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Autore: Koa__    06/02/2018    8 recensioni
Sherlock Holmes, eccentrico e severo professore di chimica a Oxford, vive la sua vita tra aule, laboratori e violino. Un'esistenza solitaria, senza amici, né amori. Un giorno, però, nella sua routine entra con prepotenza John Watson, un medico ex militare giunto da poco a Oxford in veste di professore.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mike Stamford, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Rossini, La scala di seta
 



Sherlock Holmes era un geniale professore di chimica, era così che il mondo accademico lo conosceva. Poco importava che la sua nomea fosse quella di uno stronzo colossale, le capacità che aveva non venivano messe in discussione nemmeno da chi lo definiva inadatto all’insegnamento. Quando anni prima era arrivata la sua candidatura, in molti avevano tentato di sabotarlo e far di tutto purché non si avvicendasse alla cattedra. Alcuni erano arrivati persino a scioperare, atto che l’intero ateneo aveva ritenuto a dir poco esagerato. La verità era che il celebre professor Holmes era insopportabile per chiunque, non aveva riguardo per le gerarchie, poco rispettava le autorità e cosa ben peggiore non possedeva il desiderio di trasmettere la propria conoscenza. Molti vivevano l’insegnamento come una sorta di vocazione, quasi fosse una missione. Sherlock, al contrario, odiava la sola presenza di chicchessia attorno a sé. Specialmente dei ragazzi che riteneva un branco di idioti senza cervello. Il perché di mestiere facesse il professore restava un mistero per molti. Ciononostante era il miglior professore di chimica che Oxford avesse mai avuto, così titolavano giornali e riviste di scienza le volte in cui parlavano di lui. Di lui, e del fatto che i suoi studenti erano i meglio preparati di tutta l’Inghilterra e, a voler abbondare, persino dell’intera Europa. Il suo essere geniale, il parlare cinque o sei lingue con una fluidità disarmante, la dialettica appassionata, il suo suonare il violino al pari di un esecutore e la straordinaria capacità che aveva di cogliere i dettagli, erano di quei fattori marginali che altro non facevano che arricchire il fascino intellettuale del suo personaggio. Per colpa dell’ego spropositato che si ritrovava ad avere, oltre che a causa del suo essere oggettivamente intelligente, Sherlock sapeva d’aver sempre ragione. Ed era anche piuttosto sicuro di molte cose riguardo al mondo in cui viveva, cose per le quali non ammetteva repliche di alcun tipo. Per esempio, era più che certo del fatto che non si sarebbe mai stancato di stuzzicare Mycroft con quella faccenda della dieta, perché era davvero troppo divertente vederlo sul punto d’esplodere. Restava fermamente convinto del fatto che chimica e musica nascessero da una matrice comune, il che era tutto da dimostrare (la gente gli dava del pazzo quando s’infilava in monologhi su questo argomento). E c’era anche un’altra cosa su cui era irremovibile: era più che sicuro che Mrs MacGill e Mrs Hudson non potessero che essere sorelle. Non c’era alcun dubbio in proposito, era incontrovertibilmente vero come il sole nel cielo e la pioggia a novembre. E non era una di quelle teorie dimostrabili solamente con un test scientifico, c’entrava più che altro con certe affinità caratteriali. Quelle due donne erano diabolicamente identiche sotto molti aspetti e nonostante la poca somiglianza fisica e il fatto che entrambe portassero il cognome del rispettivo marito, avevano più tratti in comune di quanti ne avesse Sherlock con suo fratello. La più anziana si chiamava Martha. Magrolina e minuta, portava un cascata di capelli mossi sopra la testa e in viso teneva spesso quell’espressione lì, che sono soliti avere i finti innocenti. Coloro che si muovono nell’ombra con l’intento di tramare, ma agli occhi del mondo lasciano trapelare solo grandi sorrisi. Mrs Hudson era fondamentalmente una donna dinamica, era sicuro di non averla mai vista seduta a oziare se non per prendere il suo tè alle cinque. Era moderatamente intelligente