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Autore: germangirl    29/01/2018    1 recensioni
Un uomo in crisi per il suo lavoro e per la sua vita sentimentale.
Una donna ferita.
Un paio di nuovi amici.
La magia della Ville Lumière.
Genere: Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nathan Fillion, Nuovo personaggio, Stana Katic
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2 – Il sorriso delle donne

Era atterrato a Parigi ormai da qualche giorno e la città lo aveva accolto con un timido sole che aveva fatto capolino fra le nubi spesse. Non era la prima volta che si trovava lì: aveva persino girato alcune scene di un episodio della quinta stagione di Castle lungo la Senna. Ma naturalmente quando si è in un posto per lavoro non si ha il tempo per andarsene in giro a fare turismo. All’inizio si era sentito quasi spaesato: quel luogo era davvero molto diverso dalle città americane. Però adesso la Ville Lumière cominciava a piacergli: finora si era limitato a gironzolare senza una meta precisa, semplicemente immergendosi nel dedalo dei tortuosi vicoli che non seguivano lo schema geometrico tipico di molte metropoli statunitensi. Non sapevi cosa potevi trovare dietro ogni curva: un negozio di antiquariato, un bistrot con i tavoli di legno all’aperto, a cui i francesi stavano seduti a bere un café creme o a gustare un croissant o un croc monsieur, un palazzo con una lapide che ricordava che proprio lì aveva vissuto qualche scrittore o intellettuale fondamentale per la storia nazionale o addirittura europea. Nomi che, doveva riconoscerlo, a lui non dicevano un bel niente. Certo, ogni tanto doveva ricorrere al navigatore sul cellulare per capire dove fosse e come ritornare in hotel, però l’atmosfera che respirava lo aveva conquistato e gli aveva restituito un po’ della gioia di vivere che non provava più da mesi. Probabilmente era merito anche delle prelibatezze che mangiava ogni sera nel piccolo ristorante vicino all’albergo in cui alloggiava. Anche nella scelta della sistemazione aveva deciso di seguire lo stile di quella persona innominabile. Non aveva rinunciato a viaggiare in business perché il volo da Los Angeles a Parigi durava dodici ore e con la sua stazza non sarebbe riuscito a sopravvivere in economy, senza nemmeno poter allungare le gambe. Insomma, ATP va bene, ma c’è un limite a tutto! Però aveva scovato un piccolo hotel nel Quartiere Latino, poche camere arredate con gusto e traboccanti di vero fascino parigino. Oltre a questo, l’alloggio offriva un petit déjeuner delizioso: baguettes appena sfornate, ancora calde e croccanti, marmellata di fragole fatta in casa, e quei deliziosi formaggi… ah sì, i francesi sapevano come godersi la vita.

La cosa che più lo aveva impensierito e rattristato erano i numerosi soldati con giubbotto antiproiettile e armati di mitragliatrice, posizionati nelle vicinanze degli obiettivi considerati strategici per gli attacchi terroristici: davanti alla cattedrale di Notre Dame, lungo gli Champs Elysées, sotto la Tour Eiffel. Anche nel suo paese d’origine, dopo i fatti dell’11 settembre, il livello di allerta era cresciuto e di conseguenza la presenza delle forze dell’ordine, così come dei controlli, era aumentata. Ma vedere la culla della civiltà francese praticamente sotto assedio lo fece riflettere amaramente su dove sarebbe andato a finire il mondo.

Dopo il lungo girovagare, decise che era arrivato il momento di migliorare la sua cultura: avrebbe iniziato dal Museo d’Orsay. Non sembrava imponente come il Louvre, le cui dimensioni lo intimidivano un po’, anche se l’idea del mistero della Maddalena lo attirava forse più della Gioconda o della Nike di Samotracia (ah, sia lode a Dan Brown!) e quindi sapeva che prima o poi lo avrebbe dovuto visitare. E poi la suddetta innominabile era un’appassionata di impressionisti e quindi si disse che valeva la pena capire perché le piacessero tanto. Aveva visto qualcosa al MoMA, il museo di arte moderna a New York, ma era stata una visita frettolosa e non ricordava molto.

