Buonasera a
tutti!
Ecco finalmente
questo capitolo, che mi ha messa un
po’ in difficoltà perché, come si noterà, faccio abbastanza schifo a
gestire le
scene con più di un personaggio (e in questo senso mi farebbe molto
piacere
ricevere qualche suggerimento, se ne aveste, perché è da così tanto
tempo che
gestisco solo due o tre personaggi per volta che ho dimenticato come si
gestisce un gruppo. Un tempo non mi facevo tutti questi problemi).
Inoltre bisognava
che mettessi molta carne al fuoco tutta insieme, come si vedrà.
Dopo un
ringraziamento di cuore a cristal_93 e
Persej Combe per le loro recensioni, vi lascio al capitolo.
Buona lettura!
Afaneia
Capitolo
III – Ipocrita (Parte Seconda).
Quando arrivò
al Laboratorio, divenuto quasi
inaccessibile per i cordoni della polizia e la massa di curiosi e
giornalisti e
telecamere che si stipavano sulla strada, il commissario lo ricevette
in una
stanza di servizio che aveva evidentemente eletto a suo quartier
generale, per
il momento. Non gli era stato permesso di vedere i suoi colleghi: non
appena
aveva varcato la soglia, un poliziotto lo aveva fermamente informato
che il
commissario lo attendeva da un pezzo e che i suoi colleghi avrebbero
potuto
pazientare qualche minuto in più. Emir aveva capito l’antifona e non
aveva
mosso obiezioni, ma prima che il poliziotto li lasciasse soli gli
chiese di
informare i suoi colleghi che era arrivato e che li avrebbe raggiunti a
momenti.
Il commissario
di polizia aveva tutta l’aria di
qualcuno che si fosse ritrovato, dalla sera alla mattina, coinvolto nel
caso
più importante della sua carriera e non avesse alcuna voglia di
ritrovarvisi.
«Dottore,
finalmente. Lei sa che l’aspettavamo da
ore?»
«Sono venuto
appena ho saputo» rispose Emir
piuttosto freddamente, fermandosi sulla soglia. «Non so se il dottor
Lestournelle l’ha informata, ma ero andato a passare il finesettimana a
Lavandonia, a casa di mio padre. Per questo motivo non mi avete trovato
a casa
mia. Sono mortificato, ma non potevo sapere.»
«Uhm» borbottò
il commissario, palesemente deciso a
non cedere terreno su questo punto; ma poiché la sua versione era stata
incontrovertibile fino a quel momento, fu costretto a cambiare
strategia. «Si
sieda, prego. Facciamo due chiacchiere. Suo padre è quel famoso signor
Fuji
che…»
«È lui» tagliò
corto Emir mentre si accomodava di
fronte al tavolino da caffè che era stato eletto a scrivania
d’emergenza. Non
era una situazione molto comoda: quella stanza fungeva essenzialmente
da
ripostiglio e da cucinotto per le piccole necessità ed era
particolarmente
angusta, ma, a giudicare dal forte odore di caffè che vi aleggiava,
forse era
proprio per questo motivo che il commissario l’aveva scelta.
Approfittando del
breve attimo di silenzio che il commissario si era preso per annotare
qualcosa
sul suo taccuino, Emir si schiarì la voce e iniziò: «Posso chiederle di
spiegarmi che cosa è successo? Ho letto l’articolo sul giornale venendo
qui,
ma…»
«Credevo che
avesse parlato al telefono col suo
collega» ribatté l’altro aggrottando la fronte. Emir scosse appena il
capo,
come a non saper che dire, e quegli si rassegnò a spiegarglielo. «È
successo
che il vostro custode notturno non è riuscito a trovare Mew quando è
andato a
portarle l’acqua. Afferma di averla cercata per circa un’ora pensando
che si
fosse nascosta da qualche parte, ma quando ha capito che era inutile
cercarla
ha cercato di chiamare prima lei e poi i suoi colleghi. È stata trovata
una
finestra aperta nel vostro magazzino, e questo spiega per quale motivo
gli
allarmi non abbiano suonato. A questo punto, dottore, immagino che
voglia…»
«C’è anche un
altro motivo per cui gli allarmi non
hanno suonato» borbottò Emir nervosamente.
Il commissario
levò gli occhi su di lui. «Prego?»
«Ecco… potrei
aver rimandato di qualche mese la
revisione dei sistemi di sicurezza.» Il commissario aprì la bocca per
parlare e
subito Emir si affrettò a proseguire: «Erano in programma, ho solo
dovuto
posticiparli per una questione di budget. Non lo sa nessun’altro, di
queste
cose mi occupo io personalmente, e capirà che non ci tenevo a dirlo a
nessuno.
Se controllerà i registri, vedrà che la revisione è in programma
all’inizio di
gennaio. Se non avessi fatto così non saremmo rientrati coi costi di
gestione,
perciò sono stato costretto a scegliere.»
«Beh, questo
spiega molte cose» commentò il
commissario alquanto contrariato. Tornò ad annotare qualcosa sul suo
taccuino.
«Naturalmente questo non dimostra che non funzionassero, se lei ha
posticipato
solo di qualche mese, ma… controlleremo. Ha fatto molto bene a dirmelo
subito.»
Emir accennò un sorriso imbarazzato. «Tornando a noi, dottore… il suo
ritardo.
Vuole confermarmi che non si è presentato subito perché si trovava a
Lavandonia?»
«Ero da mio
padre, esatto» ripeté Emir con
convinzione. «Ho i biglietti del traghetto. Vuole vederli?»
Il commissario
diede in una sorta di grugnito, come
a dire che i biglietti potevano aspettare. «Se intendeva passar là
tutto il
finesettimana, perché non ha avvisato nessun collega?»
«Non abbiamo
mai avuto nessuna emergenza durante i
week-end… forse a lei sembrerà imprudente, ma non avevo mai pensato che
potesse
rivelarsi necessario» rispose Emir semplicemente. La naturalezza della
sua voce
lo stupiva. Era sempre stato così bravo a mentire? «Inoltre, le dirò…
non
volevo che si sapesse troppo. Se lei conosce l’attività volontaria di
mio
padre, capirà che a nessuno dei due conviene frequentarci troppo…»
Suo padre aveva
continuato a protestare sui
giornali contro la Silph SpA anche dopo che lui era stato assunto, e
talora con
più veemenza ancora, forse per provargli che osava spingersi ancora più
oltre e
che non temeva alcuna conseguenza per le sue proteste. L’ultima era
relativa
proprio a Mew: in un momento di grande afflato moralistico, suo padre
si era
prodotto in una vibrante lettera di protesta contro la scelta di
sradicare dal
suo ambiente un Pokémon che fino ad allora aveva vissuto nascosto,
presumibilmente con buone ragioni, per rinchiuderlo in un laboratorio e
studiarlo a esclusivo vantaggio e profitto della Silph SpA.
Il commissario
non ebbe bisogno di ulteriori indizi
per capire a cosa si riferisse: delle rimostranze di suo padre,
giornalisti e
opinionisti avevano discusso per giorni, forti dell’interesse che
suscitavano
le palesi provocazioni del fondatore della più importante associazione
volontaria di Kanto contro il laboratorio gestito dal suo proprio
figlio, sia
pur destinate a rimanere inaccolte. Tossì discretamente volgendo lo
sguardo
altrove, come se la cosa lo mettesse a disagio.
«Una questione
di reputazione, posso immaginarlo.
Quindi non aveva parlato di questo viaggio a nessuno che potesse avere
interesse a…»
«Gli unici a
saperlo avremmo dovuto essere io e mio
padre» tagliò corto Emir.
Il commissario
tornò a frugare nei suoi appunti con
occhi spenti, ma Emir non dubitò neppure per un momento che avesse già
in mente
tutte le domande da fargli, e che fosse perfettamente attento.
«Come sono i
rapporti all’interno del laboratorio?»
«Mi fido dei
miei colleghi come di me stesso, se è
questo che mi sta chiedendo.»
«Davvero?» Lo
sguardo del commissario si fece per
un attimo più penetrante e attento e la penna che aveva in mano scattò
nervosamente sul foglio. «Perché dalle parole dei suoi colleghi mi era
parso
d’intuire una certa acredine con qualcuno di loro. Col dottor Ro… Rot…
il
dottore tedesco, per esempio.»