ed era vedova di Frank Hudson, un poco di buono finito sulla sedia elettrica anni addietro. La minore delle due invece si chiamava Beatrice, vedova MacGill. Era un’insegnante di letteratura inglese non più in attività e aveva vissuto per tutta la vita a Oxford, dove si era sposata più di quarant’anni prima. Dopo la morte improvvisa del marito e il pensionamento, aveva deciso di affittare i locali di cui era proprietaria a studenti o professori che gravitavano attorno all’università. Ma era stato soltanto dopo che sua sorella Martha l’aveva raggiunta da Londra, che era riuscita ad aprire una piccola sala da tè. Nulla di eccezionale, né di eccessivamente elegante. Si trattava di un localino con un paio di sale dove veniva offerta un’eccellente collezione di infusi e tè, e una varietà di torte e biscotti da far invidia a una pasticceria. Per Sherlock, quella era una sorta di paradiso terrestre. Letteralmente. Amava andarci di tanto in tanto nel pomeriggio o magari al mattino, per far colazione. Le volte in cui la noia lo assaliva e se la solitudine del proprio appartamento diventava opprimente, si ritrovava lì seduto a non far nulla se non ad ascoltare della musica e pensare a questo o a quello. E intanto divorava biscotti allo zenzero e pasticcini alla crema. Era molto più piacevole annoiarsi lì che in studio o a casa. Certo, era costretto a sorbirsi le chiacchiere e i vaneggiamenti di quei due demoni in gonnella a fiorellini, il cui unico scopo nella vita pareva essere quello di trovargli marito (neanche fosse una giovane fanciulla di fine ottocento), però ne valeva la pena. Tanto che aveva finito col non far neppure caso a talune occhiate che entrambe lanciavano in sua direzione, per non parlare dei mormorii e degli ammiccamenti o dei: “hai mai conosciuto il figlio del farmacista, Sherlock caro?”. Evitava ogni volta di rispondere a domande di quel genere, fingeva di pensare ad altro e riflettere oppure se ne andava sostenendo di aver di meglio da fare. A quel punto, come ogni volta e fino a che non spariva dal loro raggio visivo, riusciva a sentire su di sé uno sguardo penetrante. Una maniera di studiarlo da inquisizione spagnola, che aveva la capacità di farlo rabbrividire da capo a piedi. Dopo, soltanto sospiri rassegnati.

Ed era esattamente quella la sensazione che stava provando in quel preciso istante. Sguardo puntato su di lui e un fare indagatore che era certo fosse illegale. Sebbene tenesse gli occhi chiusi e i suoi sensi fossero tutti per la musica, Sherlock Holmes non riusciva davvero a ignorare lo strano brivido che gli divorava le guance di un acceso rossore. L’avere addosso lo sguardo di un qualcuno che non lasciava alcuna pietà dietro di sé e che pareva volerlo spogliare di ogni barriera sapientemente costruita, era quanto di più imbarazzante avesse mai sperimentato. Gli dava sinceramente fastidio. Tentò ingenuamente d’ignorare entrambe, come se fosse mai stato in grado di tener fuori dai propri affari una di quelle due megere. Testardo lo era da sempre, in effetti anche fin troppo e proprio per questo ci provò con tutto se stesso, a resister loro. Infatti sedeva compostamente alla poltrona che era solito occupare, là in quel piccolo e caotico appartamento che s’affacciava sulla caratteristica Ship Street, a due passi dall’università. Proprio di fronte a una stupenda chiesetta e a un minuscolo cimitero.* Qualcuno aveva acceso il camino, notò, perché le fiamme ardevano allegre regalandogli un tepore piacevole che risaliva lungo corpo e s’aggrappava con forza allo stomaco. Il pendolo doveva aver appena battuto le otto ed era già buio, si rese conto aprendo un occhio così da poter spiare all’esterno. Era quasi ora, pensò tendendosi di una leggera ansia. Non si trattava di un giorno qualsiasi, era la sera di sabato e lui era vestito di tutto punto. Portava uno smoking che sembrava esser stato cucito appositamente sulla sua slanciata figura, e che ne esaltava le forme longilinee mettendo in evidenza le lunghe gambe tornite. Era pronto e preparato per affrontare l’evento dell’anno, come lo aveva definito