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Autore: Koa__    30/01/2018    9 recensioni
Sherlock Holmes, eccentrico e severo professore di chimica a Oxford, vive la sua vita tra aule, laboratori e violino. Un'esistenza solitaria, senza amici, né amori. Un giorno, però, nella sua routine entra con prepotenza John Watson, un medico ex militare giunto da poco a Oxford in veste di professore.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mike Stamford, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Vivaldi, La Stravaganza
 




Era passato esattamente un mese da quando tutto era cominciato. Trenta e uno giorni dall’attimo stesso in cui quel tormento aveva avuto inizio. Si trattava di un assillo costante, per nulla domabile con artefici di alcun genere. Una volta che il seme s’era annidato nel suo palazzo mentale aveva finito col riempire ogni anfratto, decorare ogni stanza e fatto propria ogni cosa, impossessandosi anche del pavimento su cui metaforicamente camminava. Ci pensava giorno e notte, costantemente. Dormiva per necessità, mangiava ancora meno. Rimuginava mentre faceva lezione o lavorava in laboratorio, e tanto da essersi convinto che niente sarebbe mai stato in grado di riportarlo a una condizione normale. Naturalmente e siccome era pur sempre Sherlock Holmes e aveva ben altro da fare che contare i pomeriggi che passavano, non aveva neanche una vaga idea del fatto che fosse già novembre inoltrato. Aveva distrattamente percepito il clima farsi più rigido e quell’atmosfera malinconica dei primi di ottobre del tutto svanire, ma non poteva dire d’esser stato attento. E che novembre fosse diverso, era un dato di fatto. Gelido, anzitutto e con quell’umidità invadente che penetrava fin dentro le ossa e non concedeva alcuna tregua. C’era sempre come un velo di nebbia attorno all’edificio dell’università e una foschia che copriva i viali e le strade con un manto lieve. Gli alberi erano spiacevolmente spogli e la pioggia minacciava giornate che, di sereno, avevano ben poco. Persino il sole pareva sparito, salvo poi ricomparire per una mezzora o due nella tarda mattinata. L’autunno stava svanendo e lasciava il passo ai geli invernali e Sherlock Holmes aveva la brutta impressione di non aver ancora combinato granché. Ancora più spiacevolmente, si rese conto che la vita attorno a lui aveva continuato a scorrere e che il mondo non si era fermato per aspettare che finisse di ragionare. Era assurdo! Lo capì realmente, e con prepotenza, soltanto in un non ben precisato momento attorno ai primi del mese. Doveva esser già passato mezzogiorno e lui sedeva compostamente a uno dei tavoli della mensa, si era spinto fin lì forse per il bisogno di pranzare o più probabilmente per la golosità d’assaggiare del dolce. Era stato davvero troppo svagato per avere idea come ci fosse arrivato, ma ora neanche gl’importava. Ricordava d’aver sentito il saluto gioviale di Mike e di non aver ricambiato la cortesia. Mike Stamford che adesso sedeva al suo stesso tavolo, divorava bistecca e insalata come se si trattasse del suo ultimo pasto e non mancava di azzardare una conversazione, una volta ogni tanto. Aveva smesso di contare il numero delle volte in cui un tentativo d’approccio cordiale, era finito nel vuoto. Svanito nel nulla assieme ai grandi sorrisi. Mike era davvero un brav’uomo, ma non tanto interessante da meritare la sua attenzione.
 
Sherlock aprì gli occhi tutto a d’un tratto, lo fece a un certo punto di quel mattino, lì nella sala mensa affollata di ragazzi. Respirava affannosamente, come se fosse reduce da una corsa e le mani tremavano appena. Richiuse immediatamente gli occhi e serrò le palpebre con forza, quasi a voler placare l’animo in subbuglio mentre tentava di capire che cosa fosse successo. Da un attimo all’altro era stato letteralmente buttato fuori dal suo stesso palazzo mentale, senza alcun preavviso e assolutamente contro la propria volontà. Stava giusto ragionando su un nodo che da giorni lo tormentava, quando aveva perduto la concentrazione e si era ritrovato con addosso la strana sensazione d’esser appena uscito da un sogno. Con un gesto stizzito sciolse l’intreccio di dita che gli reggevano il mento e strinse i pugni, boccheggiando vistosamente. Salvo poi sputare uno o due colpi di tosse a mascherare la confusione. Inspirò profondamente e subito dopo espirò lento, rilasciando accenni di tensione. Era necessario riallacciare i fili così come li aveva lasciati, e dare una spiegazione a quella nausea che gli prendeva la gola al sol pensare di ritirarsi ancora a riflettere. Che cosa lo aveva distratto tanto dai suoi ragionamenti? Niente era mai in grado di deconcentrarlo; non a quel modo. Nulla c’era riuscito per tutto quel mese di ottobre e nulla avrebbe dovuto riuscirci adesso. Che potesse esser colpa di novembre e delle sue stramberie? Impossibile, negò subito. I mesi non avevano simili poteri e lui era un uomo di scienza, credeva nella chimica e non nella stregoneria. Magari poteva essere il caos degli studenti all’ora di pranzo, il che sarebbe stato più plausibile. Però era abituato a tutto quello, non era di certo una novità. Anzi, per tutto ottobre aveva vissuto in quel modo. Tutto un mese durante il quale era certo di esser stato più o meno cosciente, addirittura dialogando con qualcuno. Quel Robertson, per esempio. Con lui era certo d’aver parlato più volte. Il suo alacre assistente, senza il quale non avrebbe potuto concedersi il lusso di rimuginare così approfonditamente. C’era stata anche qualche parola con Mrs Hudson e con sua sorella e probabilmente persino con Mycroft, tuttavia nessuno di loro era realmente importante da meritarsi la sua concentrazione. Trenta e uno giorni, dunque. Quattro settimane di rimuginare che gli crollarono addosso in un unico frangente. Sherlock lo capì allora, dopo aver dato un’occhiata all’orologio da polso che spuntava da sotto la camicia.