«Rotwang»
suggerì delicatamente Emir, e per
prendere ancora un po’ di tempo soggiunse: «Il tedesco è una lingua
dura, ma
dopo un po’ ci si fa l’abitudine.»
Ma mentre la
sua bocca pronunciava quelle parole,
la sua mente lavorava invece freneticamente per trovare una risposta
che
soddisfacesse quell’insinuazione e insieme non lo scoprisse troppo:
sarebbe
valso a qualcosa minimizzare? E a che pro, poi? Se tutto era andato
come aveva
previsto, Rotwang doveva averlo accusato di fronte a tutti: non era per
questo
che Valérien aveva detto che era molto arrabbiato con lui? Ma
confessare
apertamente una cosa tanto personale non gli pareva nel suo carattere,
e
rispose: «È un professionista di grande valore e un medico eccezionale.»
«E umanamente
parlando, invece?»
Quella domanda poteva essere un buon modo per far mostra d’essere indotto a confessare. Emir si sforzò di mostrarsi combattuto. «Io e il dottor Rotwang abbiamo idee molto diverse sulla gestione del laboratorio, soprattutto per quanto riguarda le questioni economiche, ma c’è da dire che il dottore non ha un carattere piuttosto… non facile, ecco. Siamo molto diversi e ci capita spesso di scontrarci, ma sempre in modo molto costruttivo.» Non gli veniva in mente un modo in cui paragonarlo a Hitler potesse riuscire costruttivo, ma non c’era bisogno che il commissario venisse a sapere proprio tutto.
«Uhm.» Il
commissario tamburellò un poco con le
dita sulla scrivania. «Dunque lei non pensa che il dottore tedesco
possa avere
avuto qualche motivo per rubare Mew?»
Mettendo da
parte qualsiasi residuo di prudenza gli
fosse rimasto, Emir stabilì dentro di sé che, a questo punto, qualsiasi
cittadino innocente al suo posto sarebbe stato autorizzato a sentirsi
offeso; e
quand’anche poi non lo fosse stato, beh… sarebbe stato un vero peccato.
«Sta insinuando
che sia stato qualcuno dei miei
colleghi?» domandò freddamente. «Le ho già detto che mi fido di loro
come di me
stesso. Io e Rotwang possiamo dissentire su svariati argomenti, ma so
quanto
tenga a Mew e posso garantire che nessuno al mondo potrebbe amare quel
Pokémon
più di lui. Posso permettermi di suggerirle di cercare qualcun altro su
cui
indagare?»
«Sto facendo soltanto il mio lavoro» rispose il commissario, col tono di chi avesse avuto esattamente ciò che voleva; ma neppure per un momento Emir si sentì a disagio per avergli risposto tanto acremente. Egli doveva impersonare la versione innocente di sé stesso, e quella versione, egli lo sapeva, era tremendamente orgogliosa. E quand’anche poi avessero dovuto indagare all’interno del laboratorio, che cosa avrebbero potuto scoprire? Mew non l’avevano rubata i suoi colleghi, ed egli l’aveva nascosta in un posto in cui nessuno, mai, sarebbe riuscito a trovarla. «Comunque sia… molto bene. Indagheremo. Se lei non ha altro da dire, credo che abbiamo finito.»
La tortura era
durata meno di quel che aveva
temuto, egli era stato più tranquillo di quanto le sue capacità gli
avessero
fatto immaginare: col cuore colmo di gratitudine, Emir si alzò. Ma
proprio
quando stava per porgergli la mano e salutarlo, qualcosa dentro di lui
lo
trattenne: non andava ancora bene. Ma che cos’era che mancava?
La mano che
stava per porgergli sostò ancora sul
bracciale della sedia; Emir cercò dentro di sé, frugò in quella parte
della sua
coscienza che ancora avrebbe voluto credersi innocente, ed ecco –
dov’era
l’angoscia che avrebbe dovuto provare?
Emir rimase a
osservare dall’interno della propria
mente il se stesso che cercava d’ingannare il mondo intero dire ad alta
voce:
«Pensa che avrete molte probabilità di trovarla?»
Il commissario
levò gli occhi su di lui in un
impeto di stupore: era evidente che aveva considerato la loro
conversazione già
chiusa. Ci pensò un momento.
«Abbiamo i
nostri canali» rispose diplomaticamente.
«Il pericolo da scongiurare è che venga in qualche modo mandata o
portata a
qualche acquirente estero. Ma mi sento di escludere che le venga fatto
del
male: prima di tutto quel Pokémon ha valore solo da vivo, e inoltre,
almeno a
quanto ho letto sui giornali, è il Pokémon più forte del mondo…»
«Nessun Pokémon
è immortale» disse Emir seccamente,
con una fitta di dolore che gli pareva volergli dilacerare il petto.
Egli
sapeva che quell’uomo non l’aveva visto, ma non riusciva a immaginare
che
qualcuno al mondo potesse continuare a vivere e a fare finta di nulla
quando
nel cuore della giungla, appena cinque mesi prima, Mew – l’altro Mew! –
era
morto su un tavolo da campo… «Neppure quello più forte del mondo, per
quanto ci
piacerebbe crederlo.»
Il commissario
assentì gravemente. «Grazie di
avermelo detto, dottore. Ne terrò debito conto.»
Finalmente
quella conversazione era finita, egli
aveva recitato la sua parte fino in fondo. Sentendosi profondamente
sollevato,
Emir gli strinse la mano e poté finalmente lasciare la stanza. Si sentì
riavere. Ora poteva andare dai suoi colleghi e parlare con loro, e
ascoltare
quel che avevano da dirgli e affrontare Rotwang…
Ma proprio
quando stava per avviarsi verso la sala
riunioni, là dove era certo che lo aspettassero i suoi colleghi, d’un
tratto la
sua segretaria gli si materializzò di fronte. Aveva l’aria confusa e
spaurita,
e sembrava terrorizzata al solo pensiero di rivolgergli la parola.
«Dottore…»
Emir le posò
una mano sulle spalle. L’aveva
salutata per il week-end appena il pomeriggio precedente, ma gli
sembrava egualmente
che fosse passato un tempo indefinibile dal loro ultimo incontro. «Ehi…
stai
tranquilla. Ora è tutto un po’ confuso, ma sono certo che la polizia…»
Ma non era per
venir tranquillizzata che gli era
venuta incontro, e non potevano bastare le sue parole a calmarla: non
era la
sparizione di Mew a inquietarla in quel momento. «Ero venuta a dirle
che il
signor Dale l’aspetta nel suo ufficio. Vuole parlare subito con lei.»
Era
stato il signor Dale a fargli il suo primo colloquio alla Silph SpA,
quando ancora
doveva discutere la tesi di dottorato. Dale aveva quindici o venti anni
più di
lui, e all’epoca era un po’ più magro e molto più abbronzato. Forse era
un
effetto della grande suggestione che gli incuteva, ma a Emir aveva dato
l’idea
di uno di quegli uomini che avrebbero potuto posare in giacca e
cravatta per un
articolo sui dieci più giovani imprenditori dell’anno o qualcosa del
genere.
«Allora,
signor Fuji» aveva esordito, appoggiandosi con aria paterna allo
schienale
della poltrona. «Lei sa che è stata la sua Università a raccomandarci
il suo
curriculum, giusto?»
Era un
modo come un altro per rompere il ghiaccio, perciò Emir si era sforzato
di
rispondere in modo sensato. «Certo, sono molto grato di questa
opportunità.»
«Mmm,
è giusto. Lei non è ancora laureato, giusto, signor Fuji?»
La
domanda suonava come qualcosa che non deponeva assolutamente a suo
favore. «Non
ancora. Mancano dieci giorni, in effetti.»
«Ottimo.
Beh, farà una bella festa, giusto?» Questo il signor Dale glielo aveva
chiesto
senza neppure alzare gli occhi dai documenti che aveva di fronte a sé,
come se
non fosse che una semplice domanda per riempire l’attesa mentre
rifletteva su
che cos’altro chiedergli, ed Emir aveva evitato di rispondere. Dopo un
attimo,
ancora senza alzare gli occhi su di lui, Dale aveva trovato quello che
stava
cercando nei suoi appunti e aveva chiesto: «Abbiamo letto l’abstract
della sua
tesi. Questo suo procedimento di selezionamento degli embrioni
nell’inseminazione artificiale ci è piaciuto molto. Qual è la sua
posizione
sull’eugenetica, signor Fuji?»
