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Autore: Red_Coat    01/02/2018    1 recensioni
Genesis.
La mia vita, per te.
Infinita rapsodia d'amore
__________________________________________
DAL TESTO:
Un bagliore accecante invase la grotta, ed io capì che l'avevo raggiunta appena in tempo. Alzai gli occhi, e vidi uno splendido angelo con una sola ala, immensa, nera e maestosa, planare dolcemente su una roccia. Rimasi incantata, con gli occhi pieni di lacrime, a fissare la sua sagoma, fino a che non mi accorsi che i suoi occhi verdi come l'acqua di un oceano di dolore e speranza seguitavano a fissarmi, sorpresi e tristi.
Fissavano me, me sola, ed in quel momento mi sentii morire dal sollievo e dalla gioia
" Genesis! " mormorai, poi ripetei il suo nome correndogli incontro
C'incontrammo, ci abbracciammo. Mi baciò.
Ed io, per la prima volta dopo tanto tempo, piansi stretta a lui.
Genere: Avventura, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Genesis Rhapsodos, Nuovo personaggio, Un po' tutti, Vincent Valentine, Zack Fair
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Triangolo | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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Capitolo XXV


 


Mi ha stretto tra le braccia e mi ha baciato la fronte.
Ho pensato: ‘Stavolta o mi salva o mi uccide.’

(Anonimo, Tumblr.)
 
///Flashback///
 
Una dolce melodia, lenta e coinvolgente.
Una scala di note suonate al piano forte che scendevano e salivano, salivano e scendevano ma senza monotonia, con armonia delicata e ad ogni gradino.
Sulla leggera armonia della delicata brezza primaverile che soffiava tiepido entrando dalla finestra socchiusa e portandogli l’odore dell’erba nuova e degli alberi di Banora White in fiore, il piccolo Genesis ascoltò per qualche breve istante quella dolce melodia continuando a tenere gli occhi chiusi e lasciando che questa sì mescolasse ai suoi sogni e al dolce tepore del risveglio.
Ancora qualche altro piccolo istante accoccolato sotto le lenzuola di fresco cotone, poi si alzò dal letto e indossò ancora un po’ intontito la piccola vestaglia da notte appoggiata sul piccolo trespolo appendiabiti vicino all’armadio, coprendo il completo da notte che indossava (casacca di fresco e pregiato cotone coloro crema e un paio di calzoni rosso cremisi, morbidi e comodi).
Infilò ai piedini le ciabatte a scarponcino del medesimo colore dei calzoni e allora si tirò su, iniziando a camminare seguendo quel suono angelico con tutta la dolcezza dei suoi quattro anni e mezzo di età, ansioso di poterne identificare la fonte.
Nel grande salone a cui giunse poco dopo, percorrendo il breve corridoio pieno di statue, foto, piante e vanesie suppellettili pregiate, regnava la pace.
La luce del primo mattino lo inondava illuminandolo pienamente, e al centro d’esso, troneggiante in mezzo a quadri di paesaggi rustici, arazzi, pareti verniciate di bianco e verde, divani in broccato e ancora busti in marmo e mobili in legno levigato come tavoli, credenze e una libreria ampiamente piena di oggetti di uso frequente e qualche manuale, seduta di fronte al grande pianoforte a coda nero lucido sua madre, Elizabeth Rhapsodos, sfiorava veloce e sognante i tasti con le dita e nel frattempo muoveva lenta e con trasporto il busto pieno e filiforme, il ventre piatto e snello e il seno stretto nel corsetto marroncino e pieno di bottoni del vestito da cavallerizza, come se stesse danzando un valzerino travolgente con il suo strumento, improvvisamente trasformatosi in un affascinante cavaliere.
Era sola nella stanza. Con molta probabilità suo padre era già uscito per supervisionare i lavori nella loro ampia proprietà terriera che comprendeva oltre a un meleto anche magazzini per le macchine e ampi spazi per il momento vuoti, che voleva convertire alla produzione ancora più ampia di accidenmele.
Rimanevano solo loro due quindi in casa.
Incantato e sempre più coinvolto da quella musica, Genesis si nascose dietro lo stipite della porta e restò ad osservarla in silenzio, rapito, a bocca aperta trattenendo il fiato fino a che la melodia finì in un calando malinconico di note e lei riaprì le palpebre guardando di fronte a sé, ed accorgendosi per la prima volta di lui.
Allargò dolcemente il suo sorriso
 
-Buongiorno, Genesis.- lo accolse con la serenità e la gentilezza che le erano avvezze.
 
Il bimbo annuì.
 
-‘Giorno madre …- mormorò timido.
 
La donna staccò con dolcezza e grazia le mani dalla tastiera, con un gesto e movenze quasi plateali le appoggiò delicatamente sulla spazio vuoto della sgabello accanto a lei.
 
-Vieni.- lo incoraggiò –Siediti vicino a me. Coraggio.-
 
Lui accolse volentieri l’invito, uscendo ubbidientemente allo scoperto. Inclinò il petto in avanti accennando ad un inchino rispettoso, le braccia inchiodati lungo i fianchi.
 
-Grazie.- rispose.
 
Quindi corse da lei, che lo accolse abbracciandolo e scompigliandogli teneramente i rossi capelli ancora in disordine, lunghi fino a coprire le orecchi.
Lo amava.
Lo sapeva da come lo trattava, da come lo osservava fiera e felice. Amava quel suo essere educato, vivace e curioso. La sua voglia insaziabile di sapere che lo portava spesso e volentieri a porsi domande sempre più complicate e profonde per la sua età, a voler leggere i libri più complicati nonostante non sapesse ancora farlo. Il più delle volte ne prendeva uno e correva da lei a chiederle di farlo per lui, non solo per la favola della buona notte.
E amava anche il suo aspetto, in tutto e per tutto simile a quello di suo padre diceva lei, nonostante quest’ultimo invece avesse sempre dimostrato nei suoi confronti un certo grado di distacco.
“E’ il suo carattere” aveva cercato di giustificarlo la donna “Ti ama molto anche lui, sai?” gli aveva detto rassicurandolo.
Ma per quanto si sforzasse di convincersene restava sempre un po’ di distanza, un piccolo dubbio in fondo al cuore che alimentava una certa difficoltà nel relazionarsi con lui, anche se lo trattava sempre con rispetto e obbedienza.
Con Elizabeth invece tutto questo non esisteva.
Erano affiatati, si capivano al volo, proprio come una mamma e un figlio dovrebbero fare.
Esattamente come successe anche quella mattina, quando dopo averlo accolto gli chiese, guardandolo negli occhi color verde acqua.
 