qualcuno. L’evento dell’anno… Suvvia, che ridicolaggini! Era la festa d’anniversario degli Stamford e non era assolutamente un evento, tutt’al più lo si poteva definire il mortorio dell’anno. Ad ogni modo era già ben vestito, aveva preparato la custodia con all’interno il violino che avrebbe dovuto portare con sé e ora gli toccava solamente d’aspettare. L’invito, che si era chissà come ricordato d’infilare nella tasca della giacca, diceva chiaramente di presentarsi alle nove e così avrebbe fatto. Quindi, al pari di un condannato a morte che attende che all’alba si apra la cella, se ne stava irrequietamente seduto. Ora rigido e ora rilasciato. Le dita congiunte sotto al mento, un occhio che si apriva di tanto in tanto con la volontà di guardarsi attorno. I sensi tutti per quel Rossini che, da un vecchio giradischi, suonava con vigore. Aveva scelto La scala di seta, ma senza che ci fosse una ragione specifica a riguardo. Quella non c’era mai, in effetti. Aveva banalmente seguito l’istinto, prendendo con fare distratto uno dei tanti dischi che aveva. Soltanto in un secondo momento si era reso conto che si trattava di un’opera, la cui trama riguardava due giovani segretamente sposati, i quali tentavano l’impossibile pur di riuscire a stare insieme. Dannatamene sentimentale, non si poteva dire che non lo fosse. Era esattamente per queste ragioni che evitava il melodramma e la lirica più in generale, c’era sempre troppo affanno dietro a un qualcosa che altro non era che una banale reazione chimica. Lui non era come Mycroft, a struggersi d’amore per uno yarder qualsiasi. Lui era Sherlock Holmes e odiava l’amore, detestava le sdolcinatezze e i nomignoli idioti. Stupidaggini come San Valentino o vari anniversari da dover per forza festeggiare. Davvero non concepiva come si potesse dividere la propria vita con un’altra persona, arrivando addirittura a sacrificarsi pur di tenere uno sconosciuto legato a sé. Come facevano le persone a credere per davvero che si potesse essere sempre sinceri? E che un uomo in quanto tale riuscisse a concedere ogni parte di se stesso a un altro? Sherlock non lo sapeva. Se lui avesse avuto una relazione sarebbe impazzito a ricercare dettagli, a tentare di carpire ogni cosa e particolare che riguardava la persona con cui stava. Come poteva la gente non esser gelosa di tutto ciò che riguardava l’altro? C’era un qualcosa di profondamente individualistico nell’idea stessa dell’amore, oltre che di disturbante nella maniera in cui la gente mascherava l’egoismo e la brama di ricevere affetto, con la voglia di dare tutto all’amato. Troppe erano le verità che non sapeva, le domande alle quali non avrebbe mai trovato risposta. Di una sola cosa però era certissimo, anima viva avrebbe mai fatto tanto per lui. A stento la gente sopportava la sua presenza per una manciata di minuti, figurarsi se qualcuno avrebbe provato una qualsivoglia forma d’affetto. Sua madre gli voleva bene ed era certo che fosse così anche per suo padre, ma quelli erano doveri familiari. No, lui un amore simile a quello di Giulia e Dorvil non l’avrebbe mai avuto. Sherlock non l’aveva mai considerata come una scelta di vita drastica, come sosteneva Mycroft e non la faceva troppo lunga con quell’idiozie sulla solitudine e sul morire soli, come gli ricordavano ogni santo giorno Mrs Hudson e Mrs MacGill. Più semplicemente riteneva se stesso un sociopatico, ad alta funzionalità, il che era ovvio, ma pur sempre una persona che preferiva vivere al di fuori di relazioni e sentimenti.

Ed era esattamente a questo ciò a cui andava pensando mentre ascoltava pigramente l’ouverture de La scala di seta. Sarebbe stato decisamente più assennato il godersi la musica, specie se si considerava che quel Rossini non era poi così pessimo com’era da sempre convinto, ma ovviamente non riuscì in nulla. Già, perché se Mrs Hudson gli vorticava attorno da minuti, indaffarata in un qualcosa che era evidentemente molto importante (almeno a suo dire), sua sorella Beatrice sedeva alla poltrona di fronte alla sua e, con un accenno di sorriso in volto, lo guardava.
