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Autore: misstaken    29/01/2018    1 recensioni
ATTENZIONE: AGGIUNTO PROLOGO, NOTE, MODIFICATO PRIMO CAPITOLO
Attraversando le barriere spazio temporali che delimitano la nostra realtà, si giunge in un altro universo, parallelo e contrario al nostro: l’uno si fonda sulla vita e sull’ordine, l’altro sull’anti-vita e sul caos. Le due dimensioni non dovrebbero mai entrare in contatto, e per questo esistono dei guardiani, gli Inbetweeners, che stanno a metà tra i due mondi, preservandone l'equilibrio.
Alice è una solare aspirante ballerina, mentre Max è schiva, taciturna, ma soprattutto dotata di poteri paranormali. Le due sono una il contrario dell’altra, e allo stesso tempo sono complementari. Quando a Newberry cominceranno a verificarsi strani eventi, si renderanno presto conto che l’unione delle loro forze è l’unica speranza di salvezza per il loro mondo. Tra creature malvagie assetate di sangue, portali che si affacciano su altre dimensioni, eroi e traditori, Max ed Alice si renderanno conto che bene e male, luce e buio, ordine e caos non sono poi così distinti.
Questa è la prima storia che rendo pubblica. Mi farebbe piacere avere qualche feedback, anche suggerimenti e critiche, siccome sto scrivendo tutto molto di getto! Grazie a chi spenderà qualche minuto per leggermi!
Genere: Fantasy, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Traduzione | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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CAPITOLO III