-Vuoi imparare?-
 
Genesis annuì senza esitare, con un sorriso impaziente e grato.
 
-Si, per favore.- replicò, annuendo guardando prima lei e poi i tasti bianchi e neri.
 
La donna sorrise di nuovo, e allungando una mano verso la tastiera ne sfiorò con delicatezza uno dei tasti bianchi, seguendone poi il suono con la sua stupenda e altrettanto dolce voce.
La ascoltò cantare la note e sorrise, inclinando di lato la testa come un cucciolo curioso.
 
-Questo è un LA. LA Maggiore per la precisione.- gli spiegò tornando a rivolgergli attenzione.
 
Successivamente ne suonò un altro, non molto distante, dal suono simile ma un po’ più basso, melanconico.
 
Sembravano la stessa nota eppure non lo erano.
 
- Questa invece è il LA Minore, il suo fratellino.- gli spiegò infatti la donna, sorridendogli divertita e aggiungendo poi – Uno e allegro, l’altro e adagio. Ma sono la stessa nota. –
 
Il piccolo Genesis sorrise di nuovo, contento di aver imparato qualcosa di nuovo, e guardandosi negli occhi risero insieme, complici e divertiti.
 
-Ora proviamo a suonare qualcosa solo con queste due note, e tu la imparerai bene. Quando lo avrai fatto ti insegnerò il MI. D’accordo? – propose quindi Elizabeth.
 
Il bambino si sistemò eccitato al suo posto, annuendo e allungando le dita affusolate appena sopra i tasti.
Sua madre gli rivolse un ultimo sguardo soddisfatto e contento, poi diede inizio alla prima parte della melodia per fargliela prima ascoltare, esordendo così nella loro prima lezione di musica.
Non sarebbe stata l’unica, né tantomeno l’ultima.
E ognuna gli avrebbe regalato un nugolo di ricordi che mai più lo avrebbero abbandonato. Nemmeno dopo aver saputo la verità e aver deciso di lasciarla andare via per sempre dalla sua vita, ma non dalla sua memoria.
Questo non avrebbe mai più potuto farlo.
 
\\\Fine Flashback\\\
 
 
***
 
Riaprii gli occhi sfiorata dal vento. Erano le nove del mattino, o almeno questo diceva l’orologio sul comodino, e dalla porta socchiusa giungevano quasi in lontananza chiare le note armoniche e vivaci di un dolce e allegro valzerino in LA, suonato al pianoforte.
Dalla finestra aperta la luce del mattino e il profumo avvolgente della campagna mi accolse accarezzandomi con dolcezza, e mentre la musica continuava mi misi a sedere aprendo definitivamente gli occhi e rialzando la schiena.
Una dolceamara sensazione mi avvolse il cuore, lo sentii pizzicato appena da un dolore sordo, come una nota tremante, e i miei occhi s’inumidirono di lacrime.
Era strano.
Ero a casa tua, nella tua stanza. Lo vedevo dalle mille foto, dai libri, dagli alberi di Banora White fuori dalla finestra. Eppure mi sembrò di essere ritornata di essere dove avrei sempre dovuto essere: A casa mia.
Di solito mi capitava spesso di sognare quel momento, soprattutto dopo morte di mio padre o, più tardi, durante un periodo particolarmente stressante.
Andavo a letto piangendo, devastata, e prima di svegliarmi facevo quel sogno: Riaprivo gli occhi ed ero a casa, di nuovo nel mio letto della mia camera, al ranch.
Gli uccellini mi salutavano canticchiando allegramente fuori dalla finestra: “Bentornata!”.
I raggi del sole mi accarezzavano il viso con le loro intangibili mani calde e il mio cuore si rimarginava un poco.
Poi mi alzavo, scendevo giù in cucina e tutto era esattamente come quando lo avevo lasciato: Mia madre e mia sorella chiacchieravano amabilmente in cucina, papà guardava la vecchia TV in salotto prima di andare a lavoro, sorseggiando il suo caffè.
Lo guardavo incredula, ogni volta sempre meno sconvolta fino a che non finì per apparirmi normale. Mi chiamava vicino a sé, lo raggiungevo e mi sedevo al suo fianco lasciandomi abbracciare, e qual punto mi chiedeva sempre, ogni volta:
 
-Sei contenta?-
-Siamo tornati.- rispondevo io felice guardandolo.
 
Era come se non se ne fosse mai andato.
 
