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Autore: Kiki S    01/02/2018    1 recensioni
"Ma io in strada non sono mai andata. Il mio mondo è sempre stato qui, in questo ampio cortile"
***
Non è facile essere gatti randagi: a sette mesi bisogna già saper badare a sé stessi, saper riconoscere i pericoli e procurarsi il cibo da soli. È una vita ben diversa da quella che conducono gli animali d'appartamento, eppure c'è un grande vantaggio, al quale rinunciare è impossibile: la libertà.
Ma basta davvero non avere nessuno da chiamare padrone per considerarsi veramente liberi?
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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È vero che ho solo sette mesi, ma non ricordo molto del giorno in cui sono nata.

So che era un bel giorno di primavera inoltrata, la stagione migliore per i gattini di venire al mondo, almeno per noi randagi, e che avevo tre fratelli maschi. Per il resto, non ne ho idea.

Non saprei nemmeno dire dove abbia esalato il mio primo respiro; un nascondiglio nel cortile? Probabile, sicuramente deve essere stato in un luogo qui intorno, perché questo è il territorio di mia madre. Per lei eravamo ormai l’ennesima cucciolata. Ci ha leccati ben bene, ci ha allattati, ci ha insegnato le tecniche di caccia e protetto nei momenti di pericolo, ma cari miei, da queste parti, quando raggiungi i quattro mesi, ti dicono tanti saluti e vai per la tua strada.

Così sono andata. Nella caccia non sono male (ammettiamolo, sono migliore rispetto ai miei fratelli, ma si dice in giro che noi gatte ce la caviamo meglio dei maschi, in questo) e sono anche piuttosto veloce a nascondermi. Oh sì, perché spesso è necessario. Ci sono due specie animali verso le quali mia madre ci ha messo tutti in guardia: i cani e gli uomini.

Pare che questi siano strettamente correlati.

Con i primi non riusciamo ad andare d’accordo perché proprio non ci capiamo, è una questione chimica. Per di più il nostro linguaggio del corpo è l’opposto del loro.

Per quanto riguarda gli uomini … beh, in questo caso la cosa è più semplice: sono pericolosi perché sono stupidi, anche se, disgraziatamente, si credono molto intelligenti.

Pare comunque che cani e uomini vadano piuttosto d’accordo.

Sì, lo so, lo so, ci sono anche gatti che vivono insieme agli essere umani, cosa credete? Che viva fuori dal mondo? Ma Dio me ne scampi e liberi! Pallette di pelo viziate che non sono nemmeno in grado di acchiappare un topo come si deve!

In ogni caso, sia i gatti domestici che gli umani, generalmente, snobbano noi gatti di strada. Ma che ci si può fare? in fondo può anche darsi che sia meglio così, almeno abbiamo più libertà.

Ah sì, e mai fidarsi di quegli umani che portano scodelle di cibo ai randagi, sarebbe un pessimo errore: spesso ci mettono qualcosa dentro, non so bene di che cosa si tratti, ma pare che possa ucciderci. Sono esseri piuttosto oscuri, questi uomini, forse hanno qualcosa a che fare con il maligno, glielo si legge negli occhi.

Ne ho visti io, di questi miei simili, a terra sofferenti dopo aver mangiato il cibo dell’inganno portato da questi galoppini del diavolo. Brutto affare!

Ma io non potevo certo far nulla per aiutarli. Qui vigono leggi dure e spietate, ognuno pensa per sé e garantisce per la propria sopravvivenza, gli altri non sono affar mio.

Anche se, lo ammetto, qualche volta mi dispiace.

Esiste un’altra cosa, poi, a cui mia madre mi consigliò di fare attenzione, prima che fossi grande abbastanza per alzare i polpastrelli privi di tacchi: la strada. Pare sia attraversata da aggeggi infernali (e poi non dovrei credere che uomini e demonio siano in combutta?), che procedono a gran velocità. Se ci scontriamo con uno di questi, per noi è la fine.

Ma io in strada non sono mai andata. Il mio mondo è sempre stato qui, in questo ampio cortile, qui si deve fare attenzione soltanto ai brutti ceffi che ogni tanto cercano di sterminarci con il cibo guasto.

Per il resto, come me la cavo? Non posso lamentarmi, dai. Vivo alla giornata, ma come ho già detto sono una buona cacciatrice, ed è certo che migliorerò una volta cresciuta. Mia madre era molto abile: a lei non sfuggivano né farfalle, né libellule, né topi. Le prede, con lei, non avevano scampo.

Io ripeto, me la cavo, ma sono ancora giovane, devo perfezionare la mia tecnica, anche se devo ammettere di essere piuttosto orgogliosa, mi piace sentirmi già perfetta.

