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Autore: yonoi    27/01/2018    12 recensioni
Una sera di pioggia, il freddo di un marciapiede e un incontro fortuito. Una bella auto che accosta, al suo interno tepore, un possibile un riparo dalla solitudine e dal gelo.
Seconda classificata al contest "Plus Ultra" indetto da Akimi sul Forum di EFP
Quarta classificata al contest "Il linguaggio segreto dei fiori" indetto da Ayaka sul Forum di EFP
Storia sottoposta a revisione il 25/7/18.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Nome Autore EFP/Forum: yonoi/yonoi.
Titolo: “Ti darò riparo dalla tempesta”
Fiore scelto: rosa bianca (un cuore che non conosce l’amore)
Fandom: storia originale
Nota: le citazioni musicali sono tratte da “Shelter from the stormo” di Bob Dylan

 

Ti darò riparo dalla tempesta

 
Avvenne in un'altra vita, una vita di sudore e di sangue 
quando il nero era una virtù e la strada era piena di fango 
io venivo dal deserto, creatura senza forma 
‎”Entra”- disse  -“Ti darò riparo dalla tempesta”

(“Shelter from the Storm”- Bob Dylan)
 
 
         Stasera il freddo e il buio sono un viale di alberi con le braccia levate in alto.
         All’orizzonte una linea rimasta dal tramonto: ancora incandescente, si condensa e assume il colore verde dell’erba. Ma non c’è, laggiù, nessun prato.
          D’inverno, il buio è lungo. Dentro di me, dura da anni.            
         Capito su questo lato del marciapiede per caso. Solamente perché, un’altra volta ancora, io non so dove andare.         Tutto il giorno ha piovuto, un pianto interminabile.
         Anche adesso, la nebbia che comincia a calare assieme all’oscurità, è fradicia e a strizzarla fa cadere altre gocce: lunghi aghi sottili che bagnano i capelli e penetrano nei vestiti.
         Le macchie delle insegne, la luce dei lampioni scivolano sulla pellicola acquosa dell’asfalto.
         Altra acqua oleosa trema nelle pozzanghere, al passaggio degli autobus: tonnellate di scarichi e di persone stanche, prostrate sui sedili e appesi alle maniglie. Volti chiusi che passano, con la testa incastrata tra il berretto e le spalle. Facce come la mia, che il gelo ce l’ho dentro da chissà quanto tempo.
         Una foglia rimasta ancora dall’autunno si stacca e cade docile, una pennellata di rosso sul ciglio della strada. La vedo per tempo, e passandole accanto cerco di non calpestarla.
         Mi siedo - sarebbe meglio dire, mi affloscio - sotto alla pensilina della circolare esterna, che poi sarebbe un autobus che percorre i viali della circonvallazione fendendo un mare di auto, lento e inesorabile come una rompighiaccio. 
         La panca su cui siedo è una lastra metallica, non ho mai posato il culo su qualcosa di più freddo. Alle mie spalle, in un intreccio di semirette colorate, una bacheca indica i percorsi dell’autobus, gli orari in una serie di scritte arancioni che scorrono in sovraimpressione. 
         Comincia a piovere forte. Mi stringo tra le braccia, in mancanza di altro. Dove poter lasciare la pena che ho dentro? Potessi lasciarla andare come fossero lacrime, come se fosse pioggia.
         Appollaiato su questo sedile di metallo che sto scaldando col culo in mancanza di altro, mi distraggo osservando le auto che procedono nell’alveo di acqua e asfalto lucido della strada: un fiume di tettucci percorsi da dita di pioggia, tergicristalli che vanno in coppia e si accodano ai semafori, ripartono sfiatando nebbia dalle marmitte.
         Gli autobus con i loro fianchi da pachiderma, le giunture che cigolano e la camminata sbilenca, sono quelli che lasciano andare più calore.
         Mi piace attraversare vicino alle fermate, passar dietro a quei grossi fianchi schizzati di fango: lasciarmi investire dal tepore degli scarichi, che è simile al rimprovero di una mamma che ti viene incontro in vestaglia e ciabatte, scuotendo la testa quando arrivi a casa in ritardo.