-Si.- annuiva –E resteremo per sempre.-
 
A quel punto si che gioivo. Lo abbracciavo forte, ringraziandolo. Lui rideva tornando a scherzare e la vita ricominciava dal punto preciso in cui l’avevamo lasciata.
Il sogno continuava fino a che il mio animo non si era acquietato, ammantato di agrodolce felicità.
Poi svaniva sfumando, lasciandomi alla realtà con almeno un po’ più di coraggio per affrontarla.
Avrei voluto però, che una cosa simile accadesse davvero, un giorno.
Tornare indietro, dove avevo lasciato quella bambina a giocare col suo coniglio, arrampicarmi sui rami di Choco e riabbracciare papà, per non perderlo mai più.
Insieme di nuovo a casa nostra, come una famiglia.
In realtà mi sarebbe anche bastato pure solo risvegliarmi in quella casa e saperla di nuovo solo mia, coi suoi ricordi e le sue pietra, gli angoli nascosti che solo io avevo amato e conoscevo.
E quella mattina, all’improvviso, quando il suono del pianoforte mi svegliò, fu esattamente come se il mio sogno si fosse realizzato. Esattamente così.
Banora divenne il Texas, e quella casa la mia.
Quella che mi aveva visto crescere, la stessa che lo aveva fatto con te.
Uguali e indivisibili come un’unica realtà.
Trattenni il fiato, sorrisi alzandomi in piedi e mi avvicinai alla finestra, respirando l’odore selvaggio della prateria.
Anche quello era lo stesso.
Quindi resistendo alle lacrime di gioia iniziai a camminare a piedi nudi sulle assi di legno del pavimento seguendo il dolce suono, indosso soltanto la lunga veste da notte in pizzo bianco e sete appartenuta a tua madre e che tu stesso mi aveva fatto indossare la sera prima, quando già dormivo, prima di mettermi a letto.
Il sogno si trasformò presto in viva realtà, stavolta non scomparendo, ma fondendosi ad essa.
C’eri anche tu.
Eri lì, al centro della stanza, seduto al pianoforte e con occhi lucidi ne sfioravi abile i tasti, triste e malinconico.
Nel vedermi, per un interminabile istante ti fermasti a scrutarmi, la melodia s’interruppe e vidi nei tuoi occhi un terrore che seppi spiegarmi solo accorgendomi che non era me che stavi fissando, ma il mio abito, i miei capelli sciolti a sfiorarmi il collo, e il fantasma che questa immagine portava con sé.
Sospirai, capendo.
E con amore sorrisi appena, mi avvicinai e sedutami al tuo fianco sfiorai piano il tuo viso con una carezza, addolorata, piangendo insieme a te dello stesso male quando all’improvviso ti vidi chinare con dolore il capo e chiudere gli occhi alle lacrime, una smorfia affrante sulle labbra.
In silenzio ti abbracciai piano, avvolgendoti la nuca con la mano e traendoti a me, stringendoti e ascoltando i tuoi singhiozzi.
Non volevo che ti facessi così male.
 
-Scusami …- mormorai con un filo di voce – Per non essere arrivata in tempo.-
 
Ti fermasti a guardarmi, smettendo all’istante di singhiozzare e guardandomi come se mi vedessi per la prima volta.
Sorrisi di nuovo, commossa. Scossi piano il capo e allungai la mano destra a sfiorarti i capelli fulvi con una carezza.
 
-Avrei potuto impedirtelo … se solo fossi arrivata prima.- aggiunsi.
 
Ma ormai non aveva più importanza. L’importante … era esserti accanto.
Scuotesti il capo, deciso, scacciando i ricordi.
Poi prendesti il mio viso tra le tue calde mani e mi baciasti forte, all’improvviso, assaporando le mie labbra con disperazione.
Non mi opposi.
Era l’unica cosa che potevo fare per te, renderti meno amaro il veleno.
E anzi, quando le tue mani si staccarono dal mia volto e cercarono un contatto diretto col resto del mio corpo, accarezzando ogni lembo di pelle sulla stoffa morbida della camicia da notte, nonostante tremassi perché nessuno prima di allora, davvero nessuno, mi aveva mai sfiorata in quel modo come hai fatto tu, ti lasciai campo libero, alzandomi senza staccare la mia bocca dalla tua e sedendomi sulle tue gambe, avvolgendoti poi le braccia attorno al collo e vivendo quel bacio, il mio primo vero bacio, con ancor più intensità, senza neanche respirare.
Sarei una bugiarda e un’ipocrita se dicessi di non aver mai provato passione, di non aver mai cercato quel sentimento e quell’estasi che solo quei gesti d’amore potevano dare. Di non aver mai immaginato o cercato di farlo, di non aver mai sperato che un giorno avrei anch’io assaggiato quegli attimi magici con un uomo che mi amava davvero. Ma fino ad allora, nel mio mondo, non avevo mai trovato l’uomo che sapesse darmeli.
L’amore fisico per me, il mio corpo, erano cose pure, dolci e delicate.
Un dono unico da dare non a chiunque, ma solo a colui che avrebbe acceso il mio cuore facendolo battere di nuovo, e stavolta per sempre. Soltanto all’uomo che mi avrebbe amata col cuore e con la mente e non solo col corpo per divertimento, solo a lui sarei stata fedele, solo lui avrebbe potuto arrivare lì dove nessun altro uomo sarebbe mai stato. Solo con lui sarei finalmente diventata donna.
E adesso … quell’uomo stavi diventando tu. Avevo paura, come al solito quando pensavo a quegli attimi, a come sarebbero stati. Ma non troppo, perché ero nelle tue mani. E ti amavo da morire, sarei andata anche all’inferno con te se me lo avessi chiesto, neanche le fiamme e i forconi mi avrebbero fatto paura se tu mi avresti stretto la mano.
Sfiorasti la mia schiena, i miei fianchi, fino ai glutei dove ci fermammo, entrambi affannati ed emozionati.
 
-Non importa …- mi rispondesti tornando a sorridermi –Il passato è passato. È ora il mio presente.-
 
Sorrisi anche io.
Annuii felice di sentire dalla tua voce quelle parole rivolte a me, e tornai a guardare quegli occhi verde acqua in cui brillava il mako. Stupendi.
Quei capelli in cui rifulgeva l’ambra, quel viso perfetto anche se ora appena un po’ più pallido e stanco. Sfiorai tutti quei dettagli con le mani i tuoi zigomi, il tuo naso, le tu labbra. Sognante, incredula, mentre tu mi guardavi e continuavi a stringermi, incantato e con un sorriso appena accennato sulle labbra.
E quando indugiai queste ultime con dita tremanti e il fiato corto per l’emozione, le avvicinasti alle mie, mostrandomele nella loro sfacciata delicatezza cercando un altro ultimo piccolo contatto fugace.
Altri piccoli baci, assaggi di un amore appena nato in te ma in me presente già da molto più tempo di quanto ebbi mai modo di raccontarti.
Da sempre.
Dal momento in cui una matita si posò a disegnarti, un cantante a darti la voce e una penna a scrivere la tua storia.
Tornasti ad abbracciarmi e a piangere, stringendomi forte e affondando il tuo viso nell’incavo del mio collo.
Ero … così devastata nel sentirti piangere così.
Ma allo stesso tempo tanto grata alla dea di averci avvicinati per poterti essere un angelo custode e consolatore, l’amore di cui avevi bisogno per rinascere.
Proprio io. Solo io.
Ti strinsi forte, affondai a mia volta le dita nei fili morbidi dei tuoi capelli e abbassai il volto avvicinando la mia bocca alla tua nuca, vezzeggiandoti con piccoli e teneri baci.
Non ricordo per quanto tempo restammo lì seduti così, ad amarci in silenzio.
In tutta sincerità non me lo chiesi neppure perché ero lì per questo, per te, e non volevo altro.
Amarti e raccogliere le tue lacrime.
Infine alzasti di nuovo il tuo sguardo su di me, e una luce diversa tornò a illuminare i tuoi occhi stanchi.
Più serena, meno tormentata.
Rimasi in attesa, era come se da un momento all’altro avessi voluto dirmi qualcosa ma per un po’ non lo facesti, rimanendo a guardarmi in silenzio con un sorriso diverso sulle labbra, mentre mi accarezzavi il viso scostandomi una ciocca di capelli da davanti agli occhi e poi rimanendo a guardarmi.
Ti sorrisi, mi chinai a sfiorare le tue labbra con un bacio appena accennato.
Tu chiudesti gli occhi sospirando e sorridendo, quindi li riapristi e finalmente, rompendo gli indugi, concludesti, scaldandomi il cuore ancor più della fenice che vi si era rifugiata.
 
