Capitolo
2 – Il sorriso delle donne
Era
atterrato a Parigi ormai da qualche giorno e la città
lo aveva accolto con un timido sole che aveva fatto capolino fra le
nubi
spesse. Non era la prima volta che si trovava lì: aveva
persino girato alcune
scene di un episodio della quinta stagione di Castle lungo la Senna. Ma
naturalmente quando si è in un posto per lavoro non si ha il
tempo per
andarsene in giro a fare turismo. All’inizio si era sentito
quasi spaesato:
quel luogo era davvero molto diverso dalle città americane.
Però adesso la
Ville Lumière cominciava a piacergli: finora si era limitato
a gironzolare
senza una meta precisa, semplicemente immergendosi nel dedalo dei
tortuosi
vicoli che non seguivano lo schema geometrico tipico di molte metropoli
statunitensi. Non sapevi cosa potevi trovare dietro ogni curva: un
negozio di
antiquariato, un bistrot con i tavoli di legno all’aperto, a
cui i francesi
stavano seduti a bere un café creme
o
a gustare un croissant o un croc monsieur, un palazzo con una lapide
che ricordava che proprio lì aveva vissuto qualche scrittore
o intellettuale
fondamentale per la storia nazionale o addirittura europea. Nomi che,
doveva
riconoscerlo, a lui non dicevano un bel niente. Certo, ogni tanto
doveva ricorrere
al navigatore sul cellulare per capire dove fosse e come ritornare in
hotel,
però l’atmosfera che respirava lo aveva
conquistato e gli aveva restituito un
po’ della gioia di vivere che non provava più da
mesi. Probabilmente era merito
anche delle prelibatezze che mangiava ogni sera nel piccolo ristorante
vicino
all’albergo in cui alloggiava. Anche nella scelta della
sistemazione aveva
deciso di seguire lo stile di quella persona innominabile. Non aveva
rinunciato
a viaggiare in business perché il volo da Los Angeles a
Parigi durava dodici
ore e con la sua stazza non sarebbe riuscito a sopravvivere in economy,
senza
nemmeno poter allungare le gambe. Insomma, ATP va bene, ma
c’è un limite a
tutto! Però aveva scovato un piccolo hotel nel Quartiere
Latino, poche camere
arredate con gusto e traboccanti di vero fascino parigino. Oltre a
questo,
l’alloggio offriva un petit
déjeuner
delizioso: baguettes appena
sfornate,
ancora calde e croccanti, marmellata di fragole fatta in casa, e quei
deliziosi
formaggi… ah sì, i francesi sapevano come godersi
la vita.
La
cosa che più lo aveva impensierito e rattristato erano
i numerosi soldati con giubbotto antiproiettile e armati di
mitragliatrice,
posizionati nelle vicinanze degli obiettivi considerati strategici per
gli
attacchi terroristici: davanti alla cattedrale di Notre Dame, lungo gli
Champs
Elysées, sotto la Tour Eiffel. Anche nel suo paese
d’origine, dopo i fatti
dell’11 settembre, il livello di allerta era cresciuto e di
conseguenza la
presenza delle forze dell’ordine, così come dei
controlli, era aumentata. Ma
vedere la culla della civiltà francese praticamente sotto
assedio lo fece
riflettere amaramente su dove sarebbe andato a finire il mondo.
Dopo
il lungo girovagare, decise che era arrivato il
momento di migliorare la sua cultura: avrebbe iniziato dal Museo
d’Orsay. Non
sembrava imponente come il Louvre, le cui dimensioni lo intimidivano un
po’,
anche se l’idea del mistero della Maddalena lo attirava forse
più della
Gioconda o della Nike di Samotracia (ah, sia lode a Dan Brown!) e
quindi sapeva
che prima o poi lo avrebbe dovuto visitare. E poi la suddetta
innominabile era
un’appassionata di impressionisti e quindi si disse che
valeva la pena capire
perché le piacessero tanto. Aveva visto qualcosa al MoMA, il
museo di arte
moderna a New York, ma era stata una visita frettolosa e non ricordava
molto.
Entrò
nell’ex stazione ferroviaria, creata per
l’Esposizione Universale del 1900 là dove in
precedenza sorgevano una caserma
di cavalleria e il vecchio Palazzo d’Orsay,
acquistò il biglietto, si munì
persino di audioguida e si accinse a iniziare la sua visita.
