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Autore: Trainzfan    31/01/2018    1 recensioni
7000 d.c. - L’umanità è divisa in due ceti: aristocrazia/clero e popolo. Tutta l’economia della Terra è basata sull’energia fornita dal Goddafin, sorta di raggi di immensa potenza che discendono dal cielo finendo dentro a cupole blindate, gestiti e distribuiti dall’aristocrazia/clero che, grazie a questo, può tenere in suo potere tutto il resto dell’umanità: il popolo. Esso dipende dal clero sia per l’energia necessaria per calore e illuminazione sia per attrezzature metalliche necessarie alla coltivazione o piccole operazioni quotidiane. Per evitare una ribellione la classe dirigente mantiene il popolo nell’analfabetismo e soggezione mediante una religione che insegna quanto il popolo sia costituito dai superstiti risparmiati da Dio, durante lo scatenarsi della sua ira in un lontanissimo passato mentre l’aristocrazia rappresenta l’eredità del popolo eletto assurto a guardiano dell’energia donata da Dio agli uomini mediante i raggi del Goddafin che da millenni alimenta la Terra.
Chi-Dan, giovane archeologo dell’aristocrazia della Celeste Sede (sorta di Vaticano della religione del Goddafin), viene incaricato dallo zio, Sommo Tecnocrate, di indagare su di un misterioso ritrovamento che aprirà letteralmente un mondo nuovo sconvolgendo e cancellando drasticamente tutto quanto è stato ritenuto sacro e reale
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 3 - Attorno

Tar’as e Har’ak avevano appena finito il giro quotidiano di raccolta dei rottami ferrosi col cui commercio vivevano e stavano spingendo il loro carretto lungo la strada sterrata che, passando attraverso il villaggio di Nabir, li avrebbe condotti da Bar’ok, il fabbro.
 
«È sempre più difficile trovare buoni rottami» commentò Tar’as all’amico e socio «Bisognerà tornare a fare un giretto alla discarica della cupola».
 
«Preferirei evitare» replicò Har’ak «Sai benissimo quanto sia pericoloso avvicinarsi alla cupola. L’ultima volta c’è mancato un nulla che ci trasformassero in bersagli mobili per le loro frecce!». Aggiunse, rabbrividendo al solo ricordo.
 
«Già» convenne l’amico «ma ti ricordi, anche, quanto ci abbiamo ricavato col vecchio Bar’ok?» concluse ammiccando.
 
Har’ak si strinse nelle spalle anche se, riluttante, dovette convenire con quanto Tar’as aveva affermato: quella era roba di primissima qualità!
Dalla loro destra udirono l’insolito rumore di un motore in rapido avvicinamento. D’improvviso comparve sopra di loro un hovercraft il quale, rapidissimo, attraversò la strada sterrata transitando proprio sulla loro verticale, scomparendo subito, alla loro sinistra, sopra i tetti bassi delle case in direzione della cupola.
Il transito del veicolo sollevò una grandissima e turbinante nuvola di terra che sferzò con violenza su di loro, il loro carico e tutto quanto stava attorno.
Entrambi alzarono istintivamente le braccia per ripararsi il volto da quella, se pur piccola, vera e propria tempesta che, dopo qualche istante, prese a depositarsi nuovamente sulla strada.
 
«Maledetti preti!» imprecò Tar’as tossendo e sputacchiando a causa del pulviscolo che ancora aleggiava nell’aria.
 
«Ehi, smettila!» gli si sovrappose Har’ak con aria spaventata guardandosi attorno con apprensione.
 
Quando vide che nessuno era a portata di orecchio aggiunse: «Non dire queste cose! E se ti sentiva qualcuno?».
 
«Chi se ne frega!» insistette Tar’as «Lo sanno tutti che noi del popolo, per loro, siamo solo un fastidio o, al limite, giusto qualcosa da usare».
 
