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Autore: ChiiCat92    08/02/2018    0 recensioni
"Quando Hojo la vide per la prima volta restò senza fiato. Pensò che era bella, più di ogni altra ragazza che avesse mai visto, bella a tal punto da sembrargli aliena.
Era appena arrivata in città, si sussurrava che fosse scappata con la famiglia dalla Russia.
Forse per questo ad Hojo appariva completamente diversa da chiunque altro avesse intorno.
Camminava stringendosi al petto i libri come se fossero la sua unica difesa dal mondo esterno, parlava poco, rimaneva in giro per i corridoi ancora meno. Era quasi impossibile avvicinarla senza avere l'impressione che quegli occhi marrone rossiccio ti penetrassero l'anima."
Questa è una stora nata da un mucchio di headcanon messi insieme su un ipotetico universo in cui Sephiroth, le sue Remnant, Hojo e Jenova fossero una famiglia. Una famiglia complicata ma in fondo...la vita non è semplice.
Genere: Generale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Genesis Rhapsodos, Kadaj, Loz, Sephiroth, Yazoo
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Nessun gioco
Capitoli:
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Per cominciare:

Salve a tutti e benvenuti in "Easy". Come ho detto nell'introduzione, questa storia nasce da una serie di headcanon scribacchiati su un taccuino davanti ad un tè, e che si sono trasformati in una storia grazie agli influssi della mia Musa, fonte infinita di ispirazione <3 
Per i primi capitoli quest'avventura sarà impostata in una serie di flashback, finché non comincerà la narrazione del tempo "presente" in cui si svolge la storia vera e propria. 
Spero vi piaccia quanto a me è piaciuto scriverla e quanto alla mia Musa inventarla. 

Chii





Part One: Silver Ice

 

- 1 -

Falling Star

 

 

Quando Hojo la vide per la prima volta restò senza fiato. Pensò che era bella, più di ogni altra ragazza che avesse mai visto, bella a tal punto da sembrargli aliena.

Era appena arrivata in città, si sussurrava che fosse scappata con la famiglia dalla Russia.

Forse per questo ad Hojo appariva completamente diversa da chiunque altro avesse intorno.

Camminava stringendosi al petto i libri come se fossero la sua unica difesa dal mondo esterno, parlava poco, rimaneva in giro per i corridoi ancora meno. Era quasi impossibile avvicinarla senza avere l'impressione che quegli occhi marrone rossiccio ti penetrassero l'anima.

La novità del suo arrivo rimase sulla bocca di tutti per una lunghissima settimana, ma dopo che mostrò un timido disinteresse per chiunque cercasse di interagire con lei, i pensieri degli studenti si volsero altrove.

Ma non quelli di Hojo.

Quella piccola ragazzina era la prima immagine che vedeva quando apriva gli occhi e l'ultima quando andava a dormire.

Era cotto, e non sapeva come gestire la situazione. A sedici anni nessuno sa come gestire niente, men che meno quel pensiero ossessivo che non faceva che perforargli la mente.

Avrebbe potuto parlarle, scoprire almeno il suo nome, ma si sentiva uno stalker, ed era del primo anno, e aveva cominciato semplicemente ad evitarla, il più possibile.

Quando la vedeva in lontananza Hojo svoltava nel primo corridoio disponibile o scendeva le scale o infilava il naso in un libro e aspettava con il cuore in tumulto che lei passasse.

Il suo profumo aveva il sentore della neve appena caduta. Ma come poteva saperlo lui che non aveva mai visto la neve?

Ormai era quasi un mese che andava avanti così, ogni giorno era una nuova tortura, e le cose non sembravano migliorare, anzi.

Era uno schifo essere un adolescente.

Voleva concentrarsi sugli studi per dimenticare lei, ma lei occupava tutta la sua mente e non riusciva a concentrarsi su niente. Se avesse continuato in quel modo i suoi voti avrebbero fatto una picchiata verso il basso, e non poteva permetterselo, doveva proteggere la sua media, e la borsa di studio che l'avrebbe portato al college con un anno di anticipo.

Doveva porre rimedio a quell'assurdità. Poteva anche non essere la ragazza che stava tanto idealizzando, poteva non piacergli così tanto dopo averla conosciuta, anche se una vocina dentro di lui non faceva che dirgli che non poteva non piacergli.

Quella mattina, quando aprì gli occhi e inforcò gli occhiali rotondi, decise che sarebbe stato il giorno giusto. Se lo diceva più o meno ogni volta, ma adesso era diverso, adesso c'erano di mezzo gli esami di fine trimestre, e non poteva perdere tempo dietro alle ragazze come tutti i suoi compagni, come tutti gli altri. Lui era diverso.

Si tirò su a sedere con un profondo respiro. Il cuore gli batteva a mille e si massaggiò il petto con una smorfia infastidita. Hojo era un ragazzo razionale, un amante della scienza, ma quello che gli stava succedendo era tutt'altro che razionale e scientifico. Non lo capiva, e lo spaventava.

