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Autore: Restart    13/02/2018    0 recensioni
2003
Sarah Habbott ha vent'anni ed è all'inizio del suo ultimo anno alla Queen Mary.
Non ha ancora deciso che lavoro fare, che vita cominciare.
Ha un'ipotetica vita da favola, ma in realtà non è tutto rose e fiori. Soprattutto quando viene a sapere che al posto della sua adorata professoressa di letteratura è arrivato uno sfigato epico, uno che va a giro in bicicletta, che ha un ridicolo accento scozzese e aspetto piuttosto insipido.
Nessuno sa il suo nome, si conosce solo come Il Professore.
Ma in lui c'è qualcosa di molto più profondo, che Sarah scoprirà man mano che il tempo passa.
Genere: Commedia, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sarah – Elton John, Your Song
«Sarah, lui è Nathan» lui allunga timidamente la mano e stringe la mia, già tesa in avanti. Mi rivolge un sorrisetto amichevole, ma nei suoi occhi leggo la paura più pura. Vorrebbe scappare. Eh, non dirlo a me.
«Bene vi faccio conoscere ancora un po’ tanto ha detto la host che per il tavolo dovremmo aspettare ancora un poco» Michael se ne va da Chris e ci lascia soli, liberi di sclerare.
«Che situazione da commedia americana» ridacchia, non riuscendo ancora a mettere completamente a fuoco la situazione. «Eri proprio l’ultima persona che potevo aspettarmi di vedere insieme a Mic». CHE COSA VUOL DIRE CON CIÒ? Non mi sta prendendo per il culo, vero?
«Scusa perché credi che non sia alla sua altezza?»  attacco inviperita, pronta a fare una scenata essenzialmente inutile, se non per il mio orgoglio ferito. Ma lui scuote la testa, continuando a mostrare quel suo sorriso bellissimo che mi ha mandato a benedire le ovaie quasi una settimana fa.
«Credo tu sia troppo bella e troppo sveglia per uno come Mic» risponde sorridente. Okay, ciccio, mettiamo in chiaro le cose. Non ti puoi permettere di sorridermi così, soprattutto col mio fidanzato vicino. Né tanto meno dire delle cose del genere. Lo prendo per il braccio e lo porto fuori, utilizzando la scusa che avevo bisogno di aria, mentre lui di fumare. Michael sembra neanche sentirmi, annuisce appena.
Quando siamo fuori dal ristorante gli rivolgo un’occhiata di fuoco. «Come ti permetti? Stai forse cercando di flirtare con me? Ti ricordo che non è successo niente domenica» lo rimbecco, cercando di strillare il meno possibile. Lui sembra confuso, ma allo stesso tempo divertito da una pazza come me che sta facendo una scenata per una cosa che probabilmente si è solo immaginata.
«Sarah, calmati, l’hai appena detto tu, domenica non è successo niente di niente. E nemmeno due minuti fa, stavo solamente sorridendo e dicendo la verità. Conosco Mic molto più di chiunque altro e non mi aspettavo qualcuno come te come fidanzata. Stop. Penso che sia molto fortunato ad averti. Sei tu che stai facendo una stupida scenata» spiega lentamente, gesticolando un poco, ma si vede che sta dicendo la verità.
«Come fai a dire che conosci Michael meglio di chiunque altro? Meglio di Chris e di me?»
«Sono cresciuto insieme a lui a Plymouth» rispose semplicemente, leccandosi le labbra screpolate. Ora, ditemi voi se non sta flirtando. Non ti lecchi le labbra in maniera sexy quando stai parlando con una donna semplicemente perché le avevi secche. No, non si fa. Un po’ di decoro, suvvia.
«Vi vedevate solo in estate e fino ai quindici anni. E poi se eri tanto importante per lui, perché non mi ha mai parlato di te?» Yes! Un punto a favore di Sarah Habbott! Nathan Wright zero. Ah – ah.
Lo vedo pure smettere sorridere, come se stesse per riaffiorare un ricordo estremamente doloroso per lui. Rimane qualche secondo di troppo a fissarsi le punte delle scarpe, come se stesse scegliendo le giuste parole per dirmi la verità.