«Tu sei pazzo, Tar’as» attestò Har’ak scuotendo il capo «Un giorno di questi Dio si ricorderà di te e allora …»
 
«… e allora, forse, sarà la volta buona che li fulminerà tutti quanti con la sua potenza!» lo interruppe il giovane popolano finendo di scrollarsi di dosso tutta la terra e la polvere che gli si era infilata dovunque, sopra e dentro agli indumenti.
 
«Non cambierai mai» concluse rassegnato Har’ak «Comunque stai attento, fratello; non voglio perdere il mio socio preferito. Non ancora, per lo meno!» aggiunse ridendo e facendo l’occhiolino all’amico.
Con questo i due amici ripresero la strada verso la bottega di Bar’ok.
 
Da lontano la fucina poteva essere scambiata per una qualunque delle altre casupole che la circondavano se non fosse stato per l’incessante colonna di fumo che fuoriusciva dal foro posto sulla sommità del tetto conico che la sovrastava. Avvicinandosi ci si accorgeva che tutto il lato anteriore della costruzione era aperto mancando completamente la relativa parete.
Questo era necessario in quanto aiutava a smaltire l’intenso calore generato dall’attività. All’interno si notava subito la grande fornace, dove il metallo veniva fuso per essere poi lavorato.
A fianco di questa, nella penombra, vi erano due grandi mantici i quali servivano ad alimentarne il fuoco. A manovrarli vi erano due ragazzini di circa una dozzina di anni.
A vederli, uno vicino all’altro, sembrava quasi di guardare dentro ad uno specchio tanto si assomigliavano: erano, infatti, i due figli gemelli di Bar’ok, Tor’ok e Mor’ok.
Entrambi indossavano due semplici perizomi della solita stoffa grezza che tutto il popolo usava e, a causa del calore intenso, i loro corpi luccicavano di sudore nella semioscurità riflettendo i bagliori danzanti del fuoco.
Il duro lavoro cui attendevano ormai da un paio di anni aveva iniziato a dare i suoi frutti sui due giovanissimi corpi che, infatti, mostravano già notevoli e guizzanti fasce muscolari le quali, di lì a pochi anni, avrebbero permesso loro di diventare come loro padre che troneggiava di fronte al crogiuolo con i suoi 130 chilogrammi di peso distribuiti su di una altezza di un paio di metri.
Già dotato di una più che notevole statura, Bar’ok sembrava ancora più grande a cause del basso soffitto della costruzione. Ad ogni modo persino il pesante maglio, che non molti avrebbero potuto agevolmente anche solo sollevare, nelle sue possenti mani sembrava, quasi, il giocattolo di un bambino.
 
«Ehi, Bar’ok!» lo chiamò Tar’as, urlando, nel tentativo di sovrastare il frastuono provocato sia dal maglio che batteva, modellandolo, su di un pezzo di metallo ancora rovente, sia dal ruggito del fuoco che divampava nella fornace.
Il gigante guardò in direzione della voce per un istante poi, assestato un ulteriore colpo al pezzo cui stava lavorando, lo immerse nel grande bidone pieno d’acqua che aveva a lato dell’incudine dal quale immediatamente si sollevò una grossa nuvola di vapore accompagnata dallo sfrigolio del metallo che si raffreddava di colpo.
Deposto il pezzo raffreddato si voltò e, sempre brandendo l’enorme maglio, si diresse verso i due ragazzi i quali, di fronte a lui, parevano due ragazzetti nonostante avessero anche loro una buona statura e corporatura.
Bar’ok, da parte sua, indossava un paio di brache tipiche dell’abbigliamento del popolo ed un grande grembiule di cuoio che lo proteggeva dagli eventuali schizzi di metallo incandescente che, facilmente, si potevano generare nel suo lavoro.
La pettorina del grembiule conteneva a mala pena il torace il quale non nascondeva minimamente l’enorme forza che i suoi possenti pettorali potevano generare.
Sopra di questo un collo degno di un toro sorreggeva, a sua volta, una testa altrettanto massiccia caratterizzata da un viso dai tratti decisamente Monglen: i piccoli occhi porcini sovrastavano due guance, paffute e rubizze a causa della continua esposizione al calore del fuoco della fornace, ed un grosso naso schiacciato a patata.
I lunghi ed incolti capelli erano attualmente raccolti in una specie di coda sulla nuca trattenuta da un laccio di stoffa. Il suo aspetto, nella maggior luce dell’esterno, era, se possibile, ancora più terrificante, quasi una sorta di dio Vulcano uscito direttamente dagli inferi, ed anche i due amici, che pur lo conoscevano da tempo, restarono momentaneamente bloccati.
Il gigante ammiccò un paio di volte in attesa che i suoi occhi si abituassero alla luce esterna, guardò i due ragazzi e, finalmente, li riconobbe.
A quel punto, istantaneamente, il suo viso s’illuminò in un grande sorriso, quasi fanciullesco.
 