-Valery Rhapsodos … Io credo di amarti.-
 
Ed io, sorridendo a mia volta radiosa, non potei che replicare con la semplice verità, tornando ad accarezzarti il volto.
 
-Genesis Rhapsodos … io lo faccio da sempre, ormai.-
 
***
 
///Flashback///
 
-Angeal!!-
 
Con un urlo angosciato Gillian Hewley spalancò la porta di casa e si affacciò in strada, scrutandola ansiosamente.
Non era un bel periodo quello per loro.
Suo marito era morto da una sola settimana, e da quel brutto giorno suo figlio, sette anni, era cambiato.
Aveva pianto tanto e urla, quel giorno, quando lo aveva saputo.
Le aveva dato della bugiarda, l’aveva spinta ed era scappato fuori cadendo poi in ginocchio a terra, il viso tra le mani, singhiozzando.
Lei lo aveva rincorso e abbracciato, aveva ascoltato a lungo i suoi singhiozzi e poi con parole dolci aveva cercato di tranquillizzarlo, di confortarlo per quanto le riuscisse possibile.
E credeva di esserci riuscita davvero visto che lo aveva convinto a rientrare insieme a casa.
Ma ora, sette giorni dopo, il bambino era sparito di nuovo. Lei stava riposando nel lettone, perché da quando suo marito era scomparso oltre al lavoro di casa aveva dovuto accollarsi anche altri lavori più pesanti di manutenzione perché non avevano i soldi per poter pagare qualcuno che li facesse, e in più era rimasta l’unica a prendersi cura dell’educazione di suo figlio, che aveva sempre amato alla follia suo padre.
Si sentì spaventata e disperata.
Non si era accorta di nulla, e adesso non sapeva dove cercarlo.
 
-Angeal!!!- urlò di nuovo, guardandosi intorno.
 
Il mondo vorticò spaventosamente nei suoi occhi, talmente veloce da confondere. Non udì nessuna risposta, e allora si mise a correre più che poteva, cercandolo nelle case che la circondavano, sopra agli alberi, e perfino dentro gli anfratti più nascosti.
Fino a che, disperata, non raggiunse la porta dei suoi vicini, i Rhapsodos, come ultimo tentativo.
 
-Angeal!! Sei qui?! Rispondi per favore, vieni fuori! Sono molto preoccupata.-
 
Le aprì Kei Rhapsodos, il capofamiglia.
 
-Gillian, che ci fai qui? Cos’hai da strillare tanto? - la rimproverò cupo, affacciandosi sulla soglia.
 
Dietro di lui, preoccupati, vide apparire anche Elizabeth e il piccolo Genesis, che la scrutò corrucciandosi inquieto.
 
-Angeal è scappato!- li informò prendendo fiato –Non riesco più a trovarlo da nessuna parte, pensavo fosse con Genesis.-
 
I due guardarono il ragazzo, che scosse il capo sicuro.
 
-Sono stato con te tutto il tempo, madre.- disse alla donna che gli appoggiava le mani sulle spalle –Stavo studiando pianoforte.- spiegò poi alla signora Hewley tornando a guardarla –Non l’ho visto oggi, mi spiace.- concluse sincero.
 
Gillian sospirò affranta.
 
-Non hai idea di dove possa essere andato?- tornò a chiedere –Devo trovarlo prima che faccia buio, la prateria è pericolosa di notte.-
 
Genesis scosse di nuovo il capo dispiaciuto.
 
-Non saprei …- rispose scuotendo le spalle.
 
Ma nel momento stesso in cui quelle parole uscirono dalla sua bocca una lampadina si accese nella sua mente.
 
-Anche se …- soggiunse facendosi pensieroso –Forse un posto così c’è.-
 
Gillian tornò ad alzare la testa guardandolo speranzosa.
 
-Dove?- lo incalzò supplicante, mentre il sole si avvicinava sempre di più all’inizio del tramonto.
-Il viale di accidenmele all’inizio del villaggio.- replicò sicuro guardandolo.
-Ho già guardato anche lì.- gli rispose scoraggiata la donna, iniziando a disperare.
-A volte usiamo gli alberi più alti per giocare a nascondino.- rivelò allora lui, spiegando poi –Alcuni hanno le fronde così alte e folte che è quasi impossibile essere visti, bisogna guardare bene.-
 
Suo padre sgranò inorridito gli occhi.
 
-Ma siete pazzi?- lo ammonì suo padre contrariato –Rischiate di farvi male sul serio, cadere da quell’altezza è un suicidio!-
 
Sembrava più preoccupato di dover andare a recuperarlo e fare i conti con le conseguenze del suo comportamento irrequieto che per la sua effettiva salute. In fondo (ma questo i bambini ancora non lo sapevano) la Shinra aveva speso fior di quattrini per crearli e avrebbe fatto pagare altrettanto cara la conseguenza di un loro eventuale “danneggiamento permanente”. Erano il futuro di SOLDIER, in fondo.
 