Da
questo punto in poi, il colloquio si era fatto molto promettente per
lui.
Sull’eugenetica Emir si era espresso in modo dapprima più cauto, poi
progressivamente più aperto via via che Dale gli pareva più soddisfatto
della
sua risposta: ma certo, l’eugenetica era la via del futuro. A livello
etico,
era davvero corretto privare le nuove generazioni delle potenzialità
che
l’ingegneria genetica riservava, in nome di scrupoli morali solo in
parte
condivisibili? Nessuno intendeva negare gli orrori di Mengele o
dell’Unità 731,
no, no; ma era veramente corretto penalizzare gli sforzi di molti in
nome degli
errori di pochi? Non era forse sintomo di un’eccessiva miopia il voler
a tutti
i costi accomunare gli esperimenti più terribili di cui la storia
serbasse
memoria alle tecniche che avrebbero permesso di far nascere figli sani
da
genitori malati senza per questo nuocere a nessuno, solo perché
accidentalmente
rientravano entrambi sotto il comune nome di eugenetica?
Il
colloquio era andato benissimo fino a questo punto. Evidentemente molto
soddisfatto della sua risposta, il signor Dale aveva annuito
sorridendo, molto
più incoraggiante di quando il colloquio era iniziato, e aveva chiesto:
«Vedo
che lei condivide in larga parte la nostra politica aziendale. Mi
perdoni la
curiosità, ma lei non è il figlio di quel famoso Fuji di Lavandonia?
Quello del
Centro Pokémon Volontario?»
La
domanda lo aveva raggelato. Possibile che suo padre fosse ovunque,
torreggiasse
su di lui persino quando si nascondeva in quel palazzo di uffici a
Zafferanopoli, a riversare su di lui l’ombra di quei suoi principi
morali
nobili e integerrimi tanto che sembrava una vergogna da parte sua non
adeguarvisi spontaneamente? Ma Emir non la pensava come suo padre, Emir
non era
suo padre, Emir odiava suo padre, allora perché chiunque lo incontrasse
assumeva come dato certo che condividesse le sue idee?
«Sì, è
mio padre, ma… noi non la pensiamo allo stesso modo. Mio padre non ha
torto, ma
il suo modo di vedere le cose andava bene nel dopoguerra… non ora. Io
non credo
che possiamo affacciarci al nuovo millennio mantenendo lo stesso
rapporto con
la scienza che andava bene quaranta o sessant’anni fa.» Emir non si era
soffermato neppure un momento a domandarsi se credesse veramente in ciò
che aveva
appena detto. Era esattamente il contrario di tutto ciò in cui credeva
suo
padre, e in quel momento egli voleva che Dale guardasse verso di lui e
vedesse
un uomo completamente diverso dal signor Fuji del Rifugio Pokémon di
Lavandonia. «Ovviamente esistono dei limiti che neppure la scienza può
superare, ma la scienza è umana, e ciò che è umano non può in nessun
modo
essere contro natura. Mio padre appartiene a una generazione per la
quale i
limiti etici della scienza erano assai più ristretti di oggi, per le
storie
della guerra, sa, e tutto il resto.»
«Stia
attento, signor Fuji» lo aveva ammonito Dale in tono ironico, ma
sorridendo, e
quel sorriso gli aveva fatto intuire chiaramente quante speranze
riservasse per
lui l’esito di quel colloquio. «Lei mi lusinga dando per scontato che
io sia
tanto giovane, ma non penso che suo padre sia tanto più anziano di me.»
Il suo
tono era tanto benevolo che anche Emir si era azzardato a sorridere, e
a quanto
pareva questo gli aveva fatto un piacere immenso. «Molto bene, ora
parliamo un
po’ dei dettagli, signor Fuji… lei ha scritto nel suo curriculum di
essere
disposto a lavorare addirittura in un altro continente. È ancora dello
stesso
parere?»
«Naturalmente.»
«Bene,
bene. Fortunatamente per lei, non ci sarà bisogno di arrivare a tanto.
O
meglio, stiamo aprendo anche una succursale in Russia*, ma abbiamo già
un
candidato per quel ruolo, perciò… in questo preciso momento, stiamo
cercando
personale per un nuovo laboratorio a Isola Cannella. Abbiamo già
acquisito i
locali, perciò l’inaugurazione è prevista di qui a pochi mesi… il tempo
necessario per approntare attrezzature e laboratori. E la burocrazia,
naturalmente: permessi, assicurazioni, indagini ambientali… non sarei
lontano
dal vero se le dicessi che abbiamo speso più in marche da bollo che in
materiali.»
A
questo punto, dopo un lungo silenzio carico di sottintesi, il signor
Dale aveva
riflettuto un po’ su cosa dirgli, tamburellando con le dita sul tavolo,
e poi
aveva ripreso: «Sarò onesto con lei, Emir.» (Emir aveva registrato
nella propria
mente questo cambiamento di registro). «Sono stato io a proporre il
progetto di
Isola Cannella. Stiamo cercando personale giovane ma qualificato, e da
quanto
ho capito lei ha già tutte le basi per laurearsi col massimo dei voti.
Le
interesserebbe un posto di direttore?»
Emir
era rimasto a bocca aperta. Quando aveva accettato di inviare il
curriculum
alla Silph, su consiglio della sua relatrice, l’aveva fatto perché, in
fin dei
conti, non gli costava niente fare un tentativo; e quando poi gli
avevano
scritto per organizzare un colloquio, aveva accettato pensando che
forse, per
qualche miracolo, avrebbe potuto portare a casa un tirocinio non
retribuito di
un paio di mesi o un anno al massimo, il che gli sarebbe andato bene
comunque,
parlando di un’azienda di tutto rispetto come la Silph.
La
risposta più logica che gli era salita alle labbra era stata perciò:
«Signor
Dale… io ho ventiquattro anni.»
Dale
era scoppiato a ridere. «Sapevo che mi avrebbe risposto così, ma non
sia così
modesto. Alla sua età io ero apprendista direttore, e non mi ero
laureato così
bene. In ogni caso abbiamo delle grosse agevolazioni fiscali se
assumiamo sotto
i venticinque, quindi abbiamo deciso di investire in un team di giovani
eccellenze. Stiamo vagliando vari scienziati, ma per il ruolo di
direttore
vogliamo qualcuno di Kanto.» A tutte quelle informazioni Emir non aveva
saputo
come reagire, allora Dale aveva continuato: «Naturalmente c’è un altro
motivo
per cui cerchiamo un direttore così giovane. Se sarà lei a firmare i
documenti
di fondazione del laboratorio, anche figurando come socio di minoranza,
il
laboratorio godrebbe delle agevolazioni fiscali concesse ai giovani
imprenditori. Naturalmente tutte le spese spetterebbero a noi, a lei
richiederemmo soltanto l’acquisto di una percentuale minima di azioni,
per una
spesa davvero irrisoria. Il tutto è perfettamente legale, ovviamente,
dato che
la legge non penalizza simili arrangiamenti… anche se un po’
macchinoso, su
questo convengo con lei. Che cosa ne pensa, signor Fuji?»
Ecco
dov’era la fregatura, e neppure troppo ben nascosta. Rendendosi conto
che si
richiedeva da lui una partecipazione economica che un giovane
neolaureato non
poteva assolutamente permettersi, Emir aveva fatto per alzarsi e porre
immediatamente fine all’incontro in un moto di stupore. Possibile che
l’azienda
leader dei monopoli di Kanto e Johto ricorresse a simili truffe nei
confronti
di giovani squattrinati? Quella situazione rasentava davvero il
ridicolo.
Prima
ancora che facesse in tempo a parlare, il signor Dale l’aveva
prevenuto. «Si
sieda, signor Fuji» aveva ripreso con un sorriso, accennando con gesto
plateale
alla sua sedia. «Qui nessuno sta cercando di prenderla in giro, mi
creda. Le
stiamo offrendo un’opportunità che tutti i suoi compagni di corso
pagherebbero
per poter ricevere, dunque dimostri un po’ di gratitudine e si sieda,
per
cortesia, e mi ascolti fino alla fine.» Emir non si sentiva ancora così
sicuro
di sé da disobbedire a un ordine di un uomo tanto più grande di lui,
perciò si
era seduto all’istante. «Molto bene. Qui siamo stati giovani tutti
quanti, e
nessuno di noi è uscito dall’università particolarmente ricco. Ciò che
richiediamo da lei è soltanto la sua firma su certi documenti e la
rinuncia al
sessanta per cento del suo stipendio per tre mesi, in modo da pagare le
azioni.