Superpoteri

Alice


Alice stava cercando di non pensare a nulla. Con gli auricolari nelle orecchie, tentava di seguire i testi delle canzoni; per fortuna, il mal di testa era leggermente diminuito. Era l’unica passeggera sull’autobus: intanto, fuori aveva iniziato a piovere. Inevitabilmente, tuttavia, il suo pensiero corse a Max. Max Caulfield, Caulfield. Quel cognome le ricordava sicuramente qualcosa. Decise di provare a sforzarsi e ricordare. C’era una Caulfield, nella sua classe. All’improvviso, un ricordo le affiorò alla mente: sua madre camminava velocemente, diretta agli spogliatoi, lei, Ben e Alex al seguito, nel corridoio dell’ospedale, mentre un infermiere la aggiornava velocemente sui fatti. “… Heather Caulfield, 33 anni, ferita da un’arma da fuoco alla testa…”. 
Ma certo! Max Caulfield. Sua madre si era suicidata quando aveva solo nove anni. Avevano chiamato fuori orario la madre di Alice, Jane, neurochirurgo di fama internazionale, perché il proiettile aveva attraversato la tempia, ma Heather era ancora viva, e stavano tentando disperatamente di salvarla. Lei, Alex e Ben erano troppo piccoli per restare a casa da soli, per cui capitava che la loro madre li trascinasse fuori dal letto quando veniva chiamata per un’emergenza, non sapendo a chi altro lasciarli. Così, quella notte l’avevano seguita in ospedale, e, quando lei era svanita in tutta fretta in sala operatoria, loro si erano diretti, come da prassi, nel suo ufficio. Alice aveva visto Max in sala d’attesa, sconvolta e sporca di sangue, mentre degli infermieri si occupavano di lei, e le cercavano dei vestiti puliti. Così, aveva pensato di andare a consolarla, e le aveva preparato dei biscotti con il Dolceforno che tenevano in ospedale, insieme ad altri giochi, per intrattenere i bambini quando era necessario. Dopo, l’aveva invitata a giocare, e, come se per un momento a Max fosse concesso di allontanarsi dalla realtà, risero e si divertirono fino a crollare addormentate sul tappeto dell’ufficio. Finché, verso l’alba, dopo quasi quattro ore, il cuore di Heather Caulfield si era fermato, e la madre di Alice era venuta a svegliare Max per comunicarglielo. 
Era stata la bambina a chiamare i soccorsi: svegliata nella notte da un colpo di pistola, aveva trovato la madre in un lago di sangue, e aveva anche tentato di fermare l’emorragia. Da che si ricordasse Alice, Max era sempre stata una persona introversa, tant’è che non ricordava di aver mai avuto contatti con lei prima di quella sera. Ma, dopo quell’episodio, si distaccò ancora di più dalla realtà, chiudendosi in se stessa. 
Il padre di Alice era stato processato giusto poche settimane prima. Fu a causa di quella tragedia che nessuno spettegolò mai granché sulla vicenda. Erano tutti troppo occupati a riempire la piccola Max di ipocrite attenzioni, e di questo, Alice in un certo senso era grata. Non avrebbe mai voluto essere al suo posto, compatita da tutti, ma mai realmente aiutata.
Per qualche mese, Max era finita in un collegio, finché non fu deciso che ad occuparsi di lei dovesse essere sua zia, Chelsea Caulfield. Ma, quando tornò a scuola, fu inserita in una classe diversa, e inevitabilmente si persero di vista.
Aveva ragione Alex: Max era cambiata un sacco dalle elementari, ed ora era la fotocopia vivente di sua madre. Heather era bellissima, molto più della sorella, ma non aveva per niente la sua affabilità. Chelsea gestiva una piccola caffetteria, ed era molto benvoluta da chiunque la conoscesse: gentile, sorridente e a modo. Heather era schiva, altera, e dall’aria perennemente malinconica; tratti che, probabilmente, aveva trasmesso alla figlia. L’unica fonte di felicità, nella sua vita, sembrava essere proprio Max, ma evidentemente non era bastata. Alice pensò a quanto male dovesse sentirsi Max per questo, e si sentì in colpa per non essersi ricordata subito di lei. Decise che, appena l’avesse rivista, le avrebbe detto che si era ricordata di lei, e si sarebbe scusata molto per non averlo fatto prima. Alice sapeva cosa volessero dire la sofferenza, la solitudine e la sensazione di impotenza che si provavano di fronte a mali che non potevano essere contrastati: sapeva che le persone come Max avevano bisogno di un amico più di quanto desiderassero ammettere, e più di quanto lasciassero trasparire.