-Scusa papà.- annuì distaccato Genesis, inchinandosi appena, poi si rivolse a Gillian –Vado a chiamarlo io, sono sicuro sia lì.-
 
Elizabeth guardò il marito e annuì. Kei sospirò seccato.
 
-Vengo anche io. Qualcuno dovrà pur tirarlo giù da lì.-
-Grazie.- mormorò sollevata Gillian inchinandosi appena e poi seguendoli, prendendo tra le mani il lembo della lunga gonna nera tra le mani per evitare di incespicare.
 
\\\
 
Camminarono insieme fino al limitare del viale, poi Genesis si fermò e si volse a guardare suo padre.
 
-Forse è meglio se restate qui.- disse –Vi chiamo io quando l’ho trovato.-
-Non se ne parla!- decretò severo il genitore –Non ti azzardare di nuovo a salire su uno di questi alberi.-
 
Il bambino sospirò dentro di sé.
 
-E’ probabile che non risponda se vede adulti con me.- gli spiegò.
 
Gillian annuì.
 
-Va bene. Genesis ha ragione.- disse all’uomo –Sarà meglio aspettare qui.-
 
A quel punto l’uomo lo scrutò corrucciato ancora per qualche attimo, in silenzio. Poi sospirò a sua volta.
 
-Vai.- risolse –Ma sta attento.- lo ammonì alzando il dito indice della mano destra.
 
Il giovane Rhapsodos contenne a stento un sorriso trionfante, s’inchinò come sempre con rispetto e poi corse verso il centro del lungo viale alberato, voltandosi solo quando fu sicuro di esserseli lasciati alle spalle.
Si guardò intorno. La luce dorata del sole filtrava attraverso gli alberi a stento, illuminando a chiazze chiaroscure il terreno scuro sottostante.
Quello era il punto più fitto.
 
-Angeal …- iniziò con un mezzo sorriso –Lo so che sei qui, ti sento piangere.-
 
Il lieve vento che sfiorava le fronde si acquietò per qualche attimo e il rumore di un pianto silenzioso tirato su col naso a forza si fece ancora più udibile.
 
-Dai, sono solo.- lo incoraggiò –Dimmi almeno dove sei.-
 
Finalmente la voce si fece sentire. Rotta e stanca, ma lo udì chiaramente piagnucolare deciso.
 
-No.-
 
Seguendola Genesis si voltò con un sorriso verso il grande albero alle sue spalle e vide una piccola gamba magra ricadere penzoloni verso il basso.
Sorrise voltandosi totalmente in quella direzione.
 
-Gillian ti sta cercando.- lo informò –E’ molto preoccupata.-
 
Angeal non rispose, ma riprese a singhiozzare più forte. Genesis sospirò, dispiacendosi ma continuando a sorridere.
 
-Hai intenzione di stare lassù per molto?- chiese paziente e scherzoso.
-Fino a morire di fame.- rispose l’altro musone.
-Pff!- ridacchiò il rosso –Morire di fame con tutte quelle mele? Non mi sembra possibile …- soggiunse scuotendo il capo.
-Non le mangerò.- replicò intestardendosi l’altro, ma nel frattempo la sua voce si fece sempre più salda, anche se triste –E anche se dovessi farlo prima o poi finiranno.-
-Potresti sempre cambiare albero.- ipotizzò allora Rhapsodos fingendosi serio –E comunque ci metteresti almeno due mesi per morire di fame. Mi sembra troppo anche per uno come te.-
-Allora morirò prima di sonno o di freddo.- determinò a quel punto Hewley.
-Ma siamo in estate!- replicò Genesis con l’intento di spazientirlo, alzando le braccia e guardandosi intorno – E non ho mai sentito di qualcuno morto di sonno, è solo un modo di dire.-
-Allora mi butterò giù da un burrone, okkey?- sbottò a quel punto Hewley –Appena te ne sarai andato troverò un burrone alto e mi lancerò da lì, contento?- innervosendosi e ricominciando a singhiozzare.
-Ma che sei venuto a fare qui? Vattene Genesis!- lo respinse esasperato quello.
 
Il rosso tornò a sorridere ascoltandolo piangere.
 
-No.- decretò calmo e secco.
 
Quindi si sedette a terra a gambe incrociate, strappò un filo d’erba e iniziò a giocarci distrattamente.
 
-Si invece!- ribadì l’altro –Vattene, lasciami da solo. Voglio morire!-
 
Quindi ricominciò a piangere singhiozzando ancora più forte.
Genesis avrebbe voluto abbracciarlo, ma dovette fare molto sforzo per restare dove si trovava e continuare a far finta di nulla. Avrebbe voluto raggiungerlo e abbracciarlo ma conoscendolo avrebbe cercato di respingerlo e si sarebbero fatti male cadendo giù, perciò decise che sarebbe stato meglio per entrambi rimanere dove si trovava e confortarlo con le parole.
 
-E io cosa faccio da solo se tu muori?- gli chiese.
 
Quella domanda parve quasi sorprendendolo.
All’improvviso smise di piangere, tirò un’ultima volta su col naso e poi rimase in silenzio a pensarci.
Genesis sorrise appena continuando a tenere la testa bassa e a fingere disinteresse tormentando tra le dita sempre lo stesso filo d’erba.
 
-Tu hai i tuoi libri …- rispose dopo un po’ Angeal – E i tuoi genitori sono ancora vivi, tutti e due.-
 
Genesis sorrise.
 
-Si, ma sono vecchi.- risolse quindi sbrigativo tornando serio –Moriranno anche loro prima o poi. E cosa farò dopo? Tutto solo fino a che non avrò finito tutti i libri, sai che noia!- quindi scosse il capo –E se avrò voglia di giocare a nascondino o a palla? Se dovesse venirmi voglia di buttarmi da una rupe con qualcuno? Non potrò farlo perché tu lo hai già fatto prima di me e sei morto.-
 
Nascosto dietro al cespuglio di rami nel quale aveva trovato rifugio, con gli occhi lucidi il piccolo Angeal sorrise e abbassò il capo, asciugandosi gli occhi con le manine scorticate qua e là per lo sforzo di arrampicarsi fin lì.
I piedi nudi non stavano meglio.
 
-Va bene allora …- si arrese –Non morirò. Ma non la voglio quella spada.- bofonchiò resistendo alla tentazione di mettersi di nuovo a piangere.
 