Si alzò, cercando di non indugiare in quei pensieri ansiogeni, e indossò la divisa del liceo con la stessa meticolosa attenzione di sempre. Doveva apparire perfetto, quel giorno in particolare.

Riempito lo zaino, scese a fare colazione.

L'enorme casa in cui abitava era stata per lui, nell'infanzia, motivo di vanto quanto di imbarazzo. Non poteva dire che gli fosse mancato alcunché crescendo, e nonostante non fosse un ragazzino viziato e conoscesse il valore dei soldi, era comunque figlio di persone ricche.

La maggior parte dei ragazzi della sua età non avevano neanche un quarto di quello che aveva lui, a cominciare dalla macchina che suo padre gli aveva regalato quando aveva compiuto sedici anni.

Ma lui, al contrario di quello che pensavano alcuni dei suoi coetanei, non intendeva adagiarsi sugli allori e scialacquare la fortuna dei suoi genitori. No, lui voleva meritarsi quello che aveva. Per questo si era gettato nello studio con tutta la dedizione di cui era capace, e adesso era tra i migliori dell'istituto.

Ovviamente le male lingue insinuavano che i suoi successi scolastici fossero il risultato di donazioni fatte alla scuola da parte di suo padre. Il campo di football non era stato generosamente bonificato sempre da, ahahah, lui? E la biblioteca non portava il nome del figlio?

Ad Hojo, però, non interessava. I suoi genitori erano orgogliosi, e non gli avrebbe dato un dispiacere perché girava la testa per una bella ragazza.

Anche se era davvero bella.

Sbuffò, cercando di scuotere via quei pensieri.

Nonostante i suoi genitori gli volessero bene e avessero fatto di tutto perché avesse una vita felice, non erano molto presenti. Il lavoro assorbiva tutto il loro tempo e anche quella mattina, come tutte le altre, ad avergli preparato la colazione era stata la cameriera.

Da che ricordava, Inga era sempre stata con loro, ma era tanto spaventata dal potere di suo padre che non si era mai sbilanciata nel dargli anche solo una parvenza di affetto. I suoi pancakes però erano meravigliosi.

I suoi genitori erano già usciti, e sedette da solo al tavolo per gustare i waffles alla belga che Inga aveva preparato. Da quando sua madre aveva comprato la piastra per cuocerli spuntavano spesso sul menù della colazione.

Hojo mangiò in silenzio, fissando il suo piatto e immaginando i diversi scenari in cui si sarebbe potuto trovare per parlare con la ragazza straniera.

Doveva aver imparato l'inglese a quel punto, sapeva che seguiva dei corsi intensivi pomeridiani, quindi farsi capire non doveva essere un problema. Ma l'imprevedibilità della situazione lo metteva a disagio. Era abituato ad avere le cose sotto controllo, e quella era la cosa con più variabili che avesse mai fatto.

Il frusciare della carta gli annunciò che Inga gli aveva imbustato il pranzo, lasciandoglielo sulla penisola, dopo di che con un breve saluto si congedò per andare a fare qualunque cosa facesse quando rimaneva da sola a casa. Pulizie, probabilmente.

Hojo lasciò il piatto nel lavandino, recuperò il sacchetto del pranzo e lo infilò nello zaino, dopo di che inforcò la giacca. La normalità di quei gesti, fatti ogni giorno tutti i giorni negli ultimi dieci anni almeno, assumevano tutto un altro significato adesso. Perché era una giornata importante.

Gli sarebbe piaciuto non sudare così tanto né sentirsi così tanto impacciato. Qual è il vantaggio di avere un gran cervello se nel momento del bisogno va in tilt?

La sua macchina non era una macchina costosa, anzi, era di seconda mano, anche se era tenuta in perfette condizioni. Suo padre non voleva comprargli cose costose solo perché poteva e lo apprezzava, visto tutte le voci che giravano su di lui, ma voleva anche fargli un bel regalo, e Hojo era sicuro che avesse speso comunque una fortuna per fare in modo che fosse più sicura di una macchina nuova.

Profumava di menta per via dell'alberello deodorante lasciato appeso allo specchietto retrovisore, e per lui era ormai un profumo familiare, tanto che si riempì i polmoni con un gran respiro.

Quando la mise in moto la sentì rombare e scaldò un po' il motore spingendo sull'acceleratore. Rispondeva così bene, così prontamente, che stentava a credere che fosse davvero di seconda mano.

Guidò con calma fino alla scuola, rispettando tutti gli stop e fermandosi ad ogni semaforo rosso. Aveva la patente da poco più di sei mesi e non intendeva rischiare di perderla.

Il liceo che frequentava era un istituto privato che profumava di soldi già solo a vederlo da lontano. I professori migliori per l'istruzione migliore: era il motto che faceva capolino sui cartelloni pubblicitari. Ma questo non voleva dire avere la promozione facile, anzi. La severità degli insegnanti era famosa in tutto lo stato, e il tasso di stress quanto di ottimi risultati era paragonabile sono alle migliori scuole giapponesi.

Era importante costruirsi con le proprie mani, con il sudore e con la fatica, diceva a volte suo padre con voce seria, proprio come aveva fatto lui.

