CAPITOLO
III
Superpoteri
Alice
Alice stava cercando di non pensare a nulla.
Con gli auricolari nelle orecchie, tentava di seguire i testi delle
canzoni;
per fortuna, il mal di testa era leggermente diminuito. Era l’unica
passeggera
sull’autobus: intanto, fuori aveva iniziato a piovere. Inevitabilmente,
tuttavia,
il suo pensiero corse a Max. Max Caulfield, Caulfield.
Quel cognome
le ricordava sicuramente qualcosa. Decise di provare a sforzarsi e
ricordare.
C’era una Caulfield, nella sua classe. All’improvviso, un ricordo le
affiorò
alla mente: sua madre camminava velocemente, diretta agli spogliatoi,
lei, Ben
e Alex al seguito, nel corridoio dell’ospedale, mentre un infermiere la
aggiornava velocemente sui fatti. “… Heather Caulfield, 33 anni, ferita
da
un’arma da fuoco alla testa…”.
Ma certo! Max Caulfield. Sua madre si era suicidata quando aveva solo
nove
anni. Avevano chiamato fuori orario la madre di Alice, Jane,
neurochirurgo di
fama internazionale, perché il proiettile aveva attraversato la tempia,
ma
Heather era ancora viva, e stavano tentando disperatamente di salvarla.
Lei,
Alex e Ben erano troppo piccoli per restare a casa da soli, per cui
capitava
che la loro madre li trascinasse fuori dal letto quando veniva chiamata
per
un’emergenza, non sapendo a chi altro lasciarli. Così, quella notte
l’avevano
seguita in ospedale, e, quando lei era svanita in tutta fretta in sala
operatoria, loro si erano diretti, come da prassi, nel suo ufficio.
Alice aveva
visto Max in sala d’attesa, sconvolta e sporca di sangue, mentre degli
infermieri si occupavano di lei, e le cercavano dei vestiti puliti.
Così, aveva
pensato di andare a consolarla, e le aveva preparato dei biscotti con
il
Dolceforno che tenevano in ospedale, insieme ad altri giochi, per
intrattenere
i bambini quando era necessario. Dopo, l’aveva invitata a giocare, e,
come se
per un momento a Max fosse concesso di allontanarsi dalla realtà,
risero e si
divertirono fino a crollare addormentate sul tappeto dell’ufficio.
Finché,
verso l’alba, dopo quasi quattro ore, il cuore di Heather Caulfield si
era
fermato, e la madre di Alice era venuta a svegliare Max per
comunicarglielo.
Era stata la bambina a chiamare i soccorsi: svegliata nella notte da un
colpo
di pistola, aveva trovato la madre in un lago di sangue, e aveva anche
tentato
di fermare l’emorragia. Da che si ricordasse Alice, Max era sempre
stata una
persona introversa, tant’è che non ricordava di aver mai avuto contatti
con lei
prima di quella sera. Ma, dopo quell’episodio, si distaccò ancora di
più dalla
realtà, chiudendosi in se stessa.
Il padre di Alice era stato processato giusto poche settimane prima. Fu
a causa
di quella tragedia che nessuno spettegolò mai granché sulla vicenda.
Erano
tutti troppo occupati a riempire la piccola Max di ipocrite attenzioni,
e di
questo, Alice in un certo senso era grata. Non avrebbe mai voluto
essere al suo
posto, compatita da tutti, ma mai realmente aiutata.
Per qualche mese, Max era finita in un collegio, finché non fu deciso
che ad
occuparsi di lei dovesse essere sua zia, Chelsea Caulfield. Ma, quando
tornò a
scuola, fu inserita in una classe diversa, e inevitabilmente si persero
di
vista.
Aveva ragione Alex: Max era cambiata un sacco dalle elementari, ed ora
era la
fotocopia vivente di sua madre. Heather era bellissima, molto più della
sorella, ma non aveva per niente la sua affabilità. Chelsea gestiva una
piccola
caffetteria, ed era molto benvoluta da chiunque la conoscesse: gentile,
sorridente e a modo. Heather era schiva, altera, e dall’aria
perennemente
malinconica; tratti che, probabilmente, aveva trasmesso alla figlia.
