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Autore: Afaneia    25/01/2018    3 recensioni
In una Kanto dominata dal colosso multinazionale della Silph SpA, che monopolizza il mercato con politiche aziendali inflessibili e alleanze poco trasparenti, il signor Fuji, fondatore del celebre Centro Pokémon Volontario di Lavandonia, si è sempre schierato contro la corruzione e a difesa della dignità dei Pokémon.
Suo figlio però ha scelto una strada diversa: disposto a qualsiasi accordo pur di allontanarsi dall'opprimente presenza di suo padre, il dottor Emir Fuji si è specializzato in ingegneria genetica e si è trasferito sull'Isola Cannella, dove dirige un Laboratorio Pokémon dedito a esperimenti d'avanguardia. Da quando ha lasciato Lavandonia non ha più voluto avere niente a che fare con suo padre.
Un giorno, il Laboratorio Pokémon organizza un viaggio di ricerca in Guyana...
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Mew, Mewtwo, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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Buonasera a tutti!

Ecco finalmente questo capitolo, che mi ha messa un po’ in difficoltà perché, come si noterà, faccio abbastanza schifo a gestire le scene con più di un personaggio (e in questo senso mi farebbe molto piacere ricevere qualche suggerimento, se ne aveste, perché è da così tanto tempo che gestisco solo due o tre personaggi per volta che ho dimenticato come si gestisce un gruppo. Un tempo non mi facevo tutti questi problemi). Inoltre bisognava che mettessi molta carne al fuoco tutta insieme, come si vedrà.

Dopo un ringraziamento di cuore a cristal_93 e Persej Combe per le loro recensioni, vi lascio al capitolo.

Buona lettura!

 

Afaneia

 


 

Capitolo III – Ipocrita (Parte Seconda).

 

Quando arrivò al Laboratorio, divenuto quasi inaccessibile per i cordoni della polizia e la massa di curiosi e giornalisti e telecamere che si stipavano sulla strada, il commissario lo ricevette in una stanza di servizio che aveva evidentemente eletto a suo quartier generale, per il momento. Non gli era stato permesso di vedere i suoi colleghi: non appena aveva varcato la soglia, un poliziotto lo aveva fermamente informato che il commissario lo attendeva da un pezzo e che i suoi colleghi avrebbero potuto pazientare qualche minuto in più. Emir aveva capito l’antifona e non aveva mosso obiezioni, ma prima che il poliziotto li lasciasse soli gli chiese di informare i suoi colleghi che era arrivato e che li avrebbe raggiunti a momenti.

Il commissario di polizia aveva tutta l’aria di qualcuno che si fosse ritrovato, dalla sera alla mattina, coinvolto nel caso più importante della sua carriera e non avesse alcuna voglia di ritrovarvisi.

«Dottore, finalmente. Lei sa che l’aspettavamo da ore?»

«Sono venuto appena ho saputo» rispose Emir piuttosto freddamente, fermandosi sulla soglia. «Non so se il dottor Lestournelle l’ha informata, ma ero andato a passare il finesettimana a Lavandonia, a casa di mio padre. Per questo motivo non mi avete trovato a casa mia. Sono mortificato, ma non potevo sapere.»

«Uhm» borbottò il commissario, palesemente deciso a non cedere terreno su questo punto; ma poiché la sua versione era stata incontrovertibile fino a quel momento, fu costretto a cambiare strategia. «Si sieda, prego. Facciamo due chiacchiere. Suo padre è quel famoso signor Fuji che…»

«È lui» tagliò corto Emir mentre si accomodava di fronte al tavolino da caffè che era stato eletto a scrivania d’emergenza. Non era una situazione molto comoda: quella stanza fungeva essenzialmente da ripostiglio e da cucinotto per le piccole necessità ed era particolarmente angusta, ma, a giudicare dal forte odore di caffè che vi aleggiava, forse era proprio per questo motivo che il commissario l’aveva scelta. Approfittando del breve attimo di silenzio che il commissario si era preso per annotare qualcosa sul suo taccuino, Emir si schiarì la voce e iniziò: «Posso chiederle di spiegarmi che cosa è successo? Ho letto l’articolo sul giornale venendo qui, ma…»

«Credevo che avesse parlato al telefono col suo collega» ribatté l’altro aggrottando la fronte. Emir scosse appena il capo, come a non saper che dire, e quegli si rassegnò a spiegarglielo. «È successo che il vostro custode notturno non è riuscito a trovare Mew quando è andato a portarle l’acqua. Afferma di averla cercata per circa un’ora pensando che si fosse nascosta da qualche parte, ma quando ha capito che era inutile cercarla ha cercato di chiamare prima lei e poi i suoi colleghi. È stata trovata una finestra aperta nel vostro magazzino, e questo spiega per quale motivo gli allarmi non abbiano suonato. A questo punto, dottore, immagino che voglia…»

«C’è anche un altro motivo per cui gli allarmi non hanno suonato» borbottò Emir nervosamente.

Il commissario levò gli occhi su di lui. «Prego?»

«Ecco… potrei aver rimandato di qualche mese la revisione dei sistemi di sicurezza.» Il commissario aprì la bocca per parlare e subito Emir si affrettò a proseguire: «Erano in programma, ho solo dovuto posticiparli per una questione di budget. Non lo sa nessun’altro, di queste cose mi occupo io personalmente, e capirà che non ci tenevo a dirlo a nessuno. Se controllerà i registri, vedrà che la revisione è in programma all’inizio di gennaio. Se non avessi fatto così non saremmo rientrati coi costi di gestione, perciò sono stato costretto a scegliere.»

«Beh, questo spiega molte cose» commentò il commissario alquanto contrariato. Tornò ad annotare qualcosa sul suo taccuino. «Naturalmente questo non dimostra che non funzionassero, se lei ha posticipato solo di qualche mese, ma… controlleremo. Ha fatto molto bene a dirmelo subito.» Emir accennò un sorriso imbarazzato. «Tornando a noi, dottore… il suo ritardo. Vuole confermarmi che non si è presentato subito perché si trovava a Lavandonia?»

«Ero da mio padre, esatto» ripeté Emir con convinzione. «Ho i biglietti del traghetto. Vuole vederli?»

Il commissario diede in una sorta di grugnito, come a dire che i biglietti potevano aspettare. «Se intendeva passar là tutto il finesettimana, perché non ha avvisato nessun collega?»

«Non abbiamo mai avuto nessuna emergenza durante i week-end… forse a lei sembrerà imprudente, ma non avevo mai pensato che potesse rivelarsi necessario» rispose Emir semplicemente. La naturalezza della sua voce lo stupiva. Era sempre stato così bravo a mentire? «Inoltre, le dirò… non volevo che si sapesse troppo. Se lei conosce l’attività volontaria di mio padre, capirà che a nessuno dei due conviene frequentarci troppo…»

Suo padre aveva continuato a protestare sui giornali contro la Silph SpA anche dopo che lui era stato assunto, e talora con più veemenza ancora, forse per provargli che osava spingersi ancora più oltre e che non temeva alcuna conseguenza per le sue proteste. L’ultima era relativa proprio a Mew: in un momento di grande afflato moralistico, suo padre si era prodotto in una vibrante lettera di protesta contro la scelta di sradicare dal suo ambiente un Pokémon che fino ad allora aveva vissuto nascosto, presumibilmente con buone ragioni, per rinchiuderlo in un laboratorio e studiarlo a esclusivo vantaggio e profitto della Silph SpA.

Il commissario non ebbe bisogno di ulteriori indizi per capire a cosa si riferisse: delle rimostranze di suo padre, giornalisti e opinionisti avevano discusso per giorni, forti dell’interesse che suscitavano le palesi provocazioni del fondatore della più importante associazione volontaria di Kanto contro il laboratorio gestito dal suo proprio figlio, sia pur destinate a rimanere inaccolte. Tossì discretamente volgendo lo sguardo altrove, come se la cosa lo mettesse a disagio.