«Così ben vestito, Sherlock caro, dove vai di bello?» intervenne in un non ben precisato momento Mrs Hudson, rompendo bruscamente gli indugi. Stava rassettando la cucina, forse tentando arrendevolmente di sistemare quel caos di provette e piastre di petri che imperava sopra l’ampio tavolo. A quanto pareva le dava fastidio che non fosse tutto quanto ordinato per bene. Anche se non era una cucina che veniva usata per preparare del cibo, quella. E Mrs Hudson lo sapeva, dato che gli ricordava ogni santo giorno quanto poco ci volesse a usare forno e fornelli. Oltretutto, era una cosa che Sherlock detestava. Anzi, non mancava mai di ricordarle che doveva tenere a posto le mani e non ficcare il naso dentro ai suoi esperimenti. Un concetto, peraltro elementare, che evidentemente Mrs Hudson non riusciva a comprendere. E quindi girava come una trottola, tutta presa da ciò che stava facendo senza badare ai pallidi ordini che Sherlock le dava e che morivano nell’eco di quel soggiorno.
«Mike Stamford e sua moglie danno una festa per il loro anniversario e mi hanno invitato, sarà pieno di vecchi boriosi e mi annoierò a morte. Fine della storia. E io le ho già detto che non deve toccare niente» le disse, alzandosi con uno scatto agile sino a raggiungerla per poterle levare di mano quel che lei aveva invece intenzione di gettar via.
«Ma è così poco civile avere un tale disordine dentro casa, e in cucina poi. Lo dirò a tua madre, signorino, puoi starne certo.»
«Glielo dica pure, tanto non credo che capisca poi molto» mormorò con fare incurante mentre tornava a sedere, affondando di nuovo nella poltrona. «E lei cos’ha da guardare?» riprese lanciando un’occhiataccia a Mrs MacGill, la quale sorrideva serafica. «Voi due non avete di meglio da fare che stare qui intorno a darmi fastidio?»
«Non servirà a nulla, caro. Puoi pestare i piedi ed essere scontroso finché vuoi, ma lo stato ansioso nel quale versi non passerà.» Beatrice MacGill aveva esordito con queste esatte parole, pronunciate a voce sicura e con un fare vagamente ironico. Sedeva in maniera elegante nella propria poltrona, ritta su se stessa, e stretta in abitino a fiori dal sapore antiquato. Aveva un trucco sofisticato, ma leggero e una capigliatura rossiccia, acconciata con dell’abbondante lacca. Di tanto in tanto sorseggiava del tè da un prezioso servizio in porcellana e quindi sollevava di nuovo viso, soffermandosi a fissarlo. C’erano volte in cui Sherlock si ritrovava ad aver paura di quella donna, a temerla molto più di quanto non temesse il polso d’acciaio di mamma o il sarcasmo sottile di Mrs Hudson. Primo fra tutti perché non si poteva mentirle, mai. Beatrice riusciva sempre a capire da dove nascessero i suoi malumori. Era incredibilmente acuta, assurdamente furba ed era un’abile osservatrice. Era colta, attenta, stupefacente per essere una donna con un’intelligenza noiosamente nella media.
«Oserei dire che è così da qualche giorno e che non si tratta di uno dei tuoi soliti musi lunghi, sbaglio forse?» Aveva una voce acuta, ma mai stridula ed era questo che Sherlock apprezzava di più in lei. Il suo riuscire a essere controllata persino nel modo che aveva di parlare, quasi pesasse anche i sospiri oltre che i non detti. Ciò che più di tutto lo lasciava perplesso, però, era quel sorriso che gli addolciva di molto modi e maniere. Anche adesso, Mrs MacGill aveva un non so che di consapevole negli occhi. La furbizia di chi, probabilmente, sa già tutto.
