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Autore: Heihei    26/01/2018    1 recensioni
Della vita che ha lasciato, a Beth non resta nient'altro che un buco in testa e qualche incubo. Quindi cerca di tornare indietro, seguendone le tracce.
Nel frattempo, le certezze di Daryl vacillano e ritorna su ciò che ha lasciato, seguendone la luce.
Questa storia NON mi appartiene; mi sono limitata a tradurla con il consenso dell'autrice, che è Alfsigesey. Potete trovare la storia originale su fanfiction.net
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beth Greene, Daryl Dixon
Note: Traduzione, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Dead and hungry.

 

 

Non le dicono addio; non sono quel genere di persone. Wanda le fa un cenno, mordendosi le labbra. Il suo sguardo si muove sul viso di Beth come se la sua anima, incorniciata da tutte quelle cicatrici, fosse riflessa nei suoi intensi occhi blu.
“Grazie di tutto.” Beth le indica la garza avvolta intorno alla sua testa e le ciocche bionde perfettamente intrecciate. Dopo che Hiatt le aveva disinfettato e fasciato la ferita, Wanda infatti aveva provveduto a pettinarle i capelli, sistemandoli in una treccia per tenerli lontani dalla medicazione.
Hiatt la osserva attraverso gli occhiali da sole; ha il volto pallido. “Abbassa la testa fino a toccarti il petto con il mento.”
Cercando di seguire il suo suggerimento, Beth inclina il collo, ma un dolore lancinante la costringe a raddrizzarlo di nuovo e a emettere un piccolo sussulto. Guarda di nuovo il viso dell’uomo: ha le labbra arricciate tra i denti, in una smorfia risoluta. “Come pensavo. Riesci ad aprire un po’ di più la bocca? O ti fa troppo male?”
Stavolta non annuisce, certa che anche quell’azione fulminea le provocherebbe solo altro dolore. Alla fine Hiatt già sa di avere ragione, non ha davvero bisogno di una sua conferma.
“Forse è stato il colpo di frusta”, mormora, così a bassa voce che a stento si è sentita.
Lui, in compenso, l’ha fatto. “Forse”, la asseconda, “ma non ci scommetterei. D’ora in avanti, pensa che potresti avere una meningite batterica. Trova quegli antibiotici il prima possibile.”
Quelle sono le sue parole d’addio.
Infatti, i due cominciano ad allontanarsi di qualche passo nella direzione opposta e anche lei sparisce a sua volta tra gli alberi per riprendere la strada di casa. Sa che stanno parlando di lei, e sa anche in che modo.
“Non sopravviverà. Forse avremmo dovuto prendere le sue cose e andarcene.”
“I sintomi peggioreranno. Sarà sempre più stanca e confusa.”
“Non ce la farà.

“…Ma ce l’ho fatta!”, grida all’improvviso.
Ha le lacrime agli occhi.
“Non sono come te, o come loro, ma ce l’ho fatta!”

A chi stava parlando?
Fa un respiro profondo e si guarda intorno per rilevare qualsiasi tipo di minaccia. Concentrandosi sui suoi sensi, si ritrova persino a concentrarsi sugli odori di ciò che si trova intorno a lei. I morti, si sa, hanno un odore tremendo, ma ci è abituata e sono pochi i momenti in cui è abbastanza vicina a loro da sentirlo.
Dovrebbe mettere da parte l’acqua, ma è disidratata, quindi la beve tutta, ritrovandosi a mezzo miglio dalla fattoria con tutte le bottiglie vuote. Lì troverà dei pozzi, e probabilmente è passato abbastanza tempo; quello contaminato non dovrà essere più un problema da un pezzo.

Contaminato.
Maggie ha usato quella parola per spiegarle cos’è appena successo: quegli sconosciuti hanno ucciso un vagante nel tentativo di tirarlo fuori dal pozzo.
Viene scossa da un brivido.
È un tempo in cui ancora non è abituata a uccidere i vaganti, a uccidere le persone.
“Sono solo malati.”
“No, sono morti!”
Conosce quelle voci. Le ama entrambe, ma quella di suo padre ha decisamente torto.