«Una questione di reputazione, posso immaginarlo. Quindi non aveva parlato di questo viaggio a nessuno che potesse avere interesse a…»

«Gli unici a saperlo avremmo dovuto essere io e mio padre» tagliò corto Emir.

Il commissario tornò a frugare nei suoi appunti con occhi spenti, ma Emir non dubitò neppure per un momento che avesse già in mente tutte le domande da fargli, e che fosse perfettamente attento.

«Come sono i rapporti all’interno del laboratorio?»

«Mi fido dei miei colleghi come di me stesso, se è questo che mi sta chiedendo.»

«Davvero?» Lo sguardo del commissario si fece per un attimo più penetrante e attento e la penna che aveva in mano scattò nervosamente sul foglio. «Perché dalle parole dei suoi colleghi mi era parso d’intuire una certa acredine con qualcuno di loro. Col dottor Ro… Rot… il dottore tedesco, per esempio.»

«Rotwang» suggerì delicatamente Emir, e per prendere ancora un po’ di tempo soggiunse: «Il tedesco è una lingua dura, ma dopo un po’ ci si fa l’abitudine.»

Ma mentre la sua bocca pronunciava quelle parole, la sua mente lavorava invece freneticamente per trovare una risposta che soddisfacesse quell’insinuazione e insieme non lo scoprisse troppo: sarebbe valso a qualcosa minimizzare? E a che pro, poi? Se tutto era andato come aveva previsto, Rotwang doveva averlo accusato di fronte a tutti: non era per questo che Valérien aveva detto che era molto arrabbiato con lui? Ma confessare apertamente una cosa tanto personale non gli pareva nel suo carattere, e rispose: «È un professionista di grande valore e un medico eccezionale.»

«E umanamente parlando, invece?»

Quella domanda poteva essere un buon modo per far mostra d’essere indotto a confessare. Emir si sforzò di mostrarsi combattuto. «Io e il dottor Rotwang abbiamo idee molto diverse sulla gestione del laboratorio, soprattutto per quanto riguarda le questioni economiche, ma c’è da dire che il dottore non ha un carattere piuttosto… non facile, ecco. Siamo molto diversi e ci capita spesso di scontrarci, ma sempre in modo molto costruttivo.» Non gli veniva in mente un modo in cui paragonarlo a Hitler potesse riuscire costruttivo, ma non c’era bisogno che il commissario venisse a sapere proprio tutto.

«Uhm.» Il commissario tamburellò un poco con le dita sulla scrivania. «Dunque lei non pensa che il dottore tedesco possa avere avuto qualche motivo per rubare Mew?»

Mettendo da parte qualsiasi residuo di prudenza gli fosse rimasto, Emir stabilì dentro di sé che, a questo punto, qualsiasi cittadino innocente al suo posto sarebbe stato autorizzato a sentirsi offeso; e quand’anche poi non lo fosse stato, beh… sarebbe stato un vero peccato.

«Sta insinuando che sia stato qualcuno dei miei colleghi?» domandò freddamente. «Le ho già detto che mi fido di loro come di me stesso. Io e Rotwang possiamo dissentire su svariati argomenti, ma so quanto tenga a Mew e posso garantire che nessuno al mondo potrebbe amare quel Pokémon più di lui. Posso permettermi di suggerirle di cercare qualcun altro su cui indagare?»

«Sto facendo soltanto il mio lavoro» rispose il commissario, col tono di chi avesse avuto esattamente ciò che voleva; ma neppure per un momento Emir si sentì a disagio per avergli risposto tanto acremente. Egli doveva impersonare la versione innocente di sé stesso, e quella versione, egli lo sapeva, era tremendamente orgogliosa. E quand’anche poi avessero dovuto indagare all’interno del laboratorio, che cosa avrebbero potuto scoprire? Mew non l’avevano rubata i suoi colleghi, ed egli l’aveva nascosta in un posto in cui nessuno, mai, sarebbe riuscito a trovarla. «Comunque sia… molto bene. Indagheremo. Se lei non ha altro da dire, credo che abbiamo finito.»

La tortura era durata meno di quel che aveva temuto, egli era stato più tranquillo di quanto le sue capacità gli avessero fatto immaginare: col cuore colmo di gratitudine, Emir si alzò. Ma proprio quando stava per porgergli la mano e salutarlo, qualcosa dentro di lui lo trattenne: non andava ancora bene. Ma che cos’era che mancava?

La mano che stava per porgergli sostò ancora sul bracciale della sedia; Emir cercò dentro di sé, frugò in quella parte della sua coscienza che ancora avrebbe voluto credersi innocente, ed ecco – dov’era l’angoscia che avrebbe dovuto provare?

Emir rimase a osservare dall’interno della propria mente il se stesso che cercava d’ingannare il mondo intero dire ad alta voce: «Pensa che avrete molte probabilità di trovarla?»

Il commissario levò gli occhi su di lui in un impeto di stupore: era evidente che aveva considerato la loro conversazione già chiusa. Ci pensò un momento.

«Abbiamo i nostri canali» rispose diplomaticamente. «Il pericolo da scongiurare è che venga in qualche modo mandata o portata a qualche acquirente estero. Ma mi sento di escludere che le venga fatto del male: prima di tutto quel Pokémon ha valore solo da vivo, e inoltre, almeno a quanto ho letto sui giornali, è il Pokémon più forte del mondo…»

«Nessun Pokémon è immortale» disse Emir seccamente, con una fitta di dolore che gli pareva volergli dilacerare il petto. Egli sapeva che quell’uomo non l’aveva visto, ma non riusciva a immaginare che qualcuno al mondo potesse continuare a vivere e a fare finta di nulla quando nel cuore della giungla, appena cinque mesi prima, Mew – l’altro Mew! – era morto su un tavolo da campo… «Neppure quello più forte del mondo, per quanto ci piacerebbe crederlo.»

Il commissario assentì gravemente. «Grazie di avermelo detto, dottore. Ne terrò debito conto.»

Finalmente quella conversazione era finita, egli aveva recitato la sua parte fino in fondo. Sentendosi profondamente sollevato, Emir gli strinse la mano e poté finalmente lasciare la stanza. Si sentì riavere. Ora poteva andare dai suoi colleghi e parlare con loro, e ascoltare quel che avevano da dirgli e affrontare Rotwang…

Ma proprio quando stava per avviarsi verso la sala riunioni, là dove era certo che lo aspettassero i suoi colleghi, d’un tratto la sua segretaria gli si materializzò di fronte. Aveva l’aria confusa e spaurita, e sembrava terrorizzata al solo pensiero di rivolgergli la parola. «Dottore…»

Emir le posò una mano sulle spalle. L’aveva salutata per il week-end appena il pomeriggio precedente, ma gli sembrava egualmente che fosse passato un tempo indefinibile dal loro ultimo incontro. «Ehi… stai tranquilla. Ora è tutto un po’ confuso, ma sono certo che la polizia…»

Ma non era per venir tranquillizzata che gli era venuta incontro, e non potevano bastare le sue parole a calmarla: non era la sparizione di Mew a inquietarla in quel momento. «Ero venuta a dirle che il signor Dale l’aspetta nel suo ufficio. Vuole parlare subito con lei.»

 

Era stato il signor Dale a fargli il suo primo colloquio alla Silph SpA, quando ancora doveva discutere la tesi di dottorato. Dale aveva quindici o venti anni più di lui, e all’epoca era un po’ più magro e molto più abbronzato. Forse era un effetto della grande suggestione che gli incuteva, ma a Emir aveva dato l’idea di uno di quegli uomini che avrebbero potuto posare in giacca e cravatta per un articolo sui dieci più giovani imprenditori dell’anno o qualcosa del genere.

«Allora, signor Fuji» aveva esordito, appoggiandosi con aria paterna allo schienale della poltrona. «Lei sa che è stata la sua Università a raccomandarci il suo curriculum, giusto?»

Era un modo come un altro per rompere il ghiaccio, perciò Emir si era sforzato di rispondere in modo sensato. «Certo, sono molto grato di questa opportunità.»