L’unica
fonte di felicità, nella sua vita, sembrava essere proprio Max, ma
evidentemente non era bastata. Alice pensò a quanto male dovesse
sentirsi Max
per questo, e si sentì in colpa per non essersi ricordata subito di
lei. Decise
che, appena l’avesse rivista, le avrebbe detto che si era ricordata di
lei, e
si sarebbe scusata molto per non averlo fatto prima. Alice sapeva cosa
volessero dire la sofferenza, la solitudine e la sensazione di
impotenza che si
provavano di fronte a mali che non potevano essere contrastati: sapeva
che le
persone come Max avevano bisogno di un amico più di quanto
desiderassero
ammettere, e più di quanto lasciassero trasparire.
Scese al capolinea, percorse di corsa il viale, e finalmente entrò in
casa.
Liberandosi della giacca, delle scarpe e dei pantaloni fradici, si
cambiò, e
scese per la cena, trovando la madre e i suoi fratelli già seduti al
tavolo.
Durante il pasto, mentre tagliava la bistecca, si rivolse a sua madre,
dicendo
semplicemente: “Ho rivisto Max Caulfield”. Lo sguardo di sua madre, a
differenza sua, si illuminò subito, in segno di comprensione. “Max? E
come
sta?”. Alice la aggiornò su quel poco che era successo tra lei e Max,
sorvolando sulla parte della visione. “Quindi quella era Max Caulfield”
disse Alex.
“Aspetta, quindi era per parlare con lei che sei uscita così di
corsa?”. “Non
lo definirei parlare”, precisò Alice. Sua madre soppesò un pezzo di
pane,
pensierosa. “Maxime è sempre stata una persona schiva- esattamente come
sua
madre. Mi ricordo di loro, Heather lavorava nella caffetteria di sua
sorella.
Non credo di averla mai vista sorridere. Se Max era già chiusa di
carattere, è
normale che lo sia ancora di più dopo quello che le è successo. Magari
potresti
invitarla qui”. Prima che Alice potesse rispondere, Ben sbuffò. “A
quanto pare
non tutti diventano capitano delle cheerleader, al liceo, quando capita
loro
una disgrazia”. Guardò la sorella con disprezzo. “Lascia perdere
Caulfield,
nana. È visibilmente troppo intelligente per voler passare del tempo
con una
come te”. Sulla tavola scese il gelo. Alice continuava a fissare Ben,
impassibile, mentre lo sguardo di Alex oscillava a turno tra i fratelli
e la
madre. Con calma, Jane posò coltello e forchetta, lo sguardo immobile
sul
figlio primogenito. “E questo che cosa vorrebbe dire, Ben?” chiese con
pacatezza. “Dico solo che se uno subisce uno shock, è normale che non
se ne
riprenda. Questo, ovviamente, se lo shock è reale”.
Ben
continuava a fissare il piatto, ma le mani gli tremavano. “Conosci
qualcuno che
mente su qualcosa che gli è capitato?”. Jane non distolse lo sguardo
del
figlio. “Sai, io mi ricordo quando la madre di Max ci ha lasciato le
cuoia. Me
lo ricordo perché ci hai trascinati giù dal letto, per seguirti, come
sempre.
Perché abbiamo attraversato la sala d’emergenza con te, dove spesso
c’era gente
maciullata, e tutto il resto”. “Non sei mai stato messo di fronte a
spettacoli
del genere, Ben. E poi, non potevate restare a casa da soli”. “Già, e
sappiamo
tutti di chi è la colpa, se in casa non c’era nessuno che potesse stare
con
noi”. Ben sbatté coltello e forchetta sul tavolo. “Lo sappiamo tutti di
chi è
la colpa, se da un certo momento, papà non era più con noi per portarci
a fare
le gite. Se la gente mi guarda strano, come se potessi impazzire da un
momento
all’altro”. “La colpa, Benjamin, è di tuo padre”. Jane gli rivolse uno
sguardo
triste, e sconsolato. Ben si alzò, attraversò la stanza e portò il viso
a pochi
centimetri da quello della madre. “Papà non ha mai fatto niente. Se
questa non
fosse nata” e gesticolò verso Alice “papà sarebbe ancora qui con noi, e
lo sai
benissimo”. Senza una parola di più, uscì dalla sala da pranzo, e poco
dopo si
sentì sbattere la porta di ingresso, seguita dal rumore delle ruote che
scricchiolavano sul terreno.