Le sfugge il motivo, ma evidentemente all’inizio anche lei pensava che fossero solo malati. Sa solo che è quello in cui credeva anche suo padre. Ora, invece, che è sola, li vede esattamente per quello che sono: mostri. È gente morta, e affamata più che mai.
Nel bosco, i suoi occhi cercano il terreno. Non è un gesto intenzionale, ma qualcosa di già acquisito, come quando aveva saputo che l’unico modo per fermare quel vagante era infilzargli il cranio con il piede di porco e i suoi muscoli avevano agito per lei. Ci sono delle impronte di vaganti e può dire che sono abbastanza vecchie. Sa come sono fatte e sa che è passato del tempo e che quindi non c’è bisogno di preoccuparsene.
Più avanti, ci sono delle impronte di un cervo, e sono fresche. Riesce a riconoscere anche quelle.
Sto cacciando, realizza con stupore. So cacciare, e devo farlo per sopravvivere.
Tuttavia, oggi non può farlo, perché ha un altro obiettivo. I suoi piedi la spingono in avanti finché non arriva a vederla, la sua fattoria, e le si spezza il cuore. Non è evidente come lo è stato su quella strada di Atlanta dove si è svegliata, ma la familiare e allo stesso tempo più selvaggia linea di alberi che è diventata l’orizzonte che avvolge la casa dove ha trascorso l’infanzia, le trasmette un forte senso di morte.
Le nuvole sopra la sua testa coprono anche l’ultimo spiraglio di luce: sta per mettersi a piovere. Anche se è completamente dolorante e assetata, oltre che mezza affamata, corre di nuovo, perché è questo quel che si fa quando bisogna trovare un riparo, e la sua fattoria è un riparo solo nel senso letterale del termine. Non è di certo quello che sperava di trovare. La staccionata giace tra la polvere, calpestata. Riesce a malapena a superare i suoi resti, ormai in parte coperti dal terreno e dall’erba alta, e più avanti individua casa sua, sterile e spoglia proprio come temeva di trovarla.
Ogni suo battito accompagna i silenziosi ma comunque assordanti “no!” che si ripetono a loop nella sua testa. I piedi tengono il tempo e, anche se non può vederlo, può sentire il calore del fuoco che ha buttato giù il fienile. La casa non è stata incendiata, ma anche da quella distanza nota che manca parte della porta principale, che le finestre sono tutte rotte e che parte del portico è franata.
Non ci vive più nessuno; lei non ci vive più; la sua famiglia non ci vive più.
Ho sbagliato strada, pensa, ma non può essere. Quella fattoria è sempre stata il simbolo di tutto ciò che si potesse chiamare casa. Dove sarebbero potuti andare altrimenti? Suo padre non l’avrebbe mai lasciata.
Con il corpo intorpidito e un ronzio nell’orecchio che quasi copre il suono claustrofobico del suo stesso respiro accelerato, scorge delle ossa. Il prato ne è ricoperto. Sono ossa sporche e consumate di vaganti, e sembra che ce ne siano circa un centinaio buttate lì così.
Riesce a ricordare le grida; riesce a ricordare il sangue; riesce a ricordare di aver guardato dei corpi cadere.
No, no, no, no!
Soffoca quelle immagini, scacciandone via il ricordo. Attraversa il campo e si ritrova accanto a quel che resta del fienile, ma prova una forte avversione nel guardarlo, chissà per quale ragione. Un ricordo brucia nella sua mente, ma spinge via anche quello, seppellendolo sotto una montagna di no, e distoglie lo sguardo.
Non sono pronta.
Volta le spalle sia al fienile che alla fattoria, ma sa di non poter andare in quella direzione. Ha bisogno di cibo e di acqua e sa che la sua famiglia aveva messo da parte delle provviste. Con un po’ di fortuna, potrà ancora trovare qualcosa per lei, ma di certo non la sua famiglia. Adesso la vede davvero, la vuotezza di quel posto.
Voglio solo stendermi e piangere.
Pensa che il terreno andrà più che bene, anche se sarà circondata da ossa. Il dolore al collo, però, la fa retrocedere da quell’idea. Se si sdraiasse, dovrebbe combattere contro se stessa per non addormentarsi, ma lo farebbe e, quando si sarebbe svegliata, i sintomi con ogni probabilità sarebbero irreversibilmente peggiorati e sarebbe stata troppo male per prendersi cura di se stessa. Oppure, forse, non si sarebbe mai più svegliata.
Suo padre ha delle cose nascoste in casa, ma il solo pensiero di entrarci la fa sentire debole e fredda. Loro non ci sono più, anche se era sicura che fossero lì ad aspettarla. Poi, nelle stalle ci sono più medicine. Anche se sono fatte con gli stessi ingredienti, suo padre teneva i farmaci per gli animali separati da quelli per le persone. A meno che qualcun altro non abbia trovato la loro scorta, o che loro stessi non l’abbiano portata via quando se ne sono andati, dovrebbe essere ancora lì.
Appena entra, viene accolta da un vagante lento e senza gambe. Non lo riconosce, ma non lo osserva neanche più del dovuto prima di colpirgli il cranio con il piede di porco. Le ossa dei morti sembrano più morbide di quelle dei vivi. Evidentemente, si consumano col passare del tempo.
Facendo dondolare il polso, permette a gran parte del sangue di liberare la barra di ferro e schizzare via, disperdendosi nelle stalle vuote.

L’immagine di una bella donna con una lunga spada si fa strada nella sua mente.
Compie quello stesso elegante movimento del polso e il sangue gronda via dalla lama, mentre osserva con un cipiglio quello rimasto incrostato sull’arma.
“Ci tengo alla mia spada. Il sangue dovrebbe semplicemente scivolare via, ma quello dei vaganti è così appiccicoso...”, borbotta, per niente preoccupata per i vaganti che ha appena abbattuto.
“Tieni.”
Beth le passa un fazzoletto che aveva ripiegato nella tasca posteriore, accanto alla sua pistola.
Si trovano davanti a una grande struttura in cemento, circondata da una recinzione sormontata da del filo spinato.
Forse è una prigione.
La donna fa scorrere il fazzoletto lungo la lama, strofinando sulle macchie più resistenti di sangue scuro appartenente ai vaganti che ha ucciso.