«Mmm, è giusto. Lei non è ancora laureato, giusto, signor Fuji?»

La domanda suonava come qualcosa che non deponeva assolutamente a suo favore. «Non ancora. Mancano dieci giorni, in effetti.»

«Ottimo. Beh, farà una bella festa, giusto?» Questo il signor Dale glielo aveva chiesto senza neppure alzare gli occhi dai documenti che aveva di fronte a sé, come se non fosse che una semplice domanda per riempire l’attesa mentre rifletteva su che cos’altro chiedergli, ed Emir aveva evitato di rispondere. Dopo un attimo, ancora senza alzare gli occhi su di lui, Dale aveva trovato quello che stava cercando nei suoi appunti e aveva chiesto: «Abbiamo letto l’abstract della sua tesi. Questo suo procedimento di selezionamento degli embrioni nell’inseminazione artificiale ci è piaciuto molto. Qual è la sua posizione sull’eugenetica, signor Fuji?»

Da questo punto in poi, il colloquio si era fatto molto promettente per lui. Sull’eugenetica Emir si era espresso in modo dapprima più cauto, poi progressivamente più aperto via via che Dale gli pareva più soddisfatto della sua risposta: ma certo, l’eugenetica era la via del futuro. A livello etico, era davvero corretto privare le nuove generazioni delle potenzialità che l’ingegneria genetica riservava, in nome di scrupoli morali solo in parte condivisibili? Nessuno intendeva negare gli orrori di Mengele o dell’Unità 731, no, no; ma era veramente corretto penalizzare gli sforzi di molti in nome degli errori di pochi? Non era forse sintomo di un’eccessiva miopia il voler a tutti i costi accomunare gli esperimenti più terribili di cui la storia serbasse memoria alle tecniche che avrebbero permesso di far nascere figli sani da genitori malati senza per questo nuocere a nessuno, solo perché accidentalmente rientravano entrambi sotto il comune nome di eugenetica?

Il colloquio era andato benissimo fino a questo punto. Evidentemente molto soddisfatto della sua risposta, il signor Dale aveva annuito sorridendo, molto più incoraggiante di quando il colloquio era iniziato, e aveva chiesto: «Vedo che lei condivide in larga parte la nostra politica aziendale. Mi perdoni la curiosità, ma lei non è il figlio di quel famoso Fuji di Lavandonia? Quello del Centro Pokémon Volontario?»

La domanda lo aveva raggelato. Possibile che suo padre fosse ovunque, torreggiasse su di lui persino quando si nascondeva in quel palazzo di uffici a Zafferanopoli, a riversare su di lui l’ombra di quei suoi principi morali nobili e integerrimi tanto che sembrava una vergogna da parte sua non adeguarvisi spontaneamente? Ma Emir non la pensava come suo padre, Emir non era suo padre, Emir odiava suo padre, allora perché chiunque lo incontrasse assumeva come dato certo che condividesse le sue idee?

«Sì, è mio padre, ma… noi non la pensiamo allo stesso modo. Mio padre non ha torto, ma il suo modo di vedere le cose andava bene nel dopoguerra… non ora. Io non credo che possiamo affacciarci al nuovo millennio mantenendo lo stesso rapporto con la scienza che andava bene quaranta o sessant’anni fa.» Emir non si era soffermato neppure un momento a domandarsi se credesse veramente in ciò che aveva appena detto. Era esattamente il contrario di tutto ciò in cui credeva suo padre, e in quel momento egli voleva che Dale guardasse verso di lui e vedesse un uomo completamente diverso dal signor Fuji del Rifugio Pokémon di Lavandonia. «Ovviamente esistono dei limiti che neppure la scienza può superare, ma la scienza è umana, e ciò che è umano non può in nessun modo essere contro natura. Mio padre appartiene a una generazione per la quale i limiti etici della scienza erano assai più ristretti di oggi, per le storie della guerra, sa, e tutto il resto.»

«Stia attento, signor Fuji» lo aveva ammonito Dale in tono ironico, ma sorridendo, e quel sorriso gli aveva fatto intuire chiaramente quante speranze riservasse per lui l’esito di quel colloquio. «Lei mi lusinga dando per scontato che io sia tanto giovane, ma non penso che suo padre sia tanto più anziano di me.» Il suo tono era tanto benevolo che anche Emir si era azzardato a sorridere, e a quanto pareva questo gli aveva fatto un piacere immenso. «Molto bene, ora parliamo un po’ dei dettagli, signor Fuji… lei ha scritto nel suo curriculum di essere disposto a lavorare addirittura in un altro continente. È ancora dello stesso parere?»

«Naturalmente.»

«Bene, bene. Fortunatamente per lei, non ci sarà bisogno di arrivare a tanto. O meglio, stiamo aprendo anche una succursale in Russia*, ma abbiamo già un candidato per quel ruolo, perciò… in questo preciso momento, stiamo cercando personale per un nuovo laboratorio a Isola Cannella. Abbiamo già acquisito i locali, perciò l’inaugurazione è prevista di qui a pochi mesi… il tempo necessario per approntare attrezzature e laboratori. E la burocrazia, naturalmente: permessi, assicurazioni, indagini ambientali… non sarei lontano dal vero se le dicessi che abbiamo speso più in marche da bollo che in materiali.»

A questo punto, dopo un lungo silenzio carico di sottintesi, il signor Dale aveva riflettuto un po’ su cosa dirgli, tamburellando con le dita sul tavolo, e poi aveva ripreso: «Sarò onesto con lei, Emir.» (Emir aveva registrato nella propria mente questo cambiamento di registro). «Sono stato io a proporre il progetto di Isola Cannella. Stiamo cercando personale giovane ma qualificato, e da quanto ho capito lei ha già tutte le basi per laurearsi col massimo dei voti. Le interesserebbe un posto di direttore?»

Emir era rimasto a bocca aperta. Quando aveva accettato di inviare il curriculum alla Silph, su consiglio della sua relatrice, l’aveva fatto perché, in fin dei conti, non gli costava niente fare un tentativo; e quando poi gli avevano scritto per organizzare un colloquio, aveva accettato pensando che forse, per qualche miracolo, avrebbe potuto portare a casa un tirocinio non retribuito di un paio di mesi o un anno al massimo, il che gli sarebbe andato bene comunque, parlando di un’azienda di tutto rispetto come la Silph.

La risposta più logica che gli era salita alle labbra era stata perciò: «Signor Dale… io ho ventiquattro anni.»

Dale era scoppiato a ridere. «Sapevo che mi avrebbe risposto così, ma non sia così modesto. Alla sua età io ero apprendista direttore, e non mi ero laureato così bene. In ogni caso abbiamo delle grosse agevolazioni fiscali se assumiamo sotto i venticinque, quindi abbiamo deciso di investire in un team di giovani eccellenze. Stiamo vagliando vari scienziati, ma per il ruolo di direttore vogliamo qualcuno di Kanto.» A tutte quelle informazioni Emir non aveva saputo come reagire, allora Dale aveva continuato: «Naturalmente c’è un altro motivo per cui cerchiamo un direttore così giovane. Se sarà lei a firmare i documenti di fondazione del laboratorio, anche figurando come socio di minoranza, il laboratorio godrebbe delle agevolazioni fiscali concesse ai giovani imprenditori. Naturalmente tutte le spese spetterebbero a noi, a lei richiederemmo soltanto l’acquisto di una percentuale minima di azioni, per una spesa davvero irrisoria. Il tutto è perfettamente legale, ovviamente, dato che la legge non penalizza simili arrangiamenti… anche se un po’ macchinoso, su questo convengo con lei. Che cosa ne pensa, signor Fuji?»

Ecco dov’era la fregatura, e neppure troppo ben nascosta. Rendendosi conto che si richiedeva da lui una partecipazione economica che un giovane neolaureato non poteva assolutamente permettersi, Emir aveva fatto per alzarsi e porre immediatamente fine all’incontro in un moto di stupore. Possibile che l’azienda leader dei monopoli di Kanto e Johto ricorresse a simili truffe nei confronti di giovani squattrinati? Quella situazione rasentava davvero il ridicolo.

