Nota
dell’autrice
Questa
ff è un crossover fra le vite di due attori da me molto
amati e alcuni
personaggi dei romanzi di Nicolas Barreau, dal quale ho preso in
prestito
anche il titolo e l’ambientazione. Se non avete mai letto
niente di Barreau e
avete un animo romantico, vi consiglio di non perdere tempo qui e
andare in
libreria a comprare un suo libro. Oppure potete continuare a leggere
questa
storia e, quando li incontrerete, capirete se vi piacciono o meno.
Intanto,
ringrazio come sempre il mio angelo custode per il suo supporto
incondizionato
e la sua deliziosa penna verde, che migliora sempre di gran lunga le
mie
sciocchezzuole.
E
grazie sin da ora a chi di voi mi regalerà il proprio tempo
e arriverà in fondo
a questo primo capitolo.
Un
abbraccio,
Deb
Capitolo
1 – Parigi è sempre una buona idea
Si
versò del caffè bollente in una tazzona
acquistata a
Disneyworld qualche anno prima, fece pochi passi e restò in
piedi davanti alla
finestra, a fissare il giardino spoglio e trascurato. Lo sguardo era
perso nel
vuoto, tanto da non accorgersi che il calore sprigionato dalla sua
bevanda
aveva cominciato ad appannare il vetro. Era una giornata di inizio
marzo insolitamente
fredda, ben al di sotto delle abituali temperature primaverili che
caratterizzavano il clima californiano anche nei mesi invernali.
Inutile
nasconderlo a chiunque, tantomeno a sé stesso.
Era
deluso.
Dal
punto di vista professionale, la sua carriera si era
arenata. Dopo la chiusura della serie che gli aveva dato
così tanto successo,
si era limitato a qualche cameo o a interpretare personaggi secondari
in altri
telefilm, la cui presenza si limitava a un arco di pochi episodi, o a
prestare
la propria voce in un paio di film di animazione o di videogiochi. Un
curriculum interessante solo per un nerd. Nulla a che vedere con il
ruolo di
protagonista principale di un tv show che aveva come titolo proprio il
nome del
suo personaggio.
Per
non parlare della sua vita privata. Non riusciva a
mantenere una relazione per più di qualche mese. I suoi
coetanei avevano figli che
frequentavano le scuole superiori e lui passava da una ragazza
all’altra, classico
sintomo della sindrome da Peter Pan. Non solo. Anche con gli altri
attori del
cast di quella famosa serie aveva perso i contatti. Non li sentiva da
mesi. Non
era stato in grado di coltivare dei rapporti di amicizia con persone
con cui
aveva condiviso la fatica e la soddisfazione di aver regalato al
pubblico un
prodotto di grande successo. Con cui aveva lavorato per anni, con dei
tour de
force che a volte arrivavano a 14 ore al giorno, dal lunedì
al sabato, per mesi
interi.
Girare
l’ultima stagione era stato particolarmente faticoso:
il clima sul set non assomigliava nemmeno lontanamente
all’atmosfera goliardica
e leggera dei primi anni. Certe scelte autoriali sulla sceneggiatura lo
avevano
lasciato piuttosto perplesso, ma la verità è che
qualcosa si era
irrimediabilmente rotto e lui per primo si era comportato in modo
indecoroso,
in particolare nei confronti della sua coprotagonista.
Inutile
raccontarsi delle balle: era stato un gran
bastardo. Uno stronzo di prima categoria.
Ripensandoci,
si vergognava ancora di certi suoi
atteggiamenti, di certi commenti acidi che non aveva risparmiato a
nessuno, ma
che aveva usato soprattutto per ferire lei, riuscendo appieno
nell’intento,
tanto da ridurla alle lacrime più di una volta. Ma adottare
quella strategia
gli era parsa l’unica soluzione per togliersela dalla mente e
dal cuore.
Visto
che non poteva averla, doveva odiarla. Era un’equazione
semplice.
Al
termine della settima stagione si era sposata con quel
suo connazionale che aveva un cognome impronunciabile e con cui stava
da una
vita. Aveva sempre saputo che era impegnata in una relazione stabile,
però
questo non gli aveva impedito di fantasticare che prima o poi le cose
fra loro
sarebbero cambiate. Poco dopo l’inizio dello show avevano
ceduto a quella
chimica irresistibile che si era creata fra loro sin dal primo incontro
ed
erano finiti a letto insieme, giusto per divertimento. E non solo una
volta. Ma
lei aveva troncato quella storia sul nascere ed era tornata da Kris. Da
parte
sua, in tutti quegli anni non si era certo votato alla
castità, anzi. Si era
sollazzato con una serie di compagne, spesso molto più
giovani di lui, dalle quali
si era fatto distrarre senza troppi problemi. Ma nessuna di loro era
riuscita a
distoglierlo dal suo chiodo fisso. Solo il rapporto con Krista era
durato più a
lungo del solito e gli aveva quasi fatto pensare di potersi liberare
del suo
fantasma, ma alla fine anche quello era naufragato.