«Ecco qui i miei due ragazzi preferiti!» tuonò con una voce così profonda da far avvertire attraverso l’aria le vibrazioni della stessa ai suoi interlocutori.
Detto questo lasciò cadere a terra il maglio che aveva ancora in mano e abbracciò calorosamente entrambi i ragazzi i quali, per un momento, sentirono scricchiolare le proprie costole sotto la forte pressione.
 
«Bar’ok, vecchio orso, un giorno di questi ci ammazzerai con i tuoi abbracci!» protestarono scherzosamente i due giovani popolani una volta riusciti a liberarsi dalla ferrea stretta.
 
«Oh! Oh!» ridacchiò l’uomo. Poi, con curiosità: «E allora?... Cosa mi avete portato questa volta? Vediamo… vediamo…» e, con questo, si avvicinò al carretto dei ragazzi strofinandosi le mani sul grembiule.
I due amici gli mostrarono tutto l’assortimento di rottami metallici che avevano raccolto e restarono a guardarlo ansiosi.
 
«Non sarà molta roba ma è tutta di alta qualità» decantò Tar’as alla fine.
 
«Mmm…» commentò il fabbro girandosi tra le mani alcuni pezzi metallici e osservandoli con occhio critico «Non sono mica una donnetta del mercato ‘che mi raccontate la merce! Diciamo che è robetta giusto discreta».
 
«Ma che dici?!» ribatté il ragazzo, con aria offesa, prendendo in mano due zappette ancora parzialmente lucide, pur se contorte «Guarda che favola, ‘ste due! È Roba della cupola, questa! Mica di quella che fai tu!».
 
«Prego?» interruppe, con tono minaccioso, Bar’ok.
 
«Ehm… cioè… dai…» farfugliò Tar’as incerto non sapendo bene quanto c’era di scherzoso e quanto no nel tono del gigante. «Insomma,» concluse «quanto ci dai?».
Questo, finalmente, dava il via alle trattative vere e proprie che, come d’abitudine, andarono avanti per parecchio tempo alternando momenti di concitata contrattazione ad altri in cui un osservatore esterno, non a conoscenza degli usi, avrebbe potuto pensare che i tre si sarebbero ammazzati l’un l’altro senza pietà.
Infine, come previsto dalle consuetudini, un accordo soddisfacente per tutti fu raggiunto e, scaricati i rottami ferrosi nonché caricati i manufatti del fabbro, frutto del baratto, i tre si salutarono calorosamente tornando ognuno alla propria attività.
 
«Dobbiamo ricordarci di andare a prendere la farina al mulino e la stoffa che tua sorella voleva» ricordò Har’ak all’amico.
 
«Si. Si. Lo so» rispose questi continuando a spingere il carro di buon passo «Vediamo di muoverci a fare tutto così poi, magari, facciamo in tempo a fare un giretto esplorativo alla discarica della cupola».
 
Har’ak emise un sospiro rassegnato, alzando gli occhi al cielo e pensando fra sé: «No! Decisamente non cambierà mai!».
 
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