Prima ancora che facesse in tempo a parlare, il signor Dale l’aveva prevenuto. «Si sieda, signor Fuji» aveva ripreso con un sorriso, accennando con gesto plateale alla sua sedia. «Qui nessuno sta cercando di prenderla in giro, mi creda. Le stiamo offrendo un’opportunità che tutti i suoi compagni di corso pagherebbero per poter ricevere, dunque dimostri un po’ di gratitudine e si sieda, per cortesia, e mi ascolti fino alla fine.» Emir non si sentiva ancora così sicuro di sé da disobbedire a un ordine di un uomo tanto più grande di lui, perciò si era seduto all’istante. «Molto bene. Qui siamo stati giovani tutti quanti, e nessuno di noi è uscito dall’università particolarmente ricco. Ciò che richiediamo da lei è soltanto la sua firma su certi documenti e la rinuncia al sessanta per cento del suo stipendio per tre mesi, in modo da pagare le azioni. Tra due anni le riacquisteremo integralmente da lei allo stesso prezzo, perciò vede bene che il danno economico che gliene deriva è davvero minimo. Le ripeto che non c’è nessuna truffa né niente di illegale, può consultare qualsiasi commercialista. Ovviamente le forniremmo anche un alloggio aziendale sull’isola, perciò le sue spese saranno molto ridotte, come parziale risarcimento per l’impegno che le richiediamo. Ora la nostra offerta le è più chiara?»

Emir era stato deciso a rifiutare fino al preciso momento in cui Dale aveva parlato di un alloggio.

«Vuol dire… una casa? Un appartamento o qualcosa del genere? A Isola Cannella?»

«Beh, non si tratta precisamene di un appartamento, ma…»

«Di qualsiasi sistemazione si trattasse, foss’anche stata una branda in un sottoscala, Emir non aveva bisogno di sapere altro: un tetto e uno stipendio, sicuramente sufficiente per vivere, lontano da Lavandonia. Non sarebbe occorsa che una firma su un contratto, e subito dopo la sua laurea egli non avrebbe dovuto più nulla a suo padre – nulla. Suo padre odiava la Silph, e ora la Silph gli avrebbe dato di che vivere, lontano da lui, lontano dalle sue regole e dalla sua morale integerrima e opprimente. Il suo impegno e il suo genio, ch’egli non doveva ad altri che a se stesso, gli avrebbero dato di che vivere, a un’intera regione di distanza da Lavandonia.

Non si era neppure informato sullo stipendio o sugli altri dettagli del contratto. «Quando posso firmare, signor Dale?»

 

Per quanto potesse essere untuoso e ipocrita, Emir aveva sempre visto Dale come l’uomo che lo aveva salvato da Lavandonia, e gliene era sempre stato riconoscente, sebbene avessero avuto qualche motivo di discussione, da quando avevano trovato Mew. Certo, egli era ben consapevole dei continui magheggi operati dal suo ufficio: era Dale il responsabile del laboratorio, per quanto vi avesse posto piede forse tre volte, compreso il giorno dell’inaugurazione; dato che era stato lui a proporne il progetto, era perciò principalmente con lui che Emir manteneva i contatti a Zafferanopoli. Era un amministratore, perciò capiva di biologia e genetica tanto quanto Emir capiva di economia: dal momento che era il consiglio a dettare le direttive principali per quanto riguardava la ricerca ed Emir a dirigere il laboratorio in modo capillare, il suo compito principale consisteva nell’occuparsi nell’aspetto economico della faccenda. Con ogni probabilità, il motivo per cui erano sempre andati alquanto d’accordo, in generale, era che Dale trovava continuamente il modo di far risparmiare l’azienda riducendo i costi del laboratorio, ed Emir – che viveva in un continuo, precario equilibrio nel tentativo di far quadrare i conti senza chiedere eccessivi aumenti sul budget annuale – riusciva sempre a raggiungere gli obiettivi prefissati nei tempi previsti e coi fondi stabiliti. Ciò comportava richiedere ai dipendenti sforzi più intensi con strumenti di lavoro inadeguati, certo, e spostare ogni tanto qualche cifra da una colonna a un’altra in modo non troppo trasparente; ma fintanto che il laboratorio andava avanti, a entrambi andava bene così.

In tutti i sei anni per i quali si era estesa la loro amicizia, Emir non ricordava di aver visto Dale mai in una sola occasione in cui egli non fosse al meglio della sua apparenza estetica. Era uno di quegli uomini tanto affascinanti ed eleganti da sembrar quasi finti, abbronzato in ogni stagione dell’anno, sempre sbarbato e impomatato con cura quasi maniacale.

Quel giorno le cose non stavano così. Quando Emir entrò nel proprio ufficio, dove Dale si era accomodato con la spontanea naturalezza di qualcuno che sentisse di trovarsi a casa propria, ebbe la sensazione di trovarsi di fronte a un uomo che, nel giro di una sola notte, fosse stato deprivato di tutto.

Doveva essersi precipitato lì non appena aveva saputo, senza neppure farsi la barba. Era pettinato, certo, ma senza l’abituale cura ossessiva che lo contraddistingueva, ed Emir era certo che l’abbinamento della cravatta al panciotto non fosse esattamente quello ch’egli avrebbe scelto in un giorno normale. Al vederlo aggirarsi per la stanza come divorato dal dolore, Emir provò una fitta cocente di rimorso alla consapevolezza di trovarsi di fronte a un uomo distrutto.

«Signor Dale…»

Al solo suono della sua voce, Dale si precipitò verso di lui come qualcuno che fosse stato sperduto nel deserto tanto a lungo da non credere più di venir salvato. «Dio, Emir… la sto aspettando da ore!»

Quelle ore sarebbero di certo trascorse in modo molto meno noioso se le avesse passate col resto dell’equipe del laboratorio; ma Dale era troppo distaccato da tutto il resto del mondo per poter anche solo concepire un’idea simile. Emir era l’unico di tutto il laboratorio con cui egli mantenesse i rapporti, e per lui era anche troppo.

«Sono mortificato, mi creda» rispose Emir chiudendo la porta dietro di sé. «Le avranno detto per quale motivo…»

A giudicare dalla desolazione dei suoi occhi, sì, gliel’avevano detto. «Dio, ma che ci faceva a Lavandonia?»

Emir aveva avuto tutto il viaggio in traghetto per pensare alla risposta da dargli, e ne fu incredibilmente grato. Gli rivolse uno sguardo carico di stupore. «Non si ricorda? Tempo fa lei mi aveva chiesto di parlare a mio padre… riguardo alle sue proteste contro l’azienda e il progetto di Mew. Dev’essere stato a settembre. Non si ricorda?»

Gli occhi di Dale rimasero vacui e inespressivi per qualche momento: era evidente che non ricordava (e non era poi sorprendente che fosse così, dato che quella questione era caduta solo accidentalmente nel corso di una conversazione di tre mesi prima e che vi si erano soffermati forse per un minuto a dir molto), ma che gli sembrava qualcosa che avrebbe realisticamente potuto dire. Della schiera di attivisti, ambientalisti e no-global che quotidianamente si scagliavano contro le multinazionali e contro la Silph in particolare, il signor Fuji era sicuramente quello che aveva più voce in tutta Kanto, e Dale, come portavoce dell’azienda, lo disprezzava di tutto cuore.

A quanto pareva, doveva darsi per vinto. «Certo, ora ricordo… mi era parso strano, in effetti, sapendo in quali rapporti lei e suo padre…» La faccenda doveva averlo messo a disagio, perché cercò di ricomporsi un poco. Passeggiò nervosamente per l’ufficio, con l’aria di sistemarsi la cravatta e volersi dare un tono, ed Emir ne approfittò per andare ad accomodarsi alla propria scrivania. Gli sarebbe stato più facile darsi un contegno da seduto, o almeno così sperava.