Sembra che l’orgoglio ci accomuni un po’ tutti, noi gatti. Anche se da questa categoria escluderei i gatti di casa.

Comunque prendo un po’ di tutto: dagli insetti, ai ratti, agli uccelli. Appostarsi per tendere loro l’agguato mortale è indescrivibilmente bello.

D’accordo, sì, lo ammetto: caccio prevalentemente per mangiare, ma la fame non è l’unico motivo che mi spinga a uccidere i piccoli animali.

È l’istinto a indurmi a farlo, una sorta di gioia perversa che mi invade non appena al mio udito giunga battito d’ali o rumore di zampette che corrono veloci.

Fin da subito capisco che quello è il momento di mettersi in posizione: scruto la preda da una certa distanza, la studio e mi acquatto per non essere vista. Gli insetti di solito non si accorgono di niente fino a che non inizio a saltar loro addosso, ma gli animali più grossi possono sentirmi, per questo devo essere cauta.

Niente è più importante della pazienza e della perseveranza, lo diceva sempre mia madre durante le lezioni di caccia. Bisogna muoversi con calma e con astuzia, e non demordere se l’agguato non va a buon fine al primo tentativo.

Un episodio di caccia memorabile, dite? Sì, ce l’ho. È avvenuto più o meno il mese scorso: a un certo punto è arrivato un merlo, nella mia zona di cortile. Fin dal primo istante non ho potuto resistere: tanto per cominciare si avvicinava l’ora di pranzo e lo stomaco cominciava a farsi sentire e a dimostrarsi contrariato, e a me non basta miagolare fino allo sfinimento perché qualcuno mi serva come un moccioso. Sono una gatta seria, io.

Così mi sono appostata quatta quatta nascondendomi nell’erba ancora piuttosto alta. Il merlo beccava qualcosa dal terreno e sembrava non far troppo caso a me.

Io avevo l’acquolina in bocca. Avete mai provato a mangiare un merlo? No? Beh, non è affatto male! Comunque io sono rimasta ad aspettare pazientemente, come mi ha insegnato la mia mamma, mentre lo osservavo. Lui beccava il terreno e non si era accorto di me.

A quel punto mi sono detta che ero pronta a sferrare il mio attacco, così mi sono preparata. Stavo per saltare quando, all’improvviso, accanto all’uccello nero ne sono arrivati altri quattro del tutto identici.

Mi capite? In totale erano cinque merli! Riuscire ad acchiapparli tutti avrebbe significato una gran bella scorpacciata, ma siamo onesti: come può un gatto solo acciuffare cinque prede tutte in una volta? E a quel punto, anche prenderne una soltanto diveniva più complicato, perché una volta che fossi atterrata loro addosso, avrebbero creato confusione nel tentativo di fuga.

Decisi però di provarci ugualmente. Insomma, la fame è la fame. E una sfida è una sfida.

Così mi sono rimessa in posizione.

Gli uccelletti beccavano tranquilli il terreno. So che noi e gli uccelli abbiamo in comune il gusto per gli insetti.

Squadrandoli uno per uno, dovetti decidere quale facesse maggiormente al caso mio: due erano voltati nella mia direzione, anche se distratti, due mi davano le spalle e l’ultimo si allontanava considerevolmente verso destra. Questo fu quello che esclusi a priori: dovermi spostare prima di compiere il balzo avrebbe potuto farmi scoprire, e con questo farmi perdere tutte e cinque le plausibili prede.

Così lasciai perdere il fortunello che si dirigeva per la sua strada, dandogli mentalmente appuntamento per la prossima volta; un bell’appuntamento piacevole e gustoso tra le mie fauci, ma torniamo alla caccia.

Mi accorsi di avere più chance di ghermire uno di quelli voltati dall’altra parte, ma non so perché, (forse perché una sfida è sempre una sfida!), decisi di prendere di mira gli altri, i quali certamente mi avrebbero vista per primi.

Oramai ero pronta a balzare, così scattai.

I due merli che non avevo puntato se la filarono subito in volo non appena avvertirono lo spostamento d’aria che avevo provocato, mentre, tra le mie vittime designate, ero riuscita a bloccarne uno tra le zampe. Tutto a posto, direte voi, gli hai assestato un bel morso alla gola e te lo sei pappato con gusto. E invece no! Uno dei furbacchioni volati via al mio arrivo si era fatto temerario ed era sceso nuovamente per beccarmi le zampe. E lasciate che ve lo dica: il becco degli uccelli è uno strumento di tortura. In questo modo dovevo difendermi dal mio assalitore, ma al tempo stesso tentare di mantenere salda la presa sul poveraccio che avevo intrappolato. In più dovevo resistere al dolore.

