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Autore: Asteroide307    05/02/2018    2 recensioni
Titolo: "Quello che non vedevo"
Dal testo
"Eri Yoshida aveva compiuto da qualche giorno sedici anni e iniziavano per lei le superiori. Ormai era la terza volta che cambiava scuola, arrivata a quel punto sapeva che non avrebbe avuto una quarta possibilità. [...] Eppure Eri era troppo alta rispetto alle ragazze della sua età. I suoi polsi erano più spessi di quelli delle ragazze della sua età. Non aveva chiesto lei di nascere così, eppure era successo e per quanto continuasse a correre ogni giorno, per quanto non mangiasse regolarmente, le sue ossa restavano spesse e sgraziate, a detta di tutti i compagni delle sue classi precedenti."

«P-Posso t-togliermi.» Balbettò, terrorizzata ed insicura.
Lui inizialmente sospirò soltanto. «Non importa, avendoti davanti non riuscirei comunque a vedere – spostò la sedia nel banco avanti a quello del compagno con cui era entrato in classe – sei una ragazza, dovresti essere più sottile.»
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Atsuko bussò poche volte. Sapeva che il tirocinante Mori le avrebbe aperto il prima possibile, inoltre, non voleva disturbarlo.
Ryota spostò la porta a soffietto, accogliendola con quel suo sorriso giovane e splendente. Probabilmente fu impossibile per Atsuko non arrossire. Quel suo modo gentile di darle il benvenuto, ogni volta, le faceva battere forte il cuore. Sapeva che non poteva, e sapeva anche che Mori-kun era sposato da diversi anni, sebbene la sua giovane età, per cui non poteva farci nulla, quel palpitare forte dentro al petto sarebbe rimasto un segreto soltanto suo.
«Mori-san!»
«Atsuko, è successo qualcosa?» Si spostò per lasciarla entrare. L’aula professori, per fortuna, era vuota a quell’ora.
La studentessa si sedette su una scrivania libera, ondeggiando le gambe visto che non toccavano il pavimento. «In realtà, non mi capita spesso di chiedere questi favori, però, credo che in questo caso, sia importante.»
L’espressione del giovane professore si incurvò, era preoccupato. Quelle sue reazioni erano così belle agli occhi di Atsuko.
«Beh, insomma, c’è questa ragazza, è nuova. A quanto pare ha fatto le medie in un altro posto, e non si trova molto bene. Alcuni ragazzi della mia classe la prendono in giro, per questo motivo, credo, l’altro giorno ho notato che saltava il pranzo. Ho provato tante volte a farla mangiare, però, si rifiuta – Atsuko corrugò la fronte, non sentiva di riuscire a dire per bene quello che avrebbe voluto – io credo che Eri-chan sia molto bella. È, vero le sue ossa sono più spesse del normale, ma non è qualcosa che può risolvere. Non è che sia sovrappeso o altro, quindi non vedo il motivo di saltare il pranzo, ormai si è convinta di questo e credo lo faccia da tanto tempo. Tutto ciò mi fa stare male. Vorrei aiutarla, ma anche se le dico che è bella, non vuole credermi, pensa che lo dica perché sono sua amica!»
«I ragazzi della classe hanno preso di mira anche te?»
Inizialmente Atsuko rimase senza parole. Non si aspettava lontanamente quella domanda.
Si era preoccupato.
Le sue guance si colorarono in fretta e Atsuko arricciò le labbra imbarazzata. «Non lo fanno perché sanno che non m’importa. Anche se mi dessero fastidio, io saprei reagire, ma Eri-chan no!»
Mori si mise le mani in tasca. Pensava.
«Le parlerò, qual è il suo nome?»
Ryota non era un uomo altissimo, anzi, superava appena Atsuko ma doveva essere sicuramente più basso di Yoshida. Era certamente un bell’uomo, popolare tra le studentesse, ma la corte si interrompeva nel momento in cui scoprivano che quel giovane dai capelli color corteccia, grandi occhi a mandorla, espressivi e sempre allegri, era sposato da diversi anni.
Mori era un uomo, e loro soltanto studentesse.
Comunque era felice del rapporto che si era creato tra di loro, Mori-san era la persona con cui andava a parlare nei momenti difficili. Era lì soltanto da due anni ma parlavano frequentemente ed Atsuko si era aperta molto con lui, sempre disponibile, sempre pronto a consolarla nei momenti più difficili.
Era indubbiamente un uomo perfetto, troppo lontano per qualcuno come lei.
«Eri Yoshida.»
«E’ una promessa, le parlerò il prima possibile.»
«Grazie mille Mori-san.»

 