Entrò nell’ex stazione ferroviaria, creata per l’Esposizione Universale del 1900 là dove in precedenza sorgevano una caserma di cavalleria e il vecchio Palazzo d’Orsay, acquistò il biglietto, si munì persino di audioguida e si accinse a iniziare la sua visita. Passeggiando nelle varie sale, ascoltò diligentemente le informazioni che gli venivano fornite nell’auricolare. Innumerevoli capolavori sfilarono davanti ai suoi occhi: opere di Manet, Monet, Cézanne, Renoir, Degas… insomma, il gotha delle correnti impressioniste e post-impressioniste. Quell’esplosione di colori, di storie, di tecniche pittoriche gli bombardò la mente e piano piano si fece strada fino al suo cuore. Giunto nell’area che ospitava i quadri di Van Gogh si sedette su un divanetto, provvidenzialmente messo a disposizione per i visitatori affaticati, e si tolse l’auricolare.

Era esausto. A pensarci bene, questa sensazione era il fil rouge delle sue giornate parigine: arrivava alla sera con i piedi doloranti per il lungo camminare e le gambe stanche. Ma, per quanto paradossale, era una stanchezza corroborante, che gli faceva bene all’anima.

Si accomodò meglio e prese un respiro profondo. Non ricordava nemmeno più da quanto tempo si trovava in quel museo. Il dipinto appeso alla parete davanti a lui catturò la sua attenzione. Era “la chiesa di Auvers”. Si mise a osservare i tratti delle pennellate, la scelta dei colori, le linee che delimitavano la struttura dell’edificio rappresentato, che si stagliava contro il cielo… e nuovamente perse la cognizione del tempo e dello spazio. Il suo cervello registrò appena la presenza di  qualcuno che si era seduto accanto a lui.

“E’ affascinante, vero?” sentì dire in inglese dal suo vicino di panca e quasi sussultò, visto che era completamente immerso nell’universo fantastico del pittore.

“Sì… adesso capisco tante cose” commentò sovrappensiero, immaginando l’effetto che la visione di quell’opera avrebbe avuto sull’innominabile.

“Io ci vengo spesso e ogni volta mi stupisce. Ho ereditato questa passione da mia madre: lei adorava andare nei musei” aggiunse l’altro visitatore.

“Davvero?” gli chiese Nathan, con genuino interesse. Quello sconosciuto aveva un’aria intrigante e parlava inglese perfettamente. Doveva essere americano della East Coast e questa deduzione gli fece rilasciare un sospiro di sollievo. Gli serviva un po’ di pausa dallo sforzo continuo di esprimersi in francese. Essendo canadese, lo aveva studiato molto bene a scuola, ma era un po’ arrugginito perché ormai non lo usava quasi più. Sapeva però che l’innominabile avrebbe fatto di tutto per adattarsi alla cultura del paese che la ospitava e si sentì in dovere di utilizzare il più possibile quell’idioma.

“Quando era di buon umore, oppure quando si sentiva triste, quando voleva riflettere prima di una decisione importante o quando le succedeva qualcosa di brutto, lei mi portava in un museo. Ho visitato tutti i musei di New York: dal Guggenheim  al MoMa, dal Metropolitan al Museum of Modern History. Mamma aveva un sorriso bellissimo” continuò lo sconosciuto, con un velo di commozione a bagnargli gli occhi. Nel sentire quella frase, i neuroni di Nathan gli inviarono l’immagine di un altro sorriso di cui era stato destinatario qualche volta, anche a prescindere dalle scene che avrebbero dovuto girare. Quando erano Stana e Nathan e non Kate e Rick. Dio, quanto gli mancava quel sorriso! Nel frattempo, l’altro interlocutore si schiarì la gola e disse: “Oh, mi scusi. Non so perché le sto raccontando queste cose. Non mi sono nemmeno presentato: sono Robert Shermann” e gli porse una mano con fare cordiale.

Nathan gliela strinse con un sorriso sincero e gli rispose: “Non si preoccupi. Piacere mio: sono…”

“Oh, lo so chi è lei. Sono a Parigi da qualche anno perché ero venuto per un semestre a insegnare letteratura inglese alla Sorbona, un seminario su Shakespeare per la precisione, e poi mi sono innamorato di una francese, bisbetica ma adorabile. Anche lei è meravigliosa quando sorride. Insomma, sono rimasto qui in pianta stabile. Ma a New York guardavo sempre la sua serie in tv. Mia moglie invece non ama la televisione. Ho anche provato a farle vedere qualche episodio, ma preferisce leggere. Se non ricordo male, l’anno scorso c’è stata l’ultima stagione, giusto?”

