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Autore: ChiiCat92    12/02/2018    0 recensioni
"Quando Hojo la vide per la prima volta restò senza fiato. Pensò che era bella, più di ogni altra ragazza che avesse mai visto, bella a tal punto da sembrargli aliena.
Era appena arrivata in città, si sussurrava che fosse scappata con la famiglia dalla Russia.
Forse per questo ad Hojo appariva completamente diversa da chiunque altro avesse intorno.
Camminava stringendosi al petto i libri come se fossero la sua unica difesa dal mondo esterno, parlava poco, rimaneva in giro per i corridoi ancora meno. Era quasi impossibile avvicinarla senza avere l'impressione che quegli occhi marrone rossiccio ti penetrassero l'anima."
Questa è una stora nata da un mucchio di headcanon messi insieme su un ipotetico universo in cui Sephiroth, le sue Remnant, Hojo e Jenova fossero una famiglia. Una famiglia complicata ma in fondo...la vita non è semplice.
Genere: Generale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Genesis Rhapsodos, Kadaj, Loz, Sephiroth, Yazoo
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Nessun gioco
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- 2 -

God's Gift

 

 

Il bambino piangeva. Non era un pianto fastidioso, ricordava il miagolio di un micino, ma era insistente, e Jenova era stanca.

Rimase a lungo con gli occhi spalancati nel buio, immobile, aspettando che il pianto smettesse.

Ma non smise.

Di qualsiasi cosa avesse bisogno, il bambino ne aveva bisogno adesso.

L'istinto materno obbligò la ragazza a tirarsi su, stropicciandosi gli occhi. La gravidanza non l'aveva resa più adulta, aveva ancora sedici anni, e anche se il suo corpo era maturato in fretta nelle forme, il suo cuore e la sua mente erano ancora quelli di una ragazzina.

Hojo le sfiorò la mano e tentò un sorriso, ma lei, nervosa, la ritrasse.

Non era arrabbiata con lui, era solo la frustrazione di quegli ultimi due mesi e mezzo a farla reagire in quel modo.

Sephiroth era un bambino tranquillo. Aveva tutte le dita delle mani e tutte quelle dei piedi, minuscole, ma c'erano tutte; una candida capigliatura bianca come quella di Jenova gli ricopriva la testina; i suoi occhioni erano di un colore ancora non ben definito, viravano dall'azzurro intenso al verde intenso, ma presto – la mamma di Hojo ne era sicura – si sarebbero stabilizzati sul verde; il peso, la lunghezza, la circonferenza della testa: era tutto nella norma. Un bambino sano, con bisogni sani, che era venuto al mondo senza piangere, come se non avesse paura di affrontare ciò che la vita gli avrebbe messo davanti, o almeno, era la sensazione che, stremata, aveva dato a Jenova.

Stava crescendo bene, era leggermente più avanti nello sviluppo rispetto ad altri bambini, ma nonostante questo rimaneva pur sempre un neonato. Dipendeva strenuamente da qualcun altro, e sarebbe stato così per molto tempo ancora.

Quando Jenova si avvicinò alla culla lo trovò a pancia sotto, il faccino arrossato dal pianto. Doveva essere stato quello a svegliarlo e a farlo piangere tanto accoratamente.

La pediatra era stata chiara: fino a quattro mesi doveva dormire sulla schiena, per evitare che un rigurgito o persino il cuscino lo soffocassero nel sonno.

In qualche modo, Sephiroth doveva essersi girato, e quando si era trovato nell'impossibilità di farlo nuovamente aveva cominciato a piangere.

Un sorriso istintivo nacque sulle labbra della giovane mamma. Anche se era sfibrata da quella vita, triste, a volte depressa, vedere quel piccolo miracolo la illuminava.

Lo prese in braccio, cautamente. Ogni volta si stupiva di quanto fosse leggero, di quanto fosse caldo, di quanto fosse inerme. Qualsiasi altro cucciolo, in natura, a quest'ora avrebbe già saputo camminare, correre, e giocare alla caccia con la madre per prepararsi ad una vita pericolosa.