Beth osserva il suo piede di porco, sporco di sangue. Ormai il suo braccio è abituato ad usarlo, anche se ha la mano ricoperta di calli. Ha bisogno di trovarsi un’altra arma, magari qualcosa di portatile o con dei proiettili.
Mentre continua a chiedersi chi sia quella donna, dove abbia trovato quella spada e che cosa abbia imparato da lei nell’osservarla, arriva agli scaffali sul retro, dove trova quasi tutti i farmaci perfettamente intatti. È praticamente una miniera d’oro nel bel mezzo del deserto, che aspetta solo di essere utilizzata. Dovrebbe essere felicissima, o quantomeno sollevata dall’aver trovato quello di cui aveva bisogno per sopravvivere, ma le sembra di aver vinto solo a metà.
Dove sono tutti?, si chiede ancora.
Che senso avrebbe continuare a vivere, se loro non ci sono più? Con un brivido, si ricorda delle cicatrici sul suo polso, ma continua a frugare tra le medicine finché non trova quello di cui ha bisogno, per poi andare a stendersi in una stalla chiusa e abbandonata a se stessa. È quella dove un tempo dormiva Nelly, il suo cavallo.

La sua stessa voce risuona in un fresco ricordo del primo mattino, in cui sta cantando per Judith.
“There is a house in New Orleans
you call the Rising Sun
and it’s been the ruin of many poor soul
and me, oh God, I’m one...”
Un’ombra si abbatte su di loro e la sua voce vacilla un po’, ma continua la strofa.
“If I listened to what mama said
I’d be at home today
being so young and foolish, poor girl,
I let a gambler lead me astray.”
Judith sembra affascinata e Beth, colta di sorpresa da quella pura adorazione, ricorda ogni sua ciocca di capelli, i suoi curiosi occhi azzurri, i suoi versi simili al tubare di una colomba e persino i suoi pianti.
Pensa di aver sempre voluto un bambino, e che quella bambina è praticamente appena nata. Ricorda il modo in cui il suo viso è cambiato nei mesi successivi, ma allora, in quel ricordo di quella ninna nanna, è da poco venuta al mondo.
L’ombra sposta il suo peso e lei alza lo sguardo: appartiene all’uomo dagli occhi chiari; quello per cui, per ricordarsi il suo nome, sforza la sua mente come non hai mai fatto per nessun altro.
“Scusami...ti ho svegliato? Sono venuta qui perché pensavo che nessuno potesse sentirmi...”
“È comunque meglio dei suoi pianti”, risponde lui a voce bassa.
Quel timbro così familiare la fa sussultare.
Per un momento stanno entrambi zitti, ma è un silenzio confortevole. La bambina è ancora irrequieta, ma almeno non minaccia più di piangere.
Beth si avvicina all’uomo, che allunga le braccia per farsela passare e, senza esitazione, la posa tra le sue braccia, sicura che lì sarà più al sicuro che da qualsiasi altra parte.
“Non hai praticamente mai dormito da quando è nata”, la sua voce si addolcisce mentre osserva il viso della bimba nell’oscurità. “Va’, posso stare io con lei per un po’.”
“Neanche tu stai dormendo molto in questi giorni”, ribatte lei con un sussurro, ma non pensa di rifiutare la sua offerta: ha il corpo dolorante, la schiena non vuole saperne di starsene dritta e gli occhi, sofferenti di una rigida insonnia, non riescono a guardare lo stesso punto per più di un certo tempo.
“Dormi un po’, Beth. Non preoccuparti per noi, conosco qualche pezzo dei Motorhead che potrebbe piacerle.”
È troppo buio per vederlo, ma sa che ha appena sfoggiato uno dei suoi rarissimi sorrisetti.
“Grazie, Daryl”, gli dice, posando fermamente la mano sul dorso della sua; la stessa che tiene sulla testa di Judith. È buio, ma con la stessa intensità con cui riesce a sentire la forza di quella mano, riesce a sentire il peso del suo sguardo su di lei.
Si aggrappa a lui per un’altra frazione di secondo, e poi se ne va.