Ma è stato tutto inutile: alla fine mi sono scappati entrambi.

Allora ti è andata male? Mi chiederete voi. Ed è qui che viene il bello. Il nuovo fortunello e il suo salvatore se l’erano svignata, per poi appollaiarsi su un albero.

Io so salire sugli alberi, è un gioco da gattini, ma avrei soltanto sprecato fiato, che già mi mancava per la fatica del tentativo fallito, a farlo in quel momento: subito dopo un agguato subito, gli uccelli sono spaventati, e lo spavento acuisce i sensi.

Così ho atteso, promettendo al mio stomaco che più tardi l’avrei ricompensato.

Ho aspettato un bel po’, fingendo anche di essermi arresa allontanandomi e squadrando i merli come a dire lo ammetto, questa volta avete vinto voi. E si sa, non è che i merli siano dei grandi esempi di intelligenza. Così ci sono cascati.

Nel frattempo io ho continuato a tenerli d’occhio a distanza, mentre questi mi davano le spalle e non sospettavano nulla. A un certo punto se ne sono andati, per poi tornare dopo qualche tempo sul loro ramo, probabilmente sazi e stanchi.

È stato in quel momento che ho deciso di agire; qualcosa alla ora o mai più.

Da notare che nel frattempo mi ero dedicata un antipasto di un paio di mosconi. Era però ormai giunto il tempo per la portata principale. Così sono passata all’attacco. Ne avevo avuta di pazienza, mia madre sarebbe stata fiera di me, se solo non gliene importasse più nulla, dato che ha già avuto un’altra cucciolata.

Di certo non stavo demordendo, e questo faceva di me una cacciatrice degna di tale denominazione.

Mi sono arrampicata sul tronco con l’agilità felina che mi contraddistingue, sempre attenta a non fare rumore e, sgattaiolando tra un ramo e l’altro, sono giunta in fretta su quello occupato dai due furfanti che credevano di avermela fatta.

Si vede che non conoscono l’orgoglio dei gatti. Se credono che noi ci facciamo abbindolare in tal guisa, hanno davvero molto da imparare.

Dormivano beati, gli allocchi! Un unico salto, e li ho presi entrambi: uno imprigionato tra le zampe, l’altro stretto tra le mascelle. Per la paura non furono nemmeno in grado di dibattersi.

Stringevo la presa dei denti sul collo di uno, sentendo il suo respiro morire di secondo in secondo, e nel frattempo osservavo l’espressione vacua degli occhietti neri e inespressivi dell’altro.

Sorpreso, eh? Gli dicevo io con lo sguardo di fuoco. Sei fottuto, amico. Bye, bye. Spero per te, che nella prossima vita, tu rinasca gatto.

Una volta che fui certa di aver strangolato il primo malcapitato, lo lasciai andare verso terra e svelta presi tra le fauci il secondo, per poi correre difilato giù a mia volta.

Lì diedi il ben servito all’altro mio amichetto poi, contenta e soddisfatta, feci per portarmeli nel mio posticino segreto che mi funge da tana.

Immaginerete però che trasportarli tutti e due tra i denti risultava un pochino impegnativo, così mi sono ingegnata: uno in bocca, con l’altro facevo il possibile per muoverlo in avanti con le zampe.

È stata una cosa lunga, oramai era quasi sera e io morivo di fame, però ero fiera di me, avevo vinto la mia sfida personale.

Sono una gatta degna di ammirazione e destinata a prevalere: quando comincerò anche ad avere dei cuccioli, entrerò a far parte della sfera più alta della gerarchia.

Ma penso che per questo mi ci voglia ancora qualche mese: spero che il momento giunga quando il clima si farà più favorevole, com’è meglio che sia.

È stato sulla strada verso casa che ho incontrato il fetente: soprannome ampiamente meritato di uno di quegli squallidi gatti d’appartamento che ogni tanto vengono in cortile a fare quattro salti per sgranchirsi le ossa.

Questi sono quelli che odio di più. Non provo una particolare simpatia per i pigroni che vivono al calduccio e si fanno strapazzare di coccole dai loro padroni umani, ma fino a che se ne restano a casa loro, non mi faccio troppi problemi al riguardo. Ma proprio non sopporto questi sbruffoni che fanno il giro del cortile sentendosi grandi felini solo perché qualche volta sono riusciti a mettere nello stomaco un moscerino, saltato loro in bocca. Anche loro, come i pigroni di cui sopra, una volta rincasati hanno la pappa pronta in quella cosa che si chiama… ciotola.

Di questi pessimi individui ne gira qualcuno in cortile, ma il fetente è il peggiore di tutti: lui è sicuramente il più sfrontato e spesso e volentieri sottrae le prede ai cacciatori stanchi come io ero in quel momento.