«Non sono affatto in ansia» rispose, tentando maldestramente di ribattere e mantenere un discreto contegno. Fallendo, ovviamente. Il nervosismo che provava traspariva dal tamburellare della dita sul bracciolo della poltrona, esse non seguivano alcun ritmo e inoltre le pupille saettavano come in cerca di un appoggio. Che lo avesse intuito da quello? Diavolo sì, ripeté a se stesso per un’ennesima volta. Se l’aveva definita diabolica, doveva esserci una buona ragione.
«Sono convinta che tu lo sia da qualche giorno» replicò lei, sempre sorridente. «Naturalmente puoi anche non dirmi che cosa ti sia successo di tanto grave, da far diventare fondamentale l’ascoltare Rossini poco prima di andare a una festa da ballo, per la quale sei già pronto da ore. Tuttavia, l’agitazione che provi resta un dato di fatto. Così come il tuo desiderio d’impressionare qualcuno, che è evidente dalla maniera in cui ti sei vestito. Hai l’abito che ti sta meglio. Indossi un orologio di pregio, ma non troppo vistoso. Porti persino il cravattino e quel tuo profumo francese lo si sente fin qui. Pertanto mi ripeto: c’entra forse un ragazzo?»

Se c’entrava un ragazzo? Quella era senza ombra di dubbio la domanda più complicata a cui potesse rispondere. No, di sicuro non c’entrava nessun ragazzo. Non nel senso in cui Beatrice stava maliziosamente ammiccando. Anche perché, dopo aver analizzato i dati con maggior attenzione, si era reso conto di essere lui il problema e non “un ragazzo”. Ad esempio, Sherlock neanche s’era reso conto di essersi vestito con così tanti dettagli di pregio. Si ricordava di aver arraffato abiti e oggetti, ma di sicuro non aveva pensato al poter fare anche una bella figura. Doveva solo andare a una stupida festa in cui era richiesta la cravatta nera, ed era così che s’era vestito. Facile. Era stato davvero troppo preso dal bisogno di tornare alla normalità, per pensare a cose futili come giacca e camicia. Da giorni tentava disperatamente di evitare se stesso, per questo era tanto nervoso. Temeva di continuo che il suo cervello decidesse di lasciarsi andare ai più indesiderati ragionamenti, quelli a cui proprio non voleva sottostare. Tanto era del tutto inutile, non c’era più niente da capire su quel John Watson. Questa era la conclusione a cui era arrivato, e ne era assolutamente sicuro. Si era perso un mese intero e non aveva intenzione di finire di nuovo in simili condizioni. E se a ottobre aveva vigliaccamente dato la colpa a Vivaldi, adesso sapeva di non avere scampo. Tutti i tormenti, le domande incessanti, i dubbi e quel torcersi dello stomaco che si sforzava disperatamente d’ignorare, avevano a che fare con John (come ormai lo chiamava) e con quanto di più terrificante gli era capitato. Se chiudeva gli occhi riusciva ancora a percepire su di sé l’imbarazzo che aveva provato nell’eccitarsi dopo aver suonato per lui. Era sicuro che non si fosse accorto di nulla, il che lo aveva levato dall’impaccio di doversi giustificare. Però non era servito ad alleviare la vergogna. Fortunatamente il suo assistente era entrato qualche minuto più tardi, interrompendo il loro star seduti a far nulla. Sherlock aveva avuto solo la lucidità mentale necessaria per non muoversi da dove era crollato. Mossa che era servita a mascherare l’imbarazzante durezza tra le gambe, ma che non gli aveva evitato il rossore al viso e lo sguardo attonito. John, al contrario, non si era