«È novembre» mormorò, senza riuscire a nascondere un tono di stupore. Tono che s’allargo anche sul suo viso qualche istante più tardi, e questa volta la colpa non era della data segnata sull’orologio.
«E se n’è accorto soltanto adesso?» John Watson, dedusse il suo cervello. John Watson seduto meno di un metro da lui, al suo stesso tavolo. John Watson che rideva con allegria e che scherzava. Com’era possibile? Ma certamente: la sala mensa, Mike Stamford, cordialità tra colleghi. E poi Mike e John erano amici di vecchia data (strano che se lo ricordasse!). Cose del genere succedevano praticamente tutti i giorni, lui era solamente troppo impegnato per mangiare anche di giorno e quando lo faceva preferiva evitare la compagnia.

John Watson.

Non lo vedeva dal pomeriggio del loro primo, e unico, incontro. E nemmeno aveva pensato a lui per tutto quel tempo, si era limitato a immagazzinare a dovere ogni informazione lo riguardasse. Questo però lo faceva con tutti. John Watson… Cielo, avrebbe dovuto riconoscerlo dal dopobarba, portava lo stesso identico profumo che gli aveva sentito addosso quella sola volta. John Watson che sedeva di fronte a lui, a fianco di Mike. E che sorrideva proprio a lui. O forse rideva di lui e delle sue stramberie? Sherlock non sapeva cogliere la differenza, il che lo faceva impazzire perché era più che certo che ce ne fossero e che John Watson fosse un caleidoscopio di sfumature differenti. Ora rideva allo stesso modo di come ricordava avesse fatto un mese prima. Con una risata cristallina e sincera, mettendoci tutto se stesso e forse sperando che nessuno se ne accorgesse. Un mese senza quella risata, pensò Sherlock. Come aveva fatto a sopravvivere senza il desiderio di catalogare tutte le variazioni di voce e d’espressione che ora riusciva a vedere? Un mese. Come la quantità di tempo che era trascorsa da che s’era messo a lavorare su quel Vivaldi. Lo stesso Vivaldi che lo tormentava. E che, a pensarci bene, aveva iniziato a ossessionarlo proprio quella stessa sera. Se tornava indietro con la memoria sapeva anche dire com’erano andate le cose.