Riapre gli occhi esattamente dove si è addormentata, nella stanza di Nelly. È stata così presa da quel ricordo che fortunatamente la sua testa non è stata la prima cosa a catturare la sua attenzione. Sente un tuono in lontananza, e sa che non è il primo, perché il battere delle gocce di pioggia sul legno diventa sempre più violento. Il tetto delle stalle è abbastanza resistente; ce ne vuole per farlo crollare.
Anche se è completamente asciutta, ha freddo ed è rigida. Lì dentro non c’è più l’odore dei cavalli, ma solo il fetore dei morti in putrefazione. Si rialza lentamente, cercando di mettere insieme tutto ciò che ha ricordato.
Ho una figlia?
La bambina che ricorda si chiama Judith, ed è bellissima.
Avendo ripreso padronanza della sua mente, si rimette in piedi, afferra altri farmaci e prende le sue pillole. Non sa per quanto tempo ha dormito, ma suppone che sia stato abbastanza. Si avvicina alla porta e osserva la pioggia che sta bagnando i campi diventare sempre più torrenziale. Fa scivolare le mani sulla cintura dei jeans, alla ricerca di qualche indizio. Se ha avuto davvero una bambina, dovrebbe essere in grado di capirlo, no?
Se ho una bambina, deve esserci anche un padre, pensa, deglutendo e afferrando lo stipite per darsi supporto.
Si chiama Daryl.
Si riscuote mentalmente, cercando di non far viaggiare troppo la sua mente, ma almeno adesso sa che quell’uomo che ricorda sia stato con lei in un bagagliaio, delle cui labbra ha voluto sentire il sapore, si chiama Daryl.
Si chiama Daryl e teneva in braccio quella bambina con tanta tenerezza.
Quella bambina potrebbe essere tua, e anche lui.
Rendendosi conto di non aver praticamente respirato per diversi secondi, Beth cerca di riprendere fiato, ma finisce per emettere un singhiozzo strozzato sul palmo della sua mano, per poi ricominciare a respirare profondamente. Il suo cuore soffre per una famiglia che non conosce neanche. È troppo.
Dove sono i suoi genitori, suo fratello e sua sorella? Dov’è la bella donna con la spada? Che fine hanno fatto Carl e suo padre? E la bambina e quell’uomo?
Perché mi sono svegliata da sola?
Adesso ha paura di conoscere la risposta. Forse la sua mente ha scelto di dimenticarla. Forse è stato solo il suo strano modo di proteggerla.
Ti sei svegliata da sola perché sono tutti morti. Sei l’unica rimasta.
“Non è vero”, si dice.
So che non è vero.
“Sono da qualche parte, vivi. Semplicemente, non sono qui.”
Tuttavia, sa anche che la probabilità che stia mentendo a se stessa esiste davvero, perché sente il peso del destino della sua famiglia gravarle sulle spalle da quando ha cominciato a ricordare, da quando ha cominciato a sentire il dolore, e non sa se mai smetterà di esserci, a prescindere dal fatto che la bambina sia sua o meno e indipendentemente dal fatto che i legami che ha con questi fantasmi della sua testa siano davvero così forti come li percepisce.
Alla fine dei conti, non conosce la sua gente. Neanche Maggie, non quella vera. Ripensando ai suoi ricordi, realizza di non poter sapere, adesso, chi sono diventati. Tra l’altro, non sa neanche chi è lei. Non sa se è una sopravvissuta, se è un’assassina, una cacciatrice o addirittura una madre.
Quell’uomo potrebbe essere il suo uomo, nonché il padre della sua bambina, e questa ipotesi le spezza il cuore. Si sente già schiacciata dal peso delle perdite che non ha ancora affrontato e che affronterà solo quando avrà ricordato.
Riporta lo sguardo sulle cicatrici sul suo polso, e rabbrividisce, mentre il cielo viene squarciato da un altro tuono. La pioggia continua a scrosciare come se volesse scavare nel terreno.
Per quasi un’ora, resta immobile a fissare quello scenario, finché la pioggia non comincia ad attenuarsi. Nei minuti restanti, il cuore smette di picchiare contro le sue costole e regolarizza il respiro. Anche se ha dormito a lungo, sente di poter chiudere gli occhi e addormentarsi ancora. Ora, mentre il cielo si asciuga, il suono della pioggia che schizza sul terreno è quasi diventato dolce.