Scese al capolinea, percorse di corsa il viale, e finalmente entrò in casa. Liberandosi della giacca, delle scarpe e dei pantaloni fradici, si cambiò, e scese per la cena, trovando la madre e i suoi fratelli già seduti al tavolo. 
Durante il pasto, mentre tagliava la bistecca, si rivolse a sua madre, dicendo semplicemente: “Ho rivisto Max Caulfield”. Lo sguardo di sua madre, a differenza sua, si illuminò subito, in segno di comprensione. “Max? E come sta?”. Alice la aggiornò su quel poco che era successo tra lei e Max, sorvolando sulla parte della visione. “Quindi quella era Max Caulfield” disse Alex. “Aspetta, quindi era per parlare con lei che sei uscita così di corsa?”. “Non lo definirei parlare”, precisò Alice. Sua madre soppesò un pezzo di pane, pensierosa. “Maxime è sempre stata una persona schiva- esattamente come sua madre. Mi ricordo di loro, Heather lavorava nella caffetteria di sua sorella. Non credo di averla mai vista sorridere. Se Max era già chiusa di carattere, è normale che lo sia ancora di più dopo quello che le è successo. Magari potresti invitarla qui”. Prima che Alice potesse rispondere, Ben sbuffò. “A quanto pare non tutti diventano capitano delle cheerleader, al liceo, quando capita loro una disgrazia”. Guardò la sorella con disprezzo. “Lascia perdere Caulfield, nana. È visibilmente troppo intelligente per voler passare del tempo con una come te”. Sulla tavola scese il gelo. Alice continuava a fissare Ben, impassibile, mentre lo sguardo di Alex oscillava a turno tra i fratelli e la madre. Con calma, Jane posò coltello e forchetta, lo sguardo immobile sul figlio primogenito. “E questo che cosa vorrebbe dire, Ben?” chiese con pacatezza. “Dico solo che se uno subisce uno shock, è normale che non se ne riprenda. Questo, ovviamente, se lo shock è reale”.  Ben continuava a fissare il piatto, ma le mani gli tremavano. “Conosci qualcuno che mente su qualcosa che gli è capitato?”. Jane non distolse lo sguardo del figlio. “Sai, io mi ricordo quando la madre di Max ci ha lasciato le cuoia. Me lo ricordo perché ci hai trascinati giù dal letto, per seguirti, come sempre. Perché abbiamo attraversato la sala d’emergenza con te, dove spesso c’era gente maciullata, e tutto il resto”. “Non sei mai stato messo di fronte a spettacoli del genere, Ben. E poi, non potevate restare a casa da soli”. “Già, e sappiamo tutti di chi è la colpa, se in casa non c’era nessuno che potesse stare con noi”. Ben sbatté coltello e forchetta sul tavolo. “Lo sappiamo tutti di chi è la colpa, se da un certo momento, papà non era più con noi per portarci a fare le gite. Se la gente mi guarda strano, come se potessi impazzire da un momento all’altro”. “La colpa, Benjamin, è di tuo padre”. Jane gli rivolse uno sguardo triste, e sconsolato. Ben si alzò, attraversò la stanza e portò il viso a pochi centimetri da quello della madre. “Papà non ha mai fatto niente. Se questa non fosse nata” e gesticolò verso Alice “papà sarebbe ancora qui con noi, e lo sai benissimo”. Senza una parola di più, uscì dalla sala da pranzo, e poco dopo si sentì sbattere la porta di ingresso, seguita dal rumore delle ruote che scricchiolavano sul terreno.
Prima che qualcuno potesse dirle qualcosa, Alice spinse in là il piatto, ancora mezzo pieno, e salì in camera sua. Chiuse a chiave la porta, si spogliò, e si mise nel letto. Strinse forte gli occhi, cercando di non piangere. Non ne valeva la pena.
Cercò di pensare alla giornata trascorsa, ripassando mentalmente le sequenze che avevano provato con le altre cheerleader. Infine, il suo pensiero tornò inevitabilmente a Max. Ripercorse più volte tutto ciò che si erano dette, analizzando le sue espressioni, cercando di carpire qualcosa che le potesse essere sfuggito. Si chiese se anche Max, la sera, non riuscisse a dormire per i sensi di colpa. Se pensasse che sua madre era morta a causa sua. Si addormentò, scivolando in un sogno inquieto e popolato da incubi.