“Ehm… sì” rispose Fillion. E non seppe cos’altro aggiungere. Brutta sensazione.

“Sa che mio padre ha qualcosa in comune con il suo personaggio?” disse Shermann.

“E’ uno scrittore?” si informò l’attore.

“Sì, ma lui scrive libri per bambini. E mia moglie pensa alle illustrazioni. E’ grazie a lei che ho scoperto che mio padre non era mio padre. Intendo che mio padre non era quello americano, ma è francese. Oddio, mi scusi, la sto tediando di nuovo con la mia storia personale, mentre lei era qui che si godeva Van Gogh”. L’uomo si alzò e fece per congedarsi, però Nathan lo richiamò: “Signor Shermann? Le andrebbe un caffè?”

Robert si voltò e gli sorrise: “Solo se mi chiama Robert”

“Allora io sono Nathan” rispose di rimando. “Ti ho invitato a prendere un caffè ma non ho idea di dove sia un buon locale” ammise sorridendo.

“Se hai finito con la visita, ce n’è uno non lontano da qui” gli propose il professore con un cenno della testa, scuotendo in quel modo i capelli ricci disordinati.

“Sì, direi che per oggi basta. Non sono un grande amante dei musei, anche se devo ammettere che esercitano davvero un grande fascino” dichiarò sinceramente.

“Posso chiederti allora perché sei stato dieci minuti a fissare Van Gogh?” si informò Robert.

“E’ una lunga storia…” glissò Nathan. Il suo nuovo amico gli sembrava un tipo simpatico, ma non era ancora pronto a raccontargli i fatti suoi.

L’esperto di Shakespeare lo guardò e annuì. “Andiamo, il caffè ci aspetta. Hanno anche un’ottima tarte tatin” aggiunse, conquistandosi così la stima imperitura del suo nuovo amico.

 

La prima tappa del soggiorno parigino di Stana era stata dai suoi adorati impressionisti: appena toccato il suolo francese, si era precipitata al museo d’Orsay e aveva trascorso praticamente un’intera giornata a bearsi del “petit déjeuner sur l’erbe” di Manet, delle donne tahitiane di Gauguin, dei papaveri di Monet, delle ballerine di Degas, senza dimenticare i dipinti di quel genio di Van Gogh. Nei giorni successivi aveva fatto lunghe passeggiate attraverso l’intrico dei vicoli o costeggiando la Senna. A volte si cammina per andare da qualche parte, a volte si cammina e basta e lei proprio quello stava facendo: le piaceva girovagare senza meta, lasciandosi stupire dai segreti che la capitale le svelava piano piano. Una sera, infine, si era ritrovata davanti a un piccolo cinema chiamato Cinéma Paradis, che proiettava esclusivamente film francesi. Non era distante dall’albergo in cui alloggiava, e in cui ogni mattina – tempo permettendo – faceva colazione all’aperto sotto l’ippocastano. E ogni sera aveva preso l’abitudine di assistere alla proiezione accomodandosi sulle vecchie poltroncine di velluto, che chissà quante storie di vita avevano visto passare.

Presentandosi per la terza sera consecutiva, la signora della cassa la salutò con un sorriso sereno e sincero e, anche se chiaramente aveva riconosciuto l’attrice famosa, non le disse niente né la disturbò per chiederle un autografo. Stana gliene fu intimamente grata.

Quella mattina, invece, camminando lungo rue de Dragon, a pochi metri dalle chiese di Saint-Germain-de-Prés e Saint-Sulpice, la sua attenzione venne catturata dall’insegna di una cartoleria. Il cartello infatti diceva: Luna Luna – i biglietti dei desideri di Rosalie. Si avvicinò alla vetrina e rimase affascinata dalle decorazioni delle cartoline, dei fermacarte, delle scatole portaoggetti, delle matite rivestite, dei taccuini e di tutti gli altri ammennicoli esposti. I disegni erano delicati e pieni di colori, seppure con una prevalenza dei diversi toni di azzurro. Non poté fare a meno di entrare.

La campanella della porta annunciò il suo arrivo e un cane addormentato in una cesta accanto all’ingresso mugolò appena, a manifestare il suo dissenso per essere stato svegliato dal suo sacrosanto riposo mattutino.

Il negozio era piccolo ma grazioso. I vari oggetti in vendita erano disposti con gran gusto e, osservandoli da vicino, sembravano decorati a mano.