         Anch’io avevo una casa - da qualche parte in realtà ce l’ho ancora, ma si tratta di un luogo persino più inospitale e gelido della strada: il luogo delle mancanze, delle difficoltà mai risolte tra mio padre e mia madre, dell’esasperazione cresciuta lentamente assieme alla malattia di lui, che a un certo punto ha iniziato a scambiare sua moglie per un’estranea, le pentole impilate sulla credenza per il cesso, i miei fratelli per ladri che sgusciavano di soppiatto per derubarlo. Finché un giorno la voragine che si è aperta nella sua mente sgranocchiando ogni giorno un pezzo, ha finito per risucchiare anche gli ultimi brandelli: di lì a poco, mio padre ha smarrito completamente la nozione di se stesso e dei volti familiari che gli stavano intorno.   
         -“Chi sei?”- e ti guardava fisso con quegli occhi da completa tabula rasa, riempiti solo dalla paura e dal sospetto. Diventava aggressivo quando gli capitava d’imbattersi in qualcuno di noi nel suo perpetuo aggirarsi confabulante, notte e giorno per casa.
         -“Che ci fai in casa mia? Se ti avvicini, ti strozzo”- e in quegli occhi vibrava una luce senza ragione.
         In piedi cominciava a reggersi a malapena, ma la forza per avvicinarsi con le mani a tenaglia, con l’intenzione di afferrarci per il collo, la conservava sempre. Nel nostro appartamento con giardino al piano terra, dove mia madre coltivava le piante per il negozio e curava una piccola serra, non c’era mai pace. Se non era lui a inseguirci con le sue visioni sconnesse, era il turno di lei e del suo disamore, della rabbia e le lacrime che tornavano indietro nel tempo, a riesumare vecchie infelicità come fossero nuove, unicamente per il gusto di lanciarsi a capofitto nella disperazione.
         Soltanto nel giardino, nella quieta traspirazione delle ortensie dal capo riccio, nella solidità del cipresso raccolto in se stesso, riuscivo a trovare uno spazio di tregua. Mi piaceva osservare le violette che aprivano gli occhi nelle serre, gli innesti delle rose che dall’estro degli incroci e dei sali con cui mia madre arricchiva la terra, sbocciavano colori ibridi e sorprendenti: alcune si vestivano di velluto scarlatto, altre erano soffuse da una leggera porpora come volti un po’ vergognosi, ma quelle che io amavo erano solo bianche, inviolate e percorse da sottili venature di carne.
         D’inverno, mi piaceva visitare il giardino immerso nel suo riposo, le serre nella loro cappa di umidità, sapendo che sotto al crepitio del ghiaccio le piante lavoravano, tessevano instancabili il giallo dell’oro, la fiamma dell’arancio, persino il nero notturno.
         Quell’anno, tuttavia, non riuscii a più a sopportare il tempo dell’attesa, né a ritrovare in me la pazienza del giardino, che attendeva di sbocciare con maggiore vigore a una ogni nuova stagione.
         A un certo punto, decisi di lasciare la casa in cui ero cresciuto: per andare a studiare altrove, o almeno questa è stata la versione ufficiale. In realtà, per sfuggire a quel baratro di disastro che ci stava trascinando sempre un poco più in basso.
         Le rose bianche quel giorno erano ancora in boccio, come dita richiuse a nascondere una sorpresa: in cima agli steli, gli abbozzi erano rigidi e duri, avvolti - come me - da una corazza protettiva, perché ancora immaturi. Su quei piccoli pugni la rugiada scivolava, senza riuscire a farsi strada per creare laghetti puri tra i petali.
         Il quartiere era immerso nell’alba di cenere che precede il risveglio.
         Speravo che mia madre non s’accorgesse che me ne stavo andando di soppiatto, come uno di quei ladri di cui aveva tanto timore nostro padre. Pensavo di cavarmela col semplice biglietto che avevo lasciato sul tavolo della cucina, buttato giù a casaccio e senza riflettere più di tanto, per non correre il rischio di ripensarci all’ultimo momento.
         Ero ancora assorto nella muta contemplazione del roseto quando mi ero accorto che lei era là, sulla soglia: il suo sguardo deciso a lasciarmi andare libero, eppure desideroso di trattenermi ancora.