Genesis alzò lo sguardo attento.
 
-Quale spada?- chiese corrucciandosi.
-E’ arrivata stamattina. Papà ha lavorato troppo per potermela regalare, per questo è morto.-
 
Le lacrime comparirono di nuovo pressanti nei suoi occhi. Si morse le labbra, il nasino rosso.
 
-Io non gli ho mai chiesto niente …- bofonchiò.
 
Genesis annuì spalancando riflessivo la bocca. Ecco perché era scappato proprio quel giorno, allora.
Si sentiva in colpa per la morte di suo padre ora che sapeva il motivo per cui si era dovuto allontanare da loro per lavorare fino alla morte.
 
-E’ bella …?- chiese curioso.
 
Angeal annuì.
 
-Mh …- bofonchiò –E grande.- aggiunse.
 
Genesis annuì di nuovo, poi scosse le spalle e il capo.
 
-E’ normale che te l’abbia regalata, allora.- risolse – Infatti i regali non si chiedono.- gli fece notare –Comunque se non la vuoi puoi darla a tua madre.- rispose.
-E lei che se ne fa di una spada?- chiese a sua volta Angeal.
 
Rhapsodos scosse le spalle.
 
-La restituirà. O magari la venderà così potrete pagarvi qualche vestito nuovo e pure un maestro come il mio, per te.-
 
D’improvviso Angeal sentì il cuore fargli le capriole fino in gola, gli mancò il fiato e come un forsennato venne preso dal panico.
 
-No!- esclamò, rialzando di scatto la testa e scostando il ramo per guardarlo.
 
La odiava.
Odiava quell’arnese inutile, suo padre era morto per potergliela regalare, in funzione del fatto che un giorno avrebbe potuto usarla in SOLDIER secondo il suo sogno da bambino.
Ma … proprio per questo … quella era l’unica cosa che gli restava di suo padre.
Genesis si voltò a guardarlo, sostenendo serio il suo sguardo.
Ero pallido, aveva gli occhi arrossati e gonfi da quanto aveva pianto.
 
-Io … non voglio.- gli disse, calmandosi e rendendosi conto di aver esagerato senza un motivo apparente.
-La vuoi o no?- chiese a sua volta il rosso, deciso.
-Non voglio usarla, ma non voglio che mamma la venda.- decise Hewley sicuro –Papà … è morto per regalarmela.- concluse, tornando ad abbassare di nuovo il volto.
 
Genesis sorrise, guardandolo deformare le labbra con dolore e tornare a singhiozzare lasciando andare il ramo e nascondendosi il viso tra le mani.
 
-Allora la terrà tua madre fino a che non la vorrai.- risolse a quel punto tranquillo, poi intenerito aggiunse, spronandolo –Dai, scendi e andiamo a casa.-
 
Angeal sospirò pesantemente.
 
-No …- tornò a ripetere singhiozzando.
 
Ora fu il rosso a sospirare spazientito.
 
-Perché no? Vuoi ancora morire?-
 
Angeal scosse il capo, tirò su col naso e si asciugò gli occhi con la manica della maglietta.
 
-Non è questo …- bofonchiò –E’ che …-
-Cosa?- lo incoraggio l’amico.
-Non riesco a scendere- gli svelò lui, tornando a singhiozzare abbassando arreso il capo –Ho tutti i piedi e le mani scorticati, mi sanguinano e fanno male.-
 
Genesis guardò il piedino penzoloni e in effetti si accorse fosse rosso e gonfio.
Sospirò e si alzò, sistemandosi la camicetta rossa che indossava e controllando che i pantaloni non fossero sporchi.
 
-Vado a chiamare aiuto, aspetta un istante.- risolse annuendo e tornando a sorridere.
 
Angeal tornò a guardarlo scostando il ramo col gomito e annuì, sorridendo a sua volta grato. Genesis gli scoccò un occhiolino e infine corse veloce più che poté verso Gillian e suo padre, che lo attendevano impazienti alle porte del villaggio.
 
-E’ dove avevo detto io.- annunciò.
 
Gillian si portò una mano al cuore sospirando sollevata.
 
-Si è arrampicato su un albero a piedi nudi e se li è scorticati, per questo non riesce più a scendere.-
 
Suo padre sospirò e annuì.
 
-Lo tiro giù io.- decise, quindi seguì il figlio e riportò il bambino da Gillian, che non appena lo vide lo prese tra le braccia stringendolo forte e avvolgendogli protettiva una mano attorno alla nuca, accarezzandogli i capelli.
 
-Angeal, mi hai fatto morire di paura!- gli disse accarezzandogli il viso umido di lacrime come se volesse accertarsi di averlo davvero di nuovo sano e salvo fra le sue braccia.
 
Il bambino abbassò il volto, guardò Genesis che gli sorrise portandosi i due indici delle mani a posarsi incrociati sulle labbra, in una muta promessa di mantenere il segreto.
Sorrise assieme a lui.
 
-Scusa mamma …- mormorò –Mi spiace.-
 
La donna lo guardò negli occhi lucidi, tornando a sorridergli di nuovo tranquilla.
 
-Non fa niente. È tutto finito adesso.- replicò –Ma non farmi più questi scherzetti, va bene? Promesso?-
 
Il bambino annuì più volte, quindi l’abbraccio forte e dopo aver ringraziato sia Genesis che suo padre tornarono insieme di nuovo a casa, quella che da quel momento sarebbe stata solo la loro, il loro piccolo rifugio dal mondo molto più triste e complicato di quanto non sembrasse.
Dormirono insieme quella sera, nel lettone stretti l’uno tra le braccia dell’altra.
Gillian lo strinse vicino al proprio cuore e tornò ad accarezzargli i capelli, corvini come i suoi, stampandogli piccoli baci rassicuranti sulla nuca.
 
-Mi spiace tanto, piccolo mio.- mormorò quando sentì il suo respiro farsi più lento, e fu sicura di non essere ascoltata –Un giorno ti racconterò tutto … ti chiederò scusa anche per quello. Un giorno … quando sarai abbastanza forte da capire e riuscire se vuoi a perdonarmi.
Te lo prometto … lo farò.-
 
Quindi chiuse gli occhi anche lei, e si addormentò.
Quel giorno in fondo era ancora molto lontano per il momento, e lei era stanca e distrutta per la perdita di quell’uomo che in fondo l’aveva amata più di quanto avesse in realtà fatto lei quando aveva deciso di sposarlo.