 

Max


Max aveva un amico. Era il suo vicino di casa, si chiamava Richie, e aveva tredici anni. L’aveva conosciuto perché Zia Chelsea a volte gli faceva da babysitter, e, una volta cresciuta, Max aveva iniziato ad aiutarlo con i compiti. In caffetteria c’erano delle console per i videogiochi, per intrattenere gli ospiti, e spesso i due si mettevano a giocare per ore. Da lì, Richie aveva iniziato a confidarsi con lei, parlandole dei bulli a scuola e dei suoi problemi, e lei cercava di aiutarlo. 
Max riteneva Richie un ragazzino intelligente, e si tenevano compagnia a vicenda. Ovviamente, il fatto che lei fosse più grande destava un po’ di stupore negli estranei, ma lei non se ne preoccupava. Richie, però, non sapeva quasi nulla di lei, e, come tutti gli altri, ignorava i poteri di Max.
Quel pomeriggio, Max era a casa di Richie a giocare a Mortal Kombat. Ormai doveva impegnarsi per non farsi battere. Nel bel mezzo di una fatality, rientrò la sorellastra di Richie, Jocelyn, che, agli occhi di Max, era l’antipatia fatta a persona. 
“Hey, sfigato. Hey, pedofila” li salutò entrando. Entrambi la ignorarono. Joss era alta, bella, tatuata e piena di piercing. A scuola, si era resa colpevole di diversi atti di bullismo, piuttosto gravi, e, in genere, si divertiva a trattare male chiunque avesse la sfortuna di entrare nel suo campo visivo, oltre che a fare impazzire la madre. Una volta, Max aveva dovuto frapporsi tra lei e il fratello, evitando che lo picchiasse selvaggiamente, per averle involontariamente macchiato la maglietta con la cioccolata.
“Hey Rich. Perché non le scatti una bella foto, così avrai qualcosa da guardare la sera al posto dei cartoni?”. Max vide con la coda dell’occhio Richie diventare color ciclamino. “Hey, Joss”, disse, senza staccare gli occhi dallo schermo. “Non hai delle cose da fare?”. “Ora che me lo ricordi, Maxime, devo vedere il mio ragazzo. Sai, è alto, bello, senza brufoli- ohh, l’ho detto che è maggiorenne?”. Max posò il joystick e si voltò verso di lei, scoccandole uno sguardo di fuoco. “Oh, sei molto divertente”, disse pacatamente. “Non voglio mica farti ridere. Rischi l’arresto, Maxxie!”. E, simulando il gesto di venire ammanettata, scomparve in camera sua. “Mi spiace per quello che ha detto, non so perché…” farfugliò Richie. “Non preoccuparti”. Senza una parola di più, Max si diresse alla porta, e aprendola si ritrovò davanti un ragazzo alto, muscoloso, con i capelli neri e gli occhi di un azzurro penetrante. Le rivolse un sorriso beffardo, squadrandola dalla testa ai piedi. “Hey, non credo di conoscerti…” disse, strizzandole l’occhio. “Hai ragione”, disse Max, “Infatti non mi conosci”. Fece per oltrepassarlo, ma lui la trattenne per la vita. “Magari, però, mi piacerebbe farlo…” disse, con un tono basso e profondo. “BEN!” squittì Jocelyn, e il ragazzo lasciò immediatamente andare Max, mentre lei gli saltava al collo. “Oh, non considerarla, è solo la fidanzatina inquietante di mio fratello” aggiunse, lanciando a Max uno sguardo sprezzante. Lo prese per la mano, trascinandolo verso la camera, e ciarlando di abiti da indossare. Seguendola, Ben scoccò un’ultima, lunga occhiata ammiccante a Max, prima di scomparire oltre la soglia. “Max, davvero, m-mi…”. “Richie” Max interruppe il ragazzino. “E’ solo Joss, okay? So com’è. Non hai bisogno di giustificarla”. Richie annuì, paonazzo. “Ci vediamo, eh?” disse Max, prima di voltarsi e scomparire ad ampie falcate. Uscendo, prese nota di tirare un calcio a quel ragazzo che si era permesso di afferrarla.
Il sole era già tramontato. Decise di fare una sorpresa alla zia, facendole trovare cena pronta. Avrebbe dovuto prendere solamente della carne al minimarket lì vicino. Camminando a rapidi passi, Max imboccò un vicolo stretto e buio, per fare più in fretta. All’improvviso, le luci della strada parvero farsi più distanti, come se il vicolo si fosse allungato, e Max avvertì la spiacevole sensazione di essere osservata. Si voltò, ma non vide nessuno. Cercando di calmarsi, prese un bel respiro e proseguì, poi, senza poter resistere, si voltò di nuovo. Ancora nessuno. Ma, quando fece per riprendere a camminare, all’imboccatura del vicolo, qualcuno –o qualcosa- stava in piedi, in una posizione leggermente incurvata, e con le braccia e le gambe divaricate. Il respiro di Max accelerò, mentre, immobile, fissava la figura. All’improvviso, quella cominciò a correre, in un modo bizzarro e barcollante, verso di lei. I piedi di Max si mossero prima che potesse pensare. Iniziò a correre anche lei verso l’ingresso del vicolo, che, però, pareva allontanarsi sempre di più. I passi della creatura sembravano farsi più vicini, e Max avrebbe voluto gridare, ma sentiva la gola secca, le corde vocali paralizzate. Qualcosa di viscido le toccò una mano, e lei la ritrasse repentinamente, senza fermarsi. Le gambe non la reggevano più, e i polmoni sembravano sul punto di esploderle, quando finalmente raggiunse la strada principale. Fece una giravolta su se stessa, tendendo la mano destra, pronta a respingere l’aggressore. Ma dietro di lei non c’era nessuno. Ansimando, Max scrutò il vicolo, cercando di percepire il più minimo movimento. Niente.
Massaggiandosi il petto, si piegò su se stessa. Le gambe le stavano andando a fuoco. Se l’era solo immaginato? Si guardò il dorso della mano sinistra, leggermente sporco di una sostanza grigia e melmosa. Voltò le spalle al vicolo e corse in casa, senza guardarsi indietro.