E
adesso quella vita non gli bastava più. Aveva bisogno
di cambiare aria e di ritrovare lo slancio almeno nell’ambito
professionale. Ma
come fare? A quale fonte poteva attingere per recuperare la giusta
energia?
Tutto intorno a lui sembrava ricordargli il suo fallimento, come uomo e
come
attore. Doveva allontanarsi il più possibile dallo show
business. Doveva
partire da Los Angeles.
La
suoneria del cellulare lo distolse dal fluire mesto dei
pensieri nel quale era sprofondato. Si allontanò dalla
finestra, posò la tazza
sul mobile e prese il telefono dal divano sul quale lo aveva
abbandonato poco
prima, dopo aver fatto una partita a uno degli ultimi videogiochi che
aveva
installato. Tutta vita, insomma. Il display gli mostrò il
nome della persona
che lo stava chiamando.
“Ciao
mamma” rispose, cercando di adottare un tono
leggero. Non aveva voglia di contagiarla con la sua malinconia, di cui
si
vergognava anche un po’. Non voleva certo passare per una
donnicciola piagnucolosa!
“Ciao
Nate! Tutto bene?” lo salutò allegra la signora
Fillion.
“Certo,
voi? Papà sta bene?” si informò. Nei
mesi
precedenti qualche acciacco aveva costretto suo padre a prendere la
vita con
più tranquillità e a fare pace con
l’idea di non essere più un ragazzino.
Più
facile a dirsi che a farsi, conoscendo il tipo.
Infatti
la madre rispose: “Sì, è insopportabile
come
sempre! Il peggior paziente dell’intero pianeta
Terra…. Comunque, ti chiamavo
per sapere se per il tuo compleanno vieni da noi a Edmonton.”
Tre
settimane dopo avrebbe compiuto 46 anni. La rivelazione
lo colpì come un fulmine. Non che fosse un compleanno
importante, ma
rappresentava un altro passo che lo avvicinava ai 50. Oh my God. Mezzo
secolo.
Gli venne un capogiro all’idea. Un motivo in più
per fuggire. Doveva prendere
il primo aereo e andarsene da lì. Appena possibile. E il
più lontano possibile.
“Nate?
Ci sei ancora?” lo richiamò la madre, preoccupata
per il lungo silenzio.
“Sì…
scusami, avevo altro per la testa. No, non torno a
Edmonton. Pensavo di fare un viaggio, sai, di stare via qualche
settimana…. In
questo momento non ho grandi impegni, ne vorrei approfittare”
dichiarò sereno,
tentando di minimizzare il fatto che in quel periodo non aveva nessun
ingaggio.
“Ah,
be’, peccato, ci avrebbe fatto piacere festeggiare
con te” rispose sinceramente la donna. “Dove
vai?” gli chiese.
Giusto.
Ottima domanda. Molto appropriata. Se solo avesse
avuto una risposta…
“Non
lo so ancora, forse in Europa” buttò lì
senza troppa
convinzione. Il suo rimuginare lo aveva condotto solo alla decisione di
allontanarsi da LA e il pensiero di un giro nel vecchio continente
cominciò a
formarsi piano piano. Innanzitutto, oltre al coast-to-coast,
c’era anche un oceano di mezzo. Una distanza
ragionevole. E poi aveva voglia di qualcosa di diverso e le grandi
capitali
europee avrebbero rappresentato sicuramente una distrazione: buon cibo,
ottimo
vino e belle donne. All’improvviso si materializzò
nella sua mente il volto di
una persona che in Europa si sarebbe dedicata a visitare musei, ad
ammirare l’architettura
dei palazzi storici e a conoscere culture diverse dalla propria. Si
sforzò di
scacciare l’immagine di quel viso bellissimo, però
poi ebbe un’illuminazione e si
chiese: e se per una volta lo avesse fatto anche lui? Aveva detto di
aver
bisogno di cambiamenti, no? Ebbene, sarebbe andato nel vecchio
continente a
fare turismo culturale. Era deciso.
“Oh,
Nate, non sarà pericoloso?” gli domandò
la madre,
allarmata dalle notizie degli attentati nelle grandi città.