Me lo sono visto di fronte, con il bel pelo marroncino liscio e lucido, le pupille ingrossate e lo sguardo eloquente.

Mi sono fermata e ho serrato più forte i denti sulla prima preda, e le zampe sulla seconda che trascinavo con me a fatica.

No, caro mio. Te lo scordi. Due prede in una volta è un’impresa memorabile, neanche morta te ne concedo anche una soltanto. Gli ho fatto capire con un’occhiataccia.

Ma lui se n’è fregato e ha cominciato ad avanzare verso di me. Ne avessi avuta una soltanto avrei potuto tentare la fuga, ma in quel caso mi era proprio impossibile.

Così avevo due alternative: tentare di difendere entrambe le prede, rischiando di perderle tutte e due, soprattutto a causa della stanchezza, oppure svignarmela con una soltanto e lasciare l’altra alle fauci immeritevoli del fetente.

Ho dovuto lottare strenuamente contro il mio orgoglio per scegliere la seconda opzione. Non avrei voluto farlo, sono sincera, ma non potevo correre il rischio di restare senza cena. Avevo perso tutto il giorno dietro a quei merli, per pura e semplice soddisfazione personale.

Così, a malincuore, mi lasciai alle spalle metà del bottino e me la diedi a zampe levate con l’altra.

Fu un peccato, ma riuscii a mangiare. Che ne avessi prese due, in ogni caso, si dimostrò una fortuna.

Abbandonando uno dei merli alla mercé del fetente potei riempirmi lo stomaco, se la caccia però me ne avesse fruttato uno soltanto, molto probabilmente mister gatto di casa che si atteggia da randagio me l’avrebbe sottratto aiutato dal fatto che fossi sfinita.

Mi brucia ancora un po’ quel ricordo. Come ho già riferito, noi gatti siamo orgogliosi, ma ogni tanto capita di doversi piegare a questo genere di rinunce, anche se non è affatto piacevole.

In ogni caso, da quel giorno non ho smesso di acchiappar prede, anche se non mi sono cimentata più in un’impresa tanto folle e ricca di sfida verso me stessa.

Forse prima o poi ritenterò, ma al momento preferisco di no. Non ci tengo a ripetere l’esperienza. Caccio sempre per divertimento, oltre che per fame, ma non vado mai oltre le mie possibilità: se perdo una preda, ne cerco un’altra, anziché ostinarmi sulla stessa.

Comunque ho il sospetto che sia la vicinanza degli umani a rendere questi gatti (quelli che hanno l’atteggiamento del fetente) malvagi e opportunisti. Sì, certo, ogni gatto deve pensare a se stesso, e come creature selvagge obbediamo alle leggi della natura, ma nessuno di noi, in libertà, è mai veramente cattivo con gli altri. Capita di rubare, sì, ma è la fame a spingerci a farlo, non un desiderio fine a se stesso.

Gli esseri umani sono proprio una gran brutta razza; li ho visti solo da lontano (io non mi sono mai avvicinata, nemmeno a quella ragazza che, quando mi vede nel cortile, si inginocchia e mi chiama con quello schiocco della lingua che loro usano sempre nei nostri confronti. No, cara. Non mi freghi. Penso sempre quando la vedo, e filo alla velocità della luce), ma non mi fido affatto di loro.

Una volta ho sentito dire che, quando le loro gatte d’appartamento fanno i cuccioli perché sono scappate per accoppiarsi, per poi tornare a casa per via dei morsi della fame, prendono i gattini e li abbandonano oppure li affogano.

Rabbrividisco al solo pensiero. Sarà il mio istinto materno ancora da sperimentare, ma giuro che l’idea di una simile crudeltà mi dà i brividi.

Forse potrebbero esistere dei vantaggi a vivere con loro: starei al caldo, dormirei in posti morbidi, e mi verrebbe riempita di cibo quella cosa che si chiama ciotola, ma no, grazie. Passo volentieri, non ne vale la pena. So che per questo dovrei rinunciare alla mia libertà e non potrei mai accettarlo.

Forse è diverso per quei gattini che nascono in casa, abituandosi fin dall’infanzia a quella vita, ma per me non potrebbe funzionare, anche se trovassi uno di quei rari umani che rispettano i gatti.

Forse la ragazza che vedo sempre avrebbe queste intenzioni con me, chi lo sa, ma sta di fatto che non voglio scoprirlo. Così non rischio nemmeno di incappare nel cibo guasto come molti altri miei simili creduloni.

Ma è pur vero che un luogo caldo dove dormire oggi mi farebbe proprio comodo: è un giorno di fine novembre, ed è da stamattina che piove ininterrottamente. Ormai sono fradicia, anche se sono rimasta nascosta nel mio solito posto.