«Non sei nessuno tu. Non devo dirti niente» sussurra alla fine, tirando su col naso. Non mi dà nemmeno il tempo di replicare che se ne va dentro il ristorante, lasciandomi lì come una stupida, con i sensi di colpa che mi mordono lo stomaco e la voglia di tagliare questa linguaccia che mi ritrovo. Rientro lentamente, col passo pesante di un condannato a morte.
«Ehi, Wendy, ci hanno dato il tavolo finalmente, dai forza, entra dentro!» Michael mi mette la mano dietro la schiena e mi accompagna alla mia sedia. Ma sento che i suoi polpastrelli sono come carboni ardenti che mi bruciano la pelle, riuscendo perfino a superare gli strati del cappotto e dell’abito. Mi nasconde una cosa da tre anni e io ne vengo a sapere solo da un suo ex-amico che poi è ritornato ad essere suo amico per chissà quale ragione. Nonostante questa sensazione terribile mi attanagli e non riesca a pensare ad altro, cerco di far buon viso a cattivo gioco. Mi siedo sorridente dalla parte opposta di Nathan, che sento rivolgermi un paio di occhiate taglienti durante la serata, ma io tento di non farci caso.
2 novembre 2003, domenica

Monto in sella alla mia bicicletta e pedalo con più forza che ho. Il freddo si è abbattuto tutto d’un colpo su Londra, non lasciando scampo ai più deboli di salute. Anche Gwen, a causa della sua età, è ferma a letto da un paio di giorni, per questo ad occuparsi della casa è papà quando non lavora. Io e mia sorella invece ci prendiamo cura di lei, come ha fatto per tanti anni lei con noi. Holly presidia la cucina, rivelandosi una cuoca niente male. Io pulisco un po’ insieme a papà, quando lo studio mi lascia degli attimi di respiro.
Michael è partito quasi due settimane fa, ma da quel venerdì sera le cose tra di noi sembrano un poco diverse. Non mi manca più come prima. C’è un moto di rabbia contro di lui represso in me, pronto ad esplodere. Lui pare essersene accorto fin dalla mattina dopo e per questo mi è stato un po’ meno vicino gli ultimi giorni. Non abbiamo parlato di quello che mi ha detto Nathan, eppure sono sicura che Michael sappia che io so qualcosa. È una logica complessa, ma spero abbiate capito.
L’unica gioia che mi è rimasta, credeteci o no, sono i pomeriggi durante i quali mi esercito con il Professore. Ci vediamo più spesso, tre volte alla settimana, ed ogni volta in un posto diverso. Oggi ad esempio, mi port- ehm, andiamo alla National Gallery.
Non è che mi abbia emozionato più di tanto questa scelta, lo devo ammettere. Ma devo ammettere anche la mia colpa di esserci stata una sola volta e di essermi annoiata a morte. Avevo quindici anni e l’unica cosa bella della Galleria, secondo me, erano i grandi divani su cui ho rischiato di fare un pisolino. Non sono mai stata una fan della pittura, nonostante sia un’amante dell’arte. Ho sempre preferito la scultura, credo che fosse semplicemente incredibile quello che riuscivano a fare gli artisti con un blocco di marmo. Non ho neanche tentato a ritornare, mea culpa, alla National Gallery, neanche per sbaglio. E invece oggi ci torno, con lui.
Devo ammettere che è una bella persona, ma questo né lo dirò a lui, né ad alta voce. Questo rimane un segreto tra noi, inteso? Ecco, patti chiari e amicizia lunga. Deve ancora credere che io provi un grande disprezzo per lui.
Arrivo a Trafalgar Square prima di quanto credessi. Non sono nemmeno le tre. E lui non c’è, non sia mai.
Lego la bicicletta alla ringhiera e mi siedo sui gradini ad aspettarlo. Che bello questo posto, che bella Londra. Certe volte, quando la osservo in silenzio, non riesco capacitarmi della sua bellezza. È sicuramente una città che diventerà senza tempo, non come New York che è in continuo cambiamento. Eppure certe volte vorrei scappare da questa gabba di nebbia opprimente.