Quel giorno aveva appena visto John Watson sparire nel corridoio quando era ritornato in cattedra con l’intenzione di riacquistare un po’ di pace, magari ascoltando Schubert e correggendo banali test. Erano però state sufficienti poche note riecheggiate per tutta l’aula, e aveva capito che non c’era nulla che un romantico potesse fare per lui. Non in quell’occasione. Quindi era balzato in piedi ed era letteralmente volato a casa con l’intento di mettersi a suonare, senza nessuno che potesse disturbarlo. Vivaldi era stato il suo primo istinto e neanche si era chiesto il motivo, era così e basta. Tutto ciò a cui aveva dato retta era alla certezza di dover mettere ordine nel suo palazzo mentale, per scacciare con forza i dubbi che quel soldato aveva instillato dentro di lui. Prima era toccato all’Estro Armonico, del quale aveva divorato concerti in meno di due giorni. * Poi era stata La Stravaganza a rapirgli mente e cuore. ** Aveva iniziato e finito il concerto numero uno in un’oretta, un mattino all’università, tra una lezione e l’altra. Col suo assistente che gli giocherellava attorno facendo chissà che cosa. Quando però si era deciso per passare al secondo… Beh, non avrebbe mai immaginato che ci potesse rimanere sopra per delle settimane. Quel dannato secondo concerto lo perseguitava ormai da troppo tempo. Sherlock sapeva di essere un violinista oggettivamente discreto, non amava tessere troppo le lodi di se stesso per quanto concerneva la musica. Preferiva vantarsi d’avere una mente eccezionale e un’intelligenza sopra la media, il che corrispondeva a verità. Quando c’era di mezzo il violino era piuttosto onesto, ammetteva con tranquillità di non essere un esecutore degno di sale da concerto e grandi teatri. Alla prospettiva aveva rinunciato fin dall’adolescenza, non gli era mai importato nulla del dover suonare per un pubblico. Il suo approccio allo strumento e a una qualsiasi melodia, era un qualcosa di puramente intimo e personale, da amatore insomma. Seppur con doti eccezionali e un gusto raffinato. Perciò sapeva che c’erano compositori più esigenti di altri, alcuni che richiedevano una tecnica più raffinata o uno spiccato estro interpretativo. Vivaldi era una robetta da studentelli ed era teoricamente in grado di suonarlo degnamente. Eppure, dopo settimane che ci provava, sentiva che qualcosa di quel concerto in mi maggiore lo lasciava insoddisfatto. Ogni volta che ci si metteva e iniziava seriamente a studiarlo, non riusciva mai ad arrivare alla fine. Cominciava con determinazione, ben deciso nel portarlo a termine e poi s’intestardiva con un gruppetto di note nell’Allegro iniziale, e da lì non andava più avanti. Una sera c’era rimasto per delle ore, a provare. Aveva suonato e suonato fino a che le dita non avevano iniziato a fargli male e spalle a intorpidirsi. Non aveva funzionato. Nemmeno quando lo ascoltava nella propria mente, tamburellando le dita a tempo, riusciva a piacergli. C’era sempre qualcosa che stonava. Un passaggio sbagliato. Un errore madornale. Dio, non sapeva neanche dire cosa ci fosse di così grave da meritare tanto studio e, dopo settimane, il mistero restava insoluto. L’istinto gli suggeriva che era probabilmente la cosa più orrenda che avesse mai suonato, ed era un sentimento spiacevolmente amaro da provare. Specie perché l’approccio di Sherlock alla musica aveva sì a che fare con la logica, ma altrettanto spesso variava a seconda dell’umore o dello stato d’animo. Per questo c’era un giorno per ogni cosa. Un compositore per sentimento provato o emozione sapientemente rimossa dal volto. Quel pomeriggio, dopo aver incontrato John Watson, Sherlock aveva percepito dentro di sé il forte bisogno di comprendere un concetto elementare. Era come se un laureato in matematica avesse la necessità d’andare a una lezione di prima elementare e solamente per accertarsi che, per il mondo, somme e sottrazioni portassero sempre al medesimo risultato. Lui si sentiva alla stessa identica maniera e aveva finito col convincersi che grazie a un pizzico di barocco veneziano, avrebbe ritrovato almeno parte della sicurezza andata perduta. Dopo aver abbandonato i test da correggere, si era quindi scapicollato a casa e una volta entrato dalla porta aveva semplicemente dichiarato: “Vivaldi” a un’attonita Mrs Hudson. Dopodiché si era messo a rovistare tra le pile di spartiti che teneva nella credenza del soggiorno. Era iniziato allora, l’assedio del suo palazzo mentale. La sera stessa di quei primi d’ottobre in cui aveva conosciuto un medico militare in pensione e con una zoppia psicosomatica, e da allora non aveva mai smesso. Ascoltava quelle note in continuazione, persino in sala mensa. Anzi, lo aveva fatto. Perché per una strana ragione il suo cervello lo aveva cacciato via e sembrava non volerlo far rientrare. Se fosse stato onesto con se stesso (e non lo era), avrebbe ammesso che era la presenza di quel soldato, a dargli fastidio. A distrarlo troppo. Ma considerato che era ben lontano dalla verità, preferì dare la colpa alla fame e ai morsi allo stomaco. Era decisamente più facile.

«Lei lo sa che qui si viene per mangiare, sì?» domandò John Watson, accennando all’assenza di un vassoio con del cibo. Sherlock roteò gli occhi e sospirò vistosamente, nascondendo con discreta abilità quel sorrisino che gli era nato spontaneo. Quel tale era sfacciato, di certo completamente diverso da qualunque altro insegnante di Oxford e non soltanto per la carriera militare che aveva fatto. Aveva un approccio diretto, impregnato di un vago tono di sfida che Sherlock si ritrovò ad ammirare in maniera particolare. Amava le persone schiette, tanto quanto detestava i finti sorrisi e la falsità. Pertanto si mise a ridere, pacatamente ma lo fece e nonostante fosse innervosito per l’insolita situazione nella quale viveva, non lo diede a vedere e mascherò il tutto con la sua ormai nota poca attitudine a far conversazione.
«Non le sfugge nulla» replicò, con quel tipo di sarcasmo che era una gioia riuscire a usare di tanto in tanto. Nulla d’incattivito o maligno, solo impregnato della volontà di stuzzicare qualcuno.
«Per il professor Holmes cucina Angelo in persona» spiegò Mike, addentando un’altra forchettata d’insalata mentre sul viso di John nasceva un mezzo sorriso divertito. Forse incredulo. Di sicuro incuriosito, o almeno così s’era convinto. Sherlock era abbastanza bravo a leggere le persone, a dedurre quello a cui pensavano o che avevano appena fatto. Ma quando si trattava di sentimenti gli capitava di fare confusione, e John Watson non era certo la persona più chiara di questo mondo. Ancora gli era incomprensibile. Ancora notava un qualcosa di strano nascergli sul viso. Ancora i suoi occhi erano indecifrabili.
«Mh, qui qualcuno è il cocco della maestra.» Probabilmente c’era della malizia nella maniera in cui gli si era rivolto, certamente quel dottore non disdegnava di usare l’ironia di quando in quando. Lo stava decisamente prendendo in giro e invece che esserne infastidito, Sherlock provava della curiosità. Lui amava le sfide molto più di quanto amasse la chimica. Tuttavia, in quel momento a prevalere fu l’imbarazzo e l’algido professor Holmes si ritrovò letteralmente a voler sprofondare.
«Non sono il cocco di nessuno» mormorò in risposta, arrossendo vistosamente e per questa ragione distogliendo lo sguardo. Preferì fissare il tavolo e concentrare lo sguardo sui rebbi della forchetta che Mike teneva stretta tra le dita, sperando che la buona sorte lo facesse sparire da lì il più presto possibile. Non era la prima volta che veniva messo in difficoltà, ma mai da una persona con un intelletto decisamente inferiore al proprio. Di solito era suo fratello a prendesi gioco di lui, ora sentiva che quel rossore che s’allargava sulle sue guance era assai diverso dalla vergogna per non essere abbastanza intelligente. Questa volta c’entrava più con l’imbarazzo e con le emozioni. Si stava giusto decidendo a mostrare a quel John Watson quanto poco fossero affari suoi e riacquistare un briciolo di autorità (o almeno poteva provarci), quando Angelo entrò nel suo raggio visivo. Era appena uscito dalle cucine e si faceva largo tra la folla di studenti, reggendo precariamente un piatto di fettuccine fumanti. Al suo seguito, un biondo allampanato di appena vent’anni che tentava di stare al suo passo.