L’ISIS pareva aver
dichiarato guerra all’intera civiltà occidentale,
concentrandosi con
particolare efferatezza sulle capitali europee: Bruxelles, Parigi,
Berlino, Londra,
Stoccolma…
“Mamma,
non ti preoccupare. Non voglio che la paura mi
impedisca di viaggiare o di vivere. Ci siamo già passati con
l’11 settembre.
Non devono vincere loro” dichiarò convinto.
L’attacco alle Torri Gemelle
rappresentava una ferita ancora sanguinante per la memoria collettiva
americana,
se non addirittura dell’intera civiltà
occidentale. In particolare, ogni
cittadino statunitense ricordava alla perfezione cosa stava facendo
quel giorno
che aveva cambiato drasticamente il corso della storia. Ma dopo
l’iniziale
stordimento, portato dalla consapevolezza di non essere intoccabili
né
tantomeno invincibili, tutti avevano imparato ad affrontare la paura e
a
riprendere in mano le proprie esistenze. Tutti avevano superato una
specie di
disturbo post traumatico da stress nazionale.
Cookie
Fillion sospirò. Suo figlio aveva ragione, ma il
suo cuore di madre non le impedì di preoccuparsi per lui
“D’accordo. Hai già
pensato a un itinerario? Qual è la prima tappa? Mi hanno
detto che Parigi è
bellissima a primavera…”
Poche
sere prima aveva rivisto per l’ennesima volta in
televisione il film tratto dal bestseller di Dan Brown e
l’idea di visitare i
luoghi dove era ambientato in parte il “Codice Da
Vinci” gli parve subito allettante,
tanto che rispose: “Potresti avere ragione, mamma. Parigi
è sempre una buona
idea.” Poi la congedò e si sentì
pervaso da un’energia che non provava da tanto
tempo. Finalmente aveva un progetto a cui dedicare i propri pensieri.
Si
sedette alla scrivania, accese il laptop, si collegò a
internet e si mise a cercare
volo e albergo. La sua prima destinazione sarebbe stata la capitale
francese e
poi avrebbe deciso quali altri paesi visitare. Acquistò un
biglietto in
business di sola andata e si dedicò ai bagagli: meno di tre
giorni dopo si
sarebbe trovato sotto la Tour Eiffel.
Aprì
gli occhi ed ebbe bisogno di qualche secondo per
realizzare dove fosse. Doveva essersi appisolata subito dopo il
decollo. Non
c’era da sorprendersi: le ultime settimane di lavoro erano
state piuttosto
impegnative ed erano state precedute da un periodo emotivamente
faticoso. Tanto
per usare un eufemismo.
La
nuova sfida professionale, però, non sarebbe potuta
arrivare in un momento migliore. Le cose con Kris non andavano bene da
un po’ e
averlo trovato in un atteggiamento compromettente ed inequivocabile con
la sua
assistente, nel più abusato dei clichés, era
stato la classica ciliegina sulla
torta. Per sua fortuna, sarebbe dovuta partire alla fine della
settimana
successiva per la Bulgaria, dove avrebbe iniziato le riprese per
Absentia.
Tempismo perfetto. Entrambi sapevano di non avere molto da dirsi: la
crisi
andava avanti da troppo tempo e il loro allontanamento era ormai
irrecuperabile. Ma questo non significava che non ci stesse male: con
lui aveva
trascorso molti anni e certo non poteva cancellarlo con un clic. Per
tenere a
bada la nebulosa di sensazioni che le devastavano l’anima,
costituita da
rabbia, delusione e fallimento, si era gettata a capofitto nel lavoro:
avrebbe
dovuto interpretare Emily Byrne, un’agente dell’FBI
– ancora una volta una donna
forte, con un lavoro pericoloso – che scompare
improvvisamente mentre dà la
caccia a un famigerato serial killer di Boston, viene dichiarata morta
per poi
essere ritrovata in un rifugio nei boschi dopo sei anni, viva per
miracolo e
senza alcun ricordo di quel periodo. Tornata a casa, scopre che suo
marito nel
frattempo si è risposato e suo figlio, dunque, ha una nuova
mamma. Un inizio
senza dubbio interessante ed emotivamente molto impegnativo da
interpretare.