Prima che qualcuno potesse dirle qualcosa, Alice spinse in là il
piatto, ancora
mezzo pieno, e salì in camera sua. Chiuse a chiave la porta, si
spogliò, e si
mise nel letto. Strinse forte gli occhi, cercando di non piangere. Non
ne
valeva la pena.
Cercò di pensare alla giornata trascorsa, ripassando mentalmente le
sequenze
che avevano provato con le altre cheerleader. Infine, il suo pensiero
tornò
inevitabilmente a Max. Ripercorse più volte tutto ciò che si erano
dette,
analizzando le sue espressioni, cercando di carpire qualcosa che le
potesse
essere sfuggito. Si chiese se anche Max, la sera, non riuscisse a
dormire per i
sensi di colpa. Se pensasse che sua madre era morta a causa sua. Si
addormentò,
scivolando in un sogno inquieto e popolato da incubi.
Max
Max aveva un amico. Era il suo vicino di
casa, si chiamava Richie, e aveva tredici anni. L’aveva conosciuto
perché Zia
Chelsea a volte gli faceva da babysitter, e, una volta cresciuta, Max
aveva
iniziato ad aiutarlo con i compiti. In caffetteria c’erano delle
console per i
videogiochi, per intrattenere gli ospiti, e spesso i due si mettevano a
giocare
per ore. Da lì, Richie aveva iniziato a confidarsi con lei, parlandole
dei
bulli a scuola e dei suoi problemi, e lei cercava di aiutarlo.
Max riteneva Richie un ragazzino intelligente, e si tenevano compagnia
a
vicenda. Ovviamente, il fatto che lei fosse più grande destava un po’
di
stupore negli estranei, ma lei non se ne preoccupava. Richie, però, non
sapeva
quasi nulla di lei, e, come tutti gli altri, ignorava i poteri di Max.
Quel pomeriggio, Max era a casa di Richie a giocare a Mortal Kombat.
Ormai
doveva impegnarsi per non farsi battere. Nel bel mezzo di una fatality,
rientrò
la sorellastra di Richie, Jocelyn, che, agli occhi di Max, era
l’antipatia fatta
a persona.
“Hey, sfigato. Hey, pedofila” li salutò entrando. Entrambi la
ignorarono. Joss
era alta, bella, tatuata e piena di piercing. A scuola, si era resa
colpevole
di diversi atti di bullismo, piuttosto gravi, e, in genere, si
divertiva a
trattare male chiunque avesse la sfortuna di entrare nel suo campo
visivo,
oltre che a fare impazzire la madre. Una volta, Max aveva dovuto
frapporsi tra
lei e il fratello, evitando che lo picchiasse selvaggiamente,
per averle
involontariamente macchiato la maglietta con la cioccolata.
“Hey Rich. Perché non le scatti una bella foto, così avrai qualcosa da
guardare
la sera al posto dei cartoni?”. Max vide con la coda dell’occhio Richie
diventare color ciclamino. “Hey, Joss”, disse, senza staccare gli occhi
dallo
schermo. “Non hai delle cose da fare?”. “Ora che me lo ricordi, Maxime,
devo
vedere il mio ragazzo. Sai, è alto, bello, senza brufoli- ohh, l’ho
detto che
è maggiorenne?”. Max posò il joystick e si
voltò verso di lei,
scoccandole uno sguardo di fuoco. “Oh, sei molto divertente”, disse
pacatamente. “Non voglio mica farti ridere. Rischi l’arresto, Maxxie!”.
E,
simulando il gesto di venire ammanettata, scomparve in camera sua. “Mi
spiace
per quello che ha detto, non so perché…” farfugliò Richie. “Non
preoccuparti”.