Tra due anni le riacquisteremo integralmente da lei allo stesso prezzo,
perciò
vede bene che il danno economico che gliene deriva è davvero minimo. Le
ripeto
che non c’è nessuna truffa né niente di illegale, può consultare
qualsiasi
commercialista. Ovviamente le forniremmo anche un alloggio aziendale
sull’isola, perciò le sue spese saranno molto ridotte, come parziale
risarcimento per l’impegno che le richiediamo. Ora la nostra offerta le
è più
chiara?»
Emir
era stato deciso a rifiutare fino al preciso momento in cui Dale aveva
parlato
di un alloggio.
«Vuol
dire… una casa? Un appartamento o qualcosa del genere? A Isola
Cannella?»
«Beh,
non si tratta precisamene di un appartamento, ma…»
«Di
qualsiasi sistemazione si trattasse, foss’anche stata una branda in un
sottoscala, Emir non aveva bisogno di sapere altro: un tetto e uno
stipendio, sicuramente
sufficiente per vivere, lontano da Lavandonia. Non sarebbe occorsa che
una
firma su un contratto, e subito dopo la sua laurea egli non avrebbe
dovuto più
nulla a suo padre – nulla. Suo padre odiava la Silph, e ora la Silph
gli
avrebbe dato di che vivere, lontano da lui, lontano dalle sue regole e
dalla
sua morale integerrima e opprimente. Il suo impegno e il suo genio,
ch’egli non
doveva ad altri che a se stesso, gli avrebbero dato di che vivere, a
un’intera
regione di distanza da Lavandonia.
Non si
era neppure informato sullo stipendio o sugli altri dettagli del
contratto.
«Quando posso firmare, signor Dale?»
Per quanto
potesse essere untuoso e ipocrita, Emir
aveva sempre visto Dale come l’uomo che lo aveva salvato da Lavandonia,
e
gliene era sempre stato riconoscente, sebbene avessero avuto qualche
motivo di
discussione, da quando avevano trovato Mew. Certo, egli era ben
consapevole dei
continui magheggi operati dal suo ufficio: era Dale il responsabile del
laboratorio, per quanto vi avesse posto piede forse tre volte, compreso
il
giorno dell’inaugurazione; dato che era stato lui a proporne il
progetto, era
perciò principalmente con lui che Emir manteneva i contatti a
Zafferanopoli.
Era un amministratore, perciò capiva di biologia e genetica tanto
quanto Emir
capiva di economia: dal momento che era il consiglio a dettare le
direttive
principali per quanto riguardava la ricerca ed Emir a dirigere il
laboratorio
in modo capillare, il suo compito principale consisteva nell’occuparsi
nell’aspetto economico della faccenda. Con ogni probabilità, il motivo
per cui
erano sempre andati alquanto d’accordo, in generale, era che Dale
trovava
continuamente il modo di far risparmiare l’azienda riducendo i costi
del
laboratorio, ed Emir – che viveva in un continuo, precario equilibrio
nel
tentativo di far quadrare i conti senza chiedere eccessivi aumenti sul
budget
annuale – riusciva sempre a raggiungere gli obiettivi prefissati nei
tempi
previsti e coi fondi stabiliti. Ciò comportava richiedere ai dipendenti
sforzi
più intensi con strumenti di lavoro inadeguati, certo, e spostare ogni
tanto
qualche cifra da una colonna a un’altra in modo non troppo trasparente;
ma
fintanto che il laboratorio andava avanti, a entrambi andava bene così.
In tutti i sei
anni per i quali si era estesa la
loro amicizia, Emir non ricordava di aver visto Dale mai in una sola
occasione
in cui egli non fosse al meglio della sua apparenza estetica. Era uno
di quegli
uomini tanto affascinanti ed eleganti da sembrar quasi finti,
abbronzato in
ogni stagione dell’anno, sempre sbarbato e impomatato con cura quasi
maniacale.
Quel giorno le
cose non stavano così. Quando Emir
entrò nel proprio ufficio, dove Dale si era accomodato con la spontanea
naturalezza di qualcuno che sentisse di trovarsi a casa propria, ebbe
la
sensazione di trovarsi di fronte a un uomo che, nel giro di una sola
notte,
fosse stato deprivato di tutto.
Doveva essersi
precipitato lì non appena aveva
saputo, senza neppure farsi la barba. Era pettinato, certo, ma senza
l’abituale
cura ossessiva che lo contraddistingueva, ed Emir era certo che
l’abbinamento
della cravatta al panciotto non fosse esattamente quello ch’egli
avrebbe scelto
in un giorno normale. Al vederlo aggirarsi per la stanza come divorato
dal
dolore, Emir provò una fitta cocente di rimorso alla consapevolezza di
trovarsi
di fronte a un uomo distrutto.
«Signor Dale…»
Al solo suono
della sua voce, Dale si precipitò
verso di lui come qualcuno che fosse stato sperduto nel deserto tanto a
lungo
da non credere più di venir salvato. «Dio, Emir… la sto aspettando da
ore!»
Quelle ore
sarebbero di certo trascorse in modo
molto meno noioso se le avesse passate col resto dell’equipe del
laboratorio;
ma Dale era troppo distaccato da tutto il resto del mondo per poter
anche solo
concepire un’idea simile. Emir era l’unico di tutto il laboratorio con
cui egli
mantenesse i rapporti, e per lui era anche troppo.
«Sono
mortificato, mi creda» rispose Emir chiudendo
la porta dietro di sé. «Le avranno detto per quale motivo…»
A giudicare
dalla desolazione dei suoi occhi, sì,
gliel’avevano detto. «Dio, ma che ci faceva a Lavandonia?»
Emir aveva
avuto tutto il viaggio in traghetto per
pensare alla risposta da dargli, e ne fu incredibilmente grato. Gli
rivolse uno
sguardo carico di stupore. «Non si ricorda? Tempo fa lei mi aveva
chiesto di
parlare a mio padre… riguardo alle sue proteste contro l’azienda e il
progetto
di Mew. Dev’essere stato a settembre. Non si ricorda?»
Gli occhi di
Dale rimasero vacui e inespressivi per
qualche momento: era evidente che non ricordava (e non era poi
sorprendente che
fosse così, dato che quella questione era caduta solo accidentalmente
nel corso
di una conversazione di tre mesi prima e che vi si erano soffermati
forse per
un minuto a dir molto), ma che gli sembrava qualcosa che avrebbe
realisticamente potuto dire. Della schiera di attivisti, ambientalisti
e
no-global che quotidianamente si scagliavano contro le multinazionali e
contro
la Silph in particolare, il signor Fuji era sicuramente quello che
aveva più
voce in tutta Kanto, e Dale, come portavoce dell’azienda, lo
disprezzava di
tutto cuore.
A quanto
pareva, doveva darsi per vinto. «Certo,
ora ricordo… mi era parso strano, in effetti, sapendo in quali rapporti
lei e
suo padre…» La faccenda doveva averlo messo a disagio, perché cercò di
ricomporsi un poco. Passeggiò nervosamente per l’ufficio, con l’aria di
sistemarsi la cravatta e volersi dare un tono, ed Emir ne approfittò
per andare
ad accomodarsi alla propria scrivania. Gli sarebbe stato più facile
darsi un
contegno da seduto, o almeno così sperava.
«Ha già parlato
con la polizia?»
Emir si
affrettò a rassicurarlo. «Vengo ora di là.
Mi hanno assicurato che faranno tutto il possibile per…»
Dale agitò
stizzosamente la mano, quasi a cacciar
via un pensiero troppo stupido e fastidioso da poter essere anche solo
considerato. «Ah! Loro ne fanno molto conto, non è vero? Ma sa il cielo
se
questi pescatori hanno mai ritrovato niente! Bisognerà chiamare degli
investigatori privati, e intanto sicuramente Mew sarà già all’estero...