Una volta entrata in classe, Eri trovò una lettera sul suo banco. Inizialmente rimase sorpresa, non ci pensò a fondo e gli sembrò una qualche minaccia da parte dei compagni della classe. Issei dormiva sul suo banco ma il suo volto era rivolto verso la sua postazione.
Capì che era il modo migliore per restituirgli i soldi.
Era stato…gentile da parte di Hasegawa.
Quando ripose la busta bianca nella cartella si lasciò sfuggire un sorriso, non si aspettava che Hasegawa potesse essere gentile con lei. Forse l’averlo aiutato in una situazione del genere gli aveva permesso riflettere e avrebbe smesso di infastidirla.
Lo sperava davvero.
Issei dopo quel sorriso si girò dall’altra parte, forse era stato fastidioso per lui?
«La posi soltanto?» Domandò Fujihara, apparsa come sempre dal nulla, avvicinandosi al suo banco.
Eri non sapeva cosa dire.
«Hasegawa mi ha detto di non toccarla, per cui adesso sono più curiosa di prima, può essere davvero una dichiarazione?»
“Hasegawa… le ha detto di non toccarla.” Eri sentì le guance infuocarsi, sapeva che lo aveva fatto per non far sapere che gli stava tornando quel denaro, tuttavia, trovò quel gesto estremamente carino. Sicuramente poteva farsi gli affari suoi, nessuno avrebbe saputo che quei soldi erano suoi, e scoprendo il contenuto magari avrebbero messo in giro delle voci cattive. In qualche modo, aveva cercato il buono nel suo gesto, e ci era riuscita.
«E’ d-davvero una dichiarazione?» Chiese un ragazzo, seduto un banco avanti a quello di Issei, si chiamava Kata Noguchi, non lo conosceva ma era un compagno di classe, anche se frequentava i bulletti della classe, non era particolarmente malvagio, in confronto ai suoi amici.
Eri strinse le labbra impaurita. In quel momento Atsuko non avrebbe potuto salvarla, visto che non era ancora arrivata.
“Comunque non posso dipendere sempre da lei, in questo modo non farò che causarle problemi.”
«Avanti – Fujihara cercò di strapparle la borsa ma Eri la tenne salda al petto, non sapeva cosa inventarsi ma non poteva neanche permetterle di prenderla o l’avrebbero sicuramente aperta – fammi vedere, Kyojin!»
Si alzò un ragazzo biondo, sedeva nei primi banchi. Era un amico di Issei, e anche di quel Kata, si chiamava qualcosa come Hitomaru. Aveva un sorriso sadico dipinto in volto.
“Mamma, perché non mi possono solo lasciare in pace?” Coprì la borsa con tutto il suo corpo, cercando di stringerla il più forte possibile. Avrebbe voluto tanto scomparire in quel momento.
«Lascia fare ad un vero uomo, Manami.» Disse Hitomaru, spostando la compagna più piccola e decisamente bassa. Allungò la mano, cercando di strappare la borsa ad Eri.
Usava una forza bruta pur di potergliela tirare via.
Eri se ne accorse solo dopo pochi secondi che la mano di quel compagno si era intrufolata tra lei e la borsa. Sentiva le sue dita muoversi tra i suoi seni.
Sgranò orribilmente gli occhi. Era una sensazione inspiegabilmente brutta.
Le bruciava tutto il corpo.
Quel contatto la destabilizzò talmente tanto da farle perdere qualsiasi forza nelle braccia, cedendo.
Sentiva il corpo tremare. Era consapevole delle lacrime che rigavano il suo volto, tuttavia, non pensava neanche a nasconderlo. Restava immobile, alzata, mentre il suo dolore passava semplicemente in secondo piano, a nessuno importava cosa era appena successo? Si sentiva violata, maltrattata, quello che era successo era probabilmente la cosa più grave che avessero mai fatto nei suoi confronti.
Si accorse delle sue silenziose lacrime, Manami, indicandola, dopo una sonora risata. «Guarda, Hitomaru, sta piangendo perché le hai messo una mano sul seno! Kyojin dovresti essere contenta che un ragazzo così bello ti ha toccata!»
«In effetti – si mise a ridere anche quello, mentre frugava nella borsa come un ladro – anche se non sembra una ragazza, ha proprio un gran bel davanzale.»
Eri voleva soltanto scappare.
Si vergognava, si sentiva sporca.
Quella sensazione di disgusto sulla pelle era terribile.
Non riusciva a fermare le lacrime.
Non le importava più di nulla, che avessero scoperto il contenuto della busta o meno, in quella classe non avrebbe voluto più metterci piede.
“Mamma” pensò, mordendosi le labbra “perché sta succedendo questo? Perché non possono soltanto vivere la loro vita, senza distruggere la mia? Perché qualsiasi cosa io faccia, non è abbastanza?”
I suoi occhi erano gonfi e rossi. “Perché non c’è niente che io possa fare per salvarmi da sola? Perché non può dipendere dalle mie capacità?”
Sentì cadere una sedia che fece un gran casino. Issei si era alzato, bloccandole il passaggio per andarsene. Non riusciva a vedere il suo sguardo sotto la folta frangetta mossa e scura. Perché si comportava in quel modo? Poco prima l’aveva aiutata e adesso gli sbarrava il passaggio. Perse qualche battito, una malinconica delusione le aveva riempito il cuore.
Si allontanò soltanto dopo dalla sua postazione, Manami ed Hitomaru urlavano ad Issei di aggiungersi per vedere insieme cosa ci fosse dentro la busta, ma, sorprendentemente, Hasegawa afferrò la borsa di Eri.
«Che cazzo stai facendo?!» Urlò ad Hitomaru.
Il compagno probabilmente non se lo aspettava e rimase in silenzio.
Eri sentiva le lacrime più calde dopo quello che aveva fatto Issei, come se le stessero scaldando le guance.
«Avanti, adesso sei diventato un bacchettone, Hasegawa?»
Issei non rispose più, trattandolo come se fosse una causa persa, così ritornò al banco di Eri, poggiando la cartella. Aveva un’espressione fredda ma, attraverso le lacrime, Yoshida non riusciva a vedere bene. Cercava di asciugarle, inutilmente, perché poco dopo riprendevano a scorrere.
Non smetteva di tremare, ma non era il solito tremore, non era soltanto paura, non era la solita paura. Un ragazzo aveva toccato il suo corpo, senza il suo permesso, tutto quello era umiliante.
Sentiva il bisogno di lavarsi, di lasciare che l’acqua portasse via quel pulsare contro il suo petto. Anche se il contatto era durato giusto qualche secondo, era come se sentisse ancora la mano di Hitomaru su di sé.
«Non ti riconosco più, Hasegawa.» Sputò fuori, acidamente, Manami, guardando Issei che tuttavia non la degnava dello stesso onore.
«Non credo che tu mi conosca così bene da poterlo dire.» La freddò.
Il suo sguardo era rimasto fisso su Issei, non se lo aspettava davvero, non pensava potesse davvero aiutarla. In passato, nonostante i suoi tentativi di essere gentile con i propri carnefici, niente era cambiato. Anzi, avevano sempre trovato un modo per rendere quei gesti delle armi contro di lei. Issei l’aveva salvata.
Si mise una mano sul volto, mordeva forte le labbra. Perché quelle persone la aiutavano? Perché doveva sempre averne bisogno? Perché non riusciva a tirarsi fuori da quelle situazioni da sola?
Prima o poi si sarebbero stancati, prima o poi avrebbero pensato che se ne approfittava.
Non voleva questo.
Lei desiderava soltanto essere lasciata in pace.
Eri vide Atsuko davanti la porta. Aveva uno sguardo strano, i suoi grandi occhi sgranati erano fissi su Hitomaru.
Entrò con passo pesante dentro la classe. Hitomaru si era appena seduto, infastidito dalla reazione di quell’amico che non sembrava essere dalla sua parte.
Atsuko gli picchettò sulla spalla, perché si girasse, ma Hitomaru continuò a guardare verso la finestra.
«Vai a rompere da qualche altra parte, Nomura.»
«Vedi di girarti, prima che ti afferri dai capelli.»
Quella non era la solita Atsuko, non era la ragazza super solare e allegra di sempre, era una persona agitata e nervosa che aveva qualcosa in mente. Hitomaru probabilmente non aveva paura della sua minaccia, tuttavia preferì girarsi comunque.
Atsuko stampò il suo palmo sulla sguancia del compagno, provocando un sonoro rumore.
«Ah sì, lo dico adesso così che sia chiaro per tutti, non ho paura di prendervi a calci fino a farvi sputare sangue – guardava tutti, dentro la classe – se darete ancora fastidio a Yoshida.»
Lasciando tutti in silenzio, Atsuko andò verso Eri. La prese per mano, trascinandola via. Issei rimase a guardare e si accorse che Nomura gli aveva lanciato una strana occhiata. La cosa lo confuse.
 