Che diavolo fai, Greene?”, le chiede Daryl con massima cautela. Sembra spaventato.
“Chissà quando avrò di nuovo l’occasione di farmi una doccia”, spiega lei attraverso il tessuto bagnato.
Si sta sfilando la maglietta dalla testa; è la stessa polo gialla con cui si è risvegliata, ma non è ancora così sbiadita.
Forse quella è stata davvero la sua ultima doccia.
Lei e Daryl sono soli, lontani da tutto, nel bel mezzo di un temporale.
Quella sensazione di perfetto isolamento dovrebbe terrorizzarla, dal momento che sa che loro potrebbero essere le ultime persone rimaste sulla Terra, anche se ancora ricorda il perché, né per quanto tempo sia stato così.
Il bosco sembra invitarli di nuovo al suo interno. Hanno trascorso così tanto tempo lì, circondati dagli alberi, solo lui e lei. C’è anche una casa. Infatti, si trovano nel cortile di una vecchia fattoria in rovina. L’hanno già ripulita e non hanno trovato quasi niente, ma è comunque un rifugio e sta piovendo, anche se lei è decisa a restare fuori.
Sentire la pioggia scorrerle addosso è una sensazione magnifica; sembra lavare via il sudore e la puzza di bruciato dai suoi capelli. Si sfila definitivamente la polo sul portico principale, e la poggia sulla ringhiera. Fa lo stesso con la cintura e gli stivali, lasciandoli accanto alla porta, dove Daryl è rimasto impalato come una statua. Si sta bagnando anche lui, ma sembra che non voglia lasciarla sola, anche a costo di doverla guardare.
“Starò bene”, gli dice quindi, arrossendo.
Hanno trascorso così tanto tempo per strada con il gruppo che bene o male può dire di averli visti nudi, quasi tutti. Ha pensato che fosse lo stesso anche per lui, ma evidentemente non lo è. Forse lui è il tipo che bussa, che avvisa prima di voltarsi, che da le spalle a quei momenti imbarazzanti, ma Beth non è mai stata altrettanto diligente nel rispetto di quelle abitudini,
Ricorda di averlo visto mentre si cambiava, una volta. Stavano frugando in un vecchio outlet e la maglia che indossava era a brandelli. Dovevano essere i primi tempi, perché lui era più giovane, e anche lei. Aveva cercato di nasconderlo, ma era stato più che infastidito dalla sua presenza. Al tempo, aveva pensato che doveva essersi comportato in quel modo per via delle cicatrici che portava dietro la schiena, ma ora, sotto la pioggia, sta arrivando a pensare che la sua infanzia di merda forse non è l’unico motivo che l’ha spinto a cacciarla via.
“Se vuoi spogliarti dentro, puoi anche lasciarmi sola per cinque minuti.”
Sente il suo stesso viso andare a fuoco. Forse non è stata una buona idea. In ogni caso, la pioggia è forte e avrebbe comunque dovuto togliersi i vestiti bagnati di dosso.
“Ho trovato questo rifugio proprio per impedire che ci inzuppassimo”, borbotta lui, ma si sfila comunque il gilet e gli stivali, posandoli accanto alla porta. La osserva cauto, forse interrogandosi su come lei sia riuscita a coinvolgerlo.
“È solo un acquazzone estivo.”
L’acqua non è esattamente calda, ma non sta tremando, o almeno non lo sta facendo per il freddo.
Seguendo il suo esempio, Daryl comincia a sbottonare la sua camicia smanicata.
“Schiena contro schiena”, le ordina con la voce un po’ più alta del normale. “È più sicuro.”
“Sì, giusto”, risponde lei, cercando di impedire che le sue labbra si curvino in un sorriso che potrebbe mettere entrambi in imbarazzo.
“Non abbiamo visto nessuno per chissà quante dannate miglia, ma se qualcuno dovesse essere di passaggio, potrebbe approfittare del fatto di trovarci nudi e disarmati”, mugugna.
Quando Beth sente la sua schiena incontrare quella di lui, si sfila velocemente e allo stesso tempo i pantaloni e le mutande. Per quanto bagnati, infatti, i due indumenti si erano quasi incollati tra loro.
Si slaccia il reggiseno e posa tutto sulla ringhiera. La pioggia è meno forte, ma è comunque abbastanza da bagnarle la faccia quando spinge il collo indietro, insieme ai capelli. Non è un getto concentrato, come quello di una vera doccia, ma è comunque piacevole.
Oscilla sul posto a piccoli passi vacillanti mentre si massaggia lo scalpo e lascia che l’acqua le bagni anche il resto del corpo. Il terreno sotto i suoi piedi stanchi e doloranti, è freddo e morbido; il fango e l’acqua le scorrono tra le dita, solleticandole.
Anche Daryl forse si sta massaggiando i capelli, perché sente gocce più consistenti scenderle lungo le spalle e la schiena. Sorride tra sé e sé e, incapace di resistere a quell’impulso, raccoglie tutti i capelli davanti al suo viso. Aspetta qualche minuto, il tempo che diventino abbastanza zuppi, e poi li tira di nuovo indietro.
“Ma che cazzo...”, sente Daryl sussultare alle sue spalle. “Mi hai schizzato di proposito?”
“Come se cambiasse qualcosa”, risponde ridendo.
“Hai visto se in bagno c’è un po’ di shampoo?”
“Sì, non c’è.”
Sembra che quella vecchia casa non sia mai stata davvero abitata prima dell’apocalisse. Forse era una di quelle vecchie case che le persone usavano per passare i fine settimana; una di quelle che ereditavano e non sapevano bene che farci. Non hanno trovato nessuna traccia di cibo o roba simile; hanno visto solo mobili rotti e malandati, qualche coperta e alcuni vestiti negli armadi. Era tutto vecchio e mangiato dalle tarme.
“Hai fatto?”, brontola Daryl dopo alcuni minuti.
Può immaginarselo mentre la aspetta con impazienza, con i pugni serrati e il disagio di non potersi voltare a guardarla neanche per poco, neanche per un’occhiata veloce.
“No” gli risponde, mentre passa per l’ultima volta le mani tra i capelli. “Ora ho finito”, dice poi, riagguantando i suoi vestiti. “Entro io per prima. Vado nella stanza dei bambini.”
“Metterò la mia roba nella camera da letto principale. Già che ci sei, mi prendi una coperta?”
“No, sono tutte mie.”
“Pfft.”
Comincia a correre in casa, per poi fermarsi con un sorriso non appena lo sente farle una delle solite raccomandazioni.
“Tieni gli occhi aperti, hai capito?”
“Me la caverò”, risponde, cercando di zittire la risatina che le preme in gola. “Giuro che non ti ho guardato… tu l’hai fatto?”
“Tieni gli occhi aperti!”, le ripete, ignorando quella domanda.
“Mmh. Va be’, mi fido.” Le sue risatine rischiano di trasformarsi in un’enorme risata se non si dà una mossa. “Comunque… ti giuro che io non ho sbirciato!”
Finalmente, entra in casa. Sale le scale in pochi passi e si ferma di fronte alla porta della cameretta.
Non lo ha guardato.
Per tutto il tempo in cui sono stati sotto la pioggia, schiena contro schiena, ha cercato di essere rispettosa, si è tenuta per sé quel desiderio, ma non poteva fingere che lui non fosse lì. Controllare la sua mente è stato persino più difficile che controllare il suo collo, ma alla fine non si è voltata, neanche per un’occhiatina con la coda dell’occhio.
Le distanze tra loro si stanno accorciando. Lo sente, e crede che lo stesso valga per lui. Non vuole spingersi troppo in là, non troppo in fretta, perché non vuole metterlo in difficoltà. Dovrebbe prima sapere esattamente che cosa vuole da lui. È importante, ma non ne è ancora sicura, non in quel momento. Hanno modi diversi di essere forti e vulnerabili, ma insieme si sono indubbiamente rafforzati. Non sa che cosa ci sia tra loro, ma sa di essere felice di stare con lui e spera che anche per lui sia così.
In cima alle scale, Beth esita. Si chiede quanti altri
Mississippi Daryl conterà prima di entrare in casa e quanto ancora dovrà aspettare per vederlo giù a quelle scale.
A quanto pare, non molto, perché vede presto la sua ombra avvicinarsi e, sentendosi di nuovo in colpa, scappa via prima di riuscire a vederlo.
Mentre pensa di non avere quasi più bisogno di asciugarsi per quanto è arrossita, si chiude la porta alle spalle e vi si appoggia, ascoltandolo salire le scale.
È in quel momento che si rende conto di essere entrata nella stanza sbagliata. Infatti, lui afferra la maniglia e riesce ad aprire la porta solo di qualche centimetro, perché lei, con un piccolo strillo non intenzionale, si è schiacciata contro di essa con tutto il suo peso.
“Scusa! Devo essermi confusa… e ho sbagliato stanza.”
“Bene, allora l’altra è mia”, le dice attraverso la porta. Alla fine, sembra divertito, anche se la sua voce tradisce qualche nota di esasperazione.
“Mi prendi una coperta?”
“Mmh… no. Tutte mie.”
“Dai! Io te l’avrei presa!”
Daryl non le risponde; se ne va lasciandola con la sola compagnia dei suoi vestiti bagnati.
Alzando gli occhi al cielo, Beth si avvicina alla vecchia spalliera di ferro del letto e ci lascia i vestiti ad asciugare. La biancheria, a sua volta vecchia e polverosa, non sembra per niente comoda, ammesso che lo sia mai stata: le coperte sono umide, super inamidate; troppo sottili per l’inverno e troppo ruvide per il resto dell’anno.
Apre l’armadio e trova un’orribile vestaglia usurata dal tempo; all’interno di una delle tasche, c’è anche un flacone di sciroppo per la tosse. La indossa comunque e si asciuga i capelli con i pantaloni che un tempo erano di qualcun altro, per poi andare a incontrare Daryl in corridoio.
Ha una copertina di lana color porpora stretta alla vita. Con una mano si sta asciugando i capelli utilizzando un pigiamino rosa, e nell’altra stringe un fagotto grigio.
Beth lo osserva attentamente e questa volta non riesce a trattenersi; scoppia a ridere, coprendosi la bocca con le mani e provando a scusarsi attraverso le dita.
“Quindi non ci sono vestiti, solo coperte?”
“No.”
Daryl entra a posare il pigiama in camera da letto, anche se i suoi lunghi capelli scuri stanno ancora gocciolando. Forse l’ha fatto solo per farla ridere anche se, da quanto riesce a ricordare, è passato molto tempo dall’ultima volta che ha fatto qualcosa di simile a uno scherzo.
“Ho trovato una cosa, ma starà meglio a te”, le dice, passandole il fagotto grigio.
È un maglione, ma non somiglia per niente a quelli enormi e vecchi che ha trovato nell’armadio. È carino e il tessuto sembra morbido; non deve stare lì da molto tempo.
“Era piegato sotto il letto. Devono averlo dimenticato l’ultima volta che sono stati qui.”