Adorava raccontare la storia di come era partito con in tasca solo cinque dollari, per poi investirli in borsa e arrivare ad avere un portfolio di un miliardo nel giro di qualche anno. Hojo sapeva che buona parte di quella storia era vera, ma anche che suo padre provava un gusto particolare nell'ingigantire gli avvenimenti del suo passato.

Se avesse voluto, il ragazzo avrebbe potuto avere un parcheggio con il suo nome sopra nel cortile di fronte alla scuola, ma c'era già la biblioteca che lo portava, e non voleva attirare su di sé più attenzione di quanta già non ne avesse. Gli toccò parcheggiare lontano dall'ingresso, ma non lo ritenne un problema dal momento che mancavano ancora dieci minuti al suono della campanella.

Da una parte sperava di poter parlare con la ragazza prima dell'inizio delle lezioni, per togliersi di dosso quell'orribile ansia torci-budella, dall'altra aveva il terrore di vedersela apparire di fronte e di non sapere più cosa dire, nonostante le svariate prove che aveva fatto davanti allo specchio.

Scendendo dall'auto guardò con ansia a destra e sinistra alla ricerca del suo volto. Era assurdo essere fissato con una ragazza di cui non conosceva neanche il nome, vero?

All'improvviso gli sembrava che tutto quello che aveva in mente di fare fosse stupido, davvero stupido. Ma non poteva tornare su suoi passi.

- Che situazione del cavolo. - mormorò tra sé e sé e, recuperato lo zaino, si incamminò verso l'entrata.

Il chiacchiericcio dei ragazzi assiepati davanti all'ingresso gli faceva venire mal di testa. Non riusciva a ragionare lucidamente e tutta quella confusione non aiutava affatto.

Non aveva molti amici, per lo più erano tutti conoscenti con cui non aveva approfondito troppo: non era bravo a mantenere i legami.

Salutò un paio di ragazzi con cui collaborava alle lezioni di chimica, ma il suo sguardo cercava lei tra la folla. I suoi capelli candidi, la sua figura minuta, e quegli occhi rossicci magnetici come poli d'attrazione.

La campanella suonò anche troppo presto, e lui tirò un mezzo sospiro di sollievo, misto a delusione. Il fatto di non averla vista gli lasciava un sapore dolce amaro in bocca.

Salì la scalinata e superò il portone cerando di non farsi spintonare dai ragazzi che correvano verso le classi, non perché avessero fretta di imparare, ma solo perché facevano a gara a chi arrivava prima o qualcosa di simile.

A stento ricordava quale lezione doveva seguire quella mattina, aveva la testa completamente altrove.

Era così assente che non si accorse dello scalpiccio agitato alle sue spalle, e quando venne investito da un piccolo bolide in corsa aveva già un'imprecazione e un insulto a fior di labbra.

Salvo poi perdere la voce.

Non aveva sentito mai parlare la ragazza straniera perché non gli era arrivato abbastanza vicino da potersi imprimere il suo timbro, o bearsi del suo accento, ma adesso che si scusava per essergli arrivata addosso gli sembrava la cosa più meravigliosa al mondo.

Il suo modo di parlare sognante con l'accento russo tanto marcato da far sorridere gli capovolse piacevolmente lo stomaco, ma riuscì ad abbozzare un “Stai tranquilla, è tutto okay” che gli avrebbe dovuto assicurare un oscar per la recitazione: per come gli palpitava il cuore, era riuscito a mantenere una facciata di tranquillità invidiabile.

La aiutò a raccogliere i libri che le erano caduti e per tutto il tempo cercò di capire come attaccare bottone ma niente gli venne in aiuto, né le centinaia di romanzi d'amore che aveva letto o studiato, né tanto meno il sangue freddo da scienziato che aveva quando maneggiava sostanze pericolose in laboratorio.

Lei lo ringraziò e poi, con la stessa fretta, corse verso la sua classe.

Profumava davvero di neve appena caduta.

 

 

Per fortuna, Hojo non dovette partecipare attivamente a nessuna lezione, perché la sua attenzione era tutta per la ragazza e il loro fortuito incontro.

Tutto quel tempo a pianificare il modo in cui sarebbe successo e alla fine...era successo per caso.

Non poteva perdonare il Destino per questo.

Quando suonò la campanella del pranzo quasi saltò giù dalla sedia.

Finalmente avrebbe avuto un'ora di tempo per stare solo con i suoi pensieri e il libro di Margherita Hack che non aveva ancora finito di leggere. Lontano da tutti, lontano da tutto. Magari anche dalla bella Ragazza Neve.

Evitò per un pelo il presidente del club di scacchi che di certo l'avrebbe trascinato in un'interminabile conversazione, e corse fuori.

La giornata era soleggiata, non calda ma comunque piacevole, annunciava il ritorno della primavera. Un po' in anticipo quell'anno.

Aspirò a fondo quell'aria fresca e pulita e si diresse al cortile.