Emir,
ma com’è potuto accadere?»
«Pare che sia
rimasta aperta una qualche finestra
del magazzino» mormorò Emir guardando altrove. «Per questo motivo gli
allarmi
non hanno suonato.» In quanto alla dilazione della revisione dei
sistemi di
sicurezza, non valeva la pena che Dale venisse a saperlo, quantomeno
non in
quel momento e non da lui. Gli allarmi funzionavano perfettamente, e se
non
avevano suonato era semplicemente perché nessuno si era introdotto nel
laboratorio; ma ora che la possibilità che ci fosse stato un
malfunzionamento
volontario era nell’aria, la polizia avrebbe comunque continuato a
cercare un
responsabile esterno.
Dale batté
rabbiosamente una mano sulla coscia.
«Una finestra aperta, col Pokémon più raro del mondo in laboratorio! Ma
questo
è inaccettabile! Bisognerà licenziare il colpevole…»
Il colpevole
era lui, naturalmente, ma Emir si
limitò a scuotere sconsolatamente il capo, come a non saper che dire.
Quel
furto aveva già causato perdite economiche inimmaginabili e lo stesso
Dale,
egli lo sapeva, si era svegliato quel mattino con la consapevolezza di
vedere
la propria carriera a rischio; ma la scelta che aveva compiuto non
avrebbe
fatto altre vittime. «In quel magazzino entriamo tutti quanti decine di
volte
al giorno, signor Dale… dubito che sia possibile stabilire con certezza
un
colpevole.»
«Già…
immaginavo che avrebbe detto così.»
Dale si
accasciò platealmente sulla sedia di fronte
alla sua scrivania. Era devastato. Si allentò un poco il nodo alla
cravatta,
cosa che Emir non gli aveva mai visto fare, neppure in piena estate, e
infine
si decise a dire: «Io e lei dobbiamo parlare, Emir.»
Che Dale non si
fosse precipitato in elicottero
fino all’Isola Cannella solo per discutere i vari aspetti del furto era
prevedibile, ed Emir sapeva perfettamente che cosa aveva da dirgli. Per
la
prima volta da quando lo conosceva, quell’uomo gli faceva tanta
compassione che
cercò di venirgli incontro.
«Non si
disturbi, signor Dale. Avrà le mie
dimissioni per domattina.»
Gli occhi di
Dale si spalancarono per la sorpresa,
un po’ più arrossati e stanchi di quanto egli li avesse mai visti. Nel
corso
degli ultimi quattro mesi Dale aveva minacciato più di una volta di
licenziarlo
quando si erano scontrati, ma ora che era venuto lì apposta per quello,
sembrava che gliene mancasse il coraggio. Forse non era così
insensibile quanto
gli era sempre piaciuto far credere, ed Emir lo trovò improvvisamente
un po’
più umano.
«Mi dispiace
così tanto, Emir» mormorò. «Io e lei
abbiamo sempre lavorato bene insieme, ma lei capisce… Gli allarmi non
hanno
suonato, la finestra era aperta. Tutto ciò è inaccettabile.»
«E io me ne
assumo tutta la responsabilità» affermò
Emir con sicurezza.
Il giorno in
cui aveva deciso di portar via Mew dal
laboratorio, egli aveva saputo fin dal primo momento che avrebbe perso
il
lavoro, e a questa prospettiva si era arreso senza opporre resistenza.
Quelli
trascorsi a Isola Cannella, a far la spola tra la sua vasta casa vuota
e il
laboratorio, erano stati gli anni più pieni e più soddisfacenti della
sua vita,
malgrado le ferree direttive imposte dalla Silph, e avrebbe desiderato
che non
finissero mai; ma per salvare Mew (e della necessità di salvarla egli
non aveva
dubitato neppure un secondo) bisognava sacrificare qualcosa; e poiché
era stato
lui ad avere l’idea, era giusto che il sacrificio fosse il suo. «Sono
il
direttore, perciò la colpa di tutto è mia. Se mi garantisce che la
Silph non si
rivarrà della perdita su nessuno dei dipendenti, mi dimetterò
personalmente col
minor clamore possibile.»
Il fatto di non
esser costretto a licenziarlo
sembrava aver tolto dal petto di Dale un peso innominabile, ma quando
tornò a
parlare la sua voce suonava ancora affranta.
«Non avrei
voluto che si arrivasse a questo»
mormorò. «Deve credermi. Lei non ha visto i bollettini di borsa
stamattina, ma
io sì. Bisognava salvare il salvabile. Il Presidente sta cercando di
placare
gli animi, gli azionisti… beh, questo non le interessa, ma si è pensato
persino
di chiudere il laboratorio per limitare le perdite. Ma poi come avremmo
fatto
coi sindacati? No, no, lei mi capisce… per tenere in piedi la baracca
bisognava
che limitassimo i danni, allora…»
«Signor Dale»
lo interruppe delicatamente Emir «La
prego, non c’è bisogno. Io non so chi abbia lasciata aperta quella
finestra o
chi dovesse chiuderla, ma dirigo queste persone da sei anni e non ho
mai avuto
di che lamentarmi di nessuno di loro. Non voglio che nessuno debba
perdere il
lavoro per un unico errore, perciò è giusto che le cose vadano così.»
«Grazie, Emir»
rispose Dale a bassa voce. Sembrava
un po’ meno a disagio di prima, forse perché doveva essersi aspettato
qualche
scenata che non era avvenuta. «Lei mi conferma che ci avevo visto
giusto
qualche anno fa, quando ho voluto proprio lei per questo posto.»
Che Dale avesse
un cuore ben nascosto sotto la
cravatta, e che quel cuore fosse in quel momento sinceramente
addolorato per
lui, Emir non l’avrebbe detto mai fino a qualche minuto prima. Quella
scoperta
lo metteva tanto in imbarazzo che distolse per un attimo lo sguardo, e
Dale si
decise a darsi un tono e a tornare alle questioni pratiche. «La banca
le
pagherà tutto quello che ancora le dobbiamo e la sua liquidazione,
tutt’al più
entro la fine del mese.»
«Non voglio la
liquidazione.»
Dale diede in
una breve risata secca, senza capire.
«Via, Emir, non c’è bisogno di esagerare… noi non la licenziamo mica
con
disonore, la liquidazione è davvero il minimo che…»
Emir levò
discretamente una mano per richiedergli
il suo silenzio. «Signor Dale, la prego… mi lasci spiegare.
Vorrei rinunciare alla mia
liquidazione e tenermi in cambio la casa. Pensa che sarebbe possibile?»
Tutta la
riuscita del furto si basava precisamente
su questo azzardo, che Dale accettasse lo scambio che gli stava
proponendo: ma
mentre Emir glielo domandava, si sforzò di mantenersi il più sereno e
imperturbabile possibile. Non voleva dimostrare di dar troppo peso a
quello
scambio.
«Oh» commentò
Dale un po’ interdetto, e rimase in
silenzio. Si passò una mano tra i capelli e dopo un attimo confessò:
«Non me
l’aspettavo. Posso chiederle come mai?»
Se c’era
qualcosa che Dale gli aveva sempre detto,
per quanto scherzosamente, era quale errore avessero commesso
nell’acquistare
una residenza aziendale per il futuro direttore del laboratorio senza
valutarla
con la dovuta attenzione: al momento attuale, l’azienda si ritrovava
con un
immobile enorme e pressoché invendibile sul mercato. Perché non
avrebbero
dovuto sbarazzarsene?
«Pura e
semplice affezione, signor Dale. E poi, le
dirò… non ho molta voglia di tornare a casa da mio padre a trent’anni
compiuti
con la coda tra le gambe. Le pare poi tanto strano?»
«Ha valutato
bene i pro e i contro? Questa è un’isola
di pescatori, Emir, mentre lei è un genio dell’ingegneria genetica…
trovare un
nuovo lavoro in queste condizioni non sarà facile.»
Nessuna
azienda, quantomeno non a Kanto, avrebbe
mai assunto l’uomo che si era lasciato sfuggire il Pokémon più raro e
prezioso
del mondo; ma Emir si sforzò di non lasciar trasparire questo pensiero,
e
sorrise stancamente.