L’acqua filtra, e c’è poco da fare.

Ora come ora il fetente se ne starà comodo sdraiato sulle gambe del suo padrone a ronfare beatamente, asciutto come non mai. Beh, ma che mi importa? Per lo meno, io non ho nessuno da chiamare padrone, e questo è senz’altro un vantaggio.

Ogni gatto è padrone di se stesso, e chi di noi sceglie di sottomettersi agli ordini di qualcun altro, altro non è che un venduto! Un conto sono le nostre gerarchie, in alto c’è chi lo merita di più (i maschi più forti e le femmine più prolifiche), ma dover obbedire a una creatura soltanto perché sta in piedi sulle zampe posteriori anziché usarle tutte e quattro, non esiste né in cielo né in terra.

Anche se poi, io del cielo non so un granché. Per quello dovrei chiedere agli uccelli, ma dubito che mi lascerebbero avvicinare senza volarsene via il prima possibile.

D’altra parte li capisco, non si fiderebbero, e farebbero bene. Si comportano come io mi pongo nei confronti degli umani.

Così, quest’oggi, conscia e fiera della mia libertà, non mi rimane altro da fare se non sopportare il freddo e la pioggia; pazienza, passerà. E poi la natura ha sempre un che di affascinante, anche quanto le girano: lei che è la padrona assoluta, e se qualcosa le viene tolto (dagli umani, è ovvio! Noi animali la rispettiamo come una madre), prima o poi se lo riprende, e mostrando anche apertamente il suo disappunto.

È fantastica la natura, anche in una giornata come oggi.

E poi, siamo seri, noi gatti sopportiamo meglio le intemperie di come riescano a fare gli umani. Quelli che ho notato oggi (sempre stando loro alla larga) erano tutti imbacuccati per difendersi dal freddo e si coprivano la testa con quel coso ridicolo che serve a ripararli dalla pioggia.

Fossi in loro, io resterei a casa, piuttosto che farmi vedere in quello stato.

Fa provare meno vergogna essere zuppa dalla testa alla coda come lo sono io in questo momento.

In ogni caso, dato che la differenza tra il nascondiglio e l’aperto non è poi molta, decido di uscire e farmi un giro. Forse riuscirò ad acchiappare qualche uccellino con il piumaggio appesantito dall’acqua, altrimenti vorrà dire che mi farò semplicemente una passeggiata per sgranchirmi le zampe.

Cominciano a farmi male, a starmene qui raggomitolata e intirizzita per il freddo.

Il cortile è pieno di pozzanghere, soprattutto quella enorme che si è formata lì nel mezzo. A metterci dentro le zampe credo che finirei per annegarci, sembrano profonde.

Vedo qualche altro gatto mentre cammino per il mio solito territorio: tra questi credo di aver scorto uno dei miei fratelli, ma non ne sono certa. D’altro canto oramai sono mesi che non lo vedo. Certo che ce le suonavamo quando giocavamo alla lotta, da cuccioli! Ah, i bei tempi andati. A sette mesi è troppo tardi per giocare, qui fuori. Ho sentito dire, invece, che i gatti d’appartamento giocano per tutta la vita, anche quando raggiungono l’età adulta.

Bah, contenti loro!

Io ormai mi sento sufficientemente matura da passar sopra a certe stupidaggini da gattini ancora poppanti.

Sento le cornacchie che gracchiano: quelle se ne fregano della pioggia! Non so dire di che pasta siano fatte, ma so per certo che tutta quest’acqua che piove dal cielo a loro fa un baffo.

Sono resistenti, per essere dei semplici volatili di città, infatti mi sono sempre ben guardata dal provare a prenderle. Anche perché sono belle grosse.

Sta scendendo la sera, e in fondo mi rendo conto che non mi importa poi più di tanto di essere bagnata. Faccio parte anch’io di questo ciclo e di questa natura, è giusto così.

Piuttosto, all’improvviso ho alzato lo sguardo nella pioggia e c’è una cosa, che è sempre stata lì, ma che improvvisamente attrae la mia attenzione in modo spasmodico e pressante: il tetto di uno dei palazzi presenti nel cortile.

Quanto vorrei salirci! Mi dico. Da lassù dovrei riuscire a vedere ogni cosa qui intorno e deve essere magnifico, soprattutto per me, che non sono mai uscita dal cortile.

E va bene, confesso: non mi sono mai mossa di qui perché sono una fifona, contenti? Prima di canzonarmi, però, riflettete su chi è più degno delle prese in giro, se io che temo di lasciare il territorio che conosco, o coloro che utilizzano l’aggeggio ridicolo per coprirsi quando piove.