Portò Eri fino all’infermeria, dicendo all’infermiera che non si sentiva molto bene.
«Eri-chan, puoi guardarmi?» Le accarezzava i capelli, mentre con la mano libera provava a farle sollevare il viso. Eri non voleva farsi vedere perché stava piangendo disperatamente.
Atsuko si morse le labbra. Involontariamente, anche a lei iniziarono a scivolare giù piccoli corsi d’acqua.
Aveva assistito a tutta la situazione ma inizialmente non era sicura di come comportarsi, eppure quell’Hasegawa l’aveva aiutata per qualche ragione sconosciuta, ed era una cosa positiva, perché così Yoshida avrebbe sentito più appoggio dentro la classe.
«E-Eri-chan!» Singhiozzò.
Non voleva vederla in quello stato, le faceva male. Quello che le avevano fatto era schifoso e non c’era motivo perché succedesse.
Yoshida era del tutto sconvolta, sapeva che non la ignorava per cattiveria o perché fosse infastidita da lei, ma Atsuko poteva capire benissimo che anche provandoci, forse la sua preziosa amica non avrebbe aperto bocca.
 
Qualcuno bussò.
Atsuko si voltò verso la porta, forse era arrivato Mori-kun, come un principe, a sistemare tutta quella situazione. Tuttavia, non era sicura che Eri volesse vedere qualcuno entrare in quella stanza, e preferì tacere.
Per fortuna, la porta si aprì comunque.
«Sto entrando.»
Era la voce di Hasegawa.
Atsuko si sentì quasi tranquilla nel vederlo arrivare.
«Ecco… - parlava sottovoce, come al solito – ho portato la borsa di Yoshida. Il professore ha chiesto dove foste e ho spiegato che non stava molto bene.»
Fu in quel momento che Atsuko si arrabbiò. «Perché non hai detto tutto quello che era successo?!» Aveva involontariamente alzato il tono di voce.
Issei storse le labbra. «Parla piano, forse vuole dormire.»
Eri era coperta fino alla testa dal lenzuolo ma essendo questo molto sottile si riusciva a vedere chiaramente in che posizione fosse. Si era raggomitolata su se stessa, tremava ancora.
«Tieni alla tua amica? Beh, mettere quel genere di persone contro i professori per una cosa tanto grave, non farà che renderle la vita un inferno.»
Davanti alla sua spiegazione, Nomura non poté che restare in silenzio. La cosa che più la turbava era quella preoccupazione nei confronti di Eri da parte di Hasegawa, quell’idiota di Hasegawa.
Aveva persino portato la borsa di Yoshida fino all’infermeria.
Eri non parlava, forse voleva restare sola. Issei fece cenno alla compagna di banco di andare fuori, a parlare, e lei lo ascoltò.
 
«Cosa c’è in quella busta? Tu lo sai, altrimenti non ti saresti messo in mezzo.»
Issei nascose lo sguardo sotto la frangetta. «Yoshida mi ha aiutato, dovevo prendere dei farmaci per mio fratello ma avevo dimenticato il portafogli, così volevo tornarle i soldi.»
«Che senso aveva metterli dentro una busta da lettera? Sicuramente qualcuno avrebbe pensato che fosse una dichiarazione e le avrebbero dato fastidio! Sei scemo?»
«Io… - Atsuko assistette in prima persona alla visione delle gote del compagno tingersi di un delicato rosa – pensavo… che così l’avrebbero scambiata davvero per una lettera di dichiarazione – Issei odiava mostrarsi così vulnerabile davanti alle persone, per il tempo trascorso nella stessa classe, Nomura l’aveva capito, per cui continuava a spostare il viso – volevo che… pensassero che Yoshida piaceva a qualcuno, così magari si sarebbero fermati.»
“Cosa… non…” Atsuko rimase senza parole davanti a quel gesto così meditatamente organizzato, a quanto pare, voleva soltanto essere gentile con lei visto che lo aveva aiutato. “Hasegawa non è un mostro! “
«E-Ecco… - Atsuko non era sicura di cosa dire, probabilmente Issei si sentiva un mostro in quel momento – non è stata colpa tua!»
«Invece sì.»
«No! Oggi sei stato grandioso!»
Issei continuava ad arrossire.
«Dovresti parlare di più con Eri-chan, lei è una persona davvero splendida. Se le fossi amico anche tu, magari sarebbe più tranquilla.»
«Non voglio esserle amico.»
Nuovamente, Atsuko si trovò di fronte ad un muro. Perché quel ragazzo doveva essere così lunatico? Perché la aiutava, si preoccupava, e poi diceva cose talmente insensate? Probabilmente non era cattivo ma continuava ad essere un idiota.
«Perché?!»
«Lei… è una brava persona – Atsuko si chiedeva che tipo di espressione potesse avere Issei in quel momento, avrebbe tanto voluto tagliare quella fastidiosa frangetta che gli copriva gran parte della faccia – non voglio che mi stia vicino, o finirebbe per affezionarsi a me. Non sono il genere di persona che può esserle amica, finirei solo per farla stare male.»
In effetti, Issei era un tipo abbastanza popolare. Sia in classe, che fuori, aveva alcune ragazze che gli andavano dietro, anche se a causa del suo carattere disinteressato, persino le ragazze a cui piaceva preferivano tenerlo lontano. Non si capiva perché mai Hasegawa fosse così scontroso, alcuni credevano che avesse un qualche passato criminale e che attualmente fosse un delinquente, ma Atsuko era certa che fossero solo stupide voci. Hasegawa era un tipo scontroso e solitario, certo, ma non creava mai grandi problemi e se quelle voci erano basate soltanto sul fatto che lui preferiva starsene da solo o in silenzio la maggior parte del tempo, sicuramente non erano troppo attendibili.
Comunque Eri era certamente un soggetto facile da disturbare e quello Hasegawa doveva saperlo. Lui, nonostante avesse capito che bella persona fosse Yoshida, preferiva comunque tenerla lontana, per non crearle problemi, eppure, per quanto fosse una scelta intelligente, non era del tutto convinta che fosse quella giusta.
Eri aveva bisogno di amici, non di protettori nell’oscurità.
«A te importa davvero di Yoshida, vero?»
Issei si colorò ancora. «Perché?»
«Non faresti lavorare mai così tanto il tuo cervello per una persona di cui non ti importa niente, o con cui ti senti solo in colpa, giusto?»
Hasegawa sbuffò, era infastidito, ma non arrabbiato. Si mise le mani in tasca e senza dire altro era tornato in classe. Atsuko rimase a guardarlo per qualche secondo, anche dopo essere entrato il suo sguardo rimase fisso.
“Hasegawa… cosa provi davvero?”