«Angelo» disse Sherlock, regalando un ampio sorriso mentre si scostava quel tanto che era sufficiente a permettere al cameriere di apparecchiare la tavola. Non era mai stato tanto felice di vederlo e non solo per il pranzo che portava con sé. Certo non era nulla di eccezionale e sicuramente era poco elegante, ma doveva pur sempre accontentarsi e poi una tovaglietta e un bicchiere di Chianti erano sufficienti per un piatto di pasta fresca al ragù.
«Per te questo e altro» disse l’italiano, battendosi la mano sul petto, prima di rivolgersi a John. Quasi si trattasse di un amico di vecchia data, ammiccò in sua direzione con un fare vagamente complice a cui mescolò del malcelato orgoglio. «Quest’uomo mi ha salvato la vita.»
«Che esagerazione» replicò invece Sherlock, con sufficienza e tentando di sminuire l’accaduto. «Mi sono limitato a riferire a Scotland Yard quanto sapevo.»
«Mi ha evitato la galera» gongolò Angelo, ancora parlando a un John carico di curiosità.
«Quasi» se ne uscì, laconico mentre stendeva il tovagliolo sulle ginocchia «ti ho evitato l’ergastolo. In prigione ci sei finito lo stesso.»
«Di cosa era stato accusato?»
«Un triplice omicidio, a Londra. Riuscii a dimostrare alla polizia che nel momento in cui era stato commesso il delitto, Angelo era qui a Oxford a svaligiare un appartamento. Sei mesi con la condizionale e da quando è uscito ha il piacere di cucinare per me.»
«Mi ha salvato la vita» annuì con ancora più convinzione e nel mentre che lo faceva, Sherlock riuscì a riconoscere quella sua esuberanza esotica e per nulla inglese che, forse a causa di uno strano paradosso, glielo faceva quasi trovare simpatico. «Vado subito a prepararti il dessert, il tuo dolce preferito cucinato da me personalmente.» Detto questo, Angelo sparì tra la folla di ragazzi. Tutto quello a cui Sherlock fece caso oltre al prepotente profumo del ragù che stuzzicava il suo palato, era lo sguardo indecifrabile di quel John. Un John che aveva preso a fissarlo con un’aria strana negli occhi. Lo studiava con un cipiglio del tutto simile a quello che aveva lui quando deduceva la vita di qualcuno. Era questo l’effetto che aveva sugli altri? Dubitava, anche perché non poteva dire che la sensazione di formicolio alla nuca e di sfarfallio allo stomaco, non fossero una piacevole novità. Decise di godersela, di essere lui quello a rimanere zitto. Probabilmente se avesse voluto dire qualcosa non ci sarebbe neanche riuscito, e quindi tacque. In perfetto silenzio mentre iniziava a mangiare, si disse che lo avrebbe lasciato guardare. A rompere la tesa quiete soltanto il tintinnio delle posate che sbattevano sulle stoviglie. Respirare, Sherlock Holmes in quel momento doveva solo respirare. Se fosse stato facile, non avrebbe dovuto ripetere a se stesso di doverlo fare.