Come se poi ci fosse qualcosa da temere, nella pioggia. Io me la sto prendendo da stamattina, e non mi è successo nulla.

Ma torniamo a noi. Così, su quattro zampe, decido che oramai sono abbastanza grande per salire su un tetto e vedere che cosa mi aspetterebbe fuori di qui, potendo però prima abituarmi alla semplice vista del resto del mondo.

Come per arrampicarsi su un albero, anche questo per me è un gioco da gattini, sebbene sia la prima volta che lo faccio; non sono sorpresa, però, di scoprire che mi viene naturale. So che sono in molti i gatti che lo fanno.

Il tetto è parecchio in alto, ma io trovo facilmente tutti gli appigli e i piani su cui far leva o appoggiarmi per seguitare nella mia scalata e, in men che non si dica, sono già su; e non sono affatto stanca.

Mi concedo un momento per inorgoglirmi, tenendo la coda dritta e sfoggiando il portamento fiero sotto questa pioggia battente che di sicuro non potrebbe fermarmi, poi inizio a guardarmi intorno.

Caspita, certo che sono in alto. Ma no, che avete capito! Non soffro mica di vertigini! Era semplicemente una costatazione.

Si è mai sentito di un gatto che soffre di vertigini? Ma per piacere!

Beh, non posso che restare incantata alla vista che mi si para davanti agli occhi: è tutto così bello da quassù. Bello e immenso; non immaginavo che il mondo fosse così grande, chissà dove arriva?

Eppure il solo pensiero di mettervi zampa ancora mi terrorizza, meglio stare ad osservarlo per un po’.

Mi siedo sulle tegole bagnate, tanto ormai per me non fa differenza, e mi immergo nella contemplazione. Vedo quella cosa che mia madre aveva chiamato strada, attraversata dagli aggeggi infernali di cui mi parlava, che proseguono veloci con quelle strane luci accese sul davanti e sul di dietro. Vedo che ci sono altre case, oltre a quelle che già conosco, e sono molte più di quante immaginassi.

Vedo che la città si estende a perdita d’occhio, e da quassù la pioggia sembra ancora più violenta e naturalmente splendida. Quasi mi beo di riceverla addosso.

Sento di nuovo le cornacchie gracchiare e, alzando lo sguardo, vedo uno stormo che si fa beffe della copiosa precipitazione.

Le osservo con ammirazione. Sì, può far strano credere che un gatto possa ammirare degli uccelli, che generalmente ci sono nettamente inferiori, ma nel loro caso c’è qualcosa di diverso.

Lo sto ancora pensando quando d’improvviso il gracchiare proviene da qui accanto. Mi volto piano e resto a guardarlo stranita e insieme piena di curiosità.

Chiamavi me? Chiedo incerta e titubante. In questo caso devo fare una precisazione: ho notato fin da subito che l’uccello che ha gracchiato è un vecchio maschio, ma tra noi animali non esistono forme di cortesia, non del genere degli umani. Così posso rivolgermi a lui come se parlassi a un gatto mio coetaneo.

Il vecchio volta il becco nella mia direzione e mi fa cenno di sì. Stupita, non so che altro dire.

Che fai quassù? Mi domanda. Guardo la pioggia, ma soprattutto osservo il mondo che non conosco. Rispondo io, un po’ a disagio, ma fortemente attirata dalla figura della cornacchia.

E confesso, un po’ mi è venuta fame a guardarlo, ma non oserei. Anche perché deve far proprio male prendersi una beccata delle sue.

Più sali, più il mondo si fa vasto. Seguita il vecchio con tono calmo e rassicurante. Sembra aver preso forma dalla pioggia stessa.

Questa è la massima altezza a cui possa salire, cornacchia, non fare tanto il superiore con me. Lo redarguisco. Non ci vuole molto a salire quando hai un paio d’ali, e per questo non c’è bisogno di auto assegnarsi un piedistallo.

L’avevo detto che sono orgogliosa.

Calma, gatta, non scaldarti. Non si sale solo verso l’alto. È sempre più calmo, lui. Sta cominciando a diventarmi odioso, se non avessi paura del suo becco enorme, lo addenterei senza remore.

Ma non mi dire. E dove mai si potrebbe salire ancora, dunque? Se continua a prendermi in giro, giuro che lo strozzo.

In tutte le direzioni. Salire significa conoscere. Certo che ha sempre la risposta pronta.

Conoscere che cosa? Cornacchia, parla come mangi, e non farti cavare le parole dal becco. Lo sopporto ancora per poco, giuro, poi finisce male.

E pensare che al primo momento mi aveva ispirato curiosità.