 


Da quello spiacente avvenimento erano passati appena due giorni. L’equilibrio in classe non si era certo stabilito in fretta, sarebbero passati altri giorni e forse anche settimane. Eri, comunque, non proferiva parola se non ai professori. Con Atsuko preferiva parlare soltanto fuori dalla classe.
«Bene, la scuola ha organizzato un concorso per tutti i primini – aveva annunciato sorridente la loro coordinatrice di classe, una professoressa di lettere vecchietta e minuta – ad ogni gruppo, che si formerà secondo i posti assegnati, così da poter vedere il lavoro di squadra anche lontano dai propri amici, sarà chiesto di fare una ricerca su un tema comune. Il miglior gruppo, visiterà Tokyo per tre giorni.»
Nessuno sembrava troppo emozionato per l’avvenimento, ma probabilmente era solo a causa dell’umore della classe che dopo tutto quello che era successo non riusciva ad entusiasmarsi.
I gruppi vennero formati, Eri ed Atsuko non finirono insieme.
Yoshida, Hasegawa e Fujihara e Noguchi, invece sì, visto la sistemazione dei banchi. Atsuko era in gruppo con un certo Miura, seduto poco lontano da lei, e altri due compagni.
Suonò, poco dopo l’assegnazione dei gruppi, la campana che metteva fine all’orario scolastico.
Hasegawa guardò verso il banco di Yoshida, lei non sollevava mai lo sguardo da quella volta. Non parlava, non sorrideva, un po’ sentiva la mancanza di quei piccoli gesti.
Si materializzò in fretta il ricordo di quel sorriso dolce, nel momento di riporre la lettera nella borsa, sul volto ormai ingrigito di Eri.
Perché il suo cuore batteva?
Perché quello strano bruciore sulle guance?
Perché, nonostante tutto, sentiva quella strana malinconia pensando che forse, Yoshida, non sarebbe più tornata la stessa? Certo, capiva bene che quello che era successo non poteva essere scordato da un giorno all’altro, d’altra parte, il non poter più vedere la serenità nel suo viso, in qualche modo lo disturbava.
Fujihara si alzò per raggiungere il banco di Yoshida. Issei assisteva.
«Senti, io ho degli impegni il fine settimana, quindi non potrò esserci – batté la mano sul suo banco – vedi di non farmi fare brutta figura, ok? Datti da fare, sicuramente non avrai niente da fare durante le vacanze, almeno renditi utile, visto che hai causato tutto questo malessere in classe.»
Issei ricordò di aver sentito del lavoro di Yoshida, glielo aveva accennato quella volta in farmacia. Quello che aveva detto Fujihara, oltre ad essere immensamente maleducato, era anche inesatto. Hasegawa aspettava una qualche reazione da parte di Yoshida.
Ma Eri incassava soltanto, tanto che Manami se n’era andata com’era venuta. Dopo di lei, Kata, si era avvicinato.
«Yoshida-kun, ti aiuterò io!»
Kata era un ragazzo alto poco più di Atsuko, aveva grandi occhi scuri e i suoi capelli corti erano del medesimo color corteccia. Da quando lo frequentava, l’unica cosa che Issei poteva criticargli era il poco fegato, ma restava uno dei compagni più disponibili e gentili, persino con la vicinanza di Hitomaru non si era trasformato in uno stupido.
«Non è necessario. Grazie comunque.»
Issei notò negli occhi di Kata un qualche senso di sconforto. Voleva essere gentile, ma probabilmente era troppo tardi per una cosa del genere. La cosa più giusta fu andare via, senza dire altro.
Eri prese in fretta la sua cartella, uscendo il prima possibile dall’aula. Salutò velocemente Atsuko, impegnata col suo gruppo a decidere i giorni per incontrarsi per andare insieme a lei, e si incamminò. Direzione, stazione.
Issei prese a camminare dietro di lei, leggermente più lontano. Non la stava seguendo, tuttavia, dovevano fare la stessa strada. In qualche modo, gli sembrò di starla osservando fin troppo, eppure non lo faceva di proposito. Non si avvicinava per il semplice motivo che aveva spiegato ad Atsuko.
Anche lui era nel gruppo di Yoshida, e conoscendo un po’ il tipo, sapeva che avrebbe fatto quella ricerca da sola. Non gli aveva neanche chiesto aiuto, così come aveva rifiutato quello di Kata.
La cosa che forse lo infastidiva era il fatto che nonostante lui l’avesse difesa e protetta da Hitomaru, lei aveva rivolto la parola a Noguchi e non a lui, ma fondamentalmente non ne aveva avuto modo visto che Issei non le aveva rivolto la parola neppure una volta.
“Ma che stai pensando, Issei?” Si disse, coprendo il viso con una mano, mentre continuava a camminare a pochi metri da lei. Era arrossito e il suo cuore aveva preso a palpitare in modo strano, come quella volta. “Stai davvero pensando ad una cosa così stupida? “
Spostò la mano leggermente più in basso, per poter vedere Yoshida, la quale si era fermata vicino ad una panchina per accarezzare un gatto disteso a pancia in su lì vicino. Nonostante ciò, Yoshida non sorrideva, anzi, sembrava essere continuamente sul punto di piangere, soprattutto mentre accarezzava la bestiolina.
Issei distolse lo sguardo. “Perché?” Non spiegava quelle reazioni del suo corpo.
Ogni tanto gli ricapitava di pensare a quando le lacrime negli occhi di Yoshida erano state causate proprio da lui. Quella volta, il suo viso arrossato e bagnato, era estremamente carino, ma non poteva pensare una cosa del genere visto che il senso di colpa continuava a picchiare da allora nello stomaco.
Non sapeva perché la aiutava quando gli era possibile, ma forse inconsciamente cercava di scusarsi. Forse non proprio inconsciamente.
 
Si sedettero nello stesso vagone. Yoshida guardava soltanto verso il basso, Issei si era seduto di fronte ma forse lei non se ne era neanche accorta. Quando il treno si fermò per la prima volta, ne approfittò per sedere accanto alla compagna di classe e anche di banco.
Eri non si era neanche accorta di lui.
«Yoshida, oggi sei impegnata?»
La compagna sollevò finalmente lo sguardo, Issei non se lo sarebbe mai aspettato, forse perché non aveva potuto neppure scorgere la sua espressione tra i folti e scuri capelli che le coprivano costantemente il viso. Stava piangendo.
Perché? Erano passati dei giorni!
Le sue gote rosse, i suoi grandi occhi castani e chiari, brillanti tra le gocce, i capelli adorabilmente arruffati e incontrollabili, quelle labbra morse fino a diventare gonfie.
Yoshida non aveva neppure lontanamente accettato quello che era successo.
Lui era un ragazzo, non poteva capirlo probabilmente.
I giorni precedenti aveva preso il treno successivo a causa di alcune faccende da sbrigare, per cui non gli era capitato di incontrarla. Che piangesse ogni volta?
«Perché?» Domandò, asciugando in fretta le lacrime.
«Vorrei venire a casa tua – sussurrò imbarazzato Issei – ti voglio aiutare con la ricerca.»
I suoi grandi occhi sembrarono sorpresi dell’affermazione. In qualche modo, Hasegawa sperò che potesse sorridere soltanto un pochino, tuttavia, ciò non accadde.
«Non serve, grazie comunque.»
Issei perse la pazienza. «Perché diavolo fai così? Sto solo cercando di aiutarti!»
Era stato un po’ troppo aggressivo, in effetti. Si pentì immediatamente di averle parlato in quel modo.
Eri restava in silenzio davanti alla sua affermazione.
«Yoshida…»
«E’ ok, posso farcela. Grazie davvero dell’interesse.» Aveva sorriso, finalmente, ma non era l’espressione che avrebbe voluto vedere sul suo viso.
Issei non si sarebbe aspettato che non appena lo avesse fatto le sarebbero scese ancor più lacrime, era prevedibile, ma non così possibile. Si coprì il viso con una mano, non sapeva come reagire. Forse l’aveva fatta piangere di nuovo?
«Va bene – disse il compagno, prendendo la sua borsa – allora sbrigatela da sola, non mi interessa. Devo scendere qui.»
Il treno si era fermato, tutti coloro che sarebbero dovuti scendere si erano ammassati verso l’uscita, lui scomparve fra quella folla.
 