Le voci allegre dei ragazzi che giocavano e correvano, liberi per qualche istante dalle loro in apparenza pesanti vite, era il sottofondo perfetto, un tappeto armonico di esistenze che lo circondavano senza però renderlo partecipe. Gli piaceva poterle guardare come fosse uno scienziato, uno vero. Chissà, un giorno avrebbe potuto fare qualcosa del genere davvero.

Osservare una vita che prende coscienza di sé in un utero artificiale, ad esempio.

Beh, in ogni caso se non avesse superato gli esami del trimestre sarebbe rimasto tutto nella sua fantasia.

Si sedette all'ombra del suo albero preferito. Il club di atletica al completo gli passò a fianco correndo e sbuffando, mentre il capitano teneva il ritmo urlando una filastrocca.

Con l'arrivo della bella stagione sarebbero ricominciati i tornei sportivi, e i campi di allenamento si sarebbero riempiti di atleti con la testa vuota e le tasche piene: le borse di studio non andavano solo a chi aveva tutte A in pagella.

Sospirò e infilò la mano nello zaino per tirare fuori il sacchetto del pranzo e...e...il libro. Ma lì non c'era.

Con le sopracciglia aggrottate aprì meglio lo zaino per controllare l'interno. Una, due, tre volte: il libro non c'era davvero.

Possibile che l'avesse lasciato a casa? Eppure era sicuro di averlo portato, lo portava sempre.

Cercò di ricordare se l'avesse invece posato nell'armadietto tra una lezione e l'altra, ma per quanto si sforzasse non riusciva a ricostruire il momento.

L'aveva perso? L'aveva lasciato in biblioteca l'ultima volta?

- Ciao. - alzò la testa di scatto e quasi si sentì morire. La ragazza dei suoi sogni, dei suoi pensieri ossessivi, gli stava davanti con un timido ma caldo sorriso sulle piccole labbra rosee.

Il respiro si fece grosso, il cuore cominciò a pompare impazzito, e sudore caldo gli coprì immediatamente la schiena.

Cominciò a chiedersi se il suo alito puzzava, se aveva le mani appiccicaticce, se i capelli neri fossero ancora legati in una rigorosa coda oppure spettinati.

- Ciao. - riuscì a dirle. Gli occhiali gli scivolarono sul naso per il sudore, e si affrettò a tirarli su.

Doveva apparire davvero patetico.

- Scusami, non volevo disturbarti. Tu sei Hojo Crescent, vero? -

Come faceva a conoscere il suo nome? Andò nel panico finché il suo cervello non gli suggerì che probabilmente la ragazza lo conosceva perché c'era il suo nome sulla targhetta fuori dalla biblioteca, e suo padre finiva al telegiornale un giorno sì e uno no, e lui stesso qualche volta era scappato da giornalisti sciacalli che volevano intervistarlo.

Insomma, non era così strano che lo conoscesse in fondo, no?

- Sì, sono io. - disse però, cercando di capire a che livello d'ansia fosse.

Da uno a dieci forse era arrivato a venti, una buona media considerando il fatto che era la prima volta che parlava con una ragazza, e che per di più era una che gli piaceva.

Lei gli tese un libro e lui subito lo riconobbe. Ecco che fine aveva fatto! Gli era caduto quando si erano scontrati.

- Oh, grazie. - lo prese e per un momento le loro dita si sfiorarono.

Hojo non aveva mai pensato che quel momento sarebbe stato come i tanti che aveva visto nei film.

Il ragazzo che sfiora la ragazza e all'improvviso capisce di voler passare tutta la vita con lei: che noioso, stupido cliché romantico.

Eppure fu proprio quello che provò.

In quell'istante, quel misero istante in cui le loro dita si toccarono, lui capì che avrebbero avuto una vita lunga e felice insieme, che si sarebbero sposati, che avrebbero avuto dei figli, che si sarebbero amati fino alla fine delle loro vite.

Doveva essere così che ci si sentiva quando si era giovani e innamorati.

- Mi chiamo Jenova. Sarebbe Jenova Yarkoye Serèbro, ma va bene solo Jenova. - si portò dietro l'orecchio un ciuffo di capelli candidi.

Sembrava troppo eterea per poter essere vera, effimera come una stella cadente.

Hojo tirò su le labbra in un sorriso. Era imbarazzata tanto quanto lui, altrettanto impacciata e confusa.

Non si sentì più tanto stupido, e per la prima volta non si sentì neanche solo.

- Mi dispiace che hai dovuto portartelo dietro tutto il giorno. - le disse, sollevando il libro per farle capire che stava parlando di quello.

Lei scosse la testa, i capelli frusciarono. Erano così leggeri, fatti come di seta. Adesso che poteva vederla da vicino si accorgeva di piccoli dettagli, della pelle candida, di quanto fossero lunghi quei capelli, delle leggerissime efelidi che le circondavano il naso, delle labbra carnose, di quanto fosse minuta, di come i suoi occhi brillassero.

- Non è stato un problema, anzi, perdonami ma non sono riuscita a trattenere la curiosità e ho dato un'occhiata. Il mio inglese però...non è ancora così buono. -

Hojo inarcò le sopracciglia, sorpreso. Una parte di lui gli diede dello stupido. Solo perché era una ragazza carina non voleva dire che non era intelligente o interessata alla scienza. Ma quello era un libro di fisica teorica che aveva trovato difficile da comprendere persino lui.