 

Alice


Alice non incontrò Max fino al mercoledì pomeriggio, quando la rivide seduta allo stesso posto, nell’aula di inglese. Lasciò che Alex si sistemasse più indietro, e scivolò nel poso accanto al suo. “Hey”. Max, che stava guardando fuori dalla finestra, si voltò sorpresa, con i suoi soliti occhi sgranati, come se il solo fatto che qualcuno le si rivolgesse la lasciasse stupefatta. Non parve felice di vederla, però. Alice le sorrise comunque. “Mi sono ricordata. Tu sei Max Caulfield, la nipote di Chelsea. Mi spiace non essermene resa conto prima, ma sei davvero cambiata un sacco…” Alice si incupì appena. “Mi ricordo anche di quella notte in ospedale”. Max le rivolse uno sguardo inespressivo. “Bene”, disse soltanto. “Immagino che non sia un bel ricordo per te, ma è stata l’unica volta che ci siamo parlate…”. “Sì, lo so. Non c’è bisogno di essere troppo sensibili a riguardo. E comunque, al di là di quello che è successo quella notte, quello è un bel ricordo, per me”. Max parlò guardandola dritto negli occhi, senza esitazione. “Beh, sono contenta che la pensi così”, disse Alice, sorridendole ancora. All’improvviso, notò che Max sedeva inclinata dalla parte opposta alla sua, come se cercasse di starle il più lontana possibile. Prima che potesse chiederle qualunque cosa, il professor Van Basten entrò, ed iniziò la lezione.
Al suono della campana, Max si alzò, e scavalcò il banco per uscire, senza dire una parola. Ancora una volta, Alice la inseguì fuori dall’aula. “Max-MAX!”. Max si fermò, sospirando profondamente, e si voltò con aria scocciata. “Che cosa c’è, adesso?”. “Mi chiedevo soltanto se ti andasse di uscire. Io e mio fratello andiamo al cinema, stasera, e…”. “No”, tagliò corto Max. Alice la guardò, interdetta. “Senti, Max, lo so che ci siamo perse di vista, e sicuramente non ti sembra la cosa più naturale del mondo, ma io vorrei che potessimo…”. “Beh, io no”. Max la interruppe di nuovo. “Cosa?” farfugliò Alice. “Qualunque cosa tu voglia da me, Dawson” disse Max, scandendo bene le parole “io non ricambio”. “Ma” Alice era sbalordita. “Max, io voglio solo essere tua amica!”. “E io no. Io non voglio essere amica tua, Alice, né di tuo fratello, se è per questo”. A questo punto, Alice si sentì veramente offesa. “Oh, andiamo” sbottò. “Non c’è bisogno di fare la difficile. Lo so che sei sola, e immagino che tu sia introversa e che non sia facile per te fidarti di qualcuno. Però, io non voglio farti alcun male, Max. Tutti abbiamo bisogno di un amico”. Max inarcò le sopracciglia. “Guarda che hai frainteso. Tu non mi fai paura. Semplicemente, non mi interessi”. “Lo dici senza nemmeno aver provato a passare del tempo con me. Se nemmeno mi conosci!”. “Già” rispose Max, pacata. “E non voglio conoscerti. Ti sarei grata se mi lasciassi in pace”. 
A quel punto, Alice esitò. “Perché fai così? Respingi tutti, anche quando si sforzano di avvicinarti”. “Perché non voglio che nessuno mi si avvicini. Senti, Biancaneve, non so se vuoi fare l’eroina, o la principessa dal cuore buono che mi salva dalla miseria più nera, ma sul serio, non mi interessa. Se vuoi qualcuno con cui passare il tempo, puoi chiedere alle tue compagne di squadra, così potrete andare in giro a sputare odio su chiunque passi”.
Quelle parole colpirono Alice come uno schiaffo. “Puoi ripetere, scusa? Perché non mi sembra di essere stata nient’altro che gentile, nei tuoi confronti, finora”. Max sbuffò. “Senti, ti ho detto che non mi interessa. Perché continui a perdere tempo con me?”. “Sai cosa? Non lo so”. Alice si voltò e si allontanò a grandi passi, furiosa. Che diavolo le era preso? Un conto era essere strani, un altro era essere maleducati. Forse Maxime Caulfield non era introversa, né complessata: forse, nonostante la disgrazia che le era capitata, era solo una stronza. A metà strada, Alice si rese conto che stava andando dalla parte sbagliata: doveva raggiungere il teatro, si era iscritta alle attività del gruppo.