Eri rimase a fissare l’uscita per un po’.
Era stata scortese con Hasegawa?
Non ne era certa, ma credeva di averlo fatto infuriare.
Le dispiaceva, ma non riusciva a fare nulla, non aveva la forza neppure di essere gentile con chi la circondava. Desiderava solo scomparire, tuttavia non poteva permettersi altre assenze inutili, né poteva far preoccupare sua madre, e inevitabilmente i problemi si accumulavano.
 
Quando le porte si richiusero, Yoshida rimase piuttosto sorpresa nel vedere che Issei non era affatto sceso. Era rimasto accanto alle porte scorrevoli, poggiato sulla parete, mentre con una mano copriva il volto.
Sentiva le lacrime aumentare, senza alcuna ragione.
Tornò a sedersi accanto a lei, ma non la guardava.
«P-Perché?»
«Non… - parlava sempre sottovoce – sono riuscito a scendere in tempo. Se non mi porterai con te, dovrò rifare questa strada per il ritorno.»
Non le era mai successo, non aveva mai provato qualcosa del genere, tuttavia, sentiva qualcosa dentro lo stomaco, come un mucchio di farfalle che battevano tra le pareti del suo corpo pur di uscire. Anche il suo cuore si comportava in modo strano, andava veloce, troppo veloce, così veloce che forse presto sarebbe scappato dal suo petto.
Tutte quelle emozioni non l’aiutarono a smettere di piangere, anzi, solo che tra le lacrime di quel momento e quelle già asciutte di prima, c’era una piccola quanto sostanzialmente differenza.
Non erano lacrime di dolore.
Cos’era?
“Voglio… voglio vedere la sua espressione.” Pensò, immobile. Issei non voleva mostrarsi a lei, forse a causa della timidezza. “Voglio vedere i suoi occhi. Voglio spostare i suoi capelli.”
Yoshida tornò a guardare di fronte a sé.
Aveva paura soltanto a pensarlo, però, quel gesto, l’aveva resa estremamente felice.
«Puoi… puoi smettere di piangere? È fastidioso.»
Eri seguì il consiglio e asciugò in fretta le lacrime. Forse non avrebbero smesso di scendere giù dagli occhi, però ci aveva provato. Sarebbe stata buona, se Hasegawa si era comportato in quel modo con lei, allora a sua volta Eri avrebbe dovuto non dargli disturbo.
Rimasero seduti l’uno di fianco all’altro per tutto il tempo, senza parlare. Ogni tanto il treno permetteva alle loro braccia di sfiorarsi e dentro di Eri strani quanto dolci sentimenti si formavano inspiegabilmente.
La presenza di Issei sembrava calmare il dolore dentro al petto che aveva provato per tutto quel tempo.
Sentiva di volerlo guardare, di voler trovare i suoi occhi, di volerlo ringraziare. Non era semplice gratitudine ma sentiva forte dentro di sé quel bisogno di mostrargli quanto avesse apprezzato la sua ostinazione.
Odiava essere così debole, e per quanto, sul momento, l’essersi proposto per aiutarla l’avesse fatta sentire felice, forse, non era riuscita ad accettare per paura che glielo avesse chiesto solo per circostanza. Hasegawa voleva soltanto scusarsi con lei, ne era certa, sapeva che era soltanto quello, tuttavia, non poteva controllare l’incredibile reazione del suo corpo.
Ogni qualvolta il suo gomito toccava quello di Hasegawa, fremeva.
Era una paura dolce.
 
Durante il secondo viaggio sul secondo treno, Issei rimase comunque in silenzio. Eri si chiedeva se avesse cambiato idea.
«Perché fai tutta questa strada?» La sorprese, mentre, seduto scomposto nel vagone, guardava sul cellulare.
Eri distolse lo sguardo, anche se lui non la stava neppure guardando. «Mia madre ha scelto una scuola più lontana per tenermi distante dai ragazzi della mia zona.»
Issei non disse altro.
Forse in quel momento pensava che Eri fosse patetica.
“Anche se alla fine” pensò “è proprio così.”
 
Arrivarono all’ultima stazione e non ci volle molto per raggiungere una piccola stradina ai cui lati vi erano diverse abitazioni.
«Mi dispiace… è un po’ lunga la strada.»
«Non ti accompagna nessuno alla stazione? Stiamo camminando da quasi dieci minuti, tu lo fai ogni giorno.»
Eri corrugò la fronte rattristata. «M-Mi dispiace davvero, per questo avrei preferito… n-non disturbarti.»
«Smettila di pensare che mi disturbi – sbuffò Issei, mettendo le mani in tasca – se non mi andava non sarei rimasto e basta. So che sei convinta che l’abbia fatto per pietà o altro, ma io non sono una persona così buona.»
La sua affermazione fece arrossire nuovamente Eri.
«E non mi dispiace camminare, pensavo solo che è una seccatura farlo ogni mattina e ogni volta che torni a casa, prendi addirittura due treni.»
«Per me non è…un problema, ecco – Yoshida raccolse qualche ciocca dei suoi lunghi boccoli corvini dietro l’orecchio, scoprendo un grazioso orecchino a forma di stella, Issei lo notò di sfuggita, era davvero carino – prendo spesso il treno, non ho l’età per un’auto e siccome faccio molte cose, non posso semplicemente adagiarmi.»
In effetti, nonostante a scuola sembrasse così indifesa, Yoshida doveva essere una persona molto matura. Lavorava alla sua età e per Issei era qualcosa di straordinario, in effetti. Nonostante la sua situazione familiare problematica, per lui i soldi non erano mai stati un problema, non riusciva ad immaginare una ragazza della sua età che spendeva il suo tempo a lavorare.
«Scusa, ma oggi non devi lavorare?»
«La biblioteca ha un problema con le cimici per cui sono libera per qualche tempo.»
Parlarono molto timidamente, fino a raggiungere una casa con sopra un cognome diverso da quello di Eri. Issei lo notò immediatamente ma non poteva certo fare una domanda del genere. Durante la strada si era però chiesto più volte che persone potessero essere i genitori di Yoshida per mandarla a lavorare.
Chissà perché non riusciva ad accettare quella cosa.
 