mai mosso. Per minuti interi dopo che l’eco dell’ultimo allegro di Vivaldi aveva smesso di riecheggiare, nessuno di loro aveva accennato a dir qualcosa. In silenzio si erano evitati. Con gli sguardi saggiamente posati in un qualsiasi appiglio, puntati ovunque purché non fossero negli occhi dell’altro. Il tentativo disperato d’ignorarsi a vicenda era palesemente riuscito. Poi, Davidson era arrivato con fare inconsapevolmente provvidenziale e li aveva riportati alla realtà. Era stato così che John se n’era andato, senza aggiunger nulla e limitandosi a un veloce saluto di circostanza. Che fosse fuggito? Si era chiesto Sherlock mentre lo aveva visto andar via con un po’ troppa fretta. Che avesse preferito lo scappare invece che fermarsi e anche solo per intrattenere una conversazione sciocca, una di quelle che la gente tanto amava fare? Non che si stesse lamentando, in fondo gli era andata bene. Però non poteva non ripensare alla maniera in cui lo aveva visto alzarsi e quindi vorticare su se stesso. Doveva aver avuto talmente tanta pietà di lui, che non era riuscito a reggere il disagio di una confessione. Aveva cercato una risposta, ma quel soldato era dannatamente difficile da dedurre. Pertanto si era convinto d’aver suonato male, era l’unica spiegazione sensata che era riuscito a trovare. Anche se stentava a credere d’esser stato tanto pessimo. Anzi, con le persone non esperte di musica (coloro che insomma poco distinguevano compositori e generi) riscuoteva un discreto successo. E se invece non fosse piaciuto quel concerto perché era lui a non piacergli? Questo era decisamente probabile, così come lo era il suo aver taciuto per non offenderlo. In fondo, John era un uomo di buon cuore. Era fin tanto gentile con le persone e probabilmente si sforzava persino di sorridere. A una menzogna, doveva aver preferito lo star zitto. Dopo che lo aveva visto andarsene e lasciare il suo studio, Sherlock aveva ripetuto a se stesso che non avrebbe dovuto importargliene. Eppure la consapevolezza che la sua musica non gli fosse piaciuta, faceva stranamente male. Probabilmente persino troppo.

Nei giorni a venire aveva preferito non dar peso a simili considerazioni, di modo da potersi concentrare completamente su di sé. Così facendo, era giunto alla conclusione che di John Watson non gl’interessava nulla. Non ne era innamorato, questo era ovvio. Perché lui era Sherlock Holmes, e odiava l’amore. Si rifiutava categoricamente di assecondare stupide idee sull’attrazione sessuale, e via dicendo. Quello che il suo cervello tentava di nutrire era un mero interesse scientifico, tutto qua; d’altronde era o non era un chimico? Era da sempre un uomo di logica e raziocinio. Quel soldato nascondeva dei segreti, c’erano parti di sé che non mostrava e più di un qualche non detto celato negli occhi. E Sherlock era uno scienziato. Lui i misteri li svelava e non permetteva mai che rimanessero insoluti. Era sempre stato così, fin da quando era bambino e s’impegnava per capire il funzionamento della lavatrice. Quando gli risultava difficile arrivare alla comprensione di un concetto attraverso i libri o la semplice osservazione, indagava pur di saperne di più. Era così che rispondeva alle domande e sì, magari se ne poneva di nuove, però raggiungeva sempre il suo obiettivo. E così aveva deciso che avrebbe fatto anche quella volta, i segreti del soldato Watson erano lì ad aspettarlo.

