lo aveva visto ritornare sui suoi passi per stare accanto a un uomo che sarebbe morto.
“Cosa ti credi, un Dio?”
“No – fu la replica schietta dell’altro – ma questo è il mio credo.”
Allora, il soldato Uchiha tacque.
Sentì la presa farsi evanescente sul fucile, al punto che fu costretto ad appoggiare entrambe le mani sulla cassa. Si vergognò, di mostrarsi così debole.
Naruto mise a sua volta le mani sulla terra, sporgendosi leggermente in avanti con il torace:
“Ora mi permetteresti di cercare almeno di tamponare la ferita? Il proiettile è dentro o è passato attraverso?”
Per diversi istanti Sasuke rimase muto. Non capiva, davvero non capiva se quello fosse semplicemente un trucco per avvicinarsi e ucciderlo, o se davvero quel tizio facesse sul serio; stupido, stupido e... cosa? Ottimista? Probabile, visto che se si fosse avvicinato Sasuke avrebbe potuto ucciderlo a sua volta.
“E’ dentro.” Si ritrovò a dire, con la voce che faticava a uscire e gracchiava, come intasata di polvere e sangue.
“Ok.”
Disse semplicemente l’altro. Con un movimento lento si alzò in piedi, poi sollevando le mani aggiunse:
“Per darti fiducia tolgo il proiettile inceppato e il caricatore. Va bene?”
Sasuke non disse nulla, si limitò a guardarlo.
Allora il medico, usando la leva del Garand, con un cling tintinnante fece uscire il proiettile che saltò via, finendo a terra. Tolse anche il caricatore e, dopo aver messo il fucile dietro la schiena, raccolse il proiettile caduto, stringendolo un istante tra le dita. Quell’oggetto, se solo tutto fosse andato per il verso giusto, avrebbe ucciso l’uomo con cui poco fa aveva parlato. Un pensiero stupido, dopo tutte le morti a cui aveva assistito, ma si sentì più umano.
Lo mise in una tasca, poi si avvicinò con passi cauti a Sasuke. Gli andò vicino, occhieggiò la katana al fianco dell’altro, il fucile con la baionetta su cui poco fa l’uomo aveva tenuto salda la presa, ma non disse nulla.
Avrebbero potuto saltarsi al collo a vicenda, l’uno a pochi centimetri dall’altro.
“Ora prendo un po’ di strumenti.”
Trafficò con le varie tasche, fino a srotolare un contenitore verde in cui Sasuke vide degli strumenti chirurgici, dal bisturi alle forbici, in realtà sottratti a un ufficiale medico morto. Occhieggiò un istante l’americano di fronte a lui, notò gli occhi chiari che però avevano un taglio più orientale, anche i capelli, seppur sporchi, erano di un biondo scuro in qualche modo contaminato da qualcosa di remoto. Persino il viso era morbido, non aveva alcuna delle spigolosità occidentali, al pari delle labbra. Doveva essere giovane, come lui, come tanti altri soldati che avevano perso la vita.
Smise di fissarlo nel momento in cui l’altro sollevò lo sguardo e gli spiegò:
“Dovrò toglierti parte della divisa per scoprirti la spalla. Vediamo un po’ la situazione.”
Facendo una smorfia, Sasuke si scoprì con un gesto deciso ma sofferto, esponendo la parte ferita e parte del torace. Sapeva di essere sporco, di avere le ossa che sporgevano perché in quei giorni le razioni, seppur giornaliere, non sempre bastavano per sopperire la fame.
Ma Naruto si limitò a guardare la ferita, senza ancora toccarla.
“Dovrò estrarre il proiettile, come prima cosa. Poi vedrò di pulire la ferita con quello che ho e ricucirla. Forse i punti faranno schifo, perché le condizioni sono pessime e io non sono ancora ai livelli di un chirurgo, non ancora almeno – sembrò persino ridacchiare – ho raccolto della tintura di iodio per cercare di arginare il più possibile il rischio d’infezione. Non sarà una cosa simpatica nel complesso, però se tutto andrà bene sopravvivrai.”
“Perché lo devi fare? Tutto questo intendo.” domandò Sasuke fissandolo.
“Perché non lo dovrei fare, invece? Giunti a questo punto, la tua o la mia morte non cambierebbe granché la situazione. Se dobbiamo andarcene, preferirei fosse su un campo di battaglia, per avanzare, non per rimanere bloccati qui.”
Naruto lo guardò di rimando.
L’altro sospirò, deviando un istante lo sguardo verso la katana per poi scuotere appena la testa:
“Fa’ quello che devi. Mi rimetterò, poi vedremo di tornare ciascuno ai propri schieramenti e concludere la faccenda in maniera... dignitosa.”
Si morse un labbro, mentre la mano aveva perso sensibilità. Sentì di essere pallido.
“Ci sto.” Replicò l’altro, apparentemente sereno.
Allora, Naruto iniziò ad adoperarsi per medicarlo ed estrarre il proiettile con l’intento di far sopravvivere Sasuke, mentre poco distante da loro giaceva un uomo morto e poi… la guerra, sopra le loro teste.