La ragazza al bancone la salutò cordialmente e Stana trasalì e corrugò la fronte. Aveva due occhi azzurri identici a quelli di qualcuno che l’aveva fatta soffrire. Molto. Un qualcuno a cui non pensava da tanto tempo e che era convinta di aver relegato in un cassetto lontano della sua memoria, sepolto da tanti altri ricordi più importanti. Ma evidentemente non era così.

“Mi scusi, non la volevo spaventare” disse Rosalie Laurent, la proprietaria del negozio, che aveva percepito il disagio della cliente ma non riusciva a comprenderne il motivo. Tentò di sistemarsi la lunga treccia castana disordinata che le scendeva su un lato e le rivolse un sorriso incoraggiante.

“Oh, sono desolata” disse Stana, scuotendo la testa per scacciare anche fisicamente dalla memoria il volto che incorniciava quei due fari cobalto che lei conosceva bene.

“Nessun problema. Posso aiutarla? Cercava qualcosa in particolare?” le domandò Rosalie.

“Mmm… lei può realizzare i desideri?” le chiese sorridendo.

“No, ma forse posso aiutarla a esprimerli” le rispose madame Laurent con sincerità. “Attraverso le mie illustrazioni” aggiunse, a mo’ di spiegazione. Poi la osservò meglio: era un volto che aveva già visto, ma non riusciva a capire dove, né in quali circostanze. Parlava un ottimo francese, ma aveva un accento simile a quello di suo marito…. Sì, doveva essere americana. Era una donna bellissima, eppure i suoi occhi rivelavano una profonda malinconia. Il suo sguardo limpido celava indubbiamente una sofferenza.

“Oh, sono opera sua?” le chiese l’attrice, con sincera ammirazione.

Rosalie annuì, poi le si avvicinò e disse, abbassando il tono della voce con fare cospiratorio, anche se in negozio non c’era nessuno oltre a loro due e al cane acciambellato nella sua cesta: “Le svelo un segreto: per tanti anni, il giorno del mio compleanno, salivo in cima alla Tour Eiffel e gettavo dall’alto un bigliettino contenente un desiderio. Mi prenderà per pazza, ma alla fine quel desiderio si è realizzato!” concluse con una risata contagiosa.

Quella donna francese le piaceva: aveva un bel modo di fare e possedeva un talento notevole nel creare quelle illustrazioni.

“Bè, mi faccia pensare bene a qual è il mio desiderio più grande. Tornerò appena avrò le idee più chiare” dichiarò Stana e la salutò, uscendo dalla cartoleria.

Riprese il suo girovagare e cominciò a riflettere.

Cosa desiderava davvero?

Salvare il suo matrimonio? No, era troppo ferita e quello ormai era un capitolo chiuso, nel profondo del suo cuore lo sapeva bene.

Avere successo nel suo lavoro? Sì, certamente, sarebbe stata una grande soddisfazione se anche la nuova serie tv avesse riscontrato il favore di pubblico e critica.

Ma era davvero questo il suo desiderio più grande? Le sarebbe bastato?

All’improvviso si ritrovò davanti a uno degli innumerevoli ponti di Parigi. Questo però aveva una caratteristica speciale: le grate di ferro del parapetto erano ricoperte da migliaia di lucchetti, scarabocchiati con un pennarello indelebile o finemente incisi. Pegni di amore eterno che tantissime coppie di innamorati si erano promessi, di fronte alle guglie di Notre Dame che svettavano sullo sfondo. E allora capì che ciò che desiderava davvero era proprio quello: il miracolo dell’amore senza fine. Quando aveva sposato Kris era convinta che il loro matrimonio sarebbe durato per sempre e invece così non era.

Rientrò il più rapidamente possibile in albergo, si chiuse nella sua camera e diede libero sfogo al dolore che aveva affrontato con grande compostezza fino a quel momento. Pianse fino ad addormentarsi.

 

Nota dell’autrice

I nostri beniamini iniziano a esplorare Parigi e le loro strade incrociano quelle di due nuovi personaggi. Robert Shermann e Rosalie Laurent escono dalla penna di Nicolas Barreau: io li ho solo presi in prestito! Anche il Cinéma Paradis appartiene a Barreau.

Grazie per avermi dedicato il vostro tempo leggendo anche il secondo capitolo.

Un abbraccio,

Deb

  
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