«Mamma, sono a casa – disse non appena entrata in casa, mentre toglieva le scarpe, stranamente l’aveva detto a bassa voce, quasi non fosse sicura che qualcuno avrebbe risposto – c’è con me un compagno di classe.»
Issei vide delle dita scheletriche appendersi al bordo di una porta, sul momento ne fu quasi spaventato. Subito dopo capì che la persona a cui apparteneva quella mano si stava semplicemente poggiando per raggiungerli all’ingresso. Era una donna piuttosto bassa e sicuramente non doveva essere molto in salute a giudicare dalle sue guance asciutte e dalle occhiaie.
“Forse la madre di Yoshida è malata?” Si chiese, e i tasselli iniziarono a mettersi in ordine da soli.
«Piacere – Issei fece un lungo e rispettoso inchino verso la donna – io sono Hasegawa Issei. Scusi il disturbo.»
«Oh cielo, un compagno di classe? Hai visto Eri-chan?»
Perché la chiamava in quel modo?
Eri si grattava la nuca imbarazzata. «C-Cosa?»
«La mamma ha sempre ragione! In quella scuola ti sei fatta un amico così bello, oh cielo, oh cielo!»
Issei rimase abbastanza perplesso a causa di quelle parole ma non poteva che trovare adorabile quella piccola donnina leggermente ricurva su se stessa. «A-Ah, g-grazie mille!»
«Oh è vero, perdonami, non mi sono presentata – parlava senza neppure avvicinarsi, per qualche motivo – puoi chiamarmi Irene!»
Issei s’inchinò brevemente una seconda volta.
«Hasegawa-kun, potresti aspettarmi in camera qualche minuto? Preparo delle cose qui e ti raggiungo – Issei annuì – sali le scale, è l’ultima porta a sinistra.»
Il compagno fece come gli era stato detto, dopo aver salutato gentilmente “Irene”, arrivò fino alla stanza di Yoshida. Si chiedeva che tipo di posto potesse essere. In genere le camere erano lo specchio di chi le abitava, ad esempio la sua era spoglia e disordinata, gli bastava un letto, una tv e la console per starsene tranquillo.
Quando aprì quella misteriosa porta fu investito da un panorama del tutto color pastello. Non aveva mai visto così tanti peluche, i muri erano costellati da adesivi di stelle e gattini, la sedia della scrivania era completamente ricoperta da un tessuto morbido e peloso color cipria, sulla scrivania un’indescrivibile quantità di penne graziose e portapenne dalle fantasie simili.
Yoshida era quel tipo di persona?
Avrebbe dovuto capirlo dalla cancelleria che usava in classe, o dagli orecchini a forma di stella.
“Erano davvero carini…” Pensò, distrattamente, mentre il gesto di raccogliere i capelli dietro l’orecchio della compagna si materializzava nella sua mente.
Tutta quella roba graziosa e carina lo metteva a disagio, si sentiva come una sorta di nuvola nera in paradiso. Sospirò, in effetti poteva essere che usava i soldi del lavoro per comprare quelle scemenze, e lui che si era persino preoccupato.
Si sedette sul letto ad una piazza e mezza al centro della stanza. Era morbido.
Guardandosi in torno notò il calendario appeso accanto alla scrivania, c’erano delle scritte colorate su tutti i giorni fino a quello presente. Si alzò curioso, voleva leggere cosa ci fosse scritto.
La cosa che vi trovò, per qualche motivo lo sconvolse. Eri faceva un conto alla rovescia, mancavano ancora 113 giorni alla fine di quella scadenza. Non spiegava cosa stesse aspettando e la cosa lo incuriosì maggiormente. Quando sentì i passi vicino alla porta, corse a sedersi. Non voleva sembrare un impiccione.
«Scusa se ti ho fatto aspettare – disse, poggiando un vassoio sul tavolino basso accanto alla porta – ho preparato il pranzo a mia madre.»
«Lo faccio anche io – parlò senza pensarci – è un po’ stancante.»
«A me fa piacere, finché posso aiutare mia madre.»
Issei ebbe l’impressione di aver parlato a sproposito, forse i motivi per cui facevano la stessa cosa erano profondamente diversi.
«Scusa… se ho detto qualcosa di sbagliato.»
Eri lo guardò sorpresa, poi sorrise dolcemente. «Ah no, perdonami, è solo che ero un po’ sovrappensiero e f-forse ho dato l’impressione di essermela presa.»
Hasegawa sospirò sollevato. Perché era sollevato?
«Ho portato delle cose… serviti pure.» Indicò il vassoio, c’era un solo piatto e due bicchieri di succo d’arancia, a giudicare dal colore arancio acceso. Issei in effetti aveva fame, come sempre, così senza fare troppi complimenti, spostò il tavolo più centrale, in modo che potessero iniziare a studiare.
«Perché hai preso solo un piatto?» Domandò, sedendosi e guardando la pietanza. C’erano due tramezzini ben presentati, probabilmente anche molto buoni, però in effetti potevano non esserci piatti puliti o qualcosa del genere, quindi magari aveva fatto una domanda scomoda.
«Perché due piatti?» Chiese, come se fosse una cosa strana.
Issei si fermò a pensare come rispondere per non essere invadente o fastidioso ma non gli venne in mente niente. «N-No, niente.» Scosse la testa, arrendendosi. Eri si era già messa a cercare i libri in uno scaffale, mentre lui non sapeva se iniziare a mangiare senza di lei oppure no.
“No, è scortese.” Pensò, ma a dargli una risposta fu il suo stomaco che brontolava. “Mio dio, Issei, puoi avere davvero sempre fame? “
Eri si inginocchiò, intenta a cercare qualcosa. «Hasegawa-kun, puoi mangiare, non serve che mi aspetti.»
Issei non lo fece comunque, anche così, sarebbe stato troppo maleducato, soprattutto in casa straniera. Non voleva fare una brutta impressione, per qualche ragione. E poi, alla madre di Yoshida stava così simpatico che si sarebbe sentito sicuramente in colpa.
«Perché non hai accettato l’aiuto di Kata?»
Eri poggiò i libri sul tavolino, non rispose subito, prima si sedette per bene davanti a lui. «Perché non voglio avere a che fare con quelle persone.»
“Ben ti sta, Kata.” Pensò, divertito Issei.
«Prego, Hasegawa, serviti, non fartelo più dire o sembrerà che voglio avvelenarti.»
Issei rise e si accorse che davanti alla sua risata, Eri era arrossita adorabilmente, così si ricompose immediatamente, imbarazzato.
«Prendi tu il primo.»
«No, g-grazie – chinò lo sguardo – non mi va per adesso.»
Il compagno ricordò che proprio quel giorno l’aveva vista durante il pranzo, seduta insieme ad Atsuko, ma non gli era sembrato che avesse pranzato, sul momento pensava che avesse dimenticato il bento. Che razza di persona non poteva aver fame dopo tutto quel tempo a scuola?
«Che stai facendo, Yoshida?»
«E-Eh?»
«Neanche a pranzo hai mangiato, oggi, vero?»
«C-Come lo sai?» La sua espressione sorpresa era davvero carina.
In realtà Issei non lo sapeva, tuttavia, forse poteva aver diviso il bento con Atsuko, solo che dalla sua risposta quella verità non traspariva affatto, quindi non doveva essere successo. Conoscendo quella testona di Atsuko, glielo avrebbe offerto sicuramente.
«Sono passato di lì e ti ho vista, tutto qua.»
«Comunque non preoccuparti – Issei non si stava preoccupando, fu quello che si disse dopo aver sentito quelle parole, ma sapeva che non era vero – in genere ceno soltanto, sono abituata così.»
Che stesse facendo una qualche dieta a causa di quegli idioti che la prendevano in giro? Sicuramente non glielo avrebbe detto, ma doveva essere così, e la cosa che più lo preoccupava, probabilmente, era il fatto che anche lui faceva parte di quegli idioti che le dicevano quanto non fosse femminile.
Era anche lui partecipe della creazione di quei complessi inutili che si stava facendo. Yoshida andava bene così, non doveva fare una cosa del genere per quei ragazzi.
“E poi…” si disse, osservandola leggermente curva su se stessa mentre cercava di capire quale quaderno usare, osservando le sue lunghe ciglia scure e le sue labbra carnose e rosee “è davvero carina, no? Lo pensa anche Kata…”
Prese uno dei tramezzini, porgendoglielo. «Mangia.»
«N-Non mi va, d-davvero!»
«Ho detto di mangiarlo. Tua madre sa che non pranzi a scuola?»
Eri divenne tutta rossa, stringendo le labbra come una bambina appena rimproverata. Con la mano libera, Issei coprì il viso. “Maledizione, ha delle espressioni così carine…”
«P-Per favore…Hasegawa-kun…» Supplicò, con un filo di voce.
«Se non lo mangi, racconterò a tua madre questa cosa.»
La sua mano tremava mentre prendeva il piccolo trancio di pane. Lo stava facendo perché sua madre non sapesse quello che succedeva a scuola. Issei era all’oscuro del fatto che quella cosa si ripetesse ogni giorno, ma a giudicare dal suo cedere così velocemente perché non lo sapesse, doveva avere ragione.
«G-Grazie.»
«Non è che dopo vai in bagno a vomitare, vero?» Corrugò la fronte, serio.
Eri sorrise, coprendosi la bocca per nascondere la sua risatina. «Non faccio queste cose.»
«Ecco, brava, non farle.»
In qualche modo, iniziarono a studiare, parlando in modo del tutto naturale, in effetti Issei non l’avrebbe mai creduto, ma la compagnia di Eri era molto piacevole. Il fatto che in fondo, anche se costretta, aveva accettato la sua presenza, in qualche modo lo rincuorava. Forse non pensava a lui più come un nemico.
Mentre scrivevano ognuno sul proprio quaderno alcuni appunti, Issei si fermò a guardarla, nuovamente. Stava leggermente ricurva a scrivere, con espressione assolta. Avrebbe fatto la stessa cosa anche da sola, per tutti gli altri, pur di non avere a che fare direttamente con loro.
Eri teneva dentro più cose di quanto potesse, non doveva essere stato facile vivere per lei.
A lui andava bene tutto, a scuola, grazie al suo aspetto fisico. Nessuno lo aveva mai importunato per cui non poteva capire cosa provava davvero Yoshida.
Alla fine, quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe passato del tempo con lei, come aveva già detto a Nomura, non voleva avere niente a che fare con Yoshida. Aveva lasciato Naoko per proteggerla dalla sua famiglia, non poteva permettersi degli amici se non quei pochi compagni a scuola con cui passare il tempo libero.
Standole lontano le avrebbe causato meno problemi.
Aveva già i suoi, di problemi, quella ragazza per potersi addossare anche quelli che gli avrebbe causato la sua compagnia.
 
