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Autore: Trainzfan    10/02/2018    2 recensioni
7000 d.c. - L’umanità è divisa in due ceti: aristocrazia/clero e popolo. Tutta l’economia della Terra è basata sull’energia fornita dal Goddafin, sorta di raggi di immensa potenza che discendono dal cielo finendo dentro a cupole blindate, gestiti e distribuiti dall’aristocrazia/clero che, grazie a questo, può tenere in suo potere tutto il resto dell’umanità: il popolo. Esso dipende dal clero sia per l’energia necessaria per calore e illuminazione sia per attrezzature metalliche necessarie alla coltivazione o piccole operazioni quotidiane. Per evitare una ribellione la classe dirigente mantiene il popolo nell’analfabetismo e soggezione mediante una religione che insegna quanto il popolo sia costituito dai superstiti risparmiati da Dio, durante lo scatenarsi della sua ira in un lontanissimo passato mentre l’aristocrazia rappresenta l’eredità del popolo eletto assurto a guardiano dell’energia donata da Dio agli uomini mediante i raggi del Goddafin che da millenni alimenta la Terra.
Chi-Dan, giovane archeologo dell’aristocrazia della Celeste Sede (sorta di Vaticano della religione del Goddafin), viene incaricato dallo zio, Sommo Tecnocrate, di indagare su di un misterioso ritrovamento che aprirà letteralmente un mondo nuovo sconvolgendo e cancellando drasticamente tutto quanto è stato ritenuto sacro e reale
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dol’in si era recata, di buon mattino, alla Casa del Missionario in quanto, in famiglia, avevano assolutamente bisogno di nuovi utensili per lavorare la terra.
A questo fine si era portata appresso, su di un carretto spinto a mano, un grosso sacco di farina da utilizzare come offerta in cambio.
Suo fratello insisteva a voler utilizzare quelli che poteva barattare con Tar’as e diceva che, piuttosto che andare a chiedere qualcosa alla missione, avrebbe lavorato la terra con le sue stesse mani nude.
Ma lei sapeva benissimo che gli attrezzi fatti da fabbro Bar’ok erano costruiti utilizzando metalli riciclati e pieni di impurità per cui, in poco tempo, divenivano inutilizzabili e bisognava di nuovo sostituirli.
Quelli della cupola, invece, erano di metallo puro; ci voleva parecchio prima che perdessero l’affilatura e, soprattutto, erano molto più robusti e duraturi.
Lui lamentava che, per averli, bisognava farcirsi delle cose che quei “trincia-parole”, così li definiva, dei preti volevano mettere in testa al popolo e, comunque, l’offerta richiesta era troppo alta.
Quante volte aveva tentato di dirgli che, se continuava così, un giorno Dio lo avrebbe colpito con uno dei castighi tremendi dei quali i missionari raccontavano ma lui, per tutta risposta, si limitava sempre ad alzare le spalle, voltandosi ed andandosene via commentando: «Beh, quando vorrà farlo sa dove trovarmi».
Meno male che in famiglia c’era almeno lei a rimediare alle cose! Così pensava mentre varcava la soglia della missione.
Già dall’esterno la Casa del Missionario si distingueva da tutti gli altri edifici che la circondavano in quanto, oltre ad avere dimensioni più che doppie, sul retro, nella parte riservata esclusivamente ai missionari, era su due livelli, cosa che non aveva uguali in nessuna delle abitazioni dei popolani.
L’interno, dalla parte accessibile al pubblico, nonostante la presenza di altre persone del popolo venute per la funzione, era fresco e silenzioso.
Dalla soglia d’ingresso si accedeva direttamente al locale dove si sarebbe svolta la funzione. Questo era molto vasta per lo standard delle costruzioni del villaggio in quanto misurava una decina di metri di larghezza per altrettanti di profondità ed il soffitto stava circa a quattro metri dal suolo.
Il pavimento, costituito da un’unica grande lastra di pietra, era perfettamente liscio e lucido a causa del passaggio su di esso di migliaia e migliaia di piedi nel corso dei secoli attraverso i quali la Casa del Missionario aveva svolto la sua sacra funzione.
L’unica interruzione in esso era costituita dalla base rialzata su cui stava l’altare. Questo era costituito da una lastra di metallo con superficie satinata, dello spessore di circa cinque centimetri, e sagomata come una specie di “U” rovesciata larga un paio di metri e profonda uno.
Le pareti, bianche d’intonaco e lisce, erano disadorne ad eccezione del simbolo del Goddafin, scolpito nel legno, appeso a circa tre metri dal suolo sulla parete alle spalle dell’altare, quella rivolta a meridione.
Una porta di legno al di sotto di esso, attualmente chiusa, portava alle stanze private dei missionari a cui nessun altro poteva accedere.
La luce che illuminava l’ambiente pioveva dall’unica apertura circolare, posta in alto, al centro della parete sopra al simbolo del Goddafin, e disegnava una grande lama di sole che scendeva obliqua verso il pavimento come una sorta di riproduzione, in piccolo, del santo raggio dell’energia di Dio.
Quando si trovava in questo ambiente Dol’in avvertiva la sensazione di essere realmente al cospetto di Dio e questo la faceva sentire a disagio in quanto il pensiero correva subito alle accese e vibranti prediche dei missionari tutte miranti a far capire al popolo quanto peccatori fossero stati i loro antenati e quanto lo fossero, tuttora, loro stessi. Aggiungevano, poi, che chiunque non si fosse pentito di tutti i propri peccati poteva solo aspettarsi di finire fra le fiamme eterne dell’inferno, lontano dalla luce e dalla grazia di Dio.
E lei era decisamente spaventata da quella prospettiva e già infinite volte, ormai, si era sinceramente pentita di tutti i peccati che poteva aver commesso, sia lei che tutta la sua famiglia, in tutta la vita e, pure, di tutti quelli mai commessi e di cui nemmeno conosceva l’esistenza.
 