Subito, assecondando l'istinto che lo muoveva, il piccolo poggiò la testina contro la spalla della mamma, piagnucolando ancora, sommessamente, solo perché lei gli accarezzasse la schiena per consolarlo.

Quando lo teneva così stretto, Jenova diventava sicura: aveva fatto la scelta giusta.

Lo cullò per un po', tentata di portarlo a letto con sé, finché lui non chiuse gli occhietti e scivolò in un delicato sonno.

A quel punto Jenova sospirò e lo rimise nella culla.

La stanza che divideva con Hojo, e il bambino, era piccola, troppo piccola per tutti e tre, ma doveva essere contenta di avere ancora un tetto sopra la testa.

I suoi genitori avevano accolto molto bene la gravidanza, così bene da averla maledetta e cacciata di casa senza darle neanche il tempo di fare le valigie. Si era ritrovata da un momento all'altro a vagare in mezzo alla strada, senza sapere dove andare, senza sapere a chi affidarsi, con un bambino in grembo che richiedeva attenzioni, cure e denaro che non aveva.

Hojo non aveva saputo niente fino agli otto mesi. Lei aveva fatto in modo di sparire, e i suoi genitori l'avevano inconsciamente aiutata negando persino di avere una figlia quando lui si era presentato a casa loro. Per fortuna avevano scelto di far finta che lei non fosse mai esistita, e non l'avevano aggredito.

Per un po' era stata in strada, vivendo di quello che riusciva a racimolare con elemosina e piccoli furti. Poi la pancia si era fatta evidente, sempre più ingombrante, per la sua costituzione minuta era diventata un impaccio. Non riusciva più a camminare tutto il giorno per cercare da mangiare, e il bambino scalciava sempre più spesso, forse affamato quanto lo era lei.

Per questo aveva alla fine ceduto alla disperazione e si era presentata a casa Crescent.

Hojo non si era arrabbiato, non le aveva fatto nessuna scenata, a malapena aveva parlato. L'aveva fatta entrare subito in casa e senza esitazione aveva chiesto l'aiuto della madre. Lei era stata particolarmente comprensiva nei suoi confronti, Jenova non seppe mai se perché rivide qualcosa di se stessa nella sua condizione o solo perché le faceva pena, ridotta all'osso com'era e senza possibilità di sopravvivere un altro giorno.

L'avevano nutrita, vestita, le avevano dato una casa, avevano pagato per lei tutte le cure mediche, avevano comprato i beni di prima necessità per il bambino in arrivo.

In attesa di capire come risolvere al meglio quella tragica situazione, avevano adattato la stanza degli ospiti in modo che potesse starvi con Hojo e il bambino, e avessero un minimo di privacy.

Ma era pur sempre una stanza.

Non aveva avuto il coraggio di tornare a scuola, ma Hojo continuava a frequentarla, con più zelo e tenacia di prima, e per gran parte della giornata rimaneva sola con il bambino e Inga.

Era frustrante, e spesso si sentiva come in carcere. Inga era sempre gentile con lei, ma era distante, fredda, come se lo facesse per lavoro.

Gli unici momenti che passava con Hojo vedevano lei impegnata con il bambino e lui piegato sui libri, o addormentato nella sua metà del letto.

Tornò ad infilarsi sotto le coperte, lui era sveglio.

- Tutto bene? - le chiese, e tornò a sfiorarle la mano. Stavolta, lei la prese.

Aveva paura del contatto fisico, non riusciva a togliersi dalla mente che la causa di tutte le sue sofferenze era lui, ciò che provava per lui, e il fatto che fosse passato così poco dal parto le dava una buona giustificazione per evitare ogni interazione.

- Sì, si era solo rigirato sulla pancia. - si sdraiò su un fianco, così si ritrovò a specchiarsi negli occhi verdi di Hojo.