«Tu…non sei come loro, vero?» Chiese Yoshida all’improvviso.
Issei rimase senza parole. Proprio non se lo aspettava.
«Anche se…all’inizio ci siamo fraintesi… t-tu non sei come loro? T-Tu sei gentile.»
 
“Smettila, Yoshida.”
 
“Non devi affezionarti a me.”
 
«Perché lo pensi? Sto solo facendo la mia parte.»
«La tua parte?»
«Sono anche io nel gruppo della ricerca, sto facendo la mia parte, è solo essere giusti, non sono gentile.»
Eri non rispose. Anche se lui il tramezzino lo aveva già finito, lei lo mordeva lentamente e ne aveva ancora metà, lo mandava giù difficilmente, dopo quello che Issei aveva detto lo aveva persino posato. Non avrebbe parlato, probabilmente, ed anche Hasegawa avrebbe fatto lo stesso.
L’equilibrio che si era creato, si spezzò brutalmente.
Non voleva ferirla.
Yoshida sollevò lo sguardo soltanto quando sentì la porta d’ingresso aprirsi, si alzò prontamente per uscire dalla stanza e corse fino alle scale.
«Mamma, che stai facendo?!» La sentì urlare dal corridoio.
Issei si alzò per guardare cosa stesse succedendo.
«Eri-chan, stai tranquilla! Ha solo chiamato la posta, devo prendere una cosa. Non serve che vai tu, c’è il tuo amico Issei, resta con lui.» Aveva risposto allegramente la donna, si era messa degli abiti per uscire ma la cosa che notò Issei furono quelle grosse sciarpe e il cappotto fin troppo pesante per quel periodo.
In effetti non doveva stare molto bene.
Dov’era il padre di Yoshida?
Forse a lavoro?
«Non importa, togli quei vestiti, vado io un secondo. Resta a casa a fare compagnia ad Hasegawa-kun.» Non diede alla madre il tempo di controbattere che corse fino alla sua stanza. La situazione doveva essere molto grave visto come aveva reagito Yoshida.
Non pensò neppure a chiudere la porta della stanza mentre toglieva la camicia della divisa. Issei inizialmente rimase imbambolato, poi si rese conto di starla fissando in reggiseno (cosa che lo fece arrossire parecchio), anche se lei non se n’era accorta perché troppo di fretta. Aveva infilato un maglione lungo quasi fino alle ginocchia ed era corsa nuovamente fuori, aveva tolto la gonna mentre scendeva le scale.
Perché quella preoccupazione così maniacale nei confronti della madre? Il lasciarla uscire da sola era così grave?
«Per favore, Hasegawa-kun, potresti aspettarmi? Ci metto poco.» Anche se parlava con lui, non lo guardava direttamente.
Issei si infilò le mani in tasca, colpevole. «Vai pure, resto qui con tua madre.»
«G-Grazie…» Uscì subito dopo.
Hasegawa in cima alle scale, constatava come la madre fosse rimasta a fissare la porta d’ingresso con fare malinconico.