- Se vuoi puoi...prenderlo in prestito, appena l'avrò finito. -

Lei sollevò un po' la testa e gli risolve il primo di quelli che lui sapeva sarebbero stati tanti sorrisi. - Davvero posso? -

- Certo. - avrebbe voluto essere più risoluto ma la voce gli tremava, era fuori dal suo controllo.

- Ti ringrazio. - anche se aveva quell'accentaccio russo, il suo modo di parlare era comunque piacevole.

Hojo si chiese se fosse arrivata in America senza conoscere una sola parola di inglese, e come dovesse essere cambiare non solo città, ma stato, nazione, continente.

Non si stupiva che fosse così timida e introversa.

- Ti va di mangiare insieme? - gli uscì dalle labbra, senza sapere come e perché. Qualcosa dentro di lui cominciò a urlare e disperarsi: se avesse rifiutato sarebbe morto dentro. - Cioè...solo se non hai niente altro da fare e...posso aiutarti con il libro se ti va. - si affrettò ad aggiungere come giustificazione.

Dio, quanto era stupido! Adesso di certo lei pensava che fosse strambo o qualcosa del genere, o peggio, che fosse un totale imbranato con le ragazze. E lo era, davvero, ma avrebbero preferito che lei non lo sapesse, non al loro primo incontro almeno.

Lei non sembrò pensarci molto, forse non aveva altri impegni, o forse – come piacque pensare a Hojo – semplicemente le piaceva l'idea di pranzare insieme.

In ogni caso gli si sedette accanto.

Dopo un primo, lunghissimo momento di silenzio imbarazzato, cominciarono a parlare, prima del libro, poi di qualsiasi altra cosa.

E non smisero più.

 

*

 

Hojo si guardò allo specchio per quella che doveva essere la decima volta. Era indeciso se tenere o meno i capelli sciolti.

Erano neri, un nero intenso come inchiostro, così in contrasto con quelli di Jenova che stare vicini li faceva sembrare troppo diversi per andare d'accordo.

Avvicinò il naso allo specchio, controllò che nessun brufolo e nessuna imperfezione avesse deciso di deturpargli la faccia quel giorno, controllò il mento in cerca di sparuti peli di barba. Poi tornò a fissarsi.

Tolse gli occhiali e cercò di dare conforto a se stesso dicendosi che sarebbe andato tutto bene. Aveva occhi verdi luminosi, di un verde che raramente si vede in giro. Se solo non fosse stato obbligato a portare quei fondi di bottiglia per la miopia...

Prese un profondo respiro e afferrò la scatolina delle lenti a contatto. Non le aveva mai indossate prima, e il solo pensiero di doversi infilare le dita negli occhi per metterle gli faceva venire i brividi.

Svitò il tappo del contenitore e con mani tremanti prese la morbida lente. Sembrava fatta di gomma sottile e non avrebbe dovuto dargli nessun fastidio, o almeno, era quello che gli aveva detto il tizio che gliele aveva vendute all'ottica.

Allargò un occhio con le dita di una mano e con l'altra armeggiò per infilarci dentro la lente.

Circa cinquanta tentativi e duecento parolacce dopo, con gli occhi arrossati, uscì vincitore da quella battaglia. Le lenti bruciavano giusto un po', ed era quasi sicuro che dipendesse più dal fatto che aveva torturato gli occhi che dalle lenti stesse.

Il risultato, con i capelli sciolti, era stupefacente.

Non si era mai sentito un bel ragazzo, o un brutto ragazzo, non aveva mai voluto considerare il suo aspetto fisico, impegnato com'era a sviluppare il cervello.

Era magrolino, anche troppo, ma alto, come lo era suo padre, e vestito elegante faceva la sua bella figura. Poi adesso, con le lenti e quei capelli d'inchiostro a scivolargli lungo le spalle, era persino carino.

Un altro respiro profondo e ingollò due mentine, nonostante avesse già lavato i denti tre volte.

Quando aveva detto a sua madre che sarebbe uscito con una ragazza era scoppiato l'allarme “il mio bambino sta crescendo!” che gli era costato un abbraccio spacca-costole e una dose di imbarazzo sufficiente per il resto della sua vita. L'aveva tempestato di domande a cui aveva risposto a mezza bocca, senza sapere bene quanto fosse legittimo dire alla mamma e quanto lo facesse sembrare uno stupido.

Alla fine era riuscita a scucirgli il nome della ragazza e il luogo dell'appuntamento, e per fortuna Dio doveva averla dotata di buon senso perché non era andata a fondo e aveva smesso di fargli domande.

Per circa due settimane lui e Jenova avevano passato il tempo insieme, tutto il tempo possibile. Lui le leggeva il libro della Hack, spiegandole le parti complesse a causa della lingua, e lei lo riempiva di domande spigliate e attente che erano spunti di conversazioni infinite.