Tutto aveva avuto inizio il giorno successivo al brutto fattaccio del violino. Aveva cominciato con un qualcosa di facile come un furto, appropriarsi di una qualsiasi scheda personale dalla segreteria era un gioco da ragazzi. Purtroppo quei fogli non contentavano nulla che Sherlock già non avesse dedotto da sé, oltre che a sciocchezze di poco conto. Militare congedato con onore. Medico capace sul campo di battaglia. Aveva ottenuto una medaglia al valore per aver salvato la vita a tre dei suoi commilitoni durante un agguato nemico. Era stato un professore eccellente all’accademia militare, dalla quale aveva smesso di insegnare per volontà d’andare al fronte. Non c’era però una nota di demerito nel suo curriculum, non una macchia nella sua valutazione psicologica. Neanche era menzionato lo stress post traumatico e le sedute dallo psicologo, e in questo temeva c’entrasse Mycroft. Aveva però scoperto di una certa Harriet, la sorella e che i genitori erano entrambi morti. Comunque niente di particolarmente interessante. Insomma, la prima missione era miseramente fallita ma Sherlock non aveva affatto rinunciato. Il secondo obiettivo prefissato era l’assistere a una delle sue lezioni. Il che si era rivelato lievemente più complicato da attuare. Anzitutto, i loro orari coincidevano. Quando John era in aula, Sherlock era bloccato in laboratorio e non poteva farsi sostituire dall’assistente. Oltretutto avrebbe dovuto uscire dal proprio edificio per dirigersi in un altro ed era un’operazione complicata. Anche perché certamente non poteva presentarsi lì come il professor Holmes, avrebbe dovuto cercare qualcosa di più efficace per non farsi scoprire. C’era riuscito soltanto in uno dei giorni di quella settimana, quello stesso venerdì. Sul tardi. Per evitare di farsi notare aveva deciso di travestirsi e mescolarsi tra la folla. Ecco, quella era una di quelle cose di lui che nessuno sapeva (fatta eccezione per quel pettegolo di Mycroft); Sherlock amava i travestimenti. Adorava l’idea di interpretare un personaggio, di scegliere colore dei capelli, il trucco sul viso, particolari abiti o un accento per distinguersi e il tutto per mettersi nei panni di un altro individuo. Questa volta era “Dave l’idiota” come si era soprannominato e doveva ammettere che era stato parecchio divertente. Aveva scelto una parrucca biondiccia e occhiali spessi dietro i quali nascondersi. Ma il tocco di classe era stato il camminare con un passo ciondolante e una nota di accento americano (del sud) nella parlata. Si era rimediato un accenno di mal di schiena e un altro di emicrania, ma ne era decisamente valsa la pena. Un po’ più noiosa era stata la lezione perché, francamente, biologia la mal tollerava. Era tutto così tremendamente noioso e pedante… Per sua fortuna era riuscito a trovare diversi spunti interessanti e l’osservare il professor Watson si era rivelato sorprendentemente piacevole. Anzitutto parlava in modo chiaro e fluente. Vestiva in maniera sobria e non elegante, con certi maglioni che oltre a farlo sembrare più vecchio non davano il giusto credito al suo fisico. Era evidente che la materia lo appassionava e che gli piaceva l’idea di tornare a parlar di medicina, tuttavia proprio mentre lo ascoltava si era reso conto che un qualcosa in quell’uomo non tornava. Era come se John stonasse, ecco. Era una nota che non c’entrava con l’armonia. Un cantante che mancava un acuto. Ne aveva avuto il sospetto fin da subito, ma per davvero, Sherlock lo aveva capito soltanto alla fine di quell’ora di lezione. Immediatamente dopo aver sceso le scale, così da potergli passare di fianco, si era soffermato a studiarlo da vicino. Era bastato il vederlo lì a quel modo, appoggiato pigramente alla cattedra e con le braccia conserte. Sì era stato allora che lo aveva visto. John… lui era diverso con le altre persone. Anzitutto non sorrideva, e se lo faceva si trattava sempre di un sorriso forzato e tirato. Falso. Affatto sincero e non di certo onesto. Era come se stesse costringendo se stesso a rimanere lì calmo e pacifico. In un primo momento aveva creduto che fosse del semplice distacco, c’erano professori che amavano far da confidenti e diventare amici dei propri alunni, altri che invece preferivano mantenere le distanze, il che era decisamente più saggio. Eppure un qualcosa gli diceva che non era così facile. Sherlock non poteva sbagliarsi, non quella volta. Perché quando dava retta all’istinto sapeva d’aver ragione. La verità era pura e semplice ed era palese sotto ai suoi occhi. Perché lo aveva visto bene, lo sguardo freddo e disinteressato. Incurante. Aveva accarezzato proprio lui da capo a piedi, così come aveva sfiorato ogni altra persona in quell’aula. Non era così che John lo aveva guardato qualche giorno prima. Mai. Nemmeno al loro primo incontro. Neanche dopo che s’era arrabbiato per l’invadenza di Mycroft, era stato così gelido. Sherlock si era sentito vagamente un idiota per non esserci arrivato prima. Un singolo attimo e tutti i fili erano andati al proprio posto, e lui aveva capito. John non voleva fare il professore e forse detestava la sola idea. Non gli piaceva nemmeno insegnare e magari si sentiva persino in colpa per aver accettato un posto di prestigio solamente per soldi. Naturalmente non poteva conoscerne le ragioni, ma era sicuro che in qualche modo c’entrasse la guerra e che stesse ancora faticando ad adattarsi alla vita civile. Assurdo, era stato il pensiero che la sua mente aveva formulato subito dopo, mentre lasciava quell’aula in gran fretta. Voleva dargli una mano. Anzi no, lui desiderava davvero aiutare John Watson.