Passeggiando nelle
varie sale, ascoltò diligentemente le informazioni che gli
venivano fornite
nell’auricolare. Innumerevoli capolavori sfilarono davanti ai
suoi occhi: opere
di Manet, Monet, Cézanne, Renoir, Degas… insomma,
il gotha delle correnti
impressioniste e post-impressioniste. Quell’esplosione di
colori, di storie, di
tecniche pittoriche gli bombardò la mente e piano piano si
fece strada fino al
suo cuore. Giunto nell’area che ospitava i quadri di Van Gogh
si sedette su un
divanetto, provvidenzialmente messo a disposizione per i visitatori
affaticati,
e si tolse l’auricolare.
Era
esausto. A pensarci bene, questa sensazione era il fil
rouge delle sue giornate parigine:
arrivava alla sera con i piedi doloranti per il lungo camminare e le
gambe
stanche. Ma, per quanto paradossale, era una stanchezza corroborante,
che gli
faceva bene all’anima.
Si
accomodò meglio e prese un respiro profondo. Non
ricordava nemmeno più da quanto tempo si trovava in quel
museo. Il dipinto
appeso alla parete davanti a lui catturò la sua attenzione.
Era “la chiesa di
Auvers”. Si mise a osservare i tratti delle pennellate, la
scelta dei colori,
le linee che delimitavano la struttura dell’edificio
rappresentato, che si
stagliava contro il cielo… e nuovamente perse la cognizione
del tempo e dello
spazio. Il suo cervello registrò appena la presenza di qualcuno che si era seduto
accanto a lui.
“E’
affascinante, vero?” sentì dire in inglese dal suo
vicino di panca e quasi sussultò, visto che era
completamente immerso
nell’universo fantastico del pittore.
“Sì…
adesso capisco tante cose” commentò
sovrappensiero,
immaginando l’effetto che la visione di quell’opera
avrebbe avuto
sull’innominabile.
“Io
ci vengo spesso e ogni volta mi stupisce. Ho
ereditato questa passione da mia madre: lei adorava andare nei
musei” aggiunse
l’altro visitatore.
“Davvero?”
gli chiese Nathan, con genuino interesse.
Quello sconosciuto aveva un’aria intrigante e parlava inglese
perfettamente.
Doveva essere americano della East Coast e questa deduzione gli fece
rilasciare
un sospiro di sollievo. Gli serviva un po’ di pausa dallo
sforzo continuo di
esprimersi in francese. Essendo canadese, lo aveva studiato molto bene
a
scuola, ma era un po’ arrugginito perché ormai non
lo usava quasi più. Sapeva
però che l’innominabile avrebbe fatto di tutto per
adattarsi alla cultura del
paese che la ospitava e si sentì in dovere di utilizzare il
più possibile
quell’idioma.
“Quando
era di buon umore, oppure quando si sentiva
triste, quando voleva riflettere prima di una decisione importante o
quando le
succedeva qualcosa di brutto, lei mi portava in un museo. Ho visitato
tutti i
musei di New York: dal Guggenheim
al
MoMa, dal Metropolitan al Museum of Modern History. Mamma aveva un
sorriso
bellissimo” continuò lo sconosciuto, con un velo
di commozione a bagnargli gli
occhi. Nel sentire quella frase, i neuroni di Nathan gli inviarono
l’immagine
di un altro sorriso di cui era stato destinatario qualche volta, anche
a
prescindere dalle scene che avrebbero dovuto girare. Quando erano Stana
e
Nathan e non Kate e Rick. Dio, quanto gli mancava quel sorriso! Nel
frattempo,
l’altro interlocutore si schiarì la gola e disse:
“Oh, mi scusi. Non so perché
le sto raccontando queste cose. Non mi sono nemmeno presentato: sono
Robert
Shermann” e gli porse una mano con fare cordiale.
Nathan
gliela strinse con un sorriso sincero e gli
rispose: “Non si preoccupi. Piacere mio:
sono…”
“Oh,
lo so chi è lei. Sono a Parigi da qualche anno
perché ero venuto per un semestre a insegnare letteratura
inglese alla Sorbona,
un seminario su Shakespeare per la precisione, e poi mi sono innamorato
di una
francese, bisbetica ma adorabile. Anche lei è meravigliosa
quando sorride.
Insomma, sono rimasto qui in pianta stabile. Ma a New York guardavo
sempre la
sua serie in tv. Mia moglie invece non ama la televisione. Ho anche
provato a
farle vedere qualche episodio, ma preferisce leggere. Se non ricordo
male,
l’anno scorso c’è stata
l’ultima stagione, giusto?”
“Ehm…
sì” rispose Fillion. E non seppe
cos’altro
aggiungere. Brutta sensazione.