Conoscere il mondo. Tu sei salita quassù, e ne hai conosciuto uno stralcio. Ma hai ancora tanto da vedere. E gracchia forte in direzione del cielo, come a richiamare quei suoi compagni che volano liberi dimostrandosi potenti. Sì, forse, se davvero esistono creature più libere dei gatti, queste sono gli uccelli, che possono arrivare più in alto di noi e librarsi nell’aria come se niente fosse.

Piace sentirci invincibili, a noi gatti, ma devo riconoscere la superiorità di queste creature. Almeno in questo senso. E per questo mister cornacchia mi dà ancora di più sui nervi.

Avrò tempo di conoscere il mondo. Gli dico seccata. Sono ancora giovane.

Non conoscerai mai niente, gatta, se parti prevenuta su tutto ciò che ti circonda. Non può proprio fare a meno di dimostrarsi tanto antipatico? Voglio dire, basterebbe un piccolo sforzo, e smetterla di fare tanto il saccente. È ufficiale, tra gatti e cornacchie non ci si capisce, come con i cani.

Non diffidare sempre di ogni cosa. Vai per la tua strada, e arrischiati a salire in alto. Sei giovane, è vero, se intraprendi la strada giusta ora, potrai davvero conoscere il mondo. Perché credimi, gatta, non è da quassù che lo conoscerai. Fa con serafica saggezza.

Cornacchia … comincio io, ma non faccio in tempo a dire nient’altro, perché il vecchio, gracchiando, ha spiccato il volo per unirsi ai suoi simili.

Un po’ stordita e ancora irritata decido di scendere dal tetto. Non ho più voglia di vedere il mondo da qua, ho perso tutto il gusto per la cosa. Maledetta cornacchia! Proprio qui me la dovevo ritrovare!

Mai nella mia vita ho incontrato un essere che mi innervosisse di più, eppure quel che ha detto continua a girarmi in testa: salire. Bisogna salire per conoscere. E salire non significa soltanto andare verso l’alto. E che vorrebbe dire, allora? Forse, il vecchio blaterone intendeva andare oltre.

Forse dovrei.

Non mi sento pronta a riconsiderare gli umani o i gatti che vivono con loro, vorrei fare un passo alla volta, ma intanto mi piacerebbe superare le mie paure a inoltrarmi in quel mondo che ho tanto temuto finora.

Una piccola gitarella nei dintorni, tanto per cominciare. Chissà che un uccellaccio possa aver detto qualcosa di utile per una volta. Devo comunque riconoscere che le cornacchie siano intelligenti, sicuramente molto più dei merli.

Così respiro profondamente e mi avvio verso il cancello che conduce fuori. La pioggia non accenna a diminuire, ma ormai non ci faccio più tanto caso, ne faccio parte anch’io.

Passo tra le sbarre e scivolo fuori, non è stato poi così difficile. Certo che ho il cuore che mi batte a mille. Ma meglio proseguire, non devo farmi scoraggiare.

Forse la vecchia cornacchia sproloquiava e basta, ma devo salire e liberarmi dei miei pregiudizi.

Questa è la volta buona.

Mi avvio lentamente. Poi piano piano acquisisco sicurezza, e con questa velocità. Non è poi tanto male stare qua fuori, anche questo luogo fa parte di me, come potevo accontentarmi soltanto del cortile? Volendo essere sincera, non ho fatto altro che comportarmi come i gatti d’appartamento, che vivono murati nelle case dei loro padroni, inchiodati al loro mondo delimitato da pareti.

Il mio mondo era delimitato dal cancello. Non ho mai osato andare oltre, e non capisco come potessi definirmi libera, veramente, prima di oggi.

È una sensazione nuova, quella di trovarsi qui, ed è bellissima.

Adoro il mondo. Adoro la vera libertà. Sono nata per essere libera, ora lo sento. Non mi accontenterò più soltanto di far agguati a insetti, lucertole, topi e uccellini. Penso che vagherò molto di più. Sento che qui fuori circola aria nuova che avevo bisogno di respirare.

È immensa la libertà, anche a pochi metri da casa.

Chissà che la cornacchia non abbia ragione anche sui pregiudizi? Avrò tempo per pensarci, scoprirò una cosa alla volta. Tanto, ho tutta la vita davanti a me.

Comunque sia, d’ora in avanti guarderò con un certo rispetto le cornacchie. Sono sagge, anche se a parlarci danno sui nervi.

Proseguo in questo mondo nuovo ammirandone le luci e gli spazi aperti poi, improvvisamente, mi capita sotto zampa una lucertola. Senza pensarci due volte l’acchiappo e me la divoro.

Beh, che c’è? Uno spuntino non si rifiuta mai.