«Quando ci
siamo incontrati tutto quello che
desideravo era venir via da Lavandonia, e la casa che lei mi ha dato è
stata il
primo passo che mi abbia permesso di allontanarmi da mio padre, signor
Dale.
Sono stato troppo felice lì per poterci rinunciare. Lei ha mai tenuto a
qualcosa così tanto?»
Il valore della
sua liquidazione non poteva
eguagliare quello della casa, ma c’erano altre cose da considerare, ed
Emir
seguì sul suo volto lo svolgersi degli stessi calcoli che aveva fatto
egli
stesso settimane prima. Egli stava consegnando le sue dimissioni
spontaneamente, senza far scandali e senza rivolgersi a nessun
avvocato; in
cambio, egli chiedeva soltanto un immobile che costava all’azienda, in
termini
di tasse, molto più di quanto effettivamente valesse. Valeva davvero la
pena di
rischiare che s’indispettisse e rivelasse ai giornali, per ripicca,
qualche
dettaglio delle politiche aziendali su cui sarebbe stato bene non
puntar troppo
l’attenzione del mercato…?
Se Dale avesse
mai tenuto così tanto a qualcosa
oppure no, Emir era destinato a non saperlo mai. Quando il riflesso di
tutte
queste considerazioni ebbe solcato il suo volto, Dale si limitò a
tossire discretamente
e rispose con dignità: «Beh, ecco… dovrei informarmi un poco, ma penso
che si
possa fare. Dopotutto, visto che lei si dimostra tanto condiscendente e
ragionevole nei riguardi dell’azienda, beh…»
Tutto il suo
piano per salvare Mew s’era basato su
una scommessa: se l’avesse perduta e fosse stato costretto a lasciare
la casa,
la messinscena sarebbe crollata alla prima perquisizione. Ma
esattamente come
aveva preventivato, Dale aveva accettato: egli aveva vinto la
scommessa, e si
sentì invincibile.
«Non so davvero
come ringraziarla, signor Dale.
Confidavo che avrebbe capito.»
Dale gli
rivolse un cenno impacciato di
gratitudine. «È il minimo per lei, Emir… se avessi potuto scegliere,
non
sarebbe finita così. Lei non sa quanto mi secchi cambiar direttore.»
Dato che era
lui a tirar fuori questo argomento,
Emir ritenne che non fosse poi troppo azzardato sbilanciarsi un poco in
questo
senso. «A proposito, se posso permettermi… so che non è più di mio
interesse,
ma forse le interessa il mio parere. Lavoriamo insieme da tanti anni, e
la
dottoressa Mann sarebbe…»
«Oh, non si
preoccupi di questo, davvero» lo
interruppe Dale in tono inaspettatamente meno agitato. «Fortunatamente
l’azienda si è già espressa in questo senso, abbiamo bisogno che non vi
sia
alcuna soluzione di continuità tra le due direzioni: il laboratorio
deve
collaborare con l’azienda e la polizia e restare operativo
ininterrottamente.
In questo senso ci è parso che il dottor Lestournelle fosse la scelta
migliore
per noi.»
Per tutti gli
anni della loro collaborazione,
Valérien era stato l’unico amico ch’egli avesse avuto, ed era forse la
persona
più onesta e candida che avesse mai conosciuto; ma questo era quanto.
Emir amava
Valérien come il fratello che mai avrebbe potuto avere, ma proprio come
di un
fratello, egli vedeva anche i suoi difetti: Valérien era totalmente
incapace di
prendere un’iniziativa. Egli restava a guardare la sua vita
precipitarglisi
addosso dall’alto, cercando di schivarne i macigni più pesanti, e ad
aspettare
che altri venissero a decidere per lui.
Cercò dentro di
sé un modo diplomatico per farlo
rispettosamente presente. «Il dottor Lestournelle non… ecco, non è che
brilli
per spirito d’iniziativa.»
La sottile
polemica delle sue parole non era
destinata ad andare sprecata. «Già, ricordo che me l’ha detto più di
una volta»
confermò Dale vigorosamente. «È esattamente di questo che l’azienda ha
bisogno
al momento. La priorità è cercare di non far fallire il laboratorio,
perciò ci
saranno delle manovre economiche alquanto restrittive: lei mi capisce.»
Il laboratorio
cui aveva dedicato la propria anima,
che aveva fondato e fatto funzionare contro ogni ostacolo che la Silph
avesse
sollevato, era perduto per sempre, e non lo riguardava più. Emir sapeva
di non
esser stato un bravo scienziato (di certo non dal punto di vista morale
del
lavoro) ma era stato un buon direttore, o almeno di questo era
convinto: egli
aveva lottato per anni in bilico sul delicato equilibrio che
intercorreva tra
le ragioni della scienza e quelle dell’azienda, e in qualche modo, per
sei
anni, era riuscito a far collimare i bisogni e le esigenze, difendendo
i
diritti dei suoi colleghi contro le imposizioni della Silph; e ora
tutto era
finito. Il lavoro che aveva nutrito con il suo sangue e con la sua
anima
sarebbe andato a Valérien, che avrebbe obbedito alla Silph e avrebbe
ceduto a
ogni residuo d’autonomia ch’egli fosse riuscito a mantenere a costo
d’innumerevoli lotte, per il semplice non saperli difendere. Aveva
salvato Mew,
ma il laboratorio era finito.
«Il dottor
Lestournelle corrisponderà sicuramente
alle vostre esigenze» rispose sforzandosi di sorridere, e non avrebbe
potuto
essere più sincero di così. La Silph avrebbe avuto un burattino ancor
più
semplice da manovrare di quanto non fosse stato lui. Tutti avevano quel
che
avevano voluto, dopotutto. O no?
La
conversazione era finita, ormai tutto ciò che si
poteva dire era stato detto, e probabilmente Dale non vedeva l’ora di
tornare a
Zafferanopoli. Emir si alzò in piedi per porgergli la mano. «Se abbiamo
finito,
signor Dale, ho un sacco di lavoro da fare per lasciare tutto in
ordine. Avrà
le mie dimissioni per domattina. Le occorre altro?»
«Siamo a posto
così, Emir… lei è stato eccezionale,
come sempre. Mi farà sapere se ha bisogno di qualcosa, siamo intesi?»
A partire da
quel giorno non si sarebbero sentiti
mai più: Dale era un uomo d’affari troppo serio e impegnato per potersi
permettere di perdere anche solo qualche minuto a pensare a un vecchio
dipendente
che aveva creato solo problemi, ma il solo fatto che lo avesse
ipotizzato era di
per se stesso quasi commovente. Emir accennò un sorriso mentre apriva
per lui
la porta dell’ufficio.
«Certo, signor
Dale. La… la ringrazio ancora per l’opportunità
che mi ha dato quel giorno.»
Per tutta
risposta, Dale posò una mano sulla sua
spalla e la strinse leggermente. Non fece nient’altro, ma quel gesto
caldo e
confortante, che per tutta la sua infanzia egli avrebbe desiderato di
ricevere
da suo padre, fu per lui così inaspettato da farlo quasi vacillare.
Mentre Dale
percorreva il corridoio a testa alta,
nel vorticare sinuoso del cappotto che gli avvolgeva la schiena, Emir
si
ritrovò a pensare con stuporoso rimpianto che, nonostante tutto quello
che era
accaduto negli ultimi mesi, e nonostante salvare Mew fosse stata
comunque la
scelta più giusta della sua vita, egli non avrebbe mai potuto odiare la
Silph
SpA.
Finalmente,
come se arrivasse al termine di una
lunga corsa a ostacoli nella quale ogni distrazione concorresse ad
allontanarlo
dalla sua meta, Emir raggiunse la sala riunioni.
A giudicare
dalla quantità di bicchieri di caffè e
carte di snack e biscotti che coprivano l’ampio tavolo centrale, i suoi
colleghi
erano barricati là dentro da un bel po’, e di certo erano esausti:
stando alle
parole del commissario, dovevano trovarsi al laboratorio già da quando
era
stato dato l’allarme, quella notte. Erano spettinati e stanchi, con
l’aria
stressata di qualcuno che ne avesse abbastanza di aspettare e di
continuare a
ripetere le stesse cose, e profondamente sfiduciati. Di tutti loro,
solo Portia
aveva avuto la prontezza di spirito, o forse la tendenza
all’autoconservazione,
d’indossare il camice, ma quello era l’unico elemento di normalità che
aleggiasse nella stanza; persino Vincent, che pure difficilmente egli
aveva mai
visto perdere la calma, stava in piedi come se non potesse tollerare di
rimaner
seduto, a mescolare nervosamente un caffè che sembrava dover scontare
la pena
della sua angoscia.