Senza una parola di più, Max si diresse alla porta, e aprendola si
ritrovò
davanti un ragazzo alto, muscoloso, con i capelli neri e gli occhi di
un
azzurro penetrante. Le rivolse un sorriso beffardo, squadrandola dalla
testa ai
piedi. “Hey, non credo di conoscerti…” disse, strizzandole l’occhio.
“Hai
ragione”, disse Max, “Infatti non mi conosci”. Fece per oltrepassarlo,
ma lui
la trattenne per la vita. “Magari, però, mi piacerebbe farlo…” disse,
con un
tono basso e profondo. “BEN!” squittì Jocelyn, e il ragazzo lasciò
immediatamente andare Max, mentre lei gli saltava al collo. “Oh, non
considerarla, è solo la fidanzatina inquietante di mio fratello”
aggiunse,
lanciando a Max uno sguardo sprezzante. Lo prese per la mano,
trascinandolo
verso la camera, e ciarlando di abiti da indossare. Seguendola, Ben
scoccò
un’ultima, lunga occhiata ammiccante a Max, prima di scomparire oltre
la
soglia. “Max, davvero, m-mi…”. “Richie” Max interruppe il ragazzino.
“E’ solo
Joss, okay? So com’è. Non hai bisogno di giustificarla”. Richie annuì,
paonazzo. “Ci vediamo, eh?” disse Max, prima di voltarsi e scomparire
ad ampie
falcate. Uscendo, prese nota di tirare un calcio a quel ragazzo che si
era
permesso di afferrarla.
Il sole era già tramontato. Decise di fare una sorpresa alla zia,
facendole
trovare cena pronta. Avrebbe dovuto prendere solamente della carne al
minimarket lì vicino. Camminando a rapidi passi, Max imboccò un vicolo
stretto
e buio, per fare più in fretta. All’improvviso, le luci della strada
parvero
farsi più distanti, come se il vicolo si fosse allungato, e Max avvertì
la
spiacevole sensazione di essere osservata. Si voltò, ma non vide
nessuno.
Cercando di calmarsi, prese un bel respiro e proseguì, poi, senza poter
resistere, si voltò di nuovo. Ancora nessuno. Ma, quando fece per
riprendere a
camminare, all’imboccatura del vicolo, qualcuno –o qualcosa- stava in
piedi, in
una posizione leggermente incurvata, e con le braccia e le gambe
divaricate. Il
respiro di Max accelerò, mentre, immobile, fissava la figura.
All’improvviso,
quella cominciò a correre, in un modo bizzarro e barcollante, verso di
lei. I
piedi di Max si mossero prima che potesse pensare. Iniziò a correre
anche lei
verso l’ingresso del vicolo, che, però, pareva allontanarsi sempre di
più. I
passi della creatura sembravano farsi più vicini, e Max avrebbe voluto
gridare,
ma sentiva la gola secca, le corde vocali paralizzate. Qualcosa di
viscido le
toccò una mano, e lei la ritrasse repentinamente, senza fermarsi. Le
gambe non
la reggevano più, e i polmoni sembravano sul punto di esploderle,
quando
finalmente raggiunse la strada principale. Fece una giravolta su se
stessa,
tendendo la mano destra, pronta a respingere l’aggressore. Ma dietro di
lei non
c’era nessuno. Ansimando, Max scrutò il vicolo, cercando di percepire
il più
minimo movimento. Niente.
Massaggiandosi il petto, si piegò su se stessa. Le gambe le stavano
andando a
fuoco. Se l’era solo immaginato? Si guardò il dorso della mano
sinistra,
leggermente sporco di una sostanza grigia e melmosa. Voltò le spalle al
vicolo
e corse in casa, senza guardarsi indietro.
Alice
Alice non incontrò Max fino al mercoledì
pomeriggio, quando la rivide seduta allo stesso posto, nell’aula di
inglese.
Lasciò che Alex si sistemasse più indietro, e scivolò nel poso accanto
al suo.
“Hey”. Max, che stava guardando fuori dalla finestra, si voltò
sorpresa, con i
suoi soliti occhi sgranati, come se il solo fatto che qualcuno le si
rivolgesse
la lasciasse stupefatta. Non parve felice di vederla, però. Alice le
sorrise comunque.