Sherlock aveva poche cose in comune con suo fratello Mycroft e per fortuna, come ribadivano spesso entrambi. Perché se l’intelligenza spiccata e le capacità d’osservazione fuori dal comune erano tratti tipici della famiglia, ereditati dalla loro madre, il carattere era certamente agli antipodi. Tutti e due però amavano i dolci e mamma Holmes li aveva sempre sfacciatamente viziati. In questo, l’unica differenza tra lui e Mycroft risiedeva nel metabolismo e nel fatto che Sherlock mangiasse generalmente poco. Suo fratello era invece una persona che tendeva a prendere peso pur cibandosi del fabbisogno quotidiano necessario, il che era stato fonte di malcontento in casa per tutta la durata della loro adolescenza. Al punto che l’argomento “dolci” era stato bandito da ogni conversazione per degli anni. Probabilmente era anche per questo che di tanto in tanto concedeva a se stesso un qualcosa di buono, tra i suoi preferiti c’era indubbiamente il tiramisù. Non sapeva cosa amasse nello specifico, adorava la mescolanza di caffè e cacao alla quale si univa una crema morbida. E Angelo doveva essere una specie di maestro nella preparazione di quel dessert, certamente geniale perché era in grado di lasciarlo soddisfatto e appagato tutte le sante volte in cui glielo serviva. Era infatti ancora seduto al tavolo della mensa e con amarezza teneva gli occhi fissi sul piattino ormai vuoto. Una parte del cervello rimuginava su Vivaldi, un’altra ascoltava Mike Stamford chiacchierare. I suoi sensi erano tutti per quel medico-soldato. Tuttavia era l’indifferenza il solo sentimento a trasparire.
«Ha deciso se verrà o meno alla festa, professor Holmes?»
«Festa? Quale festa?» Sherlock si risvegliò, sobbalzando con brutalità. Si era immerso distrattamente nei suoi pensieri, ma era più un leggero vagare che una mediazione profonda.
«Il prossimo sabato, all’anniversario di matrimonio mio e di mia moglie. Ci sarà un buffet, un’orchestra, una grande sala da ballo…» gli disse Mike, col consueto fare pacato e un sorriso sempre allegro a imperare sul suo volto paffuto. «Le ho mandato l’invito il mese scorso. Vede, Candice ne sarebbe entusiasta. Aveva amato sentirla suonare Bach e se le andasse di farle questo regalo, ecco sarebbe magnifico. Sono già riuscito a convincere il professor Watson a presentarsi in smoking, ora tocca a lei, Holmes.» Sì, aveva sentito che cos’aveva detto. Veramente. Lo aveva proprio sentito, e anche parecchio bene. A dire il vero, Sherlock ricordava persino dell’invito a quella festa, perché la busta giaceva ancora sulla scrivania del suo studio. Non sapeva come ma questa continuava a rispuntare fuori dal cestino dove, era certo, continuasse a gettarla. Se non si fosse ricordato d’avere un assistente che era stato certamente manipolato da sua madre, avrebbe pensato a Mrs Hudson e agli affari suoi che mai si faceva. Aveva ben presente anche quando Davidson gliel’aveva data, perché era stato il giorno in cui ogni suo problema aveva avuto inizio. Ora, che la colpa fosse di Vivaldi o del dottor Watson, poco importava. Tutti i suoi tormenti, le sue ansie, la sua insoddisfazione perenne avevano avuto inizio in quel malinconico pomeriggio dei primi di ottobre. Addirittura aveva la sensazione di non essersi mai mosso da allora e che il suo cervello fosse ancora impegnato a catalogare dettagli riguardo a un perfetto sconosciuto di cui, teoricamente, nulla avrebbe dovuto importargli. Non era così perché sembrava invece che John Watson, per la sua mente impazzita contasse realmente qualcosa. Più rimuginava, meno tranquillità riusciva a trovare. A peggiorare le cose, ai troppi dubbi che già aveva, si unì anche questo. Doveva o non doveva andare alla festa? Era una stupidaggine e normalmente avrebbe risposto con un “no” secco e maleducato. Eppure… Beh, a dire il vero Sherlock odiava le feste. Detestava la comune concezione del divertimento poiché davvero lontana da lui e dalle sue preferenze. La sola idea di starsene a un lato di una pista da ballo, in attesa che nessuno lo invitasse per un giro di valzer, lo faceva innervosire. Era irritante da morire l’esser costretto a conversare di sciocchezze con gente troppo stupida per avere il permesso di dire alcunché. No, non era mai andato d’accordo con divertimenti di alcun genere e questo perché non era il tipo di persona che stava simpatico o che riusciva a trascinare le persone in “qualcosa di fico” come dicevano i suoi odiosi compagni al college. Oltretutto, in questo caso si trattava dell’anniversario di una coppia di adorabili noiosi. Quindi no, grazie. Per questo nemmeno si era preoccupato di dover rispondere, avrebbe evitato di andarci e sperato che nessuno si ricordasse di lui il giorno successivo. Ciononostante, lì e adesso, in quella sala mensa che s’andava riempiendo di studenti, tutte le sue certezze vacillarono. Quel dottore gli stava dando fin troppo da pensare. Ma se una parte di sé non desiderava altro che levarselo dai piedi, certi pensieri lo portavano ancora a volerlo mettere sotto a un microscopio e a studiarlo con attenzione. A peggiorare le cose c’era la consapevolezza di non saper più dove iniziasse la razionalità e dove finisse l’illogicità irrazionale del suo io più nascosto. Sherlock odiava i sentimenti e non che li rifiutasse, ma perché sapeva d’essere fin troppo emotivo. Era molto più facile nascondere la più orribile parte di se stesso, e seppellirla da una qualche parte dietro a una delle maschere che portava, che affrontare tutti i giorni la difficoltà d’essere tanto sensibile. L’indifferenza era la più vincente di tutte, nessuno si assumeva mai la briga di voler capire che cosa celasse dentro di sé una persona che per tendenza si lasciava scivolare addosso tutto ciò che la circondava. Ora, però, ogni cosa era sconvolta. Sherlock non sapeva più se il suo interesse fosse meramente scientifico o se ci fosse un qualcosa di emozionale dietro. Il suo palazzo mentale era completamente per aria, e lui non riusciva a tenere a bada neanche uno stupido rossore al viso! A rendere le cose ancora più complicate, ci si era messo pure Vivaldi. Doveva assolutamente riprendere coscienza di sé, liberarsi dell’ossessione per quel concerto prima di tutto e poi riflettere e sezionare ogni più piccolo pensiero o ragionamento, così da dare un senso a quanto gli stava capitando. Lo decise in meno di un istante, e proprio lì e in quel momento. Preso da un impeto furioso, nato probabilmente dalla disperazione. Se rimuginare per un mese non aveva funzionato, né portato da nessuna parte, allora era meglio prendere il toro per le corna. Affrontare il mostro faccia a faccia pareva la sola cosa sensata da fare.