 
 
\\\
 
Anni dopo …
 
Angeal, con sempre indosso la sua divisa da first che non aveva mai tolto da quando era arrivato nuovamente a Banora, scese in fretta le scale e aprì la porta, salutando con uno sbrigativo “buongiorno” sua madre che se ne stava seduta al tavolo ad attenderlo, avvolta nel suo scialle di lana verde, pulendo un vecchio pestatoio di rame con un pezzo di stoffa imbevuto di aceto.
 
-Angeal …- lo richiamò stancamente.
 
Lui si bloccò sulla soglia, rabbrividendo. Gillian sorrise intenerita e triste, si allungò verso la sedia alla sua sinistra e la spinse indietro, fuori dal tavolo.
 
-Siediti un istante qui, per favore.-
 
Il SOLDIER scosse con vigore il capo corrucciandosi, quasi ne avesse paura.
 
-Non posso adesso, mamma.- risolse, aggiungendo poi con rammarico –Scusa.- abbassando il volto.
 
Quindi uscì fuori e si richiuse la porta alle spalle, fermandosi per un istante appena a sospirare nervosamente, guardando con occhi lucidi il cielo azzurro sopra di sé, cercando di calmarsi.
Infine scosse il capo con durezza, e facendosi forza riprese a camminare.
Per dove? Non lo sapeva neanche lui, ormai. Il suo cuore era diviso tra il restare e il tornare a Midgar, da Zack e al suo dovere di maestro e SOLDIER. La sua testa … era semplicemente piena di pensieri confusi, i più inutili e ansiogeni.
Gli sembrava d’impazzire sempre di più ad ogni minuto che passava.
 
///Fine Flashback///
 
***
 
Indossai il vestitino bianco a fiori che mi aveva regalato Zack e risistemai un po’ il mio aspetto sconvolto, poi tornai da te che mi aspettavi seduto a gambe incrociate sul sofà a tre posti leggendo Loveless.
 
-Vado bene? È l’unica cosa che aveva.- dissi mostrandomi di fronte a te e allargando le braccia.
 
Sorridesti guardandomi tutta, dalla testa ai piedi.
 
-Mh.- facesti –Si. Ma quelle non sono adatte per l’allenamento. – aggiungesti quindi indicando le ballerine bianche –E i capelli potrebbero darti fastidio nei movimenti.-
 
Sorrisi un po’ dispettosa.
 
-Per quanto ne so, anche Sephiroth combatte coi capelli sciolti. E lui non ha problemi a batterti.- replicai sfidandoti.
 
Raccogliendo la provocazione tu ghignasti, sbruffando e inclinando di lato il capo e stendendo le braccia sul poggiatesta in velluto rosso.
 
-Tsh! Tanto per essere precisi quel pallone gonfiato ha comunque un punto debole in questo, che non rivelerò mai neanche sotto tortura per non giocarmi la mia carta vincente. E poi … - aggiungesti alzandoti e recandoti con calma e sicurezza verso la credenza appoggiata alla parete alla nostra destra, aprendola e tirando fuori da essa una piccola e graziosissima scatola portagioie in legno verniciata d’oro e verde e dipinta con disegni floreali multicolore come quelli sul mio vestito.
 
La apristi e traesti dal fondo una spilla d’oro forgiata a forma di una meravigliosa fenice ad ali spiegate.
Ti voltasti verso di me, che ti scrutavo curiosa, sorridesti nuovamente e ti avvicinasti con scioltezza e calma, rigirandoti il gioiello tra le dita. Sfiorasti piano il viso con una carezza mentre magnetico osservavi i movimenti dei miei occhi con i tuoi.

-E poi …?- chiesi incantata, senza staccarmi da te.
 
Il tuo sorriso si accentuò. Ti fermasti a guardarmi, tirasti piano all’indietro le due ciocche di capelli più vicine agli zigomi prendendole tra le dita e le fermasti con la spilla all’altezza della nuca.
Quindi abbassasti il tuo volto avvicinandolo al mio e sfiorasti di nuovo le mie labbra con un dolce bacio lento, approfondendo poi il contatto assaporandole sempre più profondamente.
Tremai, chiudendo gli occhi e lasciando che quei brividi, le tue labbra che mordevano le mie e le tue mani calde sul mio viso fossero le uniche sensazioni da sentire.
 
- E poi …- continuasti, tornando a sorridermi complice –Tu non sei Sephiroth …- prendesti un istante di pausa per riprendere fiato e sorridesti guardandomi, lo feci anche io –Decisamente non lo sei …- aggiungesti con soddisfazione – E neanche un SOLDIER. Solo una ragazza … una splendida ragazza …- lentamente, stregandomi col tono della tua calda voce e l’espressione assorta del tuo viso che scrutava il mio.
 
Sorrisi ancora, sussurrando a tono con un sogghigno.
 
-Che vuoi dire?- ti chiesi inclinando appena di lato il capo –Sono una donna, ma non sottovalutarmi.-
 
Sorridemmo entrambi, divertiti e uniti. Mai come allora.
 
-Non lo farò.- promettesti tu –Ma l’allenamento è una cosa seria, ti serve un abbigliamento adeguato.-
 
E allora mi prendesti per mano e mi accompagnasti verso la stanza dei tuoi genitori, qualche metro più in su della tua.
Un ampio ambiente luminoso con due finestre che coprivano tutta la parete in legno ad ovest, un grande letto rustico al centro del pavimento in parquet, in legno scurissimo, e due enormi armadi di fronte ad esso, uno per tua madre e uno per tuo padre.
Ti avvicinasti al primo, lo apristi e tirasti fuori un pantalone da cavallerizza color cremisi, una camicia bianca dalle ampie maniche a sbuffo e una giubba di cuoio marroncino scuro. Li posasti sul letto.
 