Quelli di Sephiroth sarebbero diventati come i suoi?

Lui sorrise. I capelli neri spettinati lo facevano sembrare giovane, e lo era davvero, all'alba del test di ammissione per l'università, con un anno di anticipo come previsto. Essere diventato padre non aveva rovinato i suoi piani. Solo quelli di lei.

- È un bravo soldatino, vero? -

- Lo è. - commentò lei, e per qualche ragione un sapore amaro le riempì la bocca e si volse per dargli la schiena.

Hojo le si avvicinò e l'abbracciò da dietro, un braccio a cingerle la vita. Non la capiva, non la sentiva.

- È un po' che ci sto pensando ma...che ne dici di portare Sephiroth a conoscere i tuoi genitori? -

Jenova si irrigidì, il respiro si fermò per un istante e strinse i pugni. Per un attimo immaginò se stessa a difendere il suo bambino dalla furia di suo padre e di sua madre.

- Non credo che sia una buona idea. -

- Perché no? - prese ad accarezzarle il fianco, brividi gelidi le percorsero la schiena. Voleva solo essere carino, darle conforto, lo sapeva, ma quel contatto la faceva tremare di orrore. - Non li vedi praticamente da un anno, e non hanno mai visto il bambino. Forse si ricrederanno. - Jenova, però, rimase in silenzio. Lui le baciò la spalla, poi si sistemò meglio sul cuscino. - Almeno pensaci, okay?-

- Okay. -

Mentre lui si addormentava, lei rimase sveglia, sul chi vive, non solo per cogliere eventuali strani rumori provenienti dalla culla, ma anche perché temeva che avrebbe fatto il peggiore degli incubi se solo si fosse abbandonata al sonno.

 

 

La giornata cominciava presto, perché Sephiroth si svegliava presto. Alle cinque e mezza Jenova era già in piedi, tenendo il bambino al seno perché succhiasse il latte.

Poppava sempre con gusto e molto spesso poggiava la manina alla tetta come per sentire il suo calore. La guardava sempre, con gli occhioni spalancati e fissi su di lei. La vedeva come lei vedeva lui?

Aveva letto da qualche parte che i bambini appena nati vedono il mondo in bianco e nero, e che solo ad otto settimane cominciano a vedere il rosso e il verde. In qualsiasi modo vedesse, doveva essere completamente diverso da come vedeva lei.

Si chiese se per il piccolo i suoi occhi marroni apparissero solo rossi, e se i capelli bianchi rifulgessero ancor più candidi.

Quando finiva di mangiare, Sephiroth emetteva sempre un leggero sospiro, come a dire “sono sazio mamma!” così lei lo allontanava dal seno, asciugava il latte in eccesso, si rivestiva, e poi se lo poggiava sulla spalla per fargli fare il ruttino.

Si sentiva fortunata, per certi versi, il bambino non soffriva di coliche, non era capriccioso, piangeva solo quando aveva qualche necessità urgente, dormiva abbastanza e quando era sveglio passava il tempo a emettere versetti mugolanti e agitare pugnetti e piedini: un piccolo angelo.

Aveva visto bambini terribili dalla pediatra, della stessa età, più grandi o più piccoli. Frignoni a tal punto da far esaurire le loro madri che apparivano come l'ombra di se stesse mentre li cullavano nella speranza di farli smettere di piangere.

Più di una volta era stata vittima di occhiatacce d'invidia. Perché una ragazza così giovane, evidentemente una troia, veniva premiata con un bambino così tranquillo, mentre loro che avevano fatto come il Signore aveva comandato venivano punite?

Forse era solo sua impressione, perché si sentiva nel torto e non aveva mai smesso di avvertire quella sensazione di sporcizia addosso. Non aveva, però, il coraggio di chiedere ad Hojo di sposarla.