Non fu neanche sorpresa, una volta varcata la soglia, di trovarsi davanti Max in persona. Incrociò il suo sguardo, poi le passò davanti, e si sedette. Non ascoltò una parola di quello che disse l’insegnante. Pensava solo a Max e a come apostrofarla per le rime. Finito il discorso, la signora Baxter divise il gruppo in coppie. Immancabilmente, decise per l’accoppiata Caulfield-Dawson. Alice e Max si diressero sul palco insieme alle altre coppie, posizionandosi più indietro, e furono raggiunte immediatamente dalla Baxter, che diede loro un copione e delle direttive per esercitarsi. “Maxime, tu sarai Elizabeth, una giovane nobile costretta in un matrimonio combinato. Tu, Alice, farai la parte di William, il giovane soldato che è il vero e unico amore di Elizabeth stessa. Questa” e indicò una parte del copione “è la scena che vorrei che preparaste per la volta prossima. Buon lavoro!”. Appena si fu allontanata, Max incrociò le braccia, fissandola. “Senti, mi stai seguendo?” disse, secca. Alice incrociò le braccia a sua volta. “Fidati, in questo momento preferirei essere il Will di qualunque altra Elizabeth”. Max non riuscì a trattenere un sorriso. “Vorrei farla io, la parte del soldato figo”. “Che peccato”, disse Alice, sarcastica. Max parlò ancora, ma la sua voce si dissolse in lontananza, come se qualcuno avesse abbassato il volume. La sentì vagamente chiamare il suo nome. All’improvviso, un riflettore si staccò dal soffitto, colpendo Max in pieno. Schizzò sangue ovunque. D’istinto, Alice balzò in avanti, spingendola, pur sapendo che era troppo tardi. 
Cadde sul pavimento, sopra Max. “SI PUO’ SAPERE CHE DIAMINE TI PRENDE?”, sbottò Max, senza fiato. Alice batté le palpebre e si guardò intorno. Giacevano entrambe a terra, e Max, ancora una volta, era tutto meno che sanguinante. Sembrava arrabbiata, però. Le guardarono tutti, ma distolsero lo sguardo in fretta, pensando probabilmente che quel gesto facesse parte della scena. “Ma… il riflettore… ti aveva colpita…” farfugliò Alice, confusa. “Forse dovresti lasciare perdere il cheerleading e unirti direttamente alla squadra di football”, disse Max. “Con questi placcaggi, saresti un ottimo difensore. Ora, però, se mi lasci alzare…”. Alice rotolò di fianco, si rimise in piedi, e tese una mano per aiutare Max. In quel momento, qualcosa scricchiolò: un attimo dopo, un riflettore si schiantò a terra, nell’esatto punto in cui si trovava Max, prima che Alice la spingesse. Qualcuno urlò, e Alice si voltò verso Maxime, che fissava il riflettore con tanto d’occhi. Poi, spostò lo sguardo su di lei, incredula, e Alice seppe che stavano pensando la stessa cosa.
Dopo che ebbero sistemato tutto, Max trasse Alice da parte. “Ti era mai capitato, prima d’ora?”. “Che cosa mi sarebbe dovuto capitare?”. “Beh, di vedere il futuro, naturalmente”. Ad Alice cascò la mascella. Rise, a disagio, ma Max sembrava terribilmente seria. “Fai sul serio?” le chiese, incerta. Max inarcò le sopracciglia. “Lascia stare”. Fece per voltarsi, ma Alice la trattenne. “Aspetta”. Lei si voltò, lentamente, squadrandola. “Stanno succedendo cose strane. E credo che tu ne sappia qualcosa”. Max la guardò, inespressiva. “E che ne dovrei sapere, io, di cose strane?”. “L’hai sentito anche tu, quello che è successo quando ci siamo strette la mano, il primo giorno. Lo so”. “Non so di cosa tu stia parlando” Max si liberò con calma dalla presa di Alice. “Cerca di non cadere dalla piramide umana agli allenamenti, Biancaneve”. E con questo, Max se ne andò.
A quanto pareva, Max aveva più di un superpotere: sapeva metterla a disagio, confonderla, e farla arrabbiare come nessuno. Scuotendo la testa, Alice se ne andò.
Giunta nel parcheggio, si mise a correre. Raggiunse il fratello appena prima che entrasse in macchina. “Alex, è successa una cosa”. Lo mise al corrente dell’accaduto. “Quindi hai capito?”, disse, con fare concitato. “Ho visto che cosa sarebbe successo prima che succedesse”. Si rese conto che Alex la guardava con occhi quasi compassionevoli. “Che cosa c’è?”, chiese, scocciata. “Oh, sorellina”, le disse, “mi piacerebbe pensare che tu sia un supereroe, ma temo che sia accaduto tutto nella tua testa”. “Non è accaduto tutto- Come avrei fatto a spingere via Max, allora?” sbottò Alice. “In situazioni di forte stress, il nostro corpo agisce prima del pensiero. Hai dei buoni riflessi, tutto qui”. “Non sai di cosa stai parlando. Sono passati secondi interi da quando l’ho spinta a quando il riflettore è caduto”. Alex la guardò, preoccupato. “Hey sis, sei sicura che il riflettore non abbia colpito te? Neanche di striscio?”. Alice gli pestò un piede. “Vai a farti fottere”. Si allontanò ad ampie falcate. In quel momento, l’unica con cui avrebbe voluto parlare era Max, ma Max sembrava essersi smaterializzata. Si promise che l’avrebbe trovata, e si sarebbe fatta spiegare tutto, prima o poi.