Appena aveva letto la sceneggiatura, il suo pensiero era andato alla
sparizione
di Rick Castle a un passo dall’altare. Inutile nasconderselo:
quella serie
avrebbe sempre avuto un posto speciale nel suo cuore. Una punta di
dolore però
la aggredì alla bocca dello stomaco e le fece aggrottare la
fronte: l’epilogo e
in generale l’intera ultima stagione l’avevano
fatta soffrire molto. Forse
avevano addirittura contribuito a mandare all’aria il suo
matrimonio: suo
marito (ancora non si era abituata all’idea di chiamarlo il
suo ex, sebbene
avessero già avviato le pratiche per la separazione) non
aveva capito quanto
stesse male per il clima gelido sul set e per l’atteggiamento
insopportabile
del suo coprotagonista e non aveva saputo starle vicino. Anzi, aveva
cercato di
distrarsi rivolgendosi altrove e rifugiandosi nelle braccia accoglienti
della
sua giovane assistente. Ma questo era un dettaglio di cui Stana era
venuta a
conoscenza solo in seguito e che le aveva rivelato il vero volto
dell’uomo che
aveva sposato.
Guardò
l’orologio e vide che era già passata
un’ora da
quando aveva lasciato la capitale bulgara. Le restavano ancora due ore
di
viaggio prima di arrivare a destinazione. Cambiò posizione
sul sedile del volo
low cost, non certo il massimo della comodità, e si mise a
guardare fuori dal
finestrino, mentre la mente ritornò alla conversazione avuta
il giorno prima.
“Bene,
signori. Ringrazio tutti voi per aver partecipato a questo incontro.
Era
necessario fare il punto della situazione prima di riprendere a girare
i
prossimi episodi. So che state dando il massimo e non ho parole per
dirvi
quanto sia importante per me che abbiate creduto in questo progetto.
Avete tre
settimane di stacco prima di ritrovarci per le prossime
riprese” dichiarò Oded
Ruskin, raccogliendo i propri appunti e spengendo il portatile. Attori,
tecnici
e autori si alzarono dal tavolino e si salutarono. Si era creato un
buon clima
fra loro in tempo breve e i saluti che si scambiarono erano sinceri e
affettuosi. Ruskin aveva ragione: tutti avevano riposto fiducia in una
serie tv,
dai tratti cupi e violenti, che sarebbe andata in onda su un canale a
pagamento, presente in molti paesi nel mondo, ma non certo con un
pubblico
paragonabile alle reti in chiaro.
Dopo
aver scambiato due parole con Matt Cirulnik, lo sceneggiatore, e aver
messo a
punto un paio di dettagli, il regista israeliano si rivolse alla sua
attrice
protagonista: “Stana, puoi fermarti un attimo?”
La
donna si voltò e cercò di sorridergli, ma ad
un’attenta osservazione si vedeva
che un velo di malinconia le offuscava i begli occhi verdi-nocciola.
Solitamente molto riservata, Oded le aveva ispirato fiducia sin dal
primo
incontro, tanto da aprirsi con lui e raccontargli di Kris.
“Che
programmi hai per questa pausa?” le chiese con un interesse
genuino.
“Ho
bisogno di riposarmi, di distrarmi e di riordinare le idee prima di
tornare a
indossare i panni di Emily” gli rispose in tutta
sincerità. “Non vado in
America, se era questo che volevi sapere. E non faccio nemmeno un salto
dalla
mia famiglia in Croazia. Troppi ricordi” aggiunse con un
sospiro. Vicino alla
città di origine dei suoi familiari aveva celebrato il
proprio matrimonio e non
se la sentiva di ritornare sulla… scena del crimine, tanto
per usare
un’espressione che avrebbe potuto pronunciare il suo
personaggio. Sia Emily che
Kate, a pensarci bene.
“Beh,
l’Europa è grande e ha molto da offrire! So che di
recente sei stata in Italia
per le riprese di Lost in Florence…” le
suggerì Ruskin.
“Se
è per quello, qualche anno fa il mio lavoro mi ha portato
anche a Parigi... ma
sai come funziona, quando si gira non c’è mai
tempo per guardarsi intorno,
immergersi in una cultura diversa, visitare un museo… ci
crederesti? Non ho mai
messo piede al Louvre! O al museo d’Orsay, e io adoro gli
impressionisti!”
affermò convinta.
“Cosa
ti impedisce di andarci adesso? Se ti piacciono i musei, a Parigi
avresti
l’imbarazzo della scelta. E poi tu parli anche francese,
no?”
E
così aveva prenotato un piccolo albergo senza pretese,
costituito da poche stanze che si affacciano su un cortile interno
arricchito
da un ippocastano (almeno così diceva il sito), aveva
preparato i bagagli e ora
si trovava sul volo che in tre ore l’avrebbe portata da Sofia
a Parigi. “Parigi
è sempre una buona idea” le aveva detto Ruskin
prima di salutarla.