Questa volta non sarebbe stato
necessario che qualcuno si
fosse intromesso tra lui e la porta per vietargli l'ingresso, dal momento
che le
parole che Ross aveva appena sentito pronunciare avevano sortito su di
lui
l'unico effetto che ognuno dei presenti si sarebbe potuto aspettare: lo
avevano
trasformato in una statua di ghiaccio e costretto ad un silenzio
tombale.
Ma Dwight infranse la
solennità di quel momento e azzardò
un'ipotesi, "Potrei andare questa mattina stessa da Warleggan per
comunicargli
quanto è accaduto a suo figlio. Ho sentito dire che
è rimasto bloccato a
Trenwith a causa della neve".
Gli occhi chiari di Demelza cercarono
invano quelli del
marito, come a voler illuminare il buio profondo che riusciva a
scorgervi,
mentre contemporaneamente dalla sua bocca uscivano parole indirizzate
al
medico, in piedi sull'uscio della porta.
"Si, credo che sia la cosa
più saggia da fare."
Incapace di trovare il
benché minimo segno di assenso sul
volto impassibile di Ross e affidandosi alle parole di Demelza, Dwight
decise
di entrare nella stanza per riferire al bambino la novità.
Fece per dare loro le spalle, quando
una mano lo trattenne
ancora per un po’.
"Non è successo nulla di
grave..." Ross cercò goffamente
di nascondere lo sconcerto che provava.
"Dwight, lo porteresti tu da suo
padre?" Lo
implorò Demelza.
"Purtroppo non è ancora
nelle condizioni di spostarsi. Conto
sulla tua pazienza ancora per un'altra notte, Demelza".
Dopo aver accompagnato Dwight alla
porta, Ross decise
di rinchiudersi nella sua camera
per assorbire tutte le spiacevoli emozioni che quella scoperta gli
aveva
lasciato a gravare sullo stomaco.
Sapere che Velentine si trovava
così vicino, dopo averlo
evitato per tutti gli anni della sua ancora acerba esistenza, aveva
risvegliato
tremende battaglie interiori volte a scacciare qualsiasi ricordo
associabile
alla notte del suo concepimento.
Pensò alla sofferenza che
aveva provato alla notizia della
nascita di Geoffrey Charles, quando ancora non riusciva ad accettare
l’idea che
suo cugino avesse avuto tutto ciò che lui stesso desiderava
e a quanto quel
dolore non potesse essere nemmeno lontanamente
paragonabile allo sconforto
assoluto che lo aveva turbato il giorno della nascita di Valentine.
Ogni parto di Elizabeth, per motivi
diversi, lo aveva
segnato, trasformando continuamente il suo rapporto con lei: il primo, avvenuto poco
dopo il matrimonio
con Francis, lo aveva reso consapevole di aver perduto per sempre la
ragazzina
di cui era stato innamorato e che il tempo delle illusioni della
gioventù aveva
dovuto cedere il posto alla più grande delusione della sua
vita; il secondo,
invece, aveva gettato
una luce nuova sull’idea che aveva di
Elizabeth, come se il desiderio che finalmente era riuscito ad appagare
avesse
svelato l’incantesimo e infranto il sortilegio che lo legava
a lei,
lasciandogli il ricordo di un sentimento ormai superato e la sensazione
che
nulla potesse riempire quell’immensa voragine che si era
creata tra di loro; infine
la nascita di Ursula, marchiata dalla morte, aveva imposto alla vita di
Elizabeth un finale tragico e, contemporaneamente, aperto uno scenario
nuovo
sul suo futuro, un tempo in cui, per la prima volta, avrebbe vissuto
con la
certezza di poter fare a meno di lei.
Valentine, nel frattempo, dopo aver
trascorso la maggior
parte del tempo da solo nella stanza che gli era stata riservata, aveva
trovato
le forze necessarie per seguire il consiglio di Dwight e mettersi in
piedi e,
addirittura, scendere le scale.