La Beth nella stalla cerca di aggrapparsi a quel ricordo, di continuare a tenerlo vivido per sapere cosa è successo dopo, ma, quasi violentemente, lo sente scivolare via dalla sua mente frammentata. Accarezza il tessuto del maglione grigio che indossa sopra la polo: è lo stesso, ne è sicura. Forse ci ha pensato davvero, forse voleva qualcosa in più da lui, ma è evidente che in quel momento non dovevano stare ancora insieme.
Quando è nata la bambina?
Se è davvero sua, ed è anche di Daryl, i ricordi della prigione dovrebbero essere successivi a quelli in cui era sola con lui. Erano troppo tesi, troppo goffi l’uno con l’altra, troppo in imbarazzo. Se hanno davvero avuto una bambina, è successo dopo quel ricordo, ma allo stesso tempo sa che non è passato molto tempo. Indossa ancora gli stessi vestiti, anche se il colore della polo non era ancora così sbiadito, e il maglione è strappato. Potrebbe essere comunque passato un po’; la prigione, la bambina e tutto il resto potrebbero anche essere venuti dopo quel ricordo.
La sensazione di essere assolutamente sola è diventata dannatamente profonda ora che si ritrova a pensare ai tasselli che mancano nella sua memoria. Ricorda di essersi sentita sola anche quando era con Daryl, ma il loro mondo aveva ancora un senso, mentre adesso sembra più vuoto che mai. È sicura di essere stata da sola con lui per un bel po’, tanto da viverci insieme. Forse è stata in quella circostanza che è successo, forse è stato allora che sono diventati… beh, qualsiasi cosa fossero.
Quasi inconsciamente, si prepara ad andare via. Prende gli antibiotici e gli antidolorifici di cui ha bisogno, nel caso non dovesse riuscire a tornare indietro, nel caso in cui dovesse essere costretta a scappare. Per qualche strano motivo, la fine della pioggia per lei ha significato che, a prescindere che sia pronta o meno, è giunto il momento di entrare in casa.
Durante il tragitto, tenta in tutti i modi di prepararsi psicologicamente ma, una volta arrivata di fronte al portico, scopre di non esserlo per niente. Si sente come se ogni passo nella sua vecchia casa potesse avere il potere di spezzarle le ossa.
Nel momento in cui varca l’ingresso e vede i danni che ha subito, si sente subito debole, sul punto di svenire. È passata una mandria; è evidente. Bussa violentemente il ritmo di shave and a haircut sul telaio della porta, stringendo il pugno quasi con la stessa forza con cui il nodo che ha alla gola le sta impedendo di respirare. Quella sensazione di soffocamento coinvolge anche il suo petto, affaticando i battiti del cuore. La sua bellissima casa, che doveva essere un angolo di paradiso in mezzo a quell’inferno, è semplicemente vuota e in rovina come il resto del mondo. È stata violentata in ogni modo possibile: ci sono segni di un’alluvione e nidi di uccelli, vari gruppi di vaganti devono esserci entrati e usciti, e ce ne sono ancora alcuni. Aspetta che quei tre che vede si allontanino per uscire di nuovo ed osservarli, ma non troppo da vicino, per la paura di riconoscerli. Appena rallentano il passo, può dar loro un’occhiata e può constatare che non sono né sua padre, né sua madre, né sua sorella o suo fratello, e nemmeno qualsiasi altra persona che possa riuscire a riconoscere. Inoltre, c’è anche il corpo putrido di una donna; ha la mascella rotta e nulla più nelle sue orbite, e sta strisciando sulle scale del seminterrato. Tuttavia, al di là di quei quattro ritardatari, la morte deve aver lasciato la sua casa.
Dopo aver barricato l’ingresso principale, inizia a cercare la stanza meno danneggiata della casa, che scopre essere proprio la sua. Si siede ai piedi del letto e comincia ad osservare la carta da parati, finché la sua mente logora non fa riaffiorare nuovi ricordi.