Si capivano in un modo tanto profondo da fare quasi paura.

Alla fine si era deciso a chiederle un appuntamento e di uscire da quella che in tv chiamavano “friendzone”. Lei aveva titubato per un attimo, come pesando sulla sua bilancia interiore il guadagno e la perdita. Alla fine aveva acconsentito e lui si era sentito come un missile spedito nello spazio.

Non sarebbe stato un appuntamento come tutti altri, niente cinema, niente pizzeria, e neanche sarebbero andati a mangiare un hamburger con le patatine. No, lui l'avrebbe portata all'osservatorio.

Una parte di lui si rese conto che agli occhi degli altri doveva sembrare una cosa particolarmente nerd, ma non gli importava: lei era sembrata felicissima dell'idea e gli aveva stampato un bacio sulla guancia.

Al solo ripensarci gli tremavano le gambe.

Sperava di baciarla sulle labbra quella sera? Sì. Il solo pensiero gli rivoltava lo stomaco? Sì. Avrebbe avuto una crisi di panico? Era probabile, ma sarebbe uscito comunque.

Tolse pelucchi invisibili sulla sua giacca e si decise ad uscire dalla sua stanza. Non voleva arrivare in ritardo, e non era sicuro di saper arrivare in macchina da Jenova, nonostante avesse memorizzato il percorso.

Passò in soggiorno velocemente, cercando di evitare il contatto visivo con la madre che stava seduta sul divano. Lei, al pari di una gazzella quando sente l'arrivo del leone, alzò la testa e gli indirizzò uno sguardo.

Avrebbe voluto dirle “Mamma ti prego, no!” senza però trovare la voce per farlo. Per fortuna non gli disse niente, e tornò al suo programma televisivo.

Hojo tirò un sospiro di sollievo, prese le chiavi e fece per uscire.

- Mi raccomando, fa' attenzione! -

- Sì, mamma. -

Almeno questo glielo doveva, no?

Si chiuse però in fretta la porta alle spalle e volò verso la macchina.

Il tragitto verso casa si Jenova fu più semplice del previsto, e non poté fare a meno di chiedersi se non ci fosse qualcosa di orribile ad aspettarlo più in là, perché non poteva andare tutto così liscio.

La trovò che lo aspettava sul porticato, una borsetta sulle gambe. Il viso le si illuminò quando lo vide e scattò in piedi in un frusciare di stoffa.

Hojo si chiese se tra venti o trent'anni avrebbe ricordato ancora com'era vestita, con quella gonna color nocciola ampia a pieghe e il pullover stretto bianco con una leggera scollatura. Si chiese anche se il suo profumo gli sarebbe rimasto impresso, e se quel “ciao” sussurrato con imbarazzo mentre saliva sarebbe stato argomento di discussione durante il loro matrimonio.

Stava spingendo il pensiero troppo in avanti, lo sapeva, ma era difficile tenere i piedi per terra quando aveva lo stomaco pieno di farfalle.

Il primo tratto di strada fu coperto da uno spesso strato di silenzio. Avevano passato molto tempo insieme, ma da amici, non così. Quell'appuntamento metteva in luce aspetti che non avevano considerato fino ad allora.

Nessun adulto gli aveva spiegato quanto era strano quel mondo, quello dei sentimenti, delle mani che si toccano, delle labbra che si fanno invitanti, come se fosse un tabù.

La tensione si sciolse gradualmente quando Jenova lo informò che aveva preso un libro nuovo in biblioteca e che sarebbe stata felice di leggerlo con lui. Stavolta parlava della vita delle stelle.

La lingua di Hojo si sciolse, e quando arrivarono all'osservatorio non poteva credere di averci messo così poco.

Il cielo era terso e l'aria fresca, le stelle erano già visibili ad occhio nudo, ma entrambi non vedevano l'ora di vederle attraverso l'enorme telescopio.

Il silenzio tutto intorno non li disturbava, anzi, il frinire di sparuti grilli e il gracchiare di qualche rana rendeva tutto assurdamente romantico.

Si trovavano in mezzo alla campagna, la città era diventata un puntino sullo sfondo, non c'era nessuno nei dintorni, solo un paio di macchine erano parcheggiate di fianco a quella di Hojo. Sarebbe potuto essere un posto spaventoso con quel buio, invece faceva da teatro per un magnifico spettacolo.

Hojo aprì la portiera per Jenova con un mezzo impacciato inchino. Lei rise. Aveva legato i capelli in modo che non le coprissero il viso e si era truccata leggermente. Era fulgida e candida come una stella bianca.

Quando alzò gli occhi su di lui si sentì andare a fuoco e cercò di distogliere lo sguardo per non farsi leggere dentro.

- Hai messo le lenti a contatto? - gli chiese, con una risata sul fondo della voce.

Lui si passò una mano sulla nuca, a disagio. - Sì. Non ti piaccio? -

Jenova si affrettò a scuotere la testa. - È solo...diverso. -

Oh sì, quella sera era diverso. Il modo in cui vestivano, il modo in cui si toccavano, l'aria che respiravano, le parole che usavano: era tutto diverso.