“Mi sono ricordata. Tu sei Max Caulfield, la nipote di Chelsea. Mi
spiace non
essermene resa conto prima, ma sei davvero cambiata un sacco…” Alice si
incupì
appena. “Mi ricordo anche di quella notte in ospedale”. Max le rivolse
uno
sguardo inespressivo. “Bene”, disse soltanto. “Immagino che non sia un
bel
ricordo per te, ma è stata l’unica volta che ci siamo parlate…”. “Sì,
lo so.
Non c’è bisogno di essere troppo sensibili a riguardo. E comunque, al
di là di
quello che è successo quella notte, quello è un bel ricordo, per me”.
Max parlò
guardandola dritto negli occhi, senza esitazione. “Beh, sono contenta
che la
pensi così”, disse Alice, sorridendole ancora. All’improvviso, notò che
Max
sedeva inclinata dalla parte opposta alla sua, come se cercasse di
starle il
più lontana possibile. Prima che potesse chiederle qualunque cosa, il
professor
Van Basten entrò, ed iniziò la lezione.
Al suono della campana, Max si alzò, e scavalcò il banco per uscire,
senza dire
una parola. Ancora una volta, Alice la inseguì fuori dall’aula.
“Max-MAX!”. Max
si fermò, sospirando profondamente, e si voltò con aria scocciata. “Che
cosa c’è, adesso?”. “Mi chiedevo soltanto
se ti andasse di uscire.
Io e mio fratello andiamo al cinema, stasera, e…”. “No”, tagliò corto
Max.
Alice la guardò, interdetta. “Senti, Max, lo so che ci siamo perse di
vista, e
sicuramente non ti sembra la cosa più naturale del mondo, ma io vorrei
che
potessimo…”. “Beh, io no”. Max la interruppe di nuovo. “Cosa?”
farfugliò Alice.
“Qualunque cosa tu voglia da me, Dawson” disse Max, scandendo bene le
parole
“io non ricambio”. “Ma” Alice era sbalordita. “Max, io voglio solo
essere tua
amica!”. “E io no. Io non voglio essere amica tua, Alice, né di tuo
fratello,
se è per questo”. A questo punto, Alice si sentì veramente offesa. “Oh,
andiamo” sbottò. “Non c’è bisogno di fare la difficile. Lo so che sei
sola, e
immagino che tu sia introversa e che non sia facile per te fidarti di
qualcuno.
Però, io non voglio farti alcun male, Max. Tutti abbiamo bisogno di un
amico”.
Max inarcò le sopracciglia. “Guarda che hai frainteso. Tu non mi fai
paura.
Semplicemente, non mi interessi”. “Lo dici senza nemmeno aver provato a
passare
del tempo con me. Se nemmeno mi conosci!”. “Già” rispose Max, pacata.
“E non
voglio conoscerti. Ti sarei grata se mi lasciassi in pace”.
A quel punto, Alice esitò. “Perché fai così? Respingi tutti, anche
quando si
sforzano di avvicinarti”. “Perché non voglio che nessuno mi si
avvicini. Senti,
Biancaneve, non so se vuoi fare l’eroina, o la principessa dal cuore
buono che
mi salva dalla miseria più nera, ma sul serio, non mi interessa. Se
vuoi
qualcuno con cui passare il tempo, puoi chiedere alle tue compagne di
squadra,
così potrete andare in giro a sputare odio su chiunque passi”.
Quelle parole colpirono Alice come uno schiaffo. “Puoi ripetere, scusa?
Perché
non mi sembra di essere stata nient’altro che gentile, nei tuoi
confronti,
finora”. Max sbuffò. “Senti, ti ho detto che non mi interessa. Perché
continui
a perdere tempo con me?”. “Sai cosa? Non lo so”. Alice si voltò e si
allontanò
a grandi passi, furiosa. Che diavolo le era preso? Un conto era essere
strani,
un altro era essere maleducati. Forse Maxime Caulfield non era
introversa, né
complessata: forse, nonostante la disgrazia che le era capitata, era
solo una
stronza. A metà strada, Alice si rese conto che stava andando dalla
parte
sbagliata: doveva raggiungere il teatro, si era iscritta alle attività
del
gruppo.