«Ci sarò» sentenziò, rivolgendosi a Mike, prima di alzarsi in piedi con uno scatto agile. Sarebbe stato mortalmente noioso, ma almeno gli sarebbe stato d’aiuto per sciogliere i nodi che riguardavano John. E poi, Sherlock amava ballare. Era la sua terza cosa preferita dopo la chimica e il violino e forse poteva avere la speranza d’invitare qualcuno per un giro di pista. Inoltre, prima si fosse sbrigato a risolvere quel mistero e con più facilità si sarebbe liberato di quel peso opprimente. Ancora qualche giorno e John Watson sarebbe stato un vago ricordo nel suo cervello, lo avrebbe stipato tra i dati che possedeva sul quel pupazzo a molla che era il loro rettore e il soporifero professor Harris. Soltanto a quel punto sarebbe stato finalmente libero di tornare alla propria pacifica esistenza.
«Dobbiamo andare» disse, infilandosi la giacca e allacciandosi con tutta calma i bottoni. Fece cenno al dottore di seguirlo, ma questi invece che obbedire restò fermo a guardarlo. In volto, l’immagine stessa di un qualcuno che non doveva capire molto di ciò che lo circondava. Cielo, e si faceva tanti problemi per un tale idiota?
«Credo parli a lei, John» intervenne Mike, con un bonario sorriso stampato in volto. Un Mike che trattenne a stento un lieve ammiccare e che poco dopo aggiunse un qualcosa del tipo: “Sì, è sempre così”.
«A me?» replicò, del tutto incredulo «Andiamo dove? E perché?»
«Lei fa sempre le domande sbagliate, dottor Watson. Mi segua e non faccia troppe questioni, è fondamentale che venga con me.» Detto questo, Sherlock Holmes scivolò tra la folla in direzione dell’ingresso. Il suo sorriso s’allargò nell’attimo stesso in cui percepì il rumore del bastone e quello di un passo claudicante che lo seguivano. Presto sarebbe stato libero.
 