«Ha già parlato con la polizia?»

Emir si affrettò a rassicurarlo. «Vengo ora di là. Mi hanno assicurato che faranno tutto il possibile per…»

Dale agitò stizzosamente la mano, quasi a cacciar via un pensiero troppo stupido e fastidioso da poter essere anche solo considerato. «Ah! Loro ne fanno molto conto, non è vero? Ma sa il cielo se questi pescatori hanno mai ritrovato niente! Bisognerà chiamare degli investigatori privati, e intanto sicuramente Mew sarà già all’estero... Emir, ma com’è potuto accadere?»

«Pare che sia rimasta aperta una qualche finestra del magazzino» mormorò Emir guardando altrove. «Per questo motivo gli allarmi non hanno suonato.» In quanto alla dilazione della revisione dei sistemi di sicurezza, non valeva la pena che Dale venisse a saperlo, quantomeno non in quel momento e non da lui. Gli allarmi funzionavano perfettamente, e se non avevano suonato era semplicemente perché nessuno si era introdotto nel laboratorio; ma ora che la possibilità che ci fosse stato un malfunzionamento volontario era nell’aria, la polizia avrebbe comunque continuato a cercare un responsabile esterno.

Dale batté rabbiosamente una mano sulla coscia. «Una finestra aperta, col Pokémon più raro del mondo in laboratorio! Ma questo è inaccettabile! Bisognerà licenziare il colpevole…»

Il colpevole era lui, naturalmente, ma Emir si limitò a scuotere sconsolatamente il capo, come a non saper che dire. Quel furto aveva già causato perdite economiche inimmaginabili e lo stesso Dale, egli lo sapeva, si era svegliato quel mattino con la consapevolezza di vedere la propria carriera a rischio; ma la scelta che aveva compiuto non avrebbe fatto altre vittime. «In quel magazzino entriamo tutti quanti decine di volte al giorno, signor Dale… dubito che sia possibile stabilire con certezza un colpevole.»

«Già… immaginavo che avrebbe detto così.»

Dale si accasciò platealmente sulla sedia di fronte alla sua scrivania. Era devastato. Si allentò un poco il nodo alla cravatta, cosa che Emir non gli aveva mai visto fare, neppure in piena estate, e infine si decise a dire: «Io e lei dobbiamo parlare, Emir.»

Che Dale non si fosse precipitato in elicottero fino all’Isola Cannella solo per discutere i vari aspetti del furto era prevedibile, ed Emir sapeva perfettamente che cosa aveva da dirgli. Per la prima volta da quando lo conosceva, quell’uomo gli faceva tanta compassione che cercò di venirgli incontro.

«Non si disturbi, signor Dale. Avrà le mie dimissioni per domattina.»

Gli occhi di Dale si spalancarono per la sorpresa, un po’ più arrossati e stanchi di quanto egli li avesse mai visti. Nel corso degli ultimi quattro mesi Dale aveva minacciato più di una volta di licenziarlo quando si erano scontrati, ma ora che era venuto lì apposta per quello, sembrava che gliene mancasse il coraggio. Forse non era così insensibile quanto gli era sempre piaciuto far credere, ed Emir lo trovò improvvisamente un po’ più umano.

«Mi dispiace così tanto, Emir» mormorò. «Io e lei abbiamo sempre lavorato bene insieme, ma lei capisce… Gli allarmi non hanno suonato, la finestra era aperta. Tutto ciò è inaccettabile.»

«E io me ne assumo tutta la responsabilità» affermò Emir con sicurezza.

Il giorno in cui aveva deciso di portar via Mew dal laboratorio, egli aveva saputo fin dal primo momento che avrebbe perso il lavoro, e a questa prospettiva si era arreso senza opporre resistenza. Quelli trascorsi a Isola Cannella, a far la spola tra la sua vasta casa vuota e il laboratorio, erano stati gli anni più pieni e più soddisfacenti della sua vita, malgrado le ferree direttive imposte dalla Silph, e avrebbe desiderato che non finissero mai; ma per salvare Mew (e della necessità di salvarla egli non aveva dubitato neppure un secondo) bisognava sacrificare qualcosa; e poiché era stato lui ad avere l’idea, era giusto che il sacrificio fosse il suo. «Sono il direttore, perciò la colpa di tutto è mia. Se mi garantisce che la Silph non si rivarrà della perdita su nessuno dei dipendenti, mi dimetterò personalmente col minor clamore possibile.»

Il fatto di non esser costretto a licenziarlo sembrava aver tolto dal petto di Dale un peso innominabile, ma quando tornò a parlare la sua voce suonava ancora affranta.

«Non avrei voluto che si arrivasse a questo» mormorò. «Deve credermi. Lei non ha visto i bollettini di borsa stamattina, ma io sì. Bisognava salvare il salvabile. Il Presidente sta cercando di placare gli animi, gli azionisti… beh, questo non le interessa, ma si è pensato persino di chiudere il laboratorio per limitare le perdite. Ma poi come avremmo fatto coi sindacati? No, no, lei mi capisce… per tenere in piedi la baracca bisognava che limitassimo i danni, allora…»

«Signor Dale» lo interruppe delicatamente Emir «La prego, non c’è bisogno. Io non so chi abbia lasciata aperta quella finestra o chi dovesse chiuderla, ma dirigo queste persone da sei anni e non ho mai avuto di che lamentarmi di nessuno di loro. Non voglio che nessuno debba perdere il lavoro per un unico errore, perciò è giusto che le cose vadano così.»

«Grazie, Emir» rispose Dale a bassa voce. Sembrava un po’ meno a disagio di prima, forse perché doveva essersi aspettato qualche scenata che non era avvenuta. «Lei mi conferma che ci avevo visto giusto qualche anno fa, quando ho voluto proprio lei per questo posto.»

Che Dale avesse un cuore ben nascosto sotto la cravatta, e che quel cuore fosse in quel momento sinceramente addolorato per lui, Emir non l’avrebbe detto mai fino a qualche minuto prima. Quella scoperta lo metteva tanto in imbarazzo che distolse per un attimo lo sguardo, e Dale si decise a darsi un tono e a tornare alle questioni pratiche. «La banca le pagherà tutto quello che ancora le dobbiamo e la sua liquidazione, tutt’al più entro la fine del mese.»

«Non voglio la liquidazione.»

Dale diede in una breve risata secca, senza capire. «Via, Emir, non c’è bisogno di esagerare… noi non la licenziamo mica con disonore, la liquidazione è davvero il minimo che…»

Emir levò discretamente una mano per richiedergli il suo silenzio. «Signor Dale, la prego… mi lasci spiegare.             Vorrei rinunciare alla mia liquidazione e tenermi in cambio la casa. Pensa che sarebbe possibile?»

Tutta la riuscita del furto si basava precisamente su questo azzardo, che Dale accettasse lo scambio che gli stava proponendo: ma mentre Emir glielo domandava, si sforzò di mantenersi il più sereno e imperturbabile possibile. Non voleva dimostrare di dar troppo peso a quello scambio.

«Oh» commentò Dale un po’ interdetto, e rimase in silenzio. Si passò una mano tra i capelli e dopo un attimo confessò: «Non me l’aspettavo. Posso chiederle come mai?»

Se c’era qualcosa che Dale gli aveva sempre detto, per quanto scherzosamente, era quale errore avessero commesso nell’acquistare una residenza aziendale per il futuro direttore del laboratorio senza valutarla con la dovuta attenzione: al momento attuale, l’azienda si ritrovava con un immobile enorme e pressoché invendibile sul mercato. Perché non avrebbero dovuto sbarazzarsene?

«Pura e semplice affezione, signor Dale. E poi, le dirò… non ho molta voglia di tornare a casa da mio padre a trent’anni compiuti con la coda tra le gambe. Le pare poi tanto strano?»

«Ha valutato bene i pro e i contro? Questa è un’isola di pescatori, Emir, mentre lei è un genio dell’ingegneria genetica… trovare un nuovo lavoro in queste condizioni non sarà facile.»