“Sa
che mio padre ha qualcosa in comune con il suo
personaggio?” disse Shermann.
“E’
uno scrittore?” si informò l’attore.
“Sì,
ma lui scrive libri per bambini. E mia moglie pensa
alle illustrazioni. E’ grazie a lei che ho scoperto che mio
padre non era mio
padre. Intendo che mio padre non era quello americano, ma è
francese. Oddio, mi
scusi, la sto tediando di nuovo con la mia storia personale, mentre lei
era qui
che si godeva Van Gogh”. L’uomo si alzò
e fece per congedarsi, però Nathan lo
richiamò: “Signor Shermann? Le andrebbe un
caffè?”
Robert
si voltò e gli sorrise: “Solo se mi chiama
Robert”
“Allora
io sono Nathan” rispose di rimando. “Ti ho
invitato a prendere un caffè ma non ho idea di dove sia un
buon locale” ammise
sorridendo.
“Se
hai finito con la visita, ce n’è uno non lontano
da
qui” gli propose il professore con un cenno della testa,
scuotendo in quel modo
i capelli ricci disordinati.
“Sì,
direi che per oggi basta. Non sono un grande amante
dei musei, anche se devo ammettere che esercitano davvero un grande
fascino”
dichiarò sinceramente.
“Posso
chiederti allora perché sei stato dieci minuti a
fissare Van Gogh?” si informò Robert.
“E’
una lunga storia…” glissò Nathan. Il
suo nuovo amico
gli sembrava un tipo simpatico, ma non era ancora pronto a raccontargli
i fatti
suoi.
L’esperto
di Shakespeare lo guardò e annuì.
“Andiamo, il
caffè ci aspetta. Hanno anche un’ottima tarte
tatin” aggiunse, conquistandosi così la
stima imperitura del suo nuovo
amico.
La
prima tappa del soggiorno parigino di Stana era stata
dai suoi adorati impressionisti: appena toccato il suolo francese, si
era
precipitata al museo d’Orsay e aveva trascorso praticamente
un’intera giornata
a bearsi del “petit
déjeuner sur l’erbe”
di Manet, delle donne tahitiane di Gauguin, dei papaveri di Monet,
delle
ballerine di Degas, senza dimenticare i dipinti di quel genio di Van
Gogh. Nei
giorni successivi aveva fatto lunghe passeggiate attraverso
l’intrico dei
vicoli o costeggiando la Senna. A volte si cammina per andare da
qualche parte,
a volte si cammina e basta e lei proprio quello stava facendo: le
piaceva
girovagare senza meta, lasciandosi stupire dai segreti che la capitale
le
svelava piano piano. Una sera, infine, si era ritrovata davanti a un
piccolo
cinema chiamato Cinéma Paradis,
che
proiettava esclusivamente film francesi. Non era distante
dall’albergo in cui
alloggiava, e in cui ogni mattina – tempo permettendo
– faceva colazione
all’aperto sotto l’ippocastano. E ogni sera aveva
preso l’abitudine di
assistere alla proiezione accomodandosi sulle vecchie poltroncine di
velluto,
che chissà quante storie di vita avevano visto passare.
Presentandosi
per la terza sera consecutiva, la signora
della cassa la salutò con un sorriso sereno e sincero e,
anche se chiaramente
aveva riconosciuto l’attrice famosa, non le disse niente
né la disturbò per
chiederle un autografo. Stana gliene fu intimamente grata.
Quella
mattina, invece, camminando lungo rue de Dragon, a
pochi metri dalle chiese di Saint-Germain-de-Prés e
Saint-Sulpice, la sua
attenzione venne catturata dall’insegna di una cartoleria. Il
cartello infatti
diceva: Luna Luna – i biglietti dei
desideri di Rosalie. Si avvicinò alla vetrina e
rimase affascinata dalle
decorazioni delle cartoline, dei fermacarte, delle scatole
portaoggetti, delle
matite rivestite, dei taccuini e di tutti gli altri ammennicoli
esposti. I
disegni erano delicati e pieni di colori, seppure con una prevalenza
dei
diversi toni di azzurro. Non poté fare a meno di entrare.
La
campanella della porta annunciò il suo arrivo e un
cane addormentato in una cesta accanto all’ingresso
mugolò appena, a
manifestare il suo dissenso per essere stato svegliato dal suo
sacrosanto
riposo mattutino.
Il
negozio era piccolo ma grazioso. I vari oggetti in
vendita erano disposti con gran gusto e, osservandoli da vicino,
sembravano
decorati a mano.