         La fragranza del giardino che quell’ora, nell’aria ripulita dalla notte e dal silenzio, schiudeva la terra e i calici esalando una lieve nebbia di umidità, mi aveva circondato come il suo ultimo abbraccio.
          Voltandole le spalle, sono andato incontro a una solitudine che non avrei mai pensato potesse essere così grande. Arrivo a considerare come calore umano addirittura gli scarichi dell’autobus, l’incandescenza delle marmitte, le spinte della folla che scende indifferente e fugge subito altrove.
         Mi piace andare incontro alla marea di gente che affolla le fermate, concentrata nei propri pensieri, affannata a inseguire orari e ritardi: un occhio all’orologio, la spesa che piega le braccia, una gomitata e una spinta a chi si mette in mezzo. Anche quello è un contatto in grado di trasmettermi un po’ di calore distratto, stizzito ma reale.
         Cerco conforto ovunque, in modo così affannoso che forse proprio per questo, senza rendermene conto, stasera mi sono spinto fino all’estrema periferia della città e della notte, su questo marciapiede che ospita, a ogni calar del sole, un movimento di ombre.
         Sono per lo più donne, abbigliate a strati vivaci come le rose del mio giardino dimenticato.
         Ma ci sono anche ragazzi, ognuno fermo al suo angolo come se avesse piantato radici diritte o un po’ sghembe in un quadrato di marciapiede, senza avere di sotto nessuna terra fertile né minerali in grado di favorire la crescita.
         In compenso, ha cominciato a piovere a dirotto. Alcune delle donne che sono là, in attesa, girano tra le dita ombrelli colorati, simili a fiori aperti. Ce n’è addirittura uno, bianco e verde nel manico, che pare una grande margherita dischiusa.
         Mi colpisce il silenzio con cui quello che capita attorno a me, succede: chi è fermo ai margini, a tratti sparisce dentro a qualche automobile che accosta senza rumore e poi riprende il largo. Dopo un poco, ritornano. Un’altra auto accosta: paiono tutte uguali, dello stesso modello e quasi dello stesso colore, in un ciclo continuo che non ha inizio né fine, e consuma le ore finché forse vien giorno.
          Proprio dinanzi a me, un’auto si ferma. La carrozzeria è lucida, sgrassata fino all’osso dalla pioggia che, adesso, scroscia con la violenza cupa di un nubifragio. Due nocche picchiettano sul vetro del finestrino. Mi sento trasparente, sono così convinto che nessuno possa vedermi, che ci metto un po’ a capire che quelle nocche pallide cercano di attirare proprio la mia attenzione.
          Finalmente mi sveglio, mi avvicino e in un attimo sono bagnato fradicio.
         Il vetro si abbassa, quel tanto da permettermi di avvertire il tepore ben protetto all’interno: c’è un aroma leggero che ricorda, nella sua versione di deodorante per ambienti, la freschezza inviolata delle mie rose bianche. L’abitacolo è un ricettacolo di oscurità, tanto che a malapena riesco a vedere il volto di colui che mi parla.
         Intorno, il marciapiedi è una pozza splendente, riflette tutte le luci spezzate della città.
         Davanti a me quel calore, filtrato appena da un finestrino abbassato.
         Quell’uomo ben protetto dal lusso della sua auto domanda quanto voglio, colto dall’imbarazzo non so cosa rispondere: dico una cifra a caso e non so nemmeno perché, è tale la paura che lui se ne vada, col suo odore leggero di colonia e di cura, col riparo pulito e asciutto in cui può accogliermi, che gli dico fai tu. Il tizio rilancia la proposta al ribasso, capisce che sono disposto ad andare con lui per molto meno, addirittura in cambio di nulla. Soltanto per potermi scaldare con qualcuno e non sentire più il freddo.
         Silenziosamente, lo sportello lucidato dalla pioggia si apre.
         Come mi aspettavo, al suo interno mi accoglie una traccia odorosa che pende da un alberello di pannolenci, appeso allo specchietto retrovisore interno: un’impronta che, in realtà, della rosa sbocciata conserva solamente qualche goccia di essenza. Tutto il resto è finzione, un distillato impresso su una base di additivi e di alcool.