-Questi non sono proprio il massimo della comodità ma dovrebbero andare.-
 
Ti voltasti verso la grande scarpiera a muro alle mie spalle e afferrasti dal primo scaffale un paio di stivali in pelle dello stesso colore della giubba, robusti e dalle falde alte, con un piccolo tacco in legno sotto la sua e un paio di fibbie dorate sulla caviglia.
 
-Vestiti. Ti aspetto di fronte alla fabbrica.- risolvesti, lasciando le calzature vicino ai piedi del letto e ordinandomelo.
 
Poi ti voltasti ancora a schioccarmi un occhiolino e te ne andasti, richiudendo la porta dietro di te.
Rimasta sola mi concessi qualche istante ancora, prima di obbedire. Mi guardai intorno e tutto ciò che vidi mi riportò al passato.
Anche mia madre e mio padre avevano un armadio simile al ranch, solo un po’ più piccolo.
Aprii di nuovo le ante, osservai la mia immagine riflessa nel lungo specchio a figura intera che vi era appeso scrutando la spilla e poi i nuovi vestiti sul letto.
Erano … di tua madre anche quelli.
E mi sentii in colpa.
Stavi cercando di cancellarli e cancellarti col loro ricordo, e io ti stavo aiutando senza accorgermene? Oppure non lo sapevi bene neanche tu, ancora …?
Guardai la foto di tua madre e tuo padre stretti in un abbraccio.
Lei era bella e forte, aveva i capelli rossi e ricci lunghi fin oltre il bacino, e uno sguardo dolce.
Lui era più severo … ma come se si nascondesse dietro una scorza.
Allungai una mano verso il ciondolo a forma di cuore che portavo al petto, lo afferrai stringendolo.
Genesis...” pensai con dolore “Cosa stai facendo?
Quindi sospirai, decidendomi a sbrigarmi.
Tu mi stavi aspettando, io potevo ancora fermarti.
 
\\\
 
Un quarto d’ora più tardi giunsi nel piccolo spiazzo di fronte alla fabbrica.
Eri seduto su una roccia, stavi parlando con Hollander.
Al solo vederlo sentii lo stomaco stringersi dalla rabbia in una morsa dolorosa, e le mie mani s’infuocarono di nuovo.
Come se mi aveste sentito arrivare entrambi vi voltaste, i suoi occhi mi scrutarono con terrore e i miei si accesero della luce di vita della fenice.
Ti rivolse un’ultima volta la parola per dirti non so cosa, quindi si dileguò rientrando nel grande stabile di fronte a noi.
Sospirai, cercando di calmarmi. Tu mi sorridesti, da lontano mi facesti cenno di avvicinarmi appoggiando poi le mani sulle ginocchia e alzandoti mi venisti incontro.
 
-Niente male.- commentasti guardandomi.
-Genesis …- iniziai nervosa, ma tu mi impedisti di continuare.
-Mia madre era un po’ più alta di te, ma ti stanno bene lo stesso.- aggiungesti soddisfatto – Puoi prendere tutti i vestiti che vuoi, se ti piacciono. Sono tuoi.-
-Gen…- ripetei sempre più contrita.
 
Ti fermasti a guardarmi in silenzio. Sospirai.
 
-Loro verranno a cercarti.- esordii preoccupata.
 
Il tuo sorriso non si spense, si intristì solo un po’.
 
-Lo so.- rispondesti calmo.
-Banora …- aggiunsi addolorata, sospirando e guardandomi intorno per staccarmi dall’angoscia nei tuoi occhi – Tutto questo …- trassi un altro respiro, la voce incrinata dall’emozione –Non rimarrà più niente. La distruggeranno.-
-Per eliminare le prove.- annuisti, amaro e consapevole –E’ questo che fa la Shinra. Quello che gli riesce meglio. Distruggere … e creare mostri per farlo.-
 
Come me.”
Tornasti serio e abbassasti il volto. Un breve istante, poi tornasti a guardarmi con una luce più dolceamara negli occhi, speranzosa.
 
-Ma non conoscono la forza di questa terra.- risolvesti, prendendomi le mani e guardandoti intorno, inducendomi a fare lo stesso –La sua vitalità e la sua tenacia, la voglia di rinascere.-
 
Sorridesti di nuovo, guardandomi negli occhi. E concludesti sicuro.
 
-Potranno distruggere le case, le tracce della mia famiglia, quella a cui mi hanno affidato dopo avermi creato. Ma gli alberi … l’erba, la vera natura di Banora. Non moriranno mai.
Aspetterà solo il momento giusto per rinascere.-
 
Qualcosa. Qualcosa di profondo e forte, di commovente cantò dentro di me.
Sorrisi a mia volta, dolcemente impietosita.
E sollevai una mano ancora stretta nella tua ad accarezzarti piano il viso. Mi guardasti, sorpreso e incantato. Sembrava volessi piangere da un momento all’altro, ma i tuoi occhi ridevano. Umidi di lacrime.
Ti abbracciai forte, allungandomi sulle punte per riuscire a farlo raggiungendo la tua altezza. Tu ti abbassasti per facilitarmi i movimenti e affondasti il naso nei miei capelli, stringendomi a te.
Non c’era nient’altro da dire. Entrambi sapevamo che quella era la pura e semplice verità.
Entrambi eravamo consapevoli … di quel melanconico dolore che ci avvolgeva il cuore.
Solo … forse solamente io ero davvero pienamente al corrente di quanto profondamente questo ci avvicinasse.
Ancora qualche attimo, poi decidesti di staccarti da me e tornare al presente.
 
-Il tempo è poco.- risolvesti –Iniziamo o no questo addestramento?-
 
Sorrisi continuando a scrutarti toccata.
 
-Si.- annuii, ma aggiungendo subito dopo, innamorata –Solo … non parlare più di te stesso come una creatura o un mostro. Tu non sei nessuna delle due cose, ma … un uomo. Semplicemente un uomo … il mio.-
 
E tu, guardandomi, illuminasti nuovamente i tuoi occhi di quella luce piena e fiera, diversa, e fiduciosa.
 
-Non posso promettertelo.- replicasti scuotendo il capo.
 
Lo feci anche io.
 
-Puoi. Hai tutto il diritto di farlo, come chiunque altro essere umano.-
 
(Continua …)

 
   
 
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