Il vento inizia a soffiare ancor più prepotentemente, gli sbuffi sembrano uno più gelido dell’altro. Mi stringo, per quanto posso, nel mio cappotto, ma questo non pare reggere i colpi. Affondo il volto nella sciarpa e impreco contro il prof e la sua brutta abitudine di essere sempre in ritardo.
«Ohi, questa era pesante. Devo stare attento ad attraversare la strada per un po’, soprattutto se c’è una certa squilibrata in bicicletta» il suo accento scozzese arriva alle mie spalle come una ventata gelida. Merda, ha ascoltato tutto. Alzo lo sguardo e lo vedo in piedi accanto a me, con i soliti vestiti che sanno di vecchio, i soliti capelli in ordine, il solito sorrisetto dolce sulle labbra, i soliti lucenti occhi azzurri. Indossa un lungo cappotto verde che gli arriva fino alle ginocchia e attorno al collo ha la solita sciarpa in tartan. Ma questa volta non è la solita rossa e blu. Questa è verde e blu, due colori che gli stanno sicuramente meglio. Mettono in risalto il colore delle iridi e il biondo dei capelli. Per quanto possa sembrare vecchio, incrostato nella muffa, non riuscirei a vederlo con abiti più moderni. Lui è così, è la sua personalità. È bell- ehm, concentrati sul duro lavoro da fare, su Sarah! Non distrarti.
Mi porge una tazza in cartone, continuando a sorridere. «È una cioccolata calda. Ho pensato fosse l’ideale per una giornata come questa» mi spiega con calma, come fa di solito. «Andiamo lì sotto a berla. Quando abbiamo finito, entriamo» mi tende la mano per aiutarmi ad alzarmi e io lo ringrazio anche per la cioccolata.
Che vi dicevo? È proprio una bella persona e no, questa volta non mi autocensuro. Sembra arrivato dall’Ottocento, con i suoi modi composti, ordinati, la sua gentilezza infinita e la sua galanteria che ormai è rarissima.
«Hai già iniziato un po’ da sola, oppure mentre aspettavi ti sei dedicata solo all’imprecazione agonistica?» ridacchio, anche se in realtà la battuta era un po’ fiacca. Ma allora perché l’ho fatto? Se devo essere sincera, non lo so nemmeno io. Ho solo creduto che fosse la cosa più giusta da fare. No, in realtà non lo so neanche io. Sono stanca, troppo stanca in questo periodo, che mi lascio andare anche quando non voglio. Mi scolo la cioccolata più veloce che posso, nonostante sia bollente, ma io sembro non sentirne il calore.
«Wow, avevi sete, eh?» scherza, bevendo l’ultimo sorso della sua prima di buttarla. Ma io non riesco a farmi spuntare nemmeno mezzo sorriso sul volto. Sento la fronte aggrottarsi come quando sono estremamente triste.
 «Va tutto bene Sarah? Se oggi non te la senti, possiamo non fare niente, fare solamente un giro, guardare un po’ i quadri e poi dopo a prenderci un thè, eh? Che ne dici?» domanda e poi fa un gesto che non avrebbe dovuto mai fare. Mi stringe delicatamente le braccia con le sue mani e io sento una scarica elettrica partire dai suoi polpastrelli e diffondersi in tutto il mio corpo. Sembra che anche lui l’abbia sentita, perché l’espressione sul suo viso è cambiata notevolmente. Pare essere messo di fronte ad una verità che non voleva sapere. Ce ne rimaniamo un po’ così, a fissarci negli occhi e a respirare piano, con le sue dita attorno alle mie braccia. Delle nuvolette di vapore escono dalle nostre labbra, che non decidiamo a muovere per dire una singola parola.
Solo dopo interminabili secondi riesco a formare la prima frase. «Penso sia un’ottima idea». Pare sollevato dalla mia iniziativa e stacca le mani, infilandole rapidamente nelle tasche. Ma quando fa ciò sento nuovamente il mondo esterno ancora più fastidioso e martellante di prima di quel contatto. Era come se fossimo entrati in un batuffolo d’ovatta che, oltre a proteggerci dall’esterno, ci faceva solamente sentire i nostri respiri e i battiti nel nostro cuore farsi sempre più insistenti, più rumorosi. Anche a distanza di anni, non riesco ad esprimere al meglio quello che ho provato in quei lunghissimi minuti. L’unica cosa che so, è che questo ricordo mi scalda il cuore, mi fa stare bene.