         Mia madre conosceva il linguaggio dei fiori, il loro messaggio espresso senza parole: la rosa bianca, in particolare, aveva in sé il significato dell’innocenza, il candore di un amore limpido e indissolubile. Tradotto in artificio e annacquato dall’alcool, questo aroma sintetico è probabilmente molto più adatto alla circostanza.
         L’uomo nell’abitacolo è distinto e attraente, come dire che sono persino fortunato.
         Si volge appena verso di me, man mano che i miei occhi si abituano alla penombra emergono i lineamenti di un volto rigido e chiuso: la fronte pensierosa, il profilo diritto, poi ci sono le mani dalle dita lunghe e curate, una aggrappata al cambio e una sul volante. Non riesco a vedere gli occhi, l’oscurità e il suo modo di fare me li nascondono. Di fatto non mi guarda, sembra più interessato a quello che si muove dentro al retrovisore: solo, mi tiene a bada con qualche rapido sguardo. Forse anche lui non si sente del tutto a suo agio.  
         Per fortuna non parla. O forse, la sua voce è questa musica triste che sento in sottofondo.
         Poche parole giungono dalla radio regolata su un volume impercettibile, ma tutti i miei sensi sono così allertati che le sento benissimo, come se fosse quell’estraneo un po’ ostile a sussurrarmi all’orecchio: “…ero bruciato dalla stanchezza, sepolto dalla grandine, avvelenato nei rovi e stremato sul sentiero… Entra, ti darò riparo dalla tempesta”.
         L’auto s’immette nel traffico. L’uomo è attento alla strada, ora che c’è più luce vedo i suoi occhi scuri seguire attenti il percorso, con una concentrazione che forse gli occorre per mantenere le distanze, e impedire alla punta delle dita di tremare: osservo le sue pupille adattarsi alle minime variazioni di luce mentre l’auto sosta ai semafori, scivola accanto alle vetrine illuminate e poi da un lampione all’altro, sempre di più correndo verso l’oscurità. A tratti, i suoi occhi sembrano quasi verdi. Più oltre, s’incupiscono e diventano castani, infine restano neri.   
         So di avere un odore di cane bagnato, a causa del riscaldamento dell’abitacolo questa puzza comincia ad asciugarsi e a diffondersi ovunque, corrompendo l’essenza di rosa sintetica che continua a penzolare dall’alberello, e a torcersi seguendo il ritmo della guida.
         L’uomo dell’auto se n’è subito accorto, lo noto da una smorfia impercettibile di disgusto: probabilmente pensa che sono un tossico, di certo mi disprezza e anch’io forse dovrei disprezzarlo a mia volta, perché malgrado il suo aspetto ordinato e perbene, si è caricato in macchina uno sconosciuto qualunque. La musica, come un filo di fumo che esce dal cruscotto, continua a rassicurarmi: “… in un mondo di morte con gli occhi d’acciaio e uomini che combattono per un posto al caldo… Entra, disse, ti darò riparo dalla tempesta”.

 
******
 
         Arriviamo in un posto dove non c’è proprio niente.
         È il parcheggio di un parco.
         L’orizzonte ha le curve delle aiuole a riposo, che in realtà sono dorsi spelacchiati, di giorno, dalle partite di pallone dei ragazzini, dall’urina dei cani portati a passeggio alla mattina presto, dai giochi dei bambini di cui s’intravedono, in lontananza, le installazioni fisse: scivoli e altalene, castelli di corda e legno, scale curve da cui, una volta arrivati in cima, lasciarsi penzolare.
         Anch’io ho trascorso lunghi pomeriggi, da piccolo, nel giardinetto pubblico vicino a casa mia: correndo a perdifiato sulle stesse dune spoglie per poi arrampicarmi sulle scale metalliche, ricurve come dorsi di animali preistorici. Se le pigliavi a calci, risuonavano come remote casse armoniche. Si iniziava a salire e poi, a metà percorso, la sfida era lasciarsi dondolare di sotto, le gambe attorcigliate come pipistrelli sognanti.
