Ricordo quel caffe così amaro, in quel pomeriggio così spento che il bianco di questa pagina sembra terribilmente nemico, e parole così cupe macchiano il foglio come fa il sangue sul talamo puro di una vergine.
So che non bisognerebbe fermare quei momenti, quei momenti devono passare, annidarsi nei loculi più nascosti della coscienza e lì aspettare. Trasformarsi in qualcosa di spaventoso che vien fuori solo nei sogni più terribili o nei deliri della morte. Ma nella mia mente, macchina insaziabile, il ricordo si trasforma troppo in fretta e forse la freddezza di questa pagina mi aiuterà a cristallizzare, come dietro ad una teca, quei giorni tanto bui.
«Devo andare» mi disse.
«Concedici il tempo di un caffè»
«Solo un caffè» sbuffò, incapace di regalarsi un attimo di pace ma sollevato di non essere subito solo.
Ci sedemmo sotto il rombo degli aerei, in una città sconosciuta, brulicante di estranei che non ci degnavano neanche di un'occhiata. Invisibili ci sedemmo sotto un cencioso pergolato e attendemmo in un cerimonioso silenzio il nostro ultimo caffè. I bar degli aeroporti sono notoriamente squallidi ma nei miei ricordi quello lo è sovra ogni misura, ostile e freddo era il teatro del nostro addio.
L’attesa si fece insostenibile per me, iniziai a guardarmi intorno come per trovare una via di fuga ma i miei occhi, come sempre, furono attratti dalla sua presenza. Le sue mani bianche e sottili erano involontariamente tese verso le mie e dalle maniche aperte della camicia si intravedevano i polsi anch’essi sottili e bianchi ma nascosti da vari strati di bende d’ospedale visibilmente sgualcite e sfumate di sangue.
Quei teneri polsi erano stati nella mia vita sin da quando avevo sei anni, mi aggrappavo a loro mentre camminavo dondolando da un piede all’altro, credevo che mi avrebbero sempre protetta. Mentre crescevo continuavano ad essere accanto a me, ma i mei occhi iniziavano a percepirli in modo diverso, erano bellissimi ma delicati come porcellana, qualcosa da difendere a costo della vita. In quel momento erano distrutti, crepati per sempre. Li vedevo stesi davanti ai miei occhi, le ferite che gridavano il loro dolore, urlavano al mondo l’ingiustizia della loro condanna e il tentativo di scampare alla pena, e nel vederle era come se i miei stessi polsi si stessero aprendo e il dolore crudele invadeva anche me.
Tutt’oggi ricordo chiaramente il sangue di quella notte, il sangue e le lacrime. La resa, totale e senza remore alla morte, ultimo tentativo di fuga dal destino o forse, suo anticipato compimento. Mai mi sono sentita bene nel ricevere i ringraziamenti per la sua salvezza, ricordo tutto come un pazzo sogno, di quelli che scuotono ogni poro della pelle e al risveglio ti fanno sentire violata. Quella notte era passata così, una notte folle che va dimenticata, un melenso veleno che appartiene al passato ed al passato deve rimanere. Ma... mentre io mi perdo nelle nebbie del passato, il principale ricordo prosegue sfuggendo al mio controllo.
In quel terribile bar i nostri caffè erano arrivati, fumavano emanando il solito odore bruciacchiato della polvere di basa qualità, un odore che mi ricordava le mattine estive, passate in un lido sommerso dalla salsedine e dalla spensieratezza, i luoghi della nostra infanzia. Molte cose erano cambiate, le sue mani che un tempo possedevano una ferma delicatezza, ora tremavano nel sollevare la tazzina, colpite da spasmi involontari facevano rovesciare buona parte della bevanda ma imperterrite continuavano a cercare di ultimare il loro dovere. I miei occhi non riuscivano a staccarsi da lui, come se avessero saputo che non l’avrei rivisto per molto tempo, ceravano di fissare ogni singolo particolare, ogni sfumatura, ogni meraviglioso accento che per molti anni, almeno in parte, mi sarebbe stato negato.
«Andrà tutto bene» disse più per convincersene che per rassicurarmi
«le tue mani» risposi scioccamente, tornando all'infantile atto di enunciare l'ovvio come tentativo di cambiarlo «le tue mani tremano»
Fu quella l'ultima frase compiuta che riuscì a pronunciare, il resto proseguì come anestetizzato dall' incredulità che qualcosa di così assurdo potesse star capitando proprio a noi. Non ricordo di aver pianto o di essere stata triste nel vederlo partire, dentro di me credevo che alla fine sarebbe stato solo qualche mese e sicuramente lì lo avrebbero guarito. Sarebbe tornato a vivere vicino a casa mia, ad essere il mio solito migliore amico e ci saremmo trovati ancora un'altra estate in mezzo alla salsedine a ridere come sempre.
Sono quattro anni che non vedo Luigi, non ci sono state estati insieme, non c'è stato più nulla insieme. L'ultima volta che l'ho sentito non sembrava più neanche vivo, la malattia se lo sta mangiando e non credo di poterlo più vedere.
Salve a tutti, è da tanto che non pubblico qualcosa ma avevo bisogno di questo sfogo. Credo che ricomincerò ad aggiornare le vecchie storie... almeno credo. Scusate per la stranezza di questo testo ma è stato scritto di getto per togliermi un peso dal cuore -.-" vorrei sapere cosa ne pensate
ailein_duinn