 
Camminava a passo svelto per i corridoi quasi deserti e intanto ringraziava il cielo che fosse già iniziata la pausa per il pranzo, e che tutti quanti fossero ammassati in sala mensa o in un qualche locale in centro. Procedeva senza fretta e mettendo le ampie falcate una dopo l’altra con l’agilità di un atleta, ma senza mai preoccuparsi che John Watson riuscisse a tenere il passo. Non era necessario concentrarsi per riuscire a sentire il ticchettio che il bastone faceva sul pavimento, a cui seguiva il rumore di un passo arrancante. Nemmeno aveva smesso di farci caso, anzi a ogni mezzo metro controllava che fosse sempre lui a seguirlo e che tutto fosse reale. Perché era ben determinato a fare ciò che c’era da fare, ma non era sicuro che quel John volesse starlo a sentire. Pertanto certe volte esitava e gli veniva da guardarsi indietro, ma poi rinsaviva e si diceva che era davvero troppo intelligente per pensieri tanto stupidi. No, neanche di questo gl’importava. Se fosse apparso come troppo idiota probabilmente avrebbe fatto finta di nulla. Il tempo per le risposte lo avrebbe trovato dopo, sarebbe arrivato come una marea e probabilmente lo avrebbe sommerso. Ma adesso non contava. Tutto ciò che voleva era liberarsi del primo dei suoi tormenti. Non sapeva spiegarsene la ragione, il suo cervello aveva già fatto collegamenti incomprensibili prima d’allora, però era sicuro che la sua ossessione per Vivaldi avesse a che fare con John. Gliel’avrebbe fatto ascoltare, ascoltare e basta. Senza spiegazioni, senza parole. Doveva far finire tutto questo e doveva cominciare dalla musica. Anche se non amava suonare per il pubblico. "Pubblico" un termine riassumibile con un ammasso di idioti che classificava qualsiasi cosa con l'etichetta di "musica classica", ignorando bellamente epoche e stili. Gente troppo stupida per poter apprezzare davvero una differente qualità interpretativa o anche solo per distinguere rinascimento e romanticismo. Sherlock riteneva di essere il miglior pubblico di se stesso, e in questo senso era piuttosto sicuro. Inoltre preferiva di gran lunga essere ascoltato quando dimostrava la propria intelligenza spiccata o le sue abilità deduttive. Amava i “fantastico” e i “meraviglioso” e gli “wow”. Oh, Sherlock adorava gli “wow”. Lo facevano sentire una star e quelli di John Watson ancora gli risuonavano nelle orecchie. Era un sentimentale, fondamentalmente era così. Amava lo stupore sul viso degli altri. Quello che spuntava sempre e sul volto di chiunque e che soltanto l’irritazione e la rabbia per un’ipotetica offesa, era capace di scacciare. Ma quando riguardava il suo violino, a quel punto era difficile che Sherlock scegliesse spontaneamente di farsi ascoltare. Tollerava il suo assistente attorno a sé soltanto perché gli tornava utile in qualche modo. Però non poteva dire di esserci abituato. Da ragazzo, i suoi genitori erano troppo impegnati per starlo a sentire e Mycroft, quando c’era, preferiva fare altro che stare con lui. E forse era proprio per questa ragione, la poca abitudine, che un vago formicolio prese a sfarfallargli dentro. Man a mano che si avvicinava all’aula questo diventava sempre più forte. Provava anche una certa tensione mista a paura; e se lo avesse trovato pessimo? Se non gli fosse piaciuto? Sherlock non considerava mai le altre persone come in grado di scalfire quel granitico blocco di marmo che era la sua anima, tuttavia aveva timore del giudizio di uno sconosciuto. Uno che, a qualche metro da lui, ancora tentava di stargli dietro e che taceva nonostante avesse mille e più domande sulla punta della lingua. Domande alle quali non si preoccupò di rispondere, non prima che entrambi avessero varcato la soglia del suo ufficio. Solo dopo che ebbe chiuso la porta dietro di sé, Sherlock gli indicò la sedia della scrivania. Un muto invito a prendere posto che venne afferrato senza far questioni.
«Non tema, non la voglio uccidere» disse mentre apriva la custodia e prendeva lo strumento, trattandolo con la delicatezza e la cura che lo contraddistingueva in quei casi. Solo una rapida accordatura e sarebbe stato pronto.
«La gente pensa spesso che lei sia un assassino?» gli chiese John in risposta, mentre prendeva posto. Sherlock sollevò il viso in sua direzione senza preoccuparsi di rispondere a parole, c’erano situazioni in cui risultavano inutili e questa era certamente una di quelle. Preferì accennare un sorriso e mostrarlo con solo un vago accenno di imbarazzo. Il fatto che John sorridesse a propria volta, gli scaldò un qualcosa al centro del petto. E non contava che tutto questo sorridersi sarebbe stato presto fonte di altri problemi, se ne sarebbe occupato a tempo debito. Ora c’era solo Vivaldi. E l’emozione che cresceva incontrollata alla sola idea di mostrare coscientemente la propria musica a qualcuno. Non era mai stato tanto intimo con anima viva. Mai. E ora decideva di mostrarsi a un perfetto sconosciuto e che faticava persino a dedurre? Uno che quasi certamente, in quanto a musica, era fermo agli anni ’60? Era a dir poco assurdo. Lo era l’angoscia che provava al pensiero di suonar Vivaldi. Lo erano le farfalle nello stomaco. La testa sgombra. Quell’affinità insolita che provava ogni volta che lo aveva vicino. La sensazione di conoscerlo da sempre, pur faticando a comprenderlo. No, non doveva pensarci adesso. Pertanto, dopo che la loro risata si fu smorzata a sufficienza, appoggiò il violino alla spalla e vorticò su se stesso. Lo sguardo che gli rivolse e che si piantò negli occhi blu del soldato Watson, fecero vibrare entrambi di un qualcosa di nuovo.
«Antonio Vivaldi, La Stravaganza, Concerto numero due in mi maggiore» enunciò con fare solenne. Poi fu solo la musica a tender fili tra loro.