Così, disorientato dal
trovarsi in una casa sconosciuta, si
trovò indeciso su quale direzione prendere per raggiungere
il fuoco di cui
sentiva un lieve calore sulle sue guanciotte pallide.
Demelza, bianca almeno quanto
Valentine, si accorse subito
di quell'incertezza e fece sì che lui potesse vederla e
raggiungerla, "Ti
farebbe bene sederti qui" indicò la panca bassa situata in
mezzo al
salotto, "e riscaldarti insieme a noi".
Cercò di risultare il
più naturale possibile, ma l'assurdità
della situazione le rendeva impossibile nascondere un certo imbarazzo
nella
voce.
Valentine si avvicinò alla
panca, ai cui piedi Garrick aveva
deciso di riposare, ancora troppo stanco per rimettersi a giocare con i
suoi
padroncini.
Prontamente Jeremy gli
portò un vecchio plaid in segno di amicizia,
avendo intuito dal suo colorito spento che ne avesse davvero bisogno.
"Tieni! Tanto a noi non serve." Disse
Jeremy,
studiando per alcuni secondi il piccolo viso del suo ospite,
dopodiché corse da
sua madre alla ricerca della sua approvazione.
Demelza rivolse a suo figlio un
sorriso dolcissimo, "Bravo
Jeremy! E' così che si fa!" Lo ricompensò con un
sontuoso bacio sulla
guancia.
Valentine distolse lo sguardo da quel
momento così intimo
tra madre e figlio, preferendo rivolgere la sua attenzione al pelosetto
che era
seduto ai suoi piedi.
Demelza si rese conto di aver involontariamente urtato la
sensibilità del bambino, appena reduce dal trauma di aver
perso la sua mamma ancora troppo giovane,
quindi cercò di rimediare.
"Lo sai Jeremy che questo bambino si
chiama
Valentine?" Provò a far socializzare i due bambini, sperando
che,
inconsapevoli del legame che gli univa, potessero trovare piacevole
passare un
po’ di tempo a discutere insieme.
Il piccolo si sorprese nel sentire
pronunciare il suo nome
ma non riuscì a mantenere l'espressione meravigliata sul suo
volto che Jeremy
si avvicinò porgendogli la mano.
"Piacere, io mi chiamo Jeremy Poldark
e questa..."
si rivolse alla sorellina, stesa a pancia in giù sul
tappeto, silenziosa come
non mai, “...è
mia sorella
Clowance."
Clowance, dal canto suo, rimase con
la testa appoggiata sui
gomiti, come se stesse sul punto di esaurire tutta la sua pazienza e
sfogare,
in un sonoro pianto, la rabbia che provava per la totale mancanza di
attenzione
che Dwight le aveva riservato quella mattina, preferendo occuparsi del nuovo arrivato.
Demelza, con grande stanchezza, prese
in braccio la
piccolina e la posò su un cuscino, proprio vicino a Jeremy e
Valentine,
incoraggiandola a intervenire nei loro discorsi.
Inizialmente Clowance mantenne il
broncio, facendo perdere a
sua madre tutte le speranze che nutriva per farla distrarre e poter
raggiungere
Ross, senza ritrovarsela dietro.
Quando Valentine abbandonò
la sua timidezza e iniziò a
parlare delle sue abitudini, l'attenzione di Clowance fu immediatamente
catturata da un piccolo dettaglio, riferito al suo argomento preferito:
le
bambole.
Il piccolo Warleggan aveva, infatti,
menzionato le bambole
di sua sorella Ursula e i loro inquietante sguardo indagatore che
incombeva su
di lui ogni volta che passava dalla sua cameretta.
Demelza colse quindi l'occasione per
lasciarli da soli.