         Il parco in realtà ha due facce, come l’uomo al mio fianco.
         Una è quella del giorno, pulita e rispettabile. È la faccia di chi ha un seggiolino per bambini sul sedile posteriore, che solo adesso noto: anche se non è montato come un piccolo trono al posto d’onore ma gettato in disparte, sotto una copertina che ha il disegno vivace di un cartone animato, un pupazzo di neve che ride e ha una carota al posto del naso.
         L’altra faccia del parco si svela di notte.
         Vengono qua in molti: rifiuti ovunque, un tappeto, simili ai palloncini di una festa andata a male. Il freddo che ho dentro, rimane. O forse, un poco aumenta.
         Tutt’intorno al parcheggio, simili a un plotone di guardia sull’attenti, si allungano i cipressi: sento il loro profumo avvolgermi in una culla di legno e di ombra. Il piccolo boschetto fa quello che all’uomo non passa neppure per l’anticamera del cervello: levando una lieve brezza, mi prende tra le braccia dei suoi molteplici odori, forti e tonificanti.
         Dalla parte di lui, mi arrivano due banconote piegate con discrezione.
         Il mio imbarazzo è tale che mi sfuggono di mano, è come se bruciassero: volano chissà dove, e per cercarle devo piegarmi sotto al sedile, sui tappetini che odorano di plastica nuova, e che solo ora mi accorgo di avere completamente infangato con le mie scarpe.
         Lo sguardo dell’uomo mi segue, continua a non dire niente.
         Come dicevano le parole di quella canzone? “Prova a immaginare un posto dove si è sempre al sicuro e al caldo… Entra, disse, ti darò riparo dalla tempesta”.
         Mi afferra per i capelli.          
         Non dura molto. Era amore, quello che ho gettato fuori dallo sportello, così viscido e subito freddo - e l’ho gettato nel posto giusto, o in quello sbagliato? E’ forse andato a finire in fondo al mio cuore? Chissà se l’estraneo al mio fianco percepisce qualcosa della mia solitudine, così simile alla sua. Quando tutto finisce, provo un improvviso senso di smarrimento. Farei qualsiasi cosa pur di non lasciarlo andare. Così, mi rivolgo all’uomo dalla bella auto elegante.
         Gli domando se quello che io gli ho appena fatto, lui vuole farlo a me.
         L’uomo è quasi offeso. Guarda davanti a sé, ha già cambiato faccia. Riavvia l’auto e lo fa per riportarmi indietro, per ricacciarmi là, sotto alla pensilina, da solo e nel gelo.
         Ripeto la mia domanda, forse sto supplicando. In maniera maldestra, la butto sullo scherzo: sarebbe divertente. Lui risponde tagliente che non gli interessa, che ha altro da fare. Deve tornare a casa, all’improvviso ha fretta. Sono disposto a restituirgli i soldi purché resti con me, pur di sentirmi addosso quelle mani curate. Le mani di chiunque, in realtà, basterebbero. Ma stanotte, chiunque è lui: e sono le sue mani quelle che io desidero, per sentirmi protetto.
         - «Tienimi qui con te. Fuori fa molto freddo» - Non so neppure io cosa intendo per qui, se in questo parco di notte o in chissà quale altro fantastico altrove. Il mio sguardo sfiora appena quello di lui nello specchietto dell’auto: nei miei occhi c’è timidezza ma anche sincerità, e lui non può non credermi.

 
******
        
         Eppure, mi guarda con distacco.
         Non è sprezzante, nei miei confronti non si permette neanche il disprezzo. E’ semplicemente gelido, più del tempo là fuori. Greve, come la pioggia che per lunghi minuti è tra noi l’unica voce.
         Seduti, la ascoltiamo, ognuno pensando a sé. Io in realtà penso a lui. Attendo una risposta, sono disposto ad attendere, e soprattutto a insistere, fino alla fine del mondo.
         Finalmente mi parla:
         - «Cosa sei, una specie di senzatetto? Pensavo che per te fosse solo un lavoro» -
         - «Io non lavoro . Sono uno studente» - Lui mi rivolge appena un’occhiata, di sottecchi.