Il ragazzo si svegliò alle sei, gettando le bracca in alto per stiracchiarsi, mentre lei, seduta in poltrona, giocava distrattamente con il bambino.

Il suo dito, tra le manine di Sephiroth, sembrava enorme.

- Buongiorno. - sussurrò Hojo, alzandosi.

- Buongiorno. - rispose lei.

Non ci pensò neanche a porgergli il bambino. Sarebbe stato assente quasi tutto il giorno, doveva approfittare di quei pochi istanti.

- Buongiorno anche a te Sephiroth. - mormorò, sfiorando il nasino del bambino con il proprio.

Lui sorrise, ma sapeva che non stava sorridendo perché capiva di essere tra le bracca del suo papà, ma solo per un riflesso incondizionato. Beh, era comunque meraviglioso.

Gli tenne la testina con una mano mentre con l'altra se lo stringeva addosso, cullandolo un po'. Il bambino si aggrappò alla maglia del suo pigiama come una piccola scimmietta. Profumava sempre di buono, di borotalco soprattutto. Jenova era attentissima alla sua igiene, ed era terrorizzata al solo pensiero che potesse sviluppare qualsiasi genere di irritazione.

- Jen, hai fame? Andiamo a fare colazione insieme? -

La ragazza annuì e...le sfuggì un sorriso. Quando la chiamava “Jen” la maschera di ghiaccio che aveva sviluppato nell'ultimo anno si scioglieva inevitabilmente.

Insieme scesero in cucina e trovarono i genitori di Hojo già svegli e vestiti di tutto punto per andare a lavorare. Sorseggiavano caffè chiacchierando sottovoce, ma quando li videro scendere si zittirono. Rimase solo il rimestio dei piatti che Inga stava lavando e sistemando.

Jenova aveva sempre l'impressione di non essere ben accetta in quella casa, nonostante, invece, l'avessero accolta nel migliore dei modi. Era il padre a mordere un po' il freno, mentre la madre smaniava per passare qualsiasi istante possibile in compagnia del bambino.

- Eccolo qui, il mio nipotino! - infatti lasciò la tazza di caffè e si gettò su Hojo per prendergli dalle braccia Sephiroth.

Il piccino si lasciò fare, del tutto inerme, guardando prima il padre, poi la nonna con gli occhioni enormi e all'apparenza consapevoli. Quando lei gli porse un dito, subito glielo afferrò agitandolo come fosse un giocattolo.

Quell'immagine suscitò un sorriso in tutti i presenti.

Aaliyah non era tanto vecchia da sembrare una nonna, quel bambino poteva anche essere suo, ma non aveva problemi con quel ruolo, tutt'altro.

Inga servì la colazione e poi si ritirò altrove, era sempre impegnata a fare qualcosa, la casa era grande.

Per un po' mangiarono in silenzio, Aaliyah con il bambino tra le braccia, l'imbarazzo alle stelle. Era sempre difficile capire come comportarsi, e quella situazione creava sentimenti contrastanti in tutti.

Jenova era grata ai genitori di Hojo per quello che avevano fatto per lei e Sephiroth, ma non sarebbe mai stata in grado di ripagarli, e averne la consapevolezza la faceva sentire a disagio.

Quando Lewis finì il caffè, si alzò, lasciò un dolce quanto leggero bacio sulla testina del nipote, una pacca affettuosa sulla spalla della moglie e se ne andò.

Uscito lui, il clima si alleggerì.

Lewis era di certo quello che meno sopportava tutto quello, per questo motivo Hojo si era immerso negli studi più che mai, per dimostrargli che non avrebbe gettato il suo futuro alle ortiche solo per quel piccolo imprevisto.

- Jenova, oggi tornerò un po' prima dal lavoro, magari potremmo uscire a fare una passeggiata e andare a comprare qualche bel vestitino per questo bellissimo bimbo. - disse sorridendo Aaliyah, toccando con un dito il nasino di Sephiroth che lì per lì rimase immobile come se avesse subito chissà quale affronto, per poi continuare nel suo ingenuo e infantile borbottio.