Non fu neanche sorpresa, una volta varcata la soglia, di trovarsi
davanti Max
in persona. Incrociò il suo sguardo, poi le passò davanti, e si
sedette. Non
ascoltò una parola di quello che disse l’insegnante. Pensava solo a Max
e a
come apostrofarla per le rime. Finito il discorso, la signora Baxter
divise il
gruppo in coppie. Immancabilmente, decise per l’accoppiata
Caulfield-Dawson.
Alice e Max si diressero sul palco insieme alle altre coppie,
posizionandosi
più indietro, e furono raggiunte immediatamente dalla Baxter, che diede
loro un
copione e delle direttive per esercitarsi. “Maxime, tu sarai Elizabeth,
una
giovane nobile costretta in un matrimonio combinato. Tu, Alice, farai
la parte
di William, il giovane soldato che è il vero e unico amore di Elizabeth
stessa.
Questa” e indicò una parte del copione “è la scena che vorrei che
preparaste
per la volta prossima. Buon lavoro!”. Appena si fu allontanata, Max
incrociò le
braccia, fissandola. “Senti, mi stai seguendo?” disse, secca. Alice
incrociò le
braccia a sua volta. “Fidati, in questo momento preferirei essere il
Will di
qualunque altra Elizabeth”. Max non riuscì a trattenere un sorriso.
“Vorrei
farla io, la parte del soldato figo”. “Che peccato”, disse
Alice, sarcastica. Max parlò ancora, ma la sua voce si
dissolse in
lontananza, come se qualcuno avesse abbassato il volume. La sentì
vagamente
chiamare il suo nome. All’improvviso, un riflettore si staccò dal
soffitto,
colpendo Max in pieno. Schizzò sangue ovunque. D’istinto, Alice balzò
in
avanti, spingendola, pur sapendo che era troppo tardi.
Cadde sul pavimento, sopra Max. “SI PUO’ SAPERE CHE DIAMINE TI
PRENDE?”, sbottò
Max, senza fiato. Alice batté le palpebre e si guardò intorno.
Giacevano
entrambe a terra, e Max, ancora una volta, era tutto meno che
sanguinante.
Sembrava arrabbiata, però. Le guardarono tutti, ma distolsero lo
sguardo in
fretta, pensando probabilmente che quel gesto facesse parte della
scena. “Ma…
il riflettore… ti aveva colpita…” farfugliò Alice, confusa. “Forse
dovresti
lasciare perdere il cheerleading e unirti direttamente alla squadra di
football”, disse Max. “Con questi placcaggi, saresti un ottimo
difensore. Ora,
però, se mi lasci alzare…”. Alice rotolò di fianco, si rimise in piedi,
e tese
una mano per aiutare Max. In quel momento, qualcosa scricchiolò: un
attimo
dopo, un riflettore si schiantò a terra, nell’esatto punto in cui si
trovava
Max, prima che Alice la spingesse. Qualcuno urlò, e Alice si voltò
verso
Maxime, che fissava il riflettore con tanto d’occhi. Poi, spostò lo
sguardo su
di lei, incredula, e Alice seppe che stavano pensando la stessa cosa.
Dopo che ebbero sistemato tutto, Max trasse Alice da parte. “Ti era mai
capitato, prima d’ora?”. “Che cosa mi sarebbe dovuto capitare?”. “Beh,
di
vedere il futuro, naturalmente”. Ad Alice cascò la mascella. Rise, a
disagio,
ma Max sembrava terribilmente seria. “Fai sul serio?” le chiese,
incerta. Max
inarcò le sopracciglia. “Lascia stare”. Fece per voltarsi, ma Alice la
trattenne. “Aspetta”. Lei si voltò, lentamente, squadrandola. “Stanno
succedendo cose strane. E credo che tu ne sappia qualcosa”. Max la
guardò, inespressiva.