Le porse il braccio e lei lo prese, improvvisamente il suo calore lo rese nervoso. Non succedeva quando stavano testa contro testa chini su un libro, o quando dividevano lo stesso sandwich.

Entrarono nell'osservatorio ammantati nel buio. L'unica luce accesa era in cima ad una serie di scale che portavano su, nella cupola dov'era montato il telescopio.

Salirono in cima e vennero accolti da un infreddolito astrologo che fu ben contento di vederli: c'era solo un'altra coppia venuta quella sera, il che doveva renderlo molto triste.

L'uomo gli fece una breve presentazione sciorinando dati storici e tecnici sulla struttura, poi gli permise di vedere il cielo attraverso il telescopio. Hojo si offrì di far andare prima Jenova e lei, ridendo, gli chiese se per caso non fosse una scusa per guardarle sotto la gonna, dal momento che doveva salire una scaletta prima di poter guardare nel telescopio.

Lui arrossì, e benedisse quella scarsa luce che lo rendeva invisibile ai suoi occhi.

Per un po' si diedero il cambio al telescopio, finché Saturno non sparì oltre l'orizzonte e non fu più possibile vederlo.

Quando Hojo scese dalla scaletta l'astrologo si scusò e andò a fare da Cicerone astrale per l'altra coppia, lasciando i due ragazzini da soli.

- Grazie per avermi portata qui. - mormorò lei, le mani dietro la schiena, il naso all'insù per guardare le stelle. - È un posto meraviglioso. -

- Figurati. - lui si poggiò sulla balaustra. Erano molto in alto, e immersi in quel buio aveva come l'impressione di poter toccare il cielo. - Non sei mai andata in un osservatorio in Russia? -

La vide abbassare il capo e corrucciare le sopracciglia. Forse non avrebbe dovuto toccare quell'argomento. Nonostante il tempo passato insieme lei non aveva mai voluto raccontargli niente di cosa faceva o come viveva nel suo paese d'origine.

- Scusa, puoi non dirmelo, non sei obbligata. - si affrettò quindi a dirle, le mani strette contro la balaustra. Aveva il terrore di averle appena rovinato la serata.

- Non mi sento obbligata. - mormorò lei, alzando la testa su Hojo e abbozzando un sorriso. - È solo che non è una cosa di cui piace parlare, la mia vita è qui adesso. - si fece più vicina, troppo vicina.

Hojo si riscoprì a guardarle il viso, le gote, le labbra. Quante volte le aveva guardate da quando erano insieme? Troppe, concluse.

Serrò la mascella mentre un formicolio pressante si faceva largo in tutto il suo corpo.

Voglio baciarla.” fu l'irrazionale, impulsivo pensiero che gli passò per la mente, perforandogliela.

Ma se lei lo avesse respinto? Se non le piaceva quanto piaceva a lui? Se avesse preferito rimanere solo amici?

Non l'avrebbe sopportato. Forse doveva solo aspettare. Era il primo appuntamento, d'altronde, ne avrebbero avuti altri, avrebbero preso confidenza del nuovo ruolo che avevano l'uno per l'altra in quella parte tutta strana della vita, e forse allora avrebbe potuto baciarla.

Non ci fu tempo per pensare ad altro, né poté ritrarsi, perché fu lei a baciarlo, così, con una manina bianca stretta intorno alla sua giacca come per non farlo scappare, e l'altra sul suo viso per accompagnarlo al proprio.

Hojo lì per lì si ritrovò senza fiato, e senza sapere come agire, poi qualcosa di atavico nel suo DNA gli disse come fare. Le cinse la vita con un braccio per tirarla a sé e ricambiò il bacio.

Si stupì di quanto fossero buone quelle labbra, di quanto fosse esaltante baciarla, e di quanto quel bacio sapesse di amore.

 

*

 

Jenova era sull'orlo delle lacrime. L'ansia e la paura le dilaniavano il cuore.

All'inizio non vi aveva dato peso, presa com'era dalla storia con Hojo, dalla scuola, dalla vita.

Per quasi un anno le era sembrato di aver vissuto in una favola. Ma negli ultimi quattro mesi le cose avevano cominciato a cambiare.

Il suo corpo aveva cominciato a cambiare.

Aveva fatto e rifatto i conti milioni di volte, aveva spulciato il calendario su cui, di solito, appuntava con cura il giorno del ciclo mestruale, per non essere colta alla sprovvista il mese successivo.

Non poteva credere di essere stata così superficiale da non accorgersi di quanto tempo fosse passato dall'ultima mestruazione.

Per quanto si impegnasse ad allontanare il pensiero, la mente tornava sempre lì, a Hojo, ai primi, goffi rapporti che avevano avuto insieme, e poi al decollo di una vita sessuale soddisfacente e nuova che aveva riempito ogni momento e ogni pensiero della sua giornata.

Con lui si divertiva, non soltanto per ciò che condividevano mentalmente, ma anche per i momenti di intimità fisica.

Le piaceva fare sesso con lui, perché con lui era amore.