- Certo, perché no. - rispose timidamente lei, punzecchiando le uova che aveva nel piatto.

- Bene! Allora a più tardi. - lasciò il piccolo tra le bracca di Hojo e poi andò, salutandoli affettuosamente con una mano.

Sephiroth agitò i pugnetti, mostrando segni di insofferenza, così Jenova lo riprese e lo cullò con amore. Solo quando lo teneva stretto a sé appariva davvero felice.

In quel silenzio, con Hojo che leggiucchiava il giornale lasciato dal padre, sembravano una famiglia normale. Se non avessero avuto lei sedici anni, lui diciassette e un bambino di due mesi e mezzo a distruggergli l'adolescenza.

- Non ti da fastidio uscire da sola con mia madre, vero? - non alzò gli occhi dal giornale, anche se Jenova era sicura che non stesse leggendo con attenzione. Era solo spaventato all'idea di incontrare il suo sguardo.

- No, non preoccuparti. Sarà un...modo per legare. - di contro, neanche lei lo guardava, impegnata com'era ad accarezzare il faccino rotondo di Sephiroth.

Non faceva altro che pensare a come sarebbe stato da grande. Succedeva quando si diventava genitore, si pensava al futuro, anche se si era tanto giovani come lo era lei.

- D'accordo. - sospirò Hojo. Ingollò le uova rimanenti in una sola forchettata, svuotò il bicchiere di spremuta d'arancia, e si alzò.

Quando tentò di lasciare un bacio sulle labbra di Jenova lei allontanò il viso impercettibilmente, tanto che alla fine le baciò la fronte. Per ultimo, rivolse una carezza al figlioletto.

- Lo sai che ti amo? - sembrava la domanda di un bambino, e di un bambino aveva gli occhi quando la guardò.

Jenova sentì un antico moto dentro di lei, qualcosa che la smosse e la costrinse a rivolgergli una carezza.

Lo amava ancora, in qualche modo confuso e arrabbiato, nelle profondità del suo essere. Solo...non riusciva a dirglielo, non adesso.

Lui dovette capirlo, dovette sentirlo, e non le fece pressione.

Si limitò a sospirare.

 

 

Quel pomeriggio Jenova mise a Sephiroth i vestitini più carini che aveva. Nonostante fosse metà marzo l'aria non era ancora così calda, e si stentava a credere che l'estate fosse ormai alle porte.

Accompagnò con dolcezza le braccia del piccino dentro la magliettina, abbottonò il body dopo essersi accertata che il pannolino fosse pulito, gli mise dei piccoli jeans. Amava soprattutto questo di Sephiroth: il minuscolo mondo in cui viveva.

Aveva piccoli indumenti adatti al suo corpicino, le scarpine sembravano quelle di un bambolotto, così come il ciuccio e il biberon.

Ricordava di aver avuto una bambola del genere quand'era solo una bambina. L'unica che i suo genitori le avessero mai comprato, con una piccolissima culla e dei vestiti di ricambio che sembravano troppo piccoli da maneggiare. Ricordava di aver giocato a lungo con quella bambola, fino a consumarne la plastica e a danneggiarla in ogni modo possibile.

Sephiroth era più pesante, vivo e vero di una bambola, eppure era molto più fragile.

- Ecco qui, sei pronto. - gli disse, come se potesse capire. Lui agitò i piedini nelle scarpine nuove, confuso dalla sensazione che doveva provare nell'indossare qualcosa di così strano quando era abituato a stare scalzo. - Farà caldo? Dovrei metterti qualcosa di più leggero? - il piccolo la guardò interrogativo, sorrideva quando incrociava il suo sguardo e agitava i pugnetti. - Chi lo sa? La mamma non lo sa. - gli prese le manine e cominciò a canticchiare con la voce sempre più tremante “la mamma non lo sa, la mamma non lo sa”, finché si rese conto di stare piangendo.