Quel pomeriggio facciamo come lui aveva suggerito. Facciamo un giro dentro la Galleria e grazie alle sue spiegazioni riesco a rivalutarla enormemente. Ci fermiamo davanti a Lo Stagno delle Ninfee di Monet e io rimango ferma, in estasi e non riesco a capire perché. Questo quadro mi tranquillizza in maniera sorprendente. Improvvisamente tutte le ansie, tutti gli stress di questi giorni si volatilizzano. Non sento nemmeno la voce del prof che spiega ogni singolo dettaglio. Siamo solo io e i colpi di pennello dell’artista francese. Per un secondo mi sembra d’essere una di quelle meravigliose dame francesi mentre passeggiano vicino a quel piccolo stagno. Mi sembra quasi di sentire i suoi della natura.
Anche il prof ha smesso di parlare. Si è seduto ancor più vicino a me e adesso le nostre braccia si sfiorano e posso percepire nuovamente quella scossa che si dirama in tutto il corpo. Mi sento bene, lo devo ammettere. Sto bene.
Mi trovo a sorridere, anche se non vorrei.
Non è giusto, non va bene. Tutta questa situazione non va bene. Dovrei sorridere per un messaggio di Michael, per la sua cartolina di Boston, non perché il mio professore di Letteratura si è seduto accanto a me, perché mi ha stretto la mano mentre mi aiutava ad alzarmi, perché mi ha comprato la cioccolata calda. E poi lui è il mio professore, con almeno quindici anni più di me, sposato, magari con anche dei figli. Dov’è finito tutto il mio odio per lui? Eh? Mi sono bastate solo qualche uscita pomeridiana, qualche esercizio per farle volatilizzare? Erano così futili? Forse sì, ma comunque, sono così facilmente suggestionabile? Perdo la testa per qualunque uomo che mi dedichi un minimo di attenzioni? Da quando sono diventata così? Da quando Mike non è più così fondamentale per me? Ma soprattutto, da quanto cavolo di tempo sto toccando la sua mano? Aiuto! Panico! Cosa, quando è successo? Perché lui non ha reagito? Perché non ha detto nulla? Che provi le mie stesse contrastanti emozioni? Okay, calma Sarah, stai calma. Ora te lentamente la togli e poi proponi di andarvene da questo posto, da questo quadro malefico che ti fa impazzire. O forse sei già pazza, visto questi tormenti interiori che neanche Hamlet nelle giornate peggiori. Tu sei un essere o non essere vivente. Ti fa un baffo il soliloquio shakespeariano.
Così, tormentata dalla pazza me interiore, una terribile ghostwriter, faccio scivolare la mia mano dalla sua e mi alzo in piedi, più veloce che posso. Lui sembra sconcertato da questo mio gesto così repentino, ma soprattutto dal fatto che abbia scostato la mia mano dalla annullato questo nostro contatto. Si guarda il palmo per qualche istante, forse per riuscire a mettere a fuoco la situazione, e poi si alza anche lui.
«Andiamo a berci un buon thè» dice, quell’espressione ferita che prima era brevemente apparsa sul suo volto è stata sostituita dal suo solito sorriso gentile e accomodante, che all’inizio mi infastidiva tanto.
Il resto del pomeriggio non è niente di speciale. Parliamo tanto, tantissimo, ma i nostri argomenti sono strettamente legati alla letteratura, all’arte. Evitiamo di parlare di noi, delle nostre vite. Abbiamo paura che possa essere qualcosa che non può essere, ovvero un appuntamento.
Me ne torno a casa più leggera e spensierata di quando sono partita, circa tre ore fa. Non riesco ad andare in bicicletta perché è troppo freddo così mi faccio tutto il tratto in metro. Quando arrivo in casa trovo Gwen e mio padre davanti alla tv. Li saluto con un veloce ciao e mi fiondo a fare la doccia.
 
   
 
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