Rimandare non
aveva senso, bisognava impegnarsi,
parlare, difendersi di fronte ai suoi colleghi che si sentivano
traditi. Emir
richiuse la porta alle proprie spalle il più rumorosamente possibile e
disse:
«Mi dispiace, ragazzi.»
«Emir!»
Valérien
riusciva a credere al suo ritorno solo in
quel preciso momento in cui lo vedeva sul serio e poteva di nuovo
fidarsi di
lui. Di fronte al suo volto trasfigurato di sollievo, Emir accennò un
sorriso.
Ma non tutti apparivano sollevati nella stanza. Appoggiato al davanzale della finestra, coi capelli spettinati e la barba non fatta come quell’altra mattina, Rotwang si voltò seccamente a guardarlo. Aveva il volto illividito di rabbia e le labbra contratte per l’angoscia. «Chi si rivede, finalmente? Herr Doktor…»
«Richard, ti
prego!» sbottò Portia con voce
esasperata. Aveva le dita contratte sulle tempie, come a reprimere i
primi
viticci di un’emicrania incipiente. «Emir è qui adesso, va bene? È
sabato
mattina e aveva tutti i diritti di essere dove gli pare senza doversi
giustificare con noi. Puoi risparmiarci le tue teorie del complotto,
adesso?»
«Lascia stare,
Portia… va bene così» la interruppe
Emir a bassa voce. Rotwang continuava a fremere di rabbia senza avere
il
coraggio di dir niente, allora egli lo fissò deliberatamente, senza
distogliere
lo sguardo. «Non vi giudico se avete pensato che possa esser stato io.
Non
dovete neppure dirmelo. Era naturale che ci pensaste.»
«Emir, non devi
giustificarti, puoi fare quello che
vuoi durante i…»
«Portia» la
interruppe dolcemente Emir. «So di
avervi sempre detto che non parlo con mio padre da anni. Non voglio che
pensiate che ho dei segreti con voi. Ero a Lavandonia perché Dale mi
aveva
chiesto di parlare con mio padre delle sue proteste per convincerlo ad
abbassare un po’ i toni, e avevo pensato di ricucire i rapporti ora che
non
sono più un bambino. Vi è più chiaro adesso?»
Dopo un attimo
di silenzio, continuando a mescolare
un caffè che ormai sembrava destinato a non venir mai bevuto, Vincent
mormorò:
«Grazie, Emir, ma non c’è bisogno che ti giustifichi con noi. Davvero.»
«Invece penso
che ce ne sa bisogno, dato che a
quanto pare qualcuno di voi ha ipotizzato che potessi esser stato io a
rapire
Mew» ribatté Emir. «Non mi interessa chi, non mi interessa perché,
anche se
penso di sapere entrambe le cose. Voglio solo che sappiate che a causa
di
questo furto ho perduto il lavoro, perciò, se ancora pensate che
potessi
guadagnarci qualcosa…»
«Che cosa
significa questo, Emir?» lo interruppe
Valérien sordamente.
Il silenzio che
seguì alle sue parole aveva mutato
di qualità, ora era attonito, confuso. Persino Rotwang appariva
smarrito, ed
Emir se ne compiacque.
«Che vi
aspettavate, ragazzi?» rispose stancamente.
Si lasciò cadere su una sedia libera, e subito Valérien si affrettò a
sedersi
vicino a lui, ma sul bordo della sedia, molto nervosamente. Sembrava
tremare di
sgomento. «Il direttore sono io, la responsabilità è mia. So che è
stata
trovata una finestra aperta, e non ho idea di chi potrebbe essere
stato, ma non
voglio che nessuno venga licenziato per un unico errore superficiale
commesso
in sei anni. In ogni caso il direttore sono io, perciò è giusto che me
ne
assuma io la colpa.»
«Possiamo
parlare con Dale, Emir» si offrì in
fretta Vincent. «Non è giusto, noi lo sappiamo che tu hai fatto tutto
quello
che potevi per…»
Emir fu
costretto a scuotere la testa malgrado
l’impeto di gratitudine che gli saliva alle labbra. «Ti ringrazio,
Vincent, ma…
no. Dale mi ha risparmiato almeno l’umiliazione di licenziarmi e ha
lasciato
che mi dimettessi con quel po’ di dignità che mi è rimasta, e avrebbe
avuto
tutti i diritti di farlo. Non voglio cambiare le cose. Ho fatto tutto
il
possibile per mandare avanti il laboratorio, ma ho sbagliato un sacco
di cose,
e tutto quello che ho ottenuto è stato di farci rubare il Pokémon più
raro del
mondo da sotto il naso. Forse era proprio il caso che mi dimettessi,
non ti
pare?»
«Non è stata
colpa tua, Emir» disse Portia.
Sembrava molto colpita dalle sue parole. «Quando la scelta era tra
permetterci
di lavorare o meno sei sempre riuscito a darci gli strumenti per farlo,
perciò…»
«Perciò ho
comunque sbagliato» tagliò corto Emir.
«Posso chiedere a voi di perdonarvi, ma non posso aspettarmi
altrettanto da
Dale.»
«Ma la
ritroveranno, Emir» esclamò impetuosamente
Valérien. Era diventato tutto rosso in viso, come gli accadeva sempre
quando si
ritrovava a parlare sotto gli occhi di tutti, persino quando si
trattava solo
dei suoi colleghi, ma si sforzò di proseguire. «Voglio dire… non le
faranno del
male, perché ha valore solo da viva. La polizia ha cominciato a
cercarla subito
dopo la denuncia, perciò non può essere lontana, no?»
Mentre loro
parlavano, Mew si trovava in una
Pokéball, nascosta in un luogo molto più vicino di quanto si potesse
sospettare: ma da lì non sarebbe uscita molto presto. Emir accennò un
sorriso
non troppo sincero. Era ovvio che Valérien, ch’era stato lo scopritore
di una
nuova specie e che al nome di Mew avrebbe vincolato il proprio per
l’eternità,
non fosse in grado di vedere la realtà: che nessuno che rubi un Pokémon
tanto
prezioso se lo lascia sfuggire facilmente. Ma per il bene di Mew, che
andava al
di là del bene di Valérien, bisognava mentire persino a lui: Emir gli
batté
affettuosamente una mano sul ginocchio. «Mi auguro per te che succeda
presto.
Dale verrà sicuramente a trovarti, ma voglio essere io a dirtelo per
primo… sei
tu il nuovo direttore.»
Valérien
impiegò tanto tempo a registrare e a
processare quest’informazione ch’Emir temette per un attimo di doversi
ripetere; ma proprio quando stava per tornare a raccontargli del suo
incontro
con Dale, il volto di Valérien si accese di una risata impacciata, ed
egli si
schermì come un bambino. «Cosa vuoi dire?»
Sapeva che non
era questo a preoccuparlo, ma Emir cercò
egualmente d’incoraggiarlo. «Lo so, lo so, ma non preoccuparti. Io ero
più
giovane di te quando mi hanno dato il laboratorio, e non avevo mai
lavorato
prima d’allora. Tu conosci già i tuoi colleghi, perciò non sarà
difficile.»
«Ma Emir… » La
risata imbarazzata di Valérien si
era scolorita in un oceano di confusione; i suoi occhi frugarono invano
la
stanza alla ricerca di un aiuto. «Insomma, glielo hai detto che Portia…»
«Non ti ruberò
il lavoro, Valérien» lo interruppe
bruscamente Portia. Come potesse esser tanto risoluta e generosa nei
suoi
confronti quando ella lo sapeva benissimo che quel posto avrebbe dovuto
essere
suo, e che Valérien riusciva a malapena decidere come vestirsi al
mattino,
questo sembrava un mistero. «Se Dale intende offrire il lavoro a te è
perché te
lo meriti, e io non intendo mettermi in mezzo. È la tua carriera, e non
dovresti rinunciarci.»