         Mi scruta attentamente, forse per la prima volta. Ha un attimo di sconcerto, poco più breve di un battito delle sue belle ciglia, quando nota che sono minuto e ho proprio l’aria del ragazzino scappato di casa. Il suo viso impenetrabile s’irrigidisce ancora di più:
         - «Sei mica minorenne?» -
         - «No, signore. Questo glielo assicuro» - mi sovrasta, e io mi ritraggo per non farmi scrutare in quella maniera che mi mette così a disagio.
         - «Che ci facevi là? E perché sei salito?» -
         Adesso è spaventato, e per questo esibisce quel tono da poliziotto.           
         - «Ero stanco, signore. Avevo molto freddo. Soprattutto, mi sentivo… mi sento molto solo» -
         L’uomo mi guarda appena. Solleva appena le sopracciglia, è il suo modo per dirmi che è contrariato, ma all’angolo dei suoi occhi inizia ad affiorare qualcosa di più tenero, qualcosa di cui neppure lui è consapevole. Forse è solo incertezza.
         Fuori ha smesso di piovere. Nitida e ripulita, l’aria diventa argento.
         “Ho offerto la mia innocenza e sono stato ripagato con lo scherno”, diceva quella canzone. Però diceva anche: “entra,  ti darò riparo dalla tempesta”.
         Senza guardarmi, l’uomo fruga nella penombra dell’abitacolo, sul sedile posteriore dov’è quel seggiolino nascosto sotto alla coperta da bambini. Afferra la coperta, quella col pupazzetto da cartone animato, me la porge un po’ brusco:
         - «Fa molto freddo, è vero. E tu sei bagnato fradicio. Prendi questa, per ora» - 
         È morbido, quel panno, mi avvolge col suo tepore ed emana un sottile profumo di lavanda.
         L’essenza si confonde con quella della terra che proviene da fuori, con l’odore di gemme che germogliano nel cuore nascosto dei cipressi, con le stelle che stanno spuntando proprio adesso, nel cielo dopo la pioggia.
         Poco distante da noi, un cespuglio di rovi fila una bava di brezza.
         Dal finestrino dell’auto, di cui ho dimenticato uno spiraglio aperto malgrado il gelo tagliente, entra quella folata e libera un profumo che riconosco subito, ancor prima di scorgere la rosa appena dischiusa che dondola tra le spine, solitaria e incredibile, assolutamente fuori stagione.
         L’alberello di pannolenci si avvita su se stesso: non è da lì che si sprigiona quella fragranza che ora riempie la notte, e viene dalla terra confortata dalla pioggia, da un groviglio di sterpi a cui nessuno ha dedicato delle attenzioni, dagli arbusti che tendono ad aggrapparsi alle maniche dei passanti, come a domandare attenzioni. 
         Dimentico di tutto, ignorando persino il tempo più adatto per fiorire senza danni, il rovo sboccia senza pensare a nient’altro che a creare bellezza: non chiede nulla in cambio, né incanto né gratitudine, neppure di esser notato nella desolazione in cui è costretto a vivere.
         Si limita a sbocciare con tutto se stesso, e in questo è il suo orgoglio.
         D’un tratto mi ricordo l’ultimo significato che mia madre ricollegava a quel fiore: la rosa bianca, diceva, significa candore, ma indica soprattutto un cuore che non conosce l’amore.
         È vero per me, adesso, e forse anche per l’uomo dalla bella auto lucida che adesso è seduto un po’ più rilassato, accanto a questo strano passeggero che sa di cane randagio e si stringe nella coperta di suo figlio.
         L’uomo riaccende il sottofondo della radio, gira per le stazioni, non trova nulla e spegne.
         Riavvia il motore, l’auto scivola lentamente dal cancello del parco, s’immette sulla strada.
         Non chiedo dove mi porta.
         Cosa diceva, ancora, quella bella canzone? “Improvvisamente, mi voltai ed era lì… Venne verso di me con grande grazia, e mi tolse la corona di spine: entra, disse, ti darò riparo dalla tempesta”.
         Accanto a me ora lui mi sfiora con lo sguardo, poi riprende a guardare solamente la strada.
 
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