Come hai potuto farlo?”
È la sua voce.
Ha fatto quella domanda a Lori, in un momento di rabbia.
Stringe il suo polso non ancora sfregiato, e scopre che lei è incinta.
Il mondo è finito, e Lori è incinta. Darà alla luce un bambino in quel disastro.

Ricordando il disgusto e il rammarico che aveva provato, Beth si riscuote da quel ricordo. Evidentemente, non riusciva ancora a capire la decisione di rischiare di avere un figlio in un mondo ormai sfasciato.
Lori è la madre di Judith.
Ora ricorda. Lori era incinta ed era preoccupata, perché la paura e l’avversione che aveva provato nei suoi confronti erano evidenti nei suoi stessi occhi.
Si sente morire al pensiero di quello che le ha detto quel giorno ed è grata a se stessa per non aver continuato a mettere il dito nella piaga. Era già abbastanza difficile, anche senza la sua insolenza adolescenziale.
Non è mia figlia.
Le sembra stupido, ma è dispiaciuta, perché in alcuni momenti ha pensato che quella bambina che cullava tra le braccia e a cui cantava le canzoni potesse essere davvero sua. In alcuni momenti, ha creduto di essere diventata mamma.
Judith ha già avuto una madre, e non sono io.
L’ha già avuta
, ripensa, e rabbrividisce.

Ho dovuto fare il cesareo… mi ha supplicata.”
Maggie scoppia a piangere. Non riesce a parlare, ma non deve farlo per forza.
Le avvolge un braccio intorno alle spalle…