Dovette alzarsi e nascondere il viso tra le mani, non voleva che Sephiroth la vedesse piangere, anche se era certa che non potesse capire cosa stava succedendo.

Per un po' lui rimase immobile sul letto a mugolare come un micino, agitandosi tutto come a volersi voltare sulla pancia, e lei si costrinse a non singhiozzare, non troppo rumorosamente almeno.

- Jenova? - poi un timido bussare. Aaliyah non entrava mai nella “loro” stanza senza permesso. - Posso entrare? -

Lei si affrettò a cancellare dal viso le tracce di lacrime e mormorò un “entra pure!” carico di finto entusiasmo.

Forse la donna non era stata presente nell'infanzia del figlio, tutt'ora non lo era, ma non era mai stata disattenta o superficiale. Quando vide il volto di Jenova si accorse che aveva pianto.

- Tesoro, cos'è successo? - le chiese, apprensiva, lanciando uno sguardo al piccolo che, tranquillo, fissava il soffitto vedendo chissà quali meraviglie.

- Niente, niente...sono solo...niente. -

- Il bambino fa i capricci? - provò la donna, cercando di leggere in quegli occhi scuri e troppo profondi per esseri quelli di una ragazzina.

- No, no, Sephiroth è il bambino più tranquillo del mondo. Non è colpa sua. - gli occhi tornarono a riempirsi di lacrime. Provò a nascondere il volto ma Aaliyah glielo impedì, tenendoglielo sollevato per il mento.

- Lo so che sei spaventata. - cominciò, e Jenova sperò tanto che tacesse, che la smettesse di compatirla, che la odiasse per aver incastrato suo figlio, tutto tranne quell'amore incondizionato che le rivolgeva. Era insostenibile. - Ma non sei sola, e anche se è difficile, vi aiuteremo finché ci sarà possibile. -

A quel punto il dolore le salì in gola tutto insieme, gli occhi strariparono e l'unica cosa che le riuscì di fare fu gettare le braccia al collo della donna e piangere, piangere tutte le lacrime che fino a quel momento aveva tenuto per sé.

Aaliyah le carezzò la schiena mormorando di tanto in tanto un “va tutto bene” o “su su” come se fosse lei la neonata da calmare e non il piccolino lasciato da solo sul letto.

Rimasero abbracciate l'una all'altra per un tempo indefinito. Jenova avrebbe voluto scusarsi ma temeva che se avesse aperto bocca ne sarebbe uscito un lamento indefinito.

- Ricordati. - disse ancora Aaliyah, asciugandole le lacrime con la manica della sua giacca. Doveva appena essere tornata dal lavoro, aveva ancora il tailleur blu addosso. - Non importa quello che gli altri pensano, Sephiroth è e rimarrà sempre un dono. Ma non un dono di Dio. - sorridendole, sapeva come la pensavano i genitori di lei sulla religione, d'altronde era il motivo per cui era senza casa e senza famiglia. - È un dono d'amore. -

Jenova sentì il labbro inferiore tremare e gli occhi minacciare una seconda fuoriuscita di lacrime, ma riuscì a trattenersi dopo essersi voltata a guardare il suo bambino.

Non era stato desiderato, era arrivato all'improvviso, con i suoi pochi chili di peso e cinquantacinque centimetri di lunghezza aveva capovolto il suo mondo, ma l'avrebbe amato per sempre.


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The Corner

Salve a tutti e ben trovati nel nuovo capitolo di Easy!
Spero che la storia stuzzichi la vostra curiosità e che continuerete a seguirla, gli aggiornamenti saranno sempre lunedì e giovedì, quindi non vi resta che controllare di tanto in tanto, e se dovessero essere cambiamenti lo scriverò qui nel mio piccolo angolo.
Di nuovo, e come sempre, grazie alla mia Musa per aver reso tutto questo possibile.

Chii

   
 
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