 
«Avevo ragione» mormorò Beatrice con voce consapevole e tono vagamente divertito, posando la tazzina sul tavolino. La sua voce lo aveva bruscamente riportato alla realtà. Si era ritrovato di nuovo sbalzato fuori dal suo palazzo mentale, ma questa volta era un bene. Ripercorrere quanto accaduto non sarebbe servito a niente. «C’entra un uomo.»
«Io…»
«Vuoi ascoltare il consiglio di una vecchia zia, Sherlock caro?» No, a questa domanda non rispose. Lo riteneva troppo umiliante e probabilmente era addirittura arrossito come un imbecille. Anzi non osava neanche più sollevare il viso, era rimasto immobile a fissare il tappeto. Come se quello contenesse ogni risposta su dubbi esistenziali e amenità del genere. La consapevolezza di non avere nessuna idea su come uscire da una situazione simile, lo paralizzava al punto da metterlo in agitazione. A crescere c’era il desiderio di fuggire, a imbarazzarlo il suo restare ancorato alla poltrona e non riuscire nemmeno a muovere un muscolo. No, non disse nulla. Lui dalla lingua fin troppo lunga, in quel momento scelse di tacere. Ma d’altra parte, pareva non fosse nemmeno necessario il dire qualcosa.
«Ballare è sempre una scelta ottima per una serata.» Beatrice non aggiunse altro e lentamente prese a scendere le scale. Sherlock si ritrovò quindi solo nel piccolo soggiorno, quasi a sorridere a fronte del chiacchiericcio insistente e pettegolo che ora sentiva dal piano di sotto. Doveva ballare con John? Era questo che intendeva? Il ticchettio della pendola era una compagnia piacevole, ma non gli diede la giusta risposta. E, ancora peggio, Rossini non era di nessun aiuto. Nel giradischi ancora cantava La scala di seta quando il campanello all’ingresso prese a suonare.


Andiamo in guerra.
 
 
 
Continua
 



 
*Girovagando per Oxford con google map ho scoperto che c’è una viuzza bellissima che si chiama “Ship Street”, ho caricato alcune foto sulla mia pagina Tumbrl.
 


Note (Mi spiace, saranno lunghe):
-Ho fatto molta fatica a capire come funziona quest’università perché Oxford non ha un unico complesso raggruppato in una sola area, ma i vari edifici sono sparsi per il centro cittadino. Ciò che riguarda la scienza è stato però collocato in una zona ravvicinata, quindi John e Sherlock si trovano tutto sommato vicini.
-Rossini, La scala di seta. Se non vi va d’ascoltarla per intero, vi consiglio di dare un’occhiata a: “Vedrò qual sommo incanto” e “Il mio ben sospiro e chiamo”.
-Beatrice MacGill, al secolo Jessica Beatrice Fletcher (MacGill era il cognome da nubile, ho scelto di scriverlo a questo modo e non “McGill” perché è così che è scritto su wikipedia inglese), è il nome della protagonista de: La signora in giallo. I capelli rossi di Beatrice vengono dal fatto che Angela Lansbury nella serie interpretava non solo Jessica, ma anche sua cugina Emma e per differenziarla dal personaggio principale, aveva i capelli rossicci. Consideratelo quindi un piccolo crossover/cameo. L’idea per questa cafonata pazzesca nasce da Gatiss, che in un’intervista ammise che gli sarebbe piaciuto avere Angela Lansbury nel cast di Sherlock. 
   
 
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