Poi riprendo a camminare; sono estasiata.

Quasi penso che non sia il caso di tornarmene al mio solito nascondiglio nel cortile, qui c’è troppo da vedere e da sentire per potervi rinunciare. Vorrei vagarci dentro finché mi fosse possibile, finché non ne fossi sazia.

Vorrei ringraziarti, vecchia cornacchia. Eri antipatica e facevi la saputella, ma te lo meriti, mi hai regalato la vita che da sola non mi ero mai concessa.

Ti cerco con lo sguardo rivolto verso l’alto, e lancio al cielo un miagolio che credo capiresti anche se tu gracchi. Tanto, bene o male, noi animali ci capiamo spesso, ammesso non si tratti di gatti e cani, s’intende.

Finché quelli si ostineranno a dimostrare irritazione tenendo la coda eretta, non si arriverà mai da nessuna parte!

Ma tralasciando le mie impressioni personali, ormai sono tanto felice che ho preso a correre. Ci sto davvero prendendo gusto, in questa esplorazione.

Sento che il mondo è mio.

Sì, il mondo è mio! Il mondo è m…

 

È successo troppo in fretta: ho visto in un lampo quelle luci demoniache e poi ho sentito la botta tremenda. Aveva ragione mia madre, bisogna fare attenzione alla strada. Ma io ero così presa dal mondo che stavo or ora conoscendo, che me ne sono dimenticata.

E che questa è la fine non ho alcun dubbio. L’aggeggio infernale del maligno mi ha presa in pieno. Sento che ho le zampe rotte. E sento che qualcosa mi fuoriesce dal ventre, forse è solo sangue, forse le mie stesse viscere.

Mi toccherà morire sotto la pioggia, solo per aver ascoltato il consiglio di una cornacchia.

Ma no, in fondo ne è valsa la pena. Quanto ancora avrei dovuto vivere, chiusa nel mio mondo protetto come un gatto domestico fa in casa del padrone? No, è meglio così. Questi sono i rischi del mestiere. Sono le fregature di chi vuole essere libero, e vanno accettate per forza di cose.

Se soltanto non fosse che fa male da morire, potrei anche sentirmi felice di aver trascorso gli ultimi minuti della mia vita vedendo quel che c’era fuori dal cortile.

Ho vissuto di più in questo breve lasso di tempo, che nei sette mesi totali della mia vita.

Grazie comunque, cornacchia, se mi senti. Avevi ragione. Avrei solo dovuto prestare attenzione come suggeriva mia madre; questo hai mancato di ricordarmelo, vecchio.

Ora, non posso far altro che attendere la morte.

Qui, in mezzo alla strada.

 

Non so quanto tempo sia passato da quando sono stata investita. So che soffro atrocemente e che la morte non vuole proprio graziarmi. Il mio respiro è flebile, ma disgraziatamente c’è ancora.

Forse, quando sarà tutto finito, volerò in alto come gli uccelli. E chissà, magari potrò acchiapparli in volo. Sarebbe una bella rivincita.

D’improvviso sento di venir sollevata. Finalmente è arrivato il momento. Mi dico. Deve essere questa la sensazione che si prova quando si muore: si viene sollevati da terra.

Chiudo gli occhi e mi preparo a spirare, ma non succede niente, e non sento altro che il dolore che aumenta. Provo a lamentarmi, ma non mi riesce.

Infine sento di toccare di nuovo il terreno. Sbigottita e agonizzante riapro gli occhi e non ho la forza per reagire a ciò che vedo.

C’è la ragazza che, nel cortile, cerca sempre di richiamarmi e che io ho sempre evitato per mancanza di fiducia. Mi ha raccolta dalla strada e mi ha spostata sul ciglio della stessa, dove potrò finalmente morire in pace.

Ha le mani coperte dai guanti e vedo che questi sono rossi del mio sangue. Mi guarda con occhi tristi, e piange. Questa è una cosa che non sappiamo fare noi gatti, e che solo ora che la conosco, comprendo di ammirare negli uomini.

Poi si toglie un guanto, e prende ad accarezzarmi lentamente e dolcemente la testa. Io faccio le fusa per calmarmi, ma il suo tocco fa già abbastanza.

Ora riesco a lasciarmi andare. Ora il dolore sta sparendo. Ora sto per morire.

Ripenso per un attimo alla faccenda dei pregiudizi tirata fuori dalla cornacchia che mi ha reso libera e mi ha condotta alla morte al tempo stesso: non bisognerebbe averne, se davvero si vuole conoscere. Forse c’è un fondo di verità nel suo gracchiare.

Forse gli esseri umani non sono poi tanto male. Almeno non tutti.

 

Raggiungo il buio.

Finalmente.

   
 
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