«Ma io non sono
in grado di…»
«Hai trovato
Mew» disse Emir, in tono tale da non
ammettere repliche. Non voleva che Valérien sapesse che il solo motivo
per cui
gli sarebbe stato offerto quel posto era per la sua totale dipendenza
dalle
istruzioni altrui. «È giusto che per il tuo impegno ti venga
riconosciuta una
promozione. Ce la farai.»
«Tutto questo è
ridicolo, Fuji» sbottò improvvisamente
Rotwang. Emir ebbe la sensazione di sentire la propria anima alzare gli
occhi
al cielo: quel dannato tedesco era stato in silenzio per la bellezza di
cinque
minuti. Che altro ci si poteva aspettare?
Rotwang fremeva
di rabbia e di sdegno, e aveva
tutta l’aria di non voler accettare quella spiegazione. «Andiamo, siete
seri? La
Silph vuole un burattino per poterci ridurre i fondi e per tutti voi è
normale?»
Dolarhyde gli
scoccò uno sguardo che avrebbe dovuto
metterlo a tacere, almeno nelle sue intenzioni. «Sai, Rotwang, mi
piacevi di
più quando ti preoccupavi di Mew. Perché non torni a occuparti di
quello e ci
lasci fare i nostri discorsi da adulti?»
«Sei serio,
Dolarhyde? Sai che sei quello più
facile da licenziare e sostituire con uno stagista sottopagato, sì?»
«Nessuno verrà
licenziato, di questo ho già parlato
con Dale» ribadì Emir a voce abbastanza alta da sovrastarli entrambi.
Si sentiva
più stanco ogni minuto che passava, e tutto ciò che avrebbe voluto era
di
tornare a casa e mettersi a dormire. «E poi, Rotwang, non sei tu quello
che mi
ha sempre accusato di essere un venduto? Ti cambio davvero qualcosa che
alla
direzione ci sia io, piuttosto che Valérien?»
«Emir, lascia
stare...» mormorò Valérien con le
labbra che gli tremavano.
«Senti un po’,
Fuji…»
In quel momento
Rotwang avrebbe voluto ucciderlo, e
non in modo tanto metaforico. Coi pugni stretti fino ad affondare le
unghie
nella carne e le spalle che tremavano di rabbia, Rotwang sostenne il
suo
sguardo con ardore indicibile; ma quando quello sguardo durò tanto a
lungo da
fargli temere ch’egli aprisse la bocca e parlasse,
d’un tratto gli venne
in mente qualcosa, ed egli cambiò idea.
Non disse
niente. Rotwang attraversò la stanza a
testa bassa, borbottando qualcosa che suonava molto come pezzo
di merda,
e uscì sbattendo la porta il più rumorosamente possibile, ed Emir si
sentì come
se un enorme peso gli fosse stato tolto dal petto.
Finalmente
quella giornata finì.
Non si
ricordava neppure da quante ore era in
piedi. Dopo che Rotwang aveva lasciato la stanza, la riunione coi suoi
colleghi
era proseguita senza di lui: la scomparsa di Mew aveva impressionato
tutti loro
più di quanto fossero in grado di ammettere, soprattutto Valérien.
I discorsi su
come una tale disgrazia si fosse
potuta verificare, su quale terribile evento fosse e su come il ladro –
o i
ladri – si fosse introdotto nel laboratorio proprio durante il
week-end, quando
il personale era ridotto e sarebbe stato ragionevole pensare – dal
punto di
vista di un esterno, naturalmente – che il furto di Mew sarebbe stato
scoperto
più tardi, occuparono la sala riunioni fino al primo pomeriggio, mentre
al di
fuori gli accertamenti proseguivano su tutta l’area del laboratorio. Ma
Emir,
che sapeva perfettamente che non sarebbero emerse impronte o altri
indizi che
rimandassero a personale esterno al laboratorio, perché non era entrato
nessun’altro,
non avrebbe voluto nient’altro che tranquillizzare i suoi
colleghi e
tornarsene a casa.
Ma quando anche
tutti i discorsi si furono
esauriti, e il passare delle ore ebbe reso anche troppo chiaro che
restare
ancora lì non avrebbe contribuito a chiarire nessuno dei loro dubbi,
quella
giornata non era finita. Tornare al laboratorio nei giorni successivi
l’avrebbe
umiliato più di quanto fosse disposto ad accettare, perciò Emir aveva
raccolto
e fatto portar via tutta la sua roba per sgombrare l’ufficio, e aveva
dato a
Valérien tutte le consegne e le istruzioni di cui pensava potesse aver
bisogno
nei giorni successivi. Ma s’era trattato di una pura formalità, ed
entrambi lo
sapevano bene: finché non si fosse ritrovata Mew, Valérien sarebbe
rimasto lo
scopritore di un Pokémon di cui a malapena si conosceva il nome e il
direttore
di un laboratorio sull’orlo del fallimento.
Solo intorno
alle cinque, dopo che i suoi colleghi
l’avevano subissato di abbracci e raccomandazioni, Emir aveva potuto
lasciare
gli uffici e tornare a casa.
La villa che
aveva strappato alla Silph – un immobile
acquistato all’asta che l’azienda aveva riciclato come alloggio – era
l’oggetto
materiale al quale egli tenesse di più in tutta la sua vita. Quella
sera, a
sole già calato, Emir rientrò finalmente a casa sua con la sensazione
di poter
finalmente barricare una porta tra sé e il mondo esterno e smettere di
fingere.
Aveva trascorso l’intera giornata a far finta d’essere innocente e
vittima
degli eventi allo stesso pari dei suoi colleghi, a immedesimarsi in
loro e a
cercare di reprimere il senso di colpa per aver sottratto Mew… ma ora,
era
finita. La sua vasta casa lo proteggeva come un’armatura, e là dentro,
finalmente, egli poteva gettare quello strato di maschere al di sotto
delle
quali non era neppure più certo di saper riconoscere il proprio volto.
Gettò nella
spazzatura i vecchi vestiti che gli
aveva dato suo padre al mattino e fece una rapida doccia nel bagno al
piano
terreno, sentendosi tanto stanco da non voler neppure fare le scale.
Sapeva d’aver
fame, a qualche livello del suo stomaco, ma in quel momento era tanto
stanco che
il pensiero del cibo lo nauseava. Poteva concedersi di sedersi per
qualche
momento nel salottino che affacciava sul mare, mentre rifletteva su
cosa
prepararsi per cena.
Nei giorni
seguenti avrebbe avuto un sacco di cose
di cui occuparsi. Bisognava sedersi seriamente al tavolo a fare un po’
di conti
coi soldi che aveva messo da parte per tutti quegli anni, che non erano
pochi e
sarebbero bastati per un po’, dato il suo modesto tenore di vita, ma a
patto di
far qualche rinuncia; bisognava chiamare la signora delle pulizie e
spiegarle
che avrebbe dovuto rinunciare ai suoi servizi; ma avrebbe riflettuto su
tutto l’indomani.
Si sentiva così stanco, così stanco, e gli dispiaceva così tanto d’aver
addolorato Valérien e di aver messo nei guai il signor Dale…
Lo svegliò il
rumore della porta che cigolava sui
cardini. Non si era neppure reso conto d’essersi addormentato: per
qualche
momento faticò a ricordare dove si trovasse. Si era levato il vento, e
da
qualche parte, al di sotto della stanza dove si trovava, il mare
sibilava e
fischiava, insinuandosi tra gli scogli, e le onde concorrevano a
inerpicarsi l’una
più in alto dell’altra sulle rocce. Ma che ora era? Era stato tutto un
sogno?
Mentre ancora
Emir cercava di riscuotersi e di
strofinar via dagli occhi gli ultimi viluppi di sonno, una lama di luce
si
dipanò sul pavimento dalla porta del salotto, e la bassa voce roca di
Rotwang
ringhiò: «Tu hai fatto la peggiore vigliaccata della tua vita, Fuji.»
«Ehi»
borbottò Emir in risposta, aguzzando la vista per leggere l’ora. «Ti
aspettavo
più tardi.»
*Riferimento alla succursale Tiksi, menzionata da uno scienziato che è possibile incontrare nell’edificio della Silph SpA occupato dal Team Rocket: Tiksi è una cittadina reale della Russia siberiana. Nelle versioni originali dei giochi, invece, la succursale si trova a Tunguska, altra località russa realmente esistente.