Quando entrò nella sua
camera da letto pensò di trovare Ross
addormentato, invece si accorse che era seduto alla scrivania di
fronte alla
finestra, incupito a dismisura e concentrato sul foglio che
sistematicamente macchiava
con l'inchiostro della sua piuma d'oca, guidato dalla flebile luce di
un’unica
candela accesa.
"Perché non ne vuoi
parlare?" Demelza era rimasta
in piedi dietro di lui, con le mani adagiate sulle sue spalle larghe.
Ross distolse lo sguardo dalla
lettera che stava scrivendo
per voltarsi e incontrare il viso stanco di sua moglie che lo guardava
come se
non si aspettasse di sentire una risposta alla sua domanda, conoscendo
piuttosto bene la sua riluttanza a toccare quell'argomento.
"Prima che Dwight se ne andasse, gli
ho detto che avrei
preferito informare George io stesso. Non mi piaceva l'idea di fare
intervenire
Dwight in una questione che non lo riguarda affatto, come se George
potesse
pensare che io sia troppo spaventato dalla sua reazione per poterlo
affrontare personalmente."
Ross si alzò di scatto
dalla sedia e si mise in piedi,
deciso a fronteggiarla.
"Non nego il fatto che sapere di aver
portato in casa
il figlio del mio peggior nemico mi provochi una certa irritazione,
ma..."
"Ma?" Lo interrogò Demelza.
"...ma non è per il motivo
che immagini tu!" Ross,
questa volta, decise di guardarla dritto negli occhi per dimostrarle
che non
aveva niente da temere, nemmeno la sua espressione dura alla ricerca
disperata
di sincerità da parte sua.
"Va bene, se sei così
cocciuto da non voler riconoscere
che stai soffrendo, non mi resta che lasciarti affogare nel tuo dolore.
Stavo
solo cercando di darti una mano."
"La questione è chiusa.
Quando terminerò questa
dannatissima lettera troverò la mia pace, Demelza"
"Non sarai in pace finché
ti ostinerai a tenere la
testa nascosta sotto terra. Ma non riesci a vedere quanto, nonostante
tutto, io
stia riuscendo a stare accanto a tuo... "
L'atmosfera iniziava decisamente a
riscaldarsi.
"Non sei tenuta a farlo. Nessuno
potrebbe pretendere
una cosa simile da te."
"Perché? Credi che sia io
la vittima in questa
storia?"
Ross non riuscì
più a reggere il suo sguardo.
"Sei tu la vittima, Ross. Sei la
vittima del tuo
continuo negare di aver sbagliato, quella notte, ad aver ceduto alla
tua
debolezza per Elizabeth. E questo non ti permette di andare avanti..."
Sentir nominare Elizabeth fu come un
pugno nello stomaco,
perché era anche verso di lei che Ross aveva provato un
grande senso di colpa, che
era riuscito a mitigare solo dopo essersi riconciliato con lei,
congedandosi, una volta per tutte, dalle pretese illusorie di un amore tra di loro, durante quell' incontro inaspettato alla
tomba di
zia Agatha.
Il
suo più profondo
dispiacere per Elizabeth stava, infatti, nell'averle proposto di avere
un
figlio da George per ingannarlo anche questa fingendo di partorire un mese in
anticipo,
con il terribile risultato di averla spinta a trovare la morte per
redimere con
la sua stessa vita una colpa che in realtà erano in due a
condividere.
"Tu non puoi capire..."
"Si, invece! Ti farebbe soffrire
troppo vedere con i
tuoi stessi occhi quanto poco di Elizabeth c'è nel viso di
vostro figlio!"
Ross la prese per un polso, in un gesto di grande
rabbia, "Non è mio
figlio!"
Demelza iniziò a piangere,
accettando di essere uscita
completamente sconfitta da quell'inutile battaglia e, quando Ross la
lasciò
libera dalla sua presa, a causa dell'intensità di tutte le
emozioni che aveva
provato sin dalla notte precedente, perse i sensi proprio di fronte ad
un Ross
tremendamente mortificato per averla trattata in quel modo.