Inorridita, Beth rigetta quel ricordo, spazzandolo via.
Comincia a scivolare lentamente dal letto per sedersi sul pavimento, con le ginocchia strette al petto.
“Ti racconterò tutto di tua madre, un giorno”, ricorda di aver sussurrato alla bambina.
Avrebbero dovuto farlo suo padre o suo fratello, ma erano troppo imperturbabili, troppo occupati a tirare avanti perché tornare indietro sarebbe stato troppo doloroso.
Questi ricordi, non riesce a sostenerli. Non riesce ad aggrapparsi a un pezzo e a capire che spazio debba occupare in quel puzzle. Questi ricordi non sono nitidi come quelli belli e adesso crede di sapere il perché: alcuni ricordi sono troppo dolorosi; è come se non li volesse, come se la sua mente li rifiutasse. Ogni volta che si avvicinano, una parte di lei alza un muro contro di loro. Non vuole ricordare la morte di Lori, avvenuta prima che riuscisse ad avere la sua bambina; non vuole ricordare la paura negli occhi di sua sorella.
Più mi spingo a ricordare, più vedo sangue, paura, morte.
Persino quella stanza la fa star male. È lì che aveva chiesto a Lori come avesse potuto scegliere di far nascere un bambino in quel mondo. Allora, non aveva più speranza e, per qualche ragione, sa che quello è stato uno dei suoi momenti più bui. Si era seduta in quella stanza illuminata dal sole, aveva guardato Lori negli occhi e non aveva avuto neanche un briciolo di fiducia nel futuro.
La paura del sesso che aveva all’epoca, poi, non l’aiutava di certo. Per molti aspetti, Beth era fiorita in ritardo. A sedici anni, in realtà, l’aveva superata, ma non era ancora stata sostituita dal desiderio. Più tardi ha capito meglio come stanno le cose: quando il mondo finisce, tutto ciò che vuoi è avere qualcuno accanto. Ha recuperato la fede, ha recuperato la speranza.
Perché era così un brutto momento? Perché ero così a terra?, si chiede, ma ha paura di scoprirlo. Ha paura di scoprire di non aver costruito un muro abbastanza alto.

Il ragazzino ha appena perso sua madre e il padre ha perso la testa.”
“Vado a cercarlo.”

È la sua voce che, insieme a quella di Daryl, risuona nella sua testa.
Quel semplice e veloce scambio di battute riecheggia intorno a lei.
Dopo la nascita di Judith e la morte di Lori, Daryl era preoccupato per Carl e le aveva chiesto di aiutarlo, perché sapeva come ci si sentiva.
Quando aveva cinque anni, era andata in vacanza in Florida con la sua famiglia. Erano in spiaggia, ed era entrata in acqua quando nessuno, compresa sua madre, la stava guardando. Nessuno si era accorto infatti che, proprio in quel momento, Beth era stata travolta da un’onda. Ricorda la sensazione di essere spintonata e gettata nella sabbia da una forza della natura; aveva perso l’aria, l’equilibrio e ogni senso di sicurezza.
Sapevo come ci si sentiva, perché non era passato molto tempo da quando avevo perso mia madre.
Ora se lo ricorda, ed era stato come se fosse stata ancora travolta da una di quelle onde. Erano state settimane di silenziosa paura, quelle con sua madre chiusa nel fienile.
“Sono solo malati”, diceva a se stessa. Anche Shawn era lì, ma in realtà nessuno dei due era davvero lì; erano già andati via da un pezzo.
Erano già morti da molto tempo.
Quando l’onda si era infranta su di lei, erano stati solo pochi secondi di panico, perché poi sua madre l’aveva tirata su, assicurandole che stava bene, anche se ancora tossiva acqua marina e singhiozzava.
Adesso, il panico non è durato solo pochi secondi, perché è ancora intrappolata nel disorientamento che solo quel mondo può creare, incapace di riprendere fiato e di ritrovare l’equilibrio.
Sono morti, si dice, e cade in avanti, spingendo la fronte sul pavimento. La ferita è proprio lì, ma non importa. Affonda le unghie nel cuoio capelluto.
Sua madre e suo fratello sono morti.
Suo padre…
“Perché hai così tanta paura di perderlo?”
L’avrebbe perso e sarebbe presto diventata orfana. Infatti, è andata proprio così.

Il luccichio di quella lama ha lo stesso effetto di un colpo di fulmine.
È la stessa spada che ha visto pulire da quella bella donna, quella che si lamentava della consistenza del sangue dei vaganti.
Infatti, il sangue dei vivi è diverso, di un rosso brillante.
Quel folle colpisce di nuovo il collo di suo padre, perché il primo colpo non è stato abbastanza fluido.

Non posso, non sono pronta.
Ormai non importa più. Non può spingere i ricordi ancora alla deriva, è troppo debole.
Non si meraviglia di aver perso la speranza in quella stanza, così come non si meraviglia di aver trovato il coraggio di tagliarsi le vene con un pezzo di vetro.
Il suo non era buonsenso, ma voglia di scappare, perché alla fine è stato proprio il buonsenso a tenerla ancora lì. Tuttavia, non riesce ancora a credere di essere stata di nuovo felice, che la sopravvivenza sia potuta essere qualcos’altro oltre che dolore e sofferenza per quello che ha passato.

Voglio farlo stanotte, in questo letto, e dovremmo farlo insieme.”
Sta supplicando Maggie di andare via con lei.

L’aveva supplicata anche lei. Ma mentre Lori l’aveva fatto per la vita di sua figlia, lei l’aveva fatto per la sua morte.
Ho perso così tanto.
Ha paura di pensare troppo e troppo a lungo a Maggie. E se avesse visto anche lei morire in modo atroce? E se fosse davvero così sola come si sente?
Nel dubbio, soccombe al peso dei suoi ricordi e si arriccia sul pavimento, in posizione fetale.

   
 
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