Non era impeccabile, Sherlock non lo era mai. Nessun musicista, anche amatoriale, avrebbe creduto d’esser perfetto. Oltretutto, il suo orecchio era sempre stato sufficientemente fino da essersi reso conto nell’immediato di un paio d’errori, commessi a un certo punto del secondo movimento. Aveva degli evidenti problemi d’espressività nel Largo, eppure non reputò la cosa come eccessivamente grave. Il suo suonare era stranamente limpido, chiaro, onesto. Erano precise le arcate e le dita viaggiavano svelte, tanto da far invidia a un professionista. Questo tanto gli bastava. Anzi, a un certo momento credette di non aver mai avuto un suono tanto incredibilmente sincero, oltre che bello. In poche battute, quell’Allegro divenne l’espressione di ciò che Sherlock Holmes era fin dentro le ossa. Una parte di sé che nessuno conosceva e che non era capace di trattenere mentre suonava. Solitamente non se ne preoccupava, perché al massimo erano Mrs Hudson e sua sorella ad ascoltarlo e loro facevano caso a ben poco. Lì e in quel momento, però, era come se l’algido e severo professor Holmes avesse lasciato il posto a qualcuno di completamente differente. Quasi avesse ceduto il passo a una creatura nata dalla passione stessa, e con una capacità d’amare profonda. Sherlock era un uomo fondamentalmente sensibile e immensamente fragile, teneva a distanza tutto e tutti anche per paura di venir spezzato. Non lo aveva mai detto a nessuno e buttò lì quella confessione come se niente fosse tra una nota e un trillo. Era decisamente tutta un’altra, la persona che in quel Vivaldi suonato a mezzogiorno e tre quarti di un freddo giorno di novembre, stava mettendo a nudo tutto quanto se stesso in una maniera che non aveva mai fatto prima. C’era foga in certi passaggi. Una passione ingorda e lussuriosa nelle note che andavano sul Piano, e poi una delicatezza dolce in quei Crescendo che si ripetevano in un perfetto schema barocco. Sherlock se ne stava là, ritto e immobile. Non lontano dalla finestra. Di tanto in tanto si muoveva, ondeggiando al pari di un fiore in balia del vento. Si lasciava trasportare dalla musica, come se fosse lei a cercare di continuo di portarselo via e rapirlo per poi non restituirlo mai più. Aveva le labbra distese in un sereno sorridere e le palpebre serrate. Torreggiava su John Watson, lo vedeva senza guardarlo. Lo sentiva pur badando ad altro. Lo aveva nella mente, nel cuore. Ovunque. E lo detestava, lui e il suo enigma insolvibile. Eppure ne era attratto. E nel contempo suonava quel tardo barocco veneziano come se stesse sfogando tutto un mese di frustrazione. Quando finalmente la musica cessò di riecheggiare per il piccolo studio stracarico di libri e cianfrusaglie, Sherlock si rese conto di star vistosamente annaspando. Tremava e al punto che dovette lasciarsi cadere contro la parete spoglia vicino alla finestra. Vi si appoggiò e intanto aveva preso a stringersi al petto il violino, come se avesse paura che quel John volesse portargli via anche quello oltre a tutte le sue certezze. Soltanto dopo che si fu calmato e respiro e battito furono tornati regolari, si preoccupò di portare lo sguardo su John Watson. Stava in punta di sedia, proteso in avanti e aveva lo sguardo sgranato. La bocca grande, ampia, spalancata in un’espressione incredula. Il bastone era caduto a terra, non più importante.

«Fantastico» mormorò, forse parlando più che altro con se stesso.

«Assolutamente fantastico» ripeté e soltanto allora, Sherlock si lasciò andare. Dopo essersi fatto scivolare a terra, sempre col violino stretto al petto, si rese conto di quanto era appena successo. Capì che aveva permesso a un dottore qualunque di leggergli dentro. Di vedere e capire pensieri e sentimenti di cui Sherlock a stento comprendeva il significato, né una più banale raison d’etre. Sentiva gli ingranaggi del proprio cervello mettersi in moto e gli echi di quel tormentato Vivaldi, svanire come per merito di un incanto. Suonare per John lo aveva liberato. Ora, però, un qualcosa di ben peggiore si affacciava nella sua mente e gli divorava il cuore. Perché non poteva davvero negare l’esistenza del battito accelerato che gli tamburellava in petto, delle pupille dilatate e dell’emozione che non accennava a crescere e gli permetteva quasi di volare. La consapevolezza lo colse allora, lo prese alla sprovvista e bastò un singolo istante per mandarlo nel panico più totale. Com’era potuto succedere? Quando? E perché proprio a lui? Già perché, la tragica verità gli fu addosso tutta in una volta. Quel suonare, il suo mostrarsi e mettersi a nudo, lo aveva brutalmente e pericolosamente eccitato. E adesso se ne stava lì, con qualcosa di ignobilmente duro tra le gambe e un rossore che gli divorava tutto quanto il volto. Se ne stava seduto a terra, col viso nascosto dietro al violino. L’archetto ancora stretto tra le dita di una mano e la paura che cresceva dallo stomaco e gli mangiava il cuore. Oltre a non avere la minima idea di come uscirne sano e salvo, in lui crebbe il timore che il mare di guai che lo stava investendo fosse soltanto all’inizio.




Continua
 
 


*Estro Armonico
**La Stravaganza


Il brano citato è il Concerto n.2 in mi maggiore di Vivaldi, contenuto nella raccolta di concerti per violino: “La Stravaganza”. Vi consiglio di ascoltarlo per avere un’idea di quello che è il contesto generale.

Nel prossimo capitolo faranno la loro comparsa anche Mrs Hudson e sua sorella… stay tuned.

Ringrazio tutti coloro che sono arrivati a leggere sino alla fine e chi sta apprezzando. Grazie per le recensioni.
Koa
 
   
 
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