 


Il primo incontro non era andato affatto male, anzi. Nonostante non fosse proprio felice del proprio destino, essendo separata da Eri, non poteva lamentarsi, per lo meno i ragazzi con cui era in gruppo si rendevano utili.
Mentre studiavano tutti insieme in biblioteca, Atsuko non poteva che notare come lo stesso Miura che gli aveva reso i primi due anni delle medie un inferno, era diventato un tipo tranquillo. In effetti loro due non si erano più parlati dalla seconda media, anche se per qualche motivo finivano sempre nella stessa classe.
Miura era stato il più terribile dei suoi incubi in quegli anni passati, ma ormai non ne aveva più paura. Aveva imparato a combattere contro chi le faceva del male, in quel modo prima o poi avrebbe smesso.
Ryuu Miura era stato il più orribile dei diavoli, ma dopo quella volta, dopo quell’avvenimento così doloroso per Atsuko, così doloroso da farle paura il solo ricordo, aveva smesso di dare fastidio a tutti. Era sempre stato un dongiovanni, forse aveva capito di potersi divertire anche senza rendere la vita delle persone più indifese un inferno ed era diventato famoso tra tutti per essere il ragazzo che cambiava fidanzata ogni settimana.
Atsuko aveva imparato a passare sulle cose, non aveva più paura, non voleva più nascondersi, né fingere che i suoi difetti non esistessero, ma ancora non riusciva ad accettare quello che era successo quel giorno.
 
«Nomura, ci sei?» Lo chiamò un compagno, visto che la ragazza si era bloccata a fissare Miura, distratto dal libro per accorgersene.
«C-Cosa? Sì, sì, ci sono!»
«Io e Nakamori stiamo andando via, ok?»
Atsuko annuì confusa. Come aveva potuto perdere contatto con ciò che la ricordava per guardare quello stupido?
In effetti Miura era quello che parlava meno, nonostante tutto. Non poteva saperlo, ma sapeva che da quel giorno anche dentro Ryuu qualcosa si era spezzato. Forse si era reso conto di quanto grave fosse quello che era successo e aveva solo deciso di espiare le sue colpe col silenzio.
«Fai attenzione quando torni a casa.» La salutarono così i ragazzi, che invece, non parlavano molto con Ryuu. Non era ben visto dai ragazzi visto che piaceva così tanto alle ragazze.
Nomura li salutò scuotendo la mano.
Quando uscirono pensò bene di sistemare le sue penne e i quaderni dentro la borsa, visto che a momenti la biblioteca avrebbe chiuso. Il venerdì restava aperta solo mezza giornata, era un po’ scomodo.
 
«Hai l’ombrello?» Chiese con fare disinteressato Miura, senza neppure guardarla, in modo talmente vago che inizialmente pensò potesse parlare al cellulare.
«I-Io?»
«Vedi qualcun altro?»
Atsuko gonfiò le guance. «Non avevo capito, non serve rispondere così.»
«Lo hai o no?»
«Ma perché? – si girò verso la finestra, notando con grande inquietudine che fuori pioveva terribilmente – Ah… no, non lo ho, ma aspetterò che smetta.»
«Puoi farmi compagnia, aspetto qualcuno qui.»
Atsuko non aveva voglia di fare una cosa del genere, tuttavia, non è che avesse una qualche possibilità. Fin da bambina era terrorizzata dai tuoni, così tanto da non riuscire a muovere un solo muscolo al suono di esso. Sarebbe tornata a casa quando sarebbe finito il temporale, probabilmente, anche se il fatto che avrebbe dovuto aspettare fuori le metteva agitazione.
Entrambi si diressero fuori, visto che ormai la proprietaria aveva annunciato a tutti di lasciare il posto.
Senza parlare ancora, rimasero seduti uno di fianco all’altro sugli scalini dell’ingresso, Miura aveva con sé un ombrello ma da quello che aveva detto doveva star aspettando qualcuno. Chissà perché le aveva chiesto dell’ombrello.
La gente correva per le strade pur di rifugiarsi al riparo.
Miura teneva gli auricolari alle orecchie, non avrebbero parlato probabilmente e ad Atsuko la cosa non dispiaceva affatto.
Si mise a pensare alle cose che avrebbe potuto fare nei giorni successivi, tra i suoi obiettivi sarebbe stato quello di andare insieme ad Eri da qualche parte dopo la scuola, se lei avesse voluto. In effetti, pensandoci a fondo, non aveva mai avuto un’amica vicina come lei.
Era felice, di avere finalmente qualcuno con cui parlare, qualcuno che non la considerasse una pazzoide, qualcuno con cui chiacchierare nel momento libero, anche se ormai parlarle in classe era diventato impossibile dopo quello che le avevano fatto.
 
«Nomura.» La chiamò improvvisamente Miura.
Atsuko si voltò verso di lui, cercando di capire se era successo davvero. La pioggia picchettava così forte che persino sentire le auto passare diventava difficile.
«Sì?»
«Tu ci pensi ancora a quel giorno?»
Quella domanda, nonostante tutto, arrivò limpidamente alle sue orecchie, lasciandola senza parole. Ryuu non la guardava, seduto come una scimmia sullo scalino più in basso rispetto al suo. Atsuko non sapeva davvero cosa rispondere, anche se inizialmente, l’unica cosa che avrebbe voluto farle sarebbe stata tirargli uno schiaffo.
Come poteva chiederle una cosa del genere, quando proprio lui sapeva quanto ciò l’avesse ferita? Quanto fosse stato doloroso e difficile da superare per lei?
Nomura distolse lo sguardo rancoroso, stringendo le labbra. Non meritava una risposta.
«Sai, io ci penso ogni giorno.»
“Cosa?”
«Da quella volta, non sono riuscito a dimenticarlo, anche se probabilmente dirti queste cose ti farà solo infuriare – sospirò, Atsuko non sapeva che espressione avesse in quel momento – eppure non lo faccio per questo motivo – si mise una mano sulla frangetta, accarezzandola – vorrei che tu sapessi solo che non l’ho dimenticato… che non ho scordato il tuo volto, di quel giorno.»
Il cielo tuonò violentemente dopo quella affermazione ed Atsuko non riuscì neppure a formulare una risposta che tutto il suo corpo si paralizzò.
«Spero che un giorno tu possa perdonarmi, ma non sono così stupido da chiederlo o addirittura pretenderlo.» Si alzò non appena finì di parlare, una ragazza con un ombrello rosa era arrivata ma non si era avvicinata a loro. Forse era la sua ragazza.
Miura si tolse gli auricolari, poggiandoli sulle gambe diligentemente coperte di Atsuko insieme all’mp3.
«Mettile, alza il volume il più possibile, e torna a casa. Non sentirai i tuoni.»
Aveva persino lasciato il suo ombrello laddove lo aveva posato quando si era seduto. Lo stava lasciando a lei. Poi raggiunse la ragazza che aveva un’espressione del tutto contrariata per quello che aveva fatto, ma Miura l’aveva invitata ad andarsene, insieme a lui.
Atsuko non ne conosceva il motivo, tuttavia, la rabbia, la pesantezza che la presenza di quel ragazzo le procurava, era svanita nel momento in cui i loro palmi si erano toccati.
“Miura-kun… chi sei tu?”
Era scomparso.

 
 
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