Nessuna azienda, quantomeno non a Kanto, avrebbe mai assunto l’uomo che si era lasciato sfuggire il Pokémon più raro e prezioso del mondo; ma Emir si sforzò di non lasciar trasparire questo pensiero, e sorrise stancamente.

«Quando ci siamo incontrati tutto quello che desideravo era venir via da Lavandonia, e la casa che lei mi ha dato è stata il primo passo che mi abbia permesso di allontanarmi da mio padre, signor Dale. Sono stato troppo felice lì per poterci rinunciare. Lei ha mai tenuto a qualcosa così tanto?»

Il valore della sua liquidazione non poteva eguagliare quello della casa, ma c’erano altre cose da considerare, ed Emir seguì sul suo volto lo svolgersi degli stessi calcoli che aveva fatto egli stesso settimane prima. Egli stava consegnando le sue dimissioni spontaneamente, senza far scandali e senza rivolgersi a nessun avvocato; in cambio, egli chiedeva soltanto un immobile che costava all’azienda, in termini di tasse, molto più di quanto effettivamente valesse. Valeva davvero la pena di rischiare che s’indispettisse e rivelasse ai giornali, per ripicca, qualche dettaglio delle politiche aziendali su cui sarebbe stato bene non puntar troppo l’attenzione del mercato…?

Se Dale avesse mai tenuto così tanto a qualcosa oppure no, Emir era destinato a non saperlo mai. Quando il riflesso di tutte queste considerazioni ebbe solcato il suo volto, Dale si limitò a tossire discretamente e rispose con dignità: «Beh, ecco… dovrei informarmi un poco, ma penso che si possa fare. Dopotutto, visto che lei si dimostra tanto condiscendente e ragionevole nei riguardi dell’azienda, beh…»

Tutto il suo piano per salvare Mew s’era basato su una scommessa: se l’avesse perduta e fosse stato costretto a lasciare la casa, la messinscena sarebbe crollata alla prima perquisizione. Ma esattamente come aveva preventivato, Dale aveva accettato: egli aveva vinto la scommessa, e si sentì invincibile.

«Non so davvero come ringraziarla, signor Dale. Confidavo che avrebbe capito.»

Dale gli rivolse un cenno impacciato di gratitudine. «È il minimo per lei, Emir… se avessi potuto scegliere, non sarebbe finita così. Lei non sa quanto mi secchi cambiar direttore.»

Dato che era lui a tirar fuori questo argomento, Emir ritenne che non fosse poi troppo azzardato sbilanciarsi un poco in questo senso. «A proposito, se posso permettermi… so che non è più di mio interesse, ma forse le interessa il mio parere. Lavoriamo insieme da tanti anni, e la dottoressa Mann sarebbe…»

«Oh, non si preoccupi di questo, davvero» lo interruppe Dale in tono inaspettatamente meno agitato. «Fortunatamente l’azienda si è già espressa in questo senso, abbiamo bisogno che non vi sia alcuna soluzione di continuità tra le due direzioni: il laboratorio deve collaborare con l’azienda e la polizia e restare operativo ininterrottamente. In questo senso ci è parso che il dottor Lestournelle fosse la scelta migliore per noi.»

Per tutti gli anni della loro collaborazione, Valérien era stato l’unico amico ch’egli avesse avuto, ed era forse la persona più onesta e candida che avesse mai conosciuto; ma questo era quanto. Emir amava Valérien come il fratello che mai avrebbe potuto avere, ma proprio come di un fratello, egli vedeva anche i suoi difetti: Valérien era totalmente incapace di prendere un’iniziativa. Egli restava a guardare la sua vita precipitarglisi addosso dall’alto, cercando di schivarne i macigni più pesanti, e ad aspettare che altri venissero a decidere per lui.

Cercò dentro di sé un modo diplomatico per farlo rispettosamente presente. «Il dottor Lestournelle non… ecco, non è che brilli per spirito d’iniziativa.»

La sottile polemica delle sue parole non era destinata ad andare sprecata. «Già, ricordo che me l’ha detto più di una volta» confermò Dale vigorosamente. «È esattamente di questo che l’azienda ha bisogno al momento. La priorità è cercare di non far fallire il laboratorio, perciò ci saranno delle manovre economiche alquanto restrittive: lei mi capisce.»

Il laboratorio cui aveva dedicato la propria anima, che aveva fondato e fatto funzionare contro ogni ostacolo che la Silph avesse sollevato, era perduto per sempre, e non lo riguardava più. Emir sapeva di non esser stato un bravo scienziato (di certo non dal punto di vista morale del lavoro) ma era stato un buon direttore, o almeno di questo era convinto: egli aveva lottato per anni in bilico sul delicato equilibrio che intercorreva tra le ragioni della scienza e quelle dell’azienda, e in qualche modo, per sei anni, era riuscito a far collimare i bisogni e le esigenze, difendendo i diritti dei suoi colleghi contro le imposizioni della Silph; e ora tutto era finito. Il lavoro che aveva nutrito con il suo sangue e con la sua anima sarebbe andato a Valérien, che avrebbe obbedito alla Silph e avrebbe ceduto a ogni residuo d’autonomia ch’egli fosse riuscito a mantenere a costo d’innumerevoli lotte, per il semplice non saperli difendere. Aveva salvato Mew, ma il laboratorio era finito.

«Il dottor Lestournelle corrisponderà sicuramente alle vostre esigenze» rispose sforzandosi di sorridere, e non avrebbe potuto essere più sincero di così. La Silph avrebbe avuto un burattino ancor più semplice da manovrare di quanto non fosse stato lui. Tutti avevano quel che avevano voluto, dopotutto. O no?

La conversazione era finita, ormai tutto ciò che si poteva dire era stato detto, e probabilmente Dale non vedeva l’ora di tornare a Zafferanopoli. Emir si alzò in piedi per porgergli la mano. «Se abbiamo finito, signor Dale, ho un sacco di lavoro da fare per lasciare tutto in ordine. Avrà le mie dimissioni per domattina. Le occorre altro?»

«Siamo a posto così, Emir… lei è stato eccezionale, come sempre. Mi farà sapere se ha bisogno di qualcosa, siamo intesi?»

A partire da quel giorno non si sarebbero sentiti mai più: Dale era un uomo d’affari troppo serio e impegnato per potersi permettere di perdere anche solo qualche minuto a pensare a un vecchio dipendente che aveva creato solo problemi, ma il solo fatto che lo avesse ipotizzato era di per se stesso quasi commovente. Emir accennò un sorriso mentre apriva per lui la porta dell’ufficio.

«Certo, signor Dale. La… la ringrazio ancora per l’opportunità che mi ha dato quel giorno.»

Per tutta risposta, Dale posò una mano sulla sua spalla e la strinse leggermente. Non fece nient’altro, ma quel gesto caldo e confortante, che per tutta la sua infanzia egli avrebbe desiderato di ricevere da suo padre, fu per lui così inaspettato da farlo quasi vacillare.

Mentre Dale percorreva il corridoio a testa alta, nel vorticare sinuoso del cappotto che gli avvolgeva la schiena, Emir si ritrovò a pensare con stuporoso rimpianto che, nonostante tutto quello che era accaduto negli ultimi mesi, e nonostante salvare Mew fosse stata comunque la scelta più giusta della sua vita, egli non avrebbe mai potuto odiare la Silph SpA.

 

Finalmente, come se arrivasse al termine di una lunga corsa a ostacoli nella quale ogni distrazione concorresse ad allontanarlo dalla sua meta, Emir raggiunse la sala riunioni.