La
ragazza al bancone la salutò cordialmente e Stana
trasalì e corrugò la fronte. Aveva due occhi
azzurri identici a quelli di
qualcuno che l’aveva fatta soffrire. Molto. Un qualcuno a cui
non pensava da
tanto tempo e che era convinta di aver relegato in un cassetto lontano
della
sua memoria, sepolto da tanti altri ricordi più importanti.
Ma evidentemente
non era così.
“Mi
scusi, non la volevo spaventare” disse Rosalie
Laurent, la proprietaria del negozio, che aveva percepito il disagio
della
cliente ma non riusciva a comprenderne il motivo. Tentò di
sistemarsi la lunga
treccia castana disordinata che le scendeva su un lato e le rivolse un
sorriso
incoraggiante.
“Oh,
sono desolata” disse Stana, scuotendo la testa per
scacciare anche fisicamente dalla memoria il volto che incorniciava
quei due
fari cobalto che lei conosceva bene.
“Nessun
problema. Posso aiutarla? Cercava qualcosa in
particolare?” le domandò Rosalie.
“Mmm…
lei può realizzare i desideri?” le chiese
sorridendo.
“No,
ma forse posso aiutarla a esprimerli” le rispose madame Laurent con sincerità.
“Attraverso le mie illustrazioni” aggiunse, a
mo’ di spiegazione. Poi la
osservò meglio: era un volto che aveva già visto,
ma non riusciva a capire
dove, né in quali circostanze. Parlava un ottimo francese,
ma aveva un accento
simile a quello di suo marito…. Sì, doveva essere
americana. Era una donna
bellissima, eppure i suoi occhi rivelavano una profonda malinconia. Il
suo
sguardo limpido celava indubbiamente una sofferenza.
“Oh,
sono opera sua?” le chiese l’attrice, con sincera
ammirazione.
Rosalie
annuì, poi le si avvicinò e disse, abbassando il
tono della voce con fare cospiratorio, anche se in negozio non
c’era nessuno
oltre a loro due e al cane acciambellato nella sua cesta: “Le
svelo un segreto:
per tanti anni, il giorno del mio compleanno, salivo in cima alla Tour
Eiffel e
gettavo dall’alto un bigliettino contenente un desiderio. Mi
prenderà per pazza,
ma alla fine quel desiderio si è realizzato!”
concluse con una risata
contagiosa.
Quella
donna francese le piaceva: aveva un bel modo di
fare e possedeva un talento notevole nel creare quelle illustrazioni.
“Bè,
mi faccia pensare bene a qual è il mio desiderio
più
grande. Tornerò appena avrò le idee
più chiare” dichiarò Stana e la
salutò,
uscendo dalla cartoleria.
Riprese
il suo girovagare e cominciò a riflettere.
Cosa
desiderava davvero?
Salvare
il suo matrimonio? No, era troppo ferita e quello
ormai era un capitolo chiuso, nel profondo del suo cuore lo sapeva bene.
Avere
successo nel suo lavoro? Sì, certamente, sarebbe
stata una grande soddisfazione se anche la nuova serie tv avesse
riscontrato il
favore di pubblico e critica.
Ma
era davvero questo il suo desiderio più grande? Le
sarebbe bastato?
All’improvviso
si ritrovò davanti a uno degli
innumerevoli ponti di Parigi. Questo però aveva una
caratteristica speciale: le
grate di ferro del parapetto erano ricoperte da migliaia di lucchetti,
scarabocchiati con un pennarello indelebile o finemente incisi. Pegni
di amore
eterno che tantissime coppie di innamorati si erano promessi, di fronte
alle
guglie di Notre Dame che svettavano sullo sfondo. E allora
capì che ciò che
desiderava davvero era proprio quello: il miracolo dell’amore
senza fine.
Quando aveva sposato Kris era convinta che il loro matrimonio sarebbe
durato
per sempre e invece così non era.
Rientrò
il più rapidamente possibile in albergo, si
chiuse nella sua camera e diede libero sfogo al dolore che aveva
affrontato con
grande compostezza fino a quel momento. Pianse fino ad addormentarsi.
Nota
dell’autrice
I
nostri beniamini iniziano a esplorare Parigi e le loro strade
incrociano quelle
di due nuovi personaggi. Robert Shermann e Rosalie Laurent escono dalla
penna
di Nicolas Barreau: io li ho solo presi in prestito! Anche il
Cinéma Paradis
appartiene a Barreau.
Grazie
per avermi dedicato il vostro tempo leggendo anche il secondo capitolo.
Un
abbraccio,
Deb