Ma erano stati bravi, avevano usato il preservativo tutte le volte, tutte le volte!

Cosa poteva essere andato storto?

Rifece i calcoli ancora una volta. Le date tornavano.

Non era stato lo stress a farle saltare il ciclo, ne era sicura, così sicura e così terrorizzata da non avere il coraggio di fare il test di gravidanza.

Però l'aveva comprato. La scatola ancora intonsa stava sotto una marea di calzini in un cassetto che sua madre non andava mai a controllare.

Se avesse saputo cosa stava succedendo, se i suoi timori fossero stati fondati...

Non voleva neanche pensare a come l'avrebbero presa i suoi, perché ogni scenario era tragico. A malapena sapevano che erano fidanzati, e molto spesso mentiva su dove andava o con chi era, o non le avrebbero permesso di uscire.

Le lacrime tornarono brucianti e lei dovette premere il volto sul cuscino per evitare di urlare.

Non poteva neanche dirlo ad Hojo. Avrebbe rovinato tutto, avrebbe rovinato tutto!
Ma doveva togliersi quel dubbio, altrimenti sarebbe impazzita.

Prese un profondo respiro, si asciugò gli occhi e con mano tremante frugò nel cassetto dei calzini per prendere la scatola dei test di gravidanza.

Il panico le strinse la gola, così forte che temette di non riuscire più a respirare.

Corse alla porta della sua stanza e la chiuse a chiave. Rimase con la testa poggiata contro il legno per un lungo attimo temendo che i suoi avessero sentito lo scatto della serratura.

Se i suoi avessero scoperto che aveva combinato quell'enorme guaio non le avrebbero più permesso neanche di vederlo. Aveva appena sedici anni, come sperava di poter superare tutto quello da sola?

Che disastro, che disastro!

Quando le gambe smisero di tremare andò in bagno. Averlo in camera era stata la cosa migliore di quella casa nuova.

Si sedette sul water con la tavoletta abbassata e aprì la scatola, strappandola quasi. Lesse avidamente le istruzioni, per quanto glielo consentirono gli occhi bagnati da lacrime incessanti. Avrebbe tanto voluto che lui fosse con lei in quel momento, che le tenesse la mano e le carezzasse i capelli come faceva da quasi un anno.

Poi, lentamente, come in un sogno, si alzò, sollevò la tavoletta, abbassò i pantaloni rosa del pigiama e le mutandine con i cuoricini e si risedette con un test tra le dita che ormai tremavano senza controllo.

Era facile, doveva solo fare pipì sulla striscetta bianca e poi aspettare. Sentiva la pancia dolerle e dovette sforzarsi per due lunghi minuti prima di riuscire a urinare, le dita dei piedi intrecciate tra loro, i talloni puntellati contro le mattonelle gelide.

La punizione divina per aver perso la verginità fuori dal matrimonio, ecco cos'era. Il Dio dei suoi genitori le stava dicendo che ormai era una peccatrice e che avrebbe dovuto portare quel marchio per il resto della vita.

C'è sempre l'aborto.” le passò per la mente, fugace, mentre metteva il test bagnato sul bordo del lavandino e si tirava su slip e pantaloni.

Si tastò il ventre. Era ingrassata di qualche chilo nelle ultime settimane, non abbastanza da dover comprare vestiti nuovi, ma si era accorta di rotondità dove prima non c'erano; aveva spesso la nausea al mattino, ma passava dopo aver fatto colazione. Poteva essere a causa di una gravidanza o si stava convincendo di averne i sintomi?

Poi si immaginò più in là nel tempo, con la pancia sempre più grossa, immaginò di vedere la pelle tendersi contro i colpetti dei piedini del bambino.

Un nuovo fiotto di lacrime le ricoprì il viso. Non poteva ucciderlo, non era colpa sua se lei e Hojo avevano fatto un errore, non doveva pagare con la sua vita.

Cominciò ad essere scossa da brividi di freddo, le venne la pelle d'oca. Gli occhi corsero verso il test di gravidanza, ma non aveva il coraggio di guardarlo.

Si aggrappò alla maglietta del pigiama e se lo tirò verso il basso a coprire la pancia, il pube, la vagina. Si vergognava di essere donna, di aver abusato di quel corpo che doveva essere al servizio di Dio e Dio soltanto.

Se solo fosse stata diligente e avesse fatto come le avevano insegnato i suoi genitori...

Cinque minuti erano ormai passati, e aveva messo distanza tra sé e il test di gravidanza come se avesse potuto morderla.

Doveva controllarlo, doveva leggerlo, doveva sapere.

Si avvicinò su gambe instabili e lo prese.

Una striscia, negativo, due strisce, la sua vita sarebbe cambiata per sempre.

Una striscia, negativo, due strisce, la sua vita sarebbe cambiata per sempre.

Una striscia, negativo, due strisce, la sua vita sarebbe cambiata per sempre.

Lo poggiò nuovamente sul lavandino, poi si lasciò cadere a terra, strinse le gambe al petto, affondò il viso tra le ginocchia e pianse, pianse tutte le sue lacrime.

Due strisce.   

   
 
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