A giudicare dalla quantità di bicchieri di caffè e carte di snack e biscotti che coprivano l’ampio tavolo centrale, i suoi colleghi erano barricati là dentro da un bel po’, e di certo erano esausti: stando alle parole del commissario, dovevano trovarsi al laboratorio già da quando era stato dato l’allarme, quella notte. Erano spettinati e stanchi, con l’aria stressata di qualcuno che ne avesse abbastanza di aspettare e di continuare a ripetere le stesse cose, e profondamente sfiduciati. Di tutti loro, solo Portia aveva avuto la prontezza di spirito, o forse la tendenza all’autoconservazione, d’indossare il camice, ma quello era l’unico elemento di normalità che aleggiasse nella stanza; persino Vincent, che pure difficilmente egli aveva mai visto perdere la calma, stava in piedi come se non potesse tollerare di rimaner seduto, a mescolare nervosamente un caffè che sembrava dover scontare la pena della sua angoscia.

Rimandare non aveva senso, bisognava impegnarsi, parlare, difendersi di fronte ai suoi colleghi che si sentivano traditi. Emir richiuse la porta alle proprie spalle il più rumorosamente possibile e disse: «Mi dispiace, ragazzi.»

«Emir!»

Valérien riusciva a credere al suo ritorno solo in quel preciso momento in cui lo vedeva sul serio e poteva di nuovo fidarsi di lui. Di fronte al suo volto trasfigurato di sollievo, Emir accennò un sorriso.

Ma non tutti apparivano sollevati nella stanza. Appoggiato al davanzale della finestra, coi capelli spettinati e la barba non fatta come quell’altra mattina, Rotwang si voltò seccamente a guardarlo. Aveva il volto illividito di rabbia e le labbra contratte per l’angoscia. «Chi si rivede, finalmente? Herr Doktor…»

«Richard, ti prego!» sbottò Portia con voce esasperata. Aveva le dita contratte sulle tempie, come a reprimere i primi viticci di un’emicrania incipiente. «Emir è qui adesso, va bene? È sabato mattina e aveva tutti i diritti di essere dove gli pare senza doversi giustificare con noi. Puoi risparmiarci le tue teorie del complotto, adesso?»

«Lascia stare, Portia… va bene così» la interruppe Emir a bassa voce. Rotwang continuava a fremere di rabbia senza avere il coraggio di dir niente, allora egli lo fissò deliberatamente, senza distogliere lo sguardo. «Non vi giudico se avete pensato che possa esser stato io. Non dovete neppure dirmelo. Era naturale che ci pensaste.»

«Emir, non devi giustificarti, puoi fare quello che vuoi durante i…»

«Portia» la interruppe dolcemente Emir. «So di avervi sempre detto che non parlo con mio padre da anni. Non voglio che pensiate che ho dei segreti con voi. Ero a Lavandonia perché Dale mi aveva chiesto di parlare con mio padre delle sue proteste per convincerlo ad abbassare un po’ i toni, e avevo pensato di ricucire i rapporti ora che non sono più un bambino. Vi è più chiaro adesso?»

Dopo un attimo di silenzio, continuando a mescolare un caffè che ormai sembrava destinato a non venir mai bevuto, Vincent mormorò: «Grazie, Emir, ma non c’è bisogno che ti giustifichi con noi. Davvero.»

«Invece penso che ce ne sa bisogno, dato che a quanto pare qualcuno di voi ha ipotizzato che potessi esser stato io a rapire Mew» ribatté Emir. «Non mi interessa chi, non mi interessa perché, anche se penso di sapere entrambe le cose. Voglio solo che sappiate che a causa di questo furto ho perduto il lavoro, perciò, se ancora pensate che potessi guadagnarci qualcosa…»

«Che cosa significa questo, Emir?» lo interruppe Valérien sordamente.

Il silenzio che seguì alle sue parole aveva mutato di qualità, ora era attonito, confuso. Persino Rotwang appariva smarrito, ed Emir se ne compiacque.

«Che vi aspettavate, ragazzi?» rispose stancamente. Si lasciò cadere su una sedia libera, e subito Valérien si affrettò a sedersi vicino a lui, ma sul bordo della sedia, molto nervosamente. Sembrava tremare di sgomento. «Il direttore sono io, la responsabilità è mia. So che è stata trovata una finestra aperta, e non ho idea di chi potrebbe essere stato, ma non voglio che nessuno venga licenziato per un unico errore superficiale commesso in sei anni. In ogni caso il direttore sono io, perciò è giusto che me ne assuma io la colpa.»

«Possiamo parlare con Dale, Emir» si offrì in fretta Vincent. «Non è giusto, noi lo sappiamo che tu hai fatto tutto quello che potevi per…»

Emir fu costretto a scuotere la testa malgrado l’impeto di gratitudine che gli saliva alle labbra. «Ti ringrazio, Vincent, ma… no. Dale mi ha risparmiato almeno l’umiliazione di licenziarmi e ha lasciato che mi dimettessi con quel po’ di dignità che mi è rimasta, e avrebbe avuto tutti i diritti di farlo. Non voglio cambiare le cose. Ho fatto tutto il possibile per mandare avanti il laboratorio, ma ho sbagliato un sacco di cose, e tutto quello che ho ottenuto è stato di farci rubare il Pokémon più raro del mondo da sotto il naso. Forse era proprio il caso che mi dimettessi, non ti pare?»

«Non è stata colpa tua, Emir» disse Portia. Sembrava molto colpita dalle sue parole. «Quando la scelta era tra permetterci di lavorare o meno sei sempre riuscito a darci gli strumenti per farlo, perciò…»

«Perciò ho comunque sbagliato» tagliò corto Emir. «Posso chiedere a voi di perdonarvi, ma non posso aspettarmi altrettanto da Dale.»

«Ma la ritroveranno, Emir» esclamò impetuosamente Valérien. Era diventato tutto rosso in viso, come gli accadeva sempre quando si ritrovava a parlare sotto gli occhi di tutti, persino quando si trattava solo dei suoi colleghi, ma si sforzò di proseguire. «Voglio dire… non le faranno del male, perché ha valore solo da viva. La polizia ha cominciato a cercarla subito dopo la denuncia, perciò non può essere lontana, no?»

Mentre loro parlavano, Mew si trovava in una Pokéball, nascosta in un luogo molto più vicino di quanto si potesse sospettare: ma da lì non sarebbe uscita molto presto. Emir accennò un sorriso non troppo sincero. Era ovvio che Valérien, ch’era stato lo scopritore di una nuova specie e che al nome di Mew avrebbe vincolato il proprio per l’eternità, non fosse in grado di vedere la realtà: che nessuno che rubi un Pokémon tanto prezioso se lo lascia sfuggire facilmente. Ma per il bene di Mew, che andava al di là del bene di Valérien, bisognava mentire persino a lui: Emir gli batté affettuosamente una mano sul ginocchio. «Mi auguro per te che succeda presto. Dale verrà sicuramente a trovarti, ma voglio essere io a dirtelo per primo… sei tu il nuovo direttore.»

Valérien impiegò tanto tempo a registrare e a processare quest’informazione ch’Emir temette per un attimo di doversi ripetere; ma proprio quando stava per tornare a raccontargli del suo incontro con Dale, il volto di Valérien si accese di una risata impacciata, ed egli si schermì come un bambino. «Cosa vuoi dire?»

Sapeva che non era questo a preoccuparlo, ma Emir cercò egualmente d’incoraggiarlo. «Lo so, lo so, ma non preoccuparti. Io ero più giovane di te quando mi hanno dato il laboratorio, e non avevo mai lavorato prima d’allora. Tu conosci già i tuoi colleghi, perciò non sarà difficile.»

«Ma Emir… » La risata imbarazzata di Valérien si era scolorita in un oceano di confusione; i suoi occhi frugarono invano la stanza alla ricerca di un aiuto. «Insomma, glielo hai detto che Portia…»

«Non ti ruberò il lavoro, Valérien» lo interruppe bruscamente Portia. Come potesse esser tanto risoluta e generosa nei suoi confronti quando ella lo sapeva benissimo che quel posto avrebbe dovuto essere suo, e che Valérien riusciva a malapena decidere come vestirsi al mattino, questo sembrava un mistero. «Se Dale intende offrire il lavoro a te è perché te lo meriti, e io non intendo mettermi in mezzo. È la tua carriera, e non dovresti rinunciarci.»