 

Max


A casa, Max si fece una lunga doccia. Si sentiva in colpa per aver trattato male Alice, doveva averla davvero ferita. Eppure, sembrava così gentile. Talmente gentile, che le faceva montare una rabbia indescrivibile. Comunque, maltrattarla era necessario, per far sì che si allontanasse. Erano già costrette a incrociarsi fin troppo, tra le lezioni e il teatro e chissà che altro. Però, quel giorno Alice l’aveva toccata di nuovo, eppure i suoi poteri non avevano reagito. D’altro canto, Alice stessa aveva dimostrato di possedere un dono. Aveva sicuramente previsto la caduta del riflettore. Ma allora, perché fingere di non saperne nulla? 
Forse, rifletté Max, anche lei voleva restare in incognito. Oppure, forse, davvero non ne sapeva niente, e quella era stata la prima volta che le capitava una cosa del genere. Era molto improbabile: da che aveva coscienza, Max aveva sempre saputo ciò che era in grado di fare. Oppure, magari era stata solo una coincidenza, e Alice non aveva nessun potere. 
Max era confusa, e il suo desiderio di saperne di più contrastava con la risoluzione di starle lontana. Rischiava di esporsi troppo, e di mettersi in pericolo.
L’unica cosa che sapeva era che Alice aveva ragione: stavano succedendo un sacco di cose strane, da quando si erano incontrate. Chissà che anche quell’incontro nel vicolo non fosse collegato a tutto ciò.
L’immagine di quella figura deforme le si era impressa nella retina, e la perseguitava: Max aveva costantemente paura di trovarsela di fronte, non appena svoltato l’angolo.
La inquietava il pensiero di non sapere che fine avesse fatto. Eventi paranormali, mostri, che altro ancora doveva capitarle in questa vita? In quel momento, Max non poteva sapere che quelle non erano altro che briciole di quello che avrebbe dovuto affrontare in seguito.
Si sedette sul letto, in pigiama, osservando dalla finestra la strada illuminata dai lampioni. Max Caulfield non aveva mai desiderato più intensamente di essere normale.

 

   
 
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