«Oh, gran Dio del Goddafin!» pregava in silenzio in un angolo dello spazioso locale «Perdona i nostri peccati e abbi pietà di tutti noi; soprattutto di quel testone di mio fratello Nar’in» aggiunse concludendo.
Ad un certo momento si accorse del silenzio totale che era calato tutto attorno. I popolani presenti si erano sistemati per seguire la funzione che stava per iniziare mentre la porta alle spalle dell’altare si apriva e ne usciva un uomo avvolto nel mantello nero, con la bordatura del cappuccio del medesimo colore, che lo identificava come un opertec missionario.
Col viso nascosto sotto l’ampio cappuccio il prelato si portò a passo lento fino all’altare, restò un momento a guardare i popolani che gli stavano dinnanzi poi la sua voce interruppe il silenzio annunciando:
 
«Che il grande Dio del Goddafin sia con noi misericordioso! Aprite il vostro cuore al pentimento per poter essere meno indegni di ricevere la Sua parola».
 
«Pietà di noi, Signore!» risposero all’unisono i presenti, secondo la formula stabilita.
 
La funzione proseguì, secondo l’usuale cerimoniale, per una mezzora farcita di continui avvertimenti ed incitamenti al pentimento da parte dell’opertec missionario accolte con assorta attenzione dai popolani presenti.
Al termine Dol’in si mise in fila dietro agli altri fedeli che attendevano il loro turno per indicare al missionario le proprie offerte e richiedere quanto ognuno di loro necessitava.
 
Giunto il suo turno la ragazza offrì: «Buon padre, vi ho portato questo sacco di farina di grano della migliore qualità» e, con questo, indicò la sua offerta che aveva deposto accanto al muro al suo ingresso.
 
«Bene, figliola» rispose serio il prelato «Hai qualche richiesta da fare?».
 
«Abbiamo bisogno di nuove zappe per il campo perché quelle vecchie, ormai, sono senza filo e mezze contorte, padre».
 
«Quanti siete in famiglia?» chiese l’opertec.
 
«Siamo io, mio fratello maggiore ed i nostri genitori» rispose.
 
«E come mai tuo fratello non è qui con te, figliola?» indagò il missionario guardandola attentamente diritto negli occhi.
 
Il cuore di Dol’in mancò un battito a quella domanda. Sentiva quegli occhi indagatori penetrarla fin nel più profondo ed il suo sguardo si abbassò in direzione del pavimento di fronte a lei.
Non voleva mentire ad un rappresentante di Dio ma non poteva neppure dirgli la verità in quanto le sarebbe probabilmente costata l’offerta senza ottenere nulla in cambio o, forse, anche peggio. Quel sacco di farina rappresentava un grosso sacrificio per la sua famiglia giustificato appena dagli attrezzi nuovi chiesti in cambio.
 
«È dovuto rimanere a casa per aiutare i nostri genitori nel campo, padre. Lui è più forte di me» riuscì, infine, a sussurrare la ragazza, sempre con gli occhi fissati a terra, mentre le guance le si imporporavano per l’emozione.
Il prelato restò a fissarla, in silenzio, per qualche istante, pensoso, poi distolse lo sguardo, si voltò ed aprì un armadio dentro cui erano custoditi diversi attrezzi nuovi di alta qualità chiaramente usciti dalle officine della cupola.
A fianco di questi, su di un ripiano, vi erano anche altri piccoli oggetti che lei aveva visto solo saltuariamente addosso ad alcune donne appartenenti alle famiglie più importanti del villaggio: fermagli e spille luccicanti e lavorate finemente… bellissime!
 
«Posso darti queste due zappe, figliola» offrì il missionario porgendo alla ragazza i due attrezzi nuovi fiammanti.
 
Lei li prese fra le mani ma restò li ferma ancora un poco, titubante, con gli occhi fissi, come ipnotizzata, su quei piccoli, bellissimi accessori personali.
Il prelato la guardò un istante con aria interrogativa poi, seguendo lo sguardo di lei, capì che cosa la stava ancora trattenendo. Stava per ordinarle di andarsene poi, vedendola così giovane e, nonostante la scarsa cura ed igiene, carina emise un piccolo sospiro di esasperazione, si girò, afferrò una delle spille più semplici e gliela appuntò sul corpetto della tunica dicendole brusco:
 
«E adesso fila». Sottolineando la frase con un secco ma leggero buffetto sulla spalla.
A quel tocco, come si fosse attivato un qualche tipo di contatto, Dol’in si riscosse e corse fuori dall’edificio quasi che avesse avuto il demonio stesso alle calcagna.
Non riusciva a capacitarsi di aver avuto veramente il coraggio (o la sfrontatezza?!?) di fare quello che aveva fatto; una spilla splendente tutta per lei!!
Solo a quel punto, ormai ad una certa distanza dalla Cassa del Missionario, si rese conto dell’altra enormità che aveva commesso: era scappata via senza neppure ringraziare!
 
«Oh, Dio, perdonami!» invocava tra sé mentre camminava lungo la strada, fuori da Nabir, che tornava verso casa sua spingendo il carretto su cui aveva depositato i preziosi attrezzi datile dall’opertec.
 
«Oggi stesso farò ammenda per questa mancanza, giuro!» promise a se stessa.
Abbassò lo sguardo sul corpetto del suo misero vestito.
La spilla le rimandò il luccichio brillantissimo dei riflessi dei raggi del sole.
Un sorriso le sfiorò le labbra mentre affrettava il passo lungo la strada verso casa.
 
=*=
   
 
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