«Ma io non sono in grado di…»

«Hai trovato Mew» disse Emir, in tono tale da non ammettere repliche. Non voleva che Valérien sapesse che il solo motivo per cui gli sarebbe stato offerto quel posto era per la sua totale dipendenza dalle istruzioni altrui. «È giusto che per il tuo impegno ti venga riconosciuta una promozione. Ce la farai.»

«Tutto questo è ridicolo, Fuji» sbottò improvvisamente Rotwang. Emir ebbe la sensazione di sentire la propria anima alzare gli occhi al cielo: quel dannato tedesco era stato in silenzio per la bellezza di cinque minuti. Che altro ci si poteva aspettare?

Rotwang fremeva di rabbia e di sdegno, e aveva tutta l’aria di non voler accettare quella spiegazione. «Andiamo, siete seri? La Silph vuole un burattino per poterci ridurre i fondi e per tutti voi è normale?»

Dolarhyde gli scoccò uno sguardo che avrebbe dovuto metterlo a tacere, almeno nelle sue intenzioni. «Sai, Rotwang, mi piacevi di più quando ti preoccupavi di Mew. Perché non torni a occuparti di quello e ci lasci fare i nostri discorsi da adulti?»

«Sei serio, Dolarhyde? Sai che sei quello più facile da licenziare e sostituire con uno stagista sottopagato, sì?»

«Nessuno verrà licenziato, di questo ho già parlato con Dale» ribadì Emir a voce abbastanza alta da sovrastarli entrambi. Si sentiva più stanco ogni minuto che passava, e tutto ciò che avrebbe voluto era di tornare a casa e mettersi a dormire. «E poi, Rotwang, non sei tu quello che mi ha sempre accusato di essere un venduto? Ti cambio davvero qualcosa che alla direzione ci sia io, piuttosto che Valérien?»

«Emir, lascia stare...» mormorò Valérien con le labbra che gli tremavano.

«Senti un po’, Fuji…»

In quel momento Rotwang avrebbe voluto ucciderlo, e non in modo tanto metaforico. Coi pugni stretti fino ad affondare le unghie nella carne e le spalle che tremavano di rabbia, Rotwang sostenne il suo sguardo con ardore indicibile; ma quando quello sguardo durò tanto a lungo da fargli temere ch’egli aprisse la bocca e parlasse, d’un tratto gli venne in mente qualcosa, ed egli cambiò idea.

Non disse niente. Rotwang attraversò la stanza a testa bassa, borbottando qualcosa che suonava molto come pezzo di merda, e uscì sbattendo la porta il più rumorosamente possibile, ed Emir si sentì come se un enorme peso gli fosse stato tolto dal petto.

 

Finalmente quella giornata finì.

Non si ricordava neppure da quante ore era in piedi. Dopo che Rotwang aveva lasciato la stanza, la riunione coi suoi colleghi era proseguita senza di lui: la scomparsa di Mew aveva impressionato tutti loro più di quanto fossero in grado di ammettere, soprattutto Valérien.

I discorsi su come una tale disgrazia si fosse potuta verificare, su quale terribile evento fosse e su come il ladro – o i ladri – si fosse introdotto nel laboratorio proprio durante il week-end, quando il personale era ridotto e sarebbe stato ragionevole pensare – dal punto di vista di un esterno, naturalmente – che il furto di Mew sarebbe stato scoperto più tardi, occuparono la sala riunioni fino al primo pomeriggio, mentre al di fuori gli accertamenti proseguivano su tutta l’area del laboratorio. Ma Emir, che sapeva perfettamente che non sarebbero emerse impronte o altri indizi che rimandassero a personale esterno al laboratorio, perché non era entrato nessun’altro, non avrebbe voluto nient’altro che tranquillizzare i suoi colleghi e tornarsene a casa.

Ma quando anche tutti i discorsi si furono esauriti, e il passare delle ore ebbe reso anche troppo chiaro che restare ancora lì non avrebbe contribuito a chiarire nessuno dei loro dubbi, quella giornata non era finita. Tornare al laboratorio nei giorni successivi l’avrebbe umiliato più di quanto fosse disposto ad accettare, perciò Emir aveva raccolto e fatto portar via tutta la sua roba per sgombrare l’ufficio, e aveva dato a Valérien tutte le consegne e le istruzioni di cui pensava potesse aver bisogno nei giorni successivi. Ma s’era trattato di una pura formalità, ed entrambi lo sapevano bene: finché non si fosse ritrovata Mew, Valérien sarebbe rimasto lo scopritore di un Pokémon di cui a malapena si conosceva il nome e il direttore di un laboratorio sull’orlo del fallimento.

Solo intorno alle cinque, dopo che i suoi colleghi l’avevano subissato di abbracci e raccomandazioni, Emir aveva potuto lasciare gli uffici e tornare a casa.

La villa che aveva strappato alla Silph – un immobile acquistato all’asta che l’azienda aveva riciclato come alloggio – era l’oggetto materiale al quale egli tenesse di più in tutta la sua vita. Quella sera, a sole già calato, Emir rientrò finalmente a casa sua con la sensazione di poter finalmente barricare una porta tra sé e il mondo esterno e smettere di fingere. Aveva trascorso l’intera giornata a far finta d’essere innocente e vittima degli eventi allo stesso pari dei suoi colleghi, a immedesimarsi in loro e a cercare di reprimere il senso di colpa per aver sottratto Mew… ma ora, era finita. La sua vasta casa lo proteggeva come un’armatura, e là dentro, finalmente, egli poteva gettare quello strato di maschere al di sotto delle quali non era neppure più certo di saper riconoscere il proprio volto.

Gettò nella spazzatura i vecchi vestiti che gli aveva dato suo padre al mattino e fece una rapida doccia nel bagno al piano terreno, sentendosi tanto stanco da non voler neppure fare le scale. Sapeva d’aver fame, a qualche livello del suo stomaco, ma in quel momento era tanto stanco che il pensiero del cibo lo nauseava. Poteva concedersi di sedersi per qualche momento nel salottino che affacciava sul mare, mentre rifletteva su cosa prepararsi per cena.

Nei giorni seguenti avrebbe avuto un sacco di cose di cui occuparsi. Bisognava sedersi seriamente al tavolo a fare un po’ di conti coi soldi che aveva messo da parte per tutti quegli anni, che non erano pochi e sarebbero bastati per un po’, dato il suo modesto tenore di vita, ma a patto di far qualche rinuncia; bisognava chiamare la signora delle pulizie e spiegarle che avrebbe dovuto rinunciare ai suoi servizi; ma avrebbe riflettuto su tutto l’indomani. Si sentiva così stanco, così stanco, e gli dispiaceva così tanto d’aver addolorato Valérien e di aver messo nei guai il signor Dale…

Lo svegliò il rumore della porta che cigolava sui cardini. Non si era neppure reso conto d’essersi addormentato: per qualche momento faticò a ricordare dove si trovasse. Si era levato il vento, e da qualche parte, al di sotto della stanza dove si trovava, il mare sibilava e fischiava, insinuandosi tra gli scogli, e le onde concorrevano a inerpicarsi l’una più in alto dell’altra sulle rocce. Ma che ora era? Era stato tutto un sogno?

Mentre ancora Emir cercava di riscuotersi e di strofinar via dagli occhi gli ultimi viluppi di sonno, una lama di luce si dipanò sul pavimento dalla porta del salotto, e la bassa voce roca di Rotwang ringhiò: «Tu hai fatto la peggiore vigliaccata della tua vita, Fuji.»

 «Ehi» borbottò Emir in risposta, aguzzando la vista per leggere l’ora. «Ti aspettavo più tardi.»

 

 

*Riferimento alla succursale Tiksi, menzionata da uno scienziato che è possibile incontrare nell’edificio della Silph SpA occupato dal Team Rocket: Tiksi è una cittadina reale della Russia siberiana. Nelle versioni originali dei giochi, invece, la succursale si trova a Tunguska, altra località russa realmente esistente.

   
 
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