“E che ne dovrei sapere, io, di cose strane?”. “L’hai sentito anche tu,
quello
che è successo quando ci siamo strette la mano, il primo giorno. Lo
so”. “Non
so di cosa tu stia parlando” Max si liberò con calma dalla presa di
Alice.
“Cerca di non cadere dalla piramide umana agli allenamenti,
Biancaneve”. E con
questo, Max se ne andò.
A quanto pareva, Max aveva più di un superpotere: sapeva metterla a
disagio,
confonderla, e farla arrabbiare come nessuno. Scuotendo la testa, Alice
se ne
andò.
Giunta nel parcheggio, si mise a correre. Raggiunse il fratello appena
prima
che entrasse in macchina. “Alex, è successa una cosa”. Lo mise al
corrente
dell’accaduto. “Quindi hai capito?”, disse, con fare concitato. “Ho
visto che
cosa sarebbe successo prima che succedesse”. Si rese conto che Alex la
guardava
con occhi quasi compassionevoli. “Che cosa c’è?”,
chiese,
scocciata. “Oh, sorellina”, le disse, “mi piacerebbe pensare che tu sia
un
supereroe, ma temo che sia accaduto tutto nella tua testa”. “Non è
accaduto
tutto- Come avrei fatto a spingere via Max, allora?” sbottò Alice. “In
situazioni di forte stress, il nostro corpo agisce prima del pensiero.
Hai dei
buoni riflessi, tutto qui”. “Non sai di cosa stai parlando. Sono
passati
secondi interi da quando l’ho spinta a quando il riflettore è caduto”.
Alex la
guardò, preoccupato. “Hey sis, sei sicura che il riflettore non abbia
colpito
te? Neanche di striscio?”. Alice gli pestò un piede. “Vai a farti
fottere”. Si
allontanò ad ampie falcate. In quel momento, l’unica con cui avrebbe
voluto
parlare era Max, ma Max sembrava essersi smaterializzata. Si promise
che
l’avrebbe trovata, e si sarebbe fatta spiegare tutto, prima o poi.
Max
A casa, Max si fece una lunga doccia. Si
sentiva in colpa per aver trattato male Alice, doveva averla davvero
ferita.
Eppure, sembrava così gentile. Talmente gentile, che le faceva montare
una
rabbia indescrivibile. Comunque, maltrattarla era necessario, per far
sì che si
allontanasse. Erano già costrette a incrociarsi fin troppo, tra le
lezioni e il
teatro e chissà che altro. Però, quel giorno Alice l’aveva toccata di
nuovo,
eppure i suoi poteri non avevano reagito. D’altro canto, Alice stessa
aveva
dimostrato di possedere un dono. Aveva sicuramente previsto la caduta
del
riflettore. Ma allora, perché fingere di non saperne nulla?
Forse, rifletté Max, anche lei voleva restare in incognito. Oppure,
forse,
davvero non ne sapeva niente, e quella era stata la prima volta che le
capitava
una cosa del genere. Era molto improbabile: da che aveva coscienza, Max
aveva
sempre saputo ciò che era in grado di fare. Oppure, magari era stata
solo una
coincidenza, e Alice non aveva nessun potere.
Max era confusa, e il suo desiderio di saperne di più contrastava con
la
risoluzione di starle lontana. Rischiava di esporsi troppo, e di
mettersi in
pericolo.
L’unica cosa che sapeva era che Alice aveva ragione: stavano succedendo
un
sacco di cose strane, da quando si erano incontrate. Chissà che anche
quell’incontro nel vicolo non fosse collegato a tutto ciò.
L’immagine di quella figura deforme le si era impressa nella retina, e
la
perseguitava: Max aveva costantemente paura di trovarsela di fronte,
non appena
svoltato l’angolo.
La inquietava il pensiero di non sapere che fine avesse fatto. Eventi
paranormali, mostri, che altro ancora doveva capitarle in questa vita?
In quel
momento, Max non poteva sapere che quelle non erano altro che briciole
di
quello che avrebbe dovuto affrontare in seguito.
Si sedette sul letto, in pigiama, osservando dalla finestra la strada
illuminata dai lampioni. Max Caulfield non aveva mai desiderato più
intensamente di essere normale.