Sproloqui di una zucca

Ahahahah, grasse risate. Ma io robe normali riesco a scriverne? No, ovviamente XD Potevo fare una storia tenera, piena di buoni sentimenti, invece come sempre mi ritrovo a parlare di morte, dolore e sofferenza; i Cavalieri dell'Apocalisse hanno solo da imparare.
Sono state settimane de fuego, ma l'altro giorno ho avuto una sera libera e ne ho approfittato per scrivere a manetta: era tutto nel mio cervello, dovevo solo riportarlo per iscritto.

Un paio di spiegazioni:

S.N.A.F.U. Un termine inglese colloquiale usato a partire dalla seconda guerra mondiale per indicare una situazione andata a puttane, letteralmente. E' la costante dell'essere un soldato in guerra.
LVTP (conosciuti in generale come Landing Vehicle Tracked - seguiti da un numero in base al modello) erano dei cingolati anfibi usati per andare in mare ed effettuare lo sbarco.
Combat Medics I miei preferiti, li ammiro. In questo sito troverete tantissimo materiale in merito, anche se fatto con grafica opinabile. http://www.mtaofnj.org/content/WWII%20Combat%20Medic%20-%20Dave%20Steinert/index.htm
Parlo anche di Convenzione di Ginevra, occhio che i primi reali protocolli sono entrati in vigore solo dopo la conferenza del  '48. Nelle conferenze precedenti si è parlato del trattamento dei prigionieri di guerra e questo ha influenzato anche il ruolo dei medici, ma si trattava di linee non regolamentate. Più info qui https://www.bar.admin.ch/bar/it/home/ricerca/ricerca/motori-di-ricerca-e-portali/wikimedia/le-convenzioni-di-ginevra.html
Facce di Tojo, dispregiativo per definire i giapponesi, considerati tutti uguali. Tojo Hideki fu primo ministro del Giappone durante la Seconda Guerra Mondiale.
Tintura di iodio, usata come disinfettante. Non c'erano ancora gli antibiotici in guerra, anche se stavano venendo sperimentati.
Nisei, sansei: giapponesi di seconda e terza generazione, nati e cresciuti in America. Soprattutto i nisei (sansei erano più rari, ma dato l'aspetto di Naruto ho presupposto radici più lontane) vennero arruolati con il conflitto del Pacifico, lo fecero essi stessi volontariamente per non venire sospettati di alleanza con il nemico. Alle Hawaii venne stabilita una base di linguisti addestrati. Con la seconda parte si capirà di più in merito.
Iwo Jima per il conflitto, l'isola, i giorni e quant'altro ci sarebbe davvero troppo di cui discutere. Consiglio di vedere i due film di Clint Eastwood, Lettere da Iwo Jima e Flags of our Fathers (perfetto per capire i retroscena veri dietro la foto incipit della storia); anche se Lettere da Iwo Jima è stato criticato ai giappi è piaciuto, quindi potrebbe essere in grado di dare nuove prospettive, visto che la filmografia recente scarseggia. Consigliatissime anche due serie tv: Band Of Brothers (analizza il conflitto sul fronte europeo dal punto di vista dei paracadutisti) e The Pacific (fronte del Pacifico, ovviamente XD). Per i libri... ahahahah anche qui, troppi, decisamente troppi. Li menzionerò nel prossimo capitolo.
Per il resto... per qualsiasi dubbio, chiedete! Se ci fossero imprecisioni, cose che mi sono sfuggite o errori, fatemelo presente: ho cercato di essere il più fedele possibile agli eventi storici, ma non si sa mai XD

 

   
 
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