Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: Koa__    13/02/2018    7 recensioni
Sherlock Holmes, eccentrico e severo professore di chimica a Oxford, vive la sua vita tra aule, laboratori e violino. Un'esistenza solitaria, senza amici, né amori. Un giorno, però, nella sua routine entra con prepotenza John Watson, un medico ex militare giunto da poco a Oxford in veste di professore.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mike Stamford, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Strauss, Voci di primavera
 


 
Villa Stamford era, a conti fatti, la più bella abitazione che Sherlock Holmes avesse mai visto in vita propria. Sempre che potesse esser paragonata a una semplice casa, dato che somigliava più a una reggia. E non che solitamente badasse a frivolezze del genere, eppure fu proprio la meraviglia la prima impressione che ebbe una volta sceso dall’auto che lo aveva portato fin lì. Si trattava di un palazzotto di tipo georgiano, sviluppato su tre piani, e circondato da un parco che doveva essere grande quanto tutti i giardini di Kensington. * Era sapientemente stata situata tra Oxford e Londra, ai margini più a nord delle Chiltern Hills ** e si estendeva su un terreno sul quale si stagliavano ettari di prati e giardini, ora spogliati dal tardo autunno. In estate doveva essere splendido, si ritrovò a riflettere mentre percorreva il tragitto che conduceva all’ingresso. Non si era mai interessato alla vita privata di Mike e nemmeno si era domandato dove abitasse; avrebbe forse dovuto? Aveva semplicemente conosciuto sua moglie Candice qualche mese prima, per via di una sfortunata (almeno per lui) coincidenza. Sedeva a un tavolino del locale gestito da Mrs Hudson e sua sorella, era solo e sorseggiava un delizioso tè al caramello, quando lo scampanellio della porta aveva attirato la sua attenzione. Era successo allora, se li era trovati di fronte sorridenti e a braccetto. Oggettivamente eleganti nel loro abbigliamento sobrio, ma di classe. In quel tardo pomeriggio d’inizio estate, la felice coppia lo aveva riconosciuto immediatamente e non avevano esitato dall’avvicinarsi per poi ammorbarlo con alcune delle più svariate stupidaggini. Infine avevano fatto i complimenti a Mrs Hudson per quei deliziosi biscotti al cioccolato e soltanto allora, Sherlock aveva suonato per loro un Bach improvvisato. Ma unicamente per il desiderio di farli tacere. Non ricordava davvero molto di quanto avesse dedotto della loro vita coniugale, ma che Mike avesse un matrimonio quieto che procedeva da quasi vent’anni, non era sicuramente una novità. Così come non lo era la famiglia benestante e i due figli adolescenti, i due cani a pelo lungo che possedeva e due o tre gatti. Oltre a questo, pochi e altri noiosi dettagli che si era preoccupato subito di cancellare dal palazzo mentale, ritenendoli come poco importanti. Nei mesi successivi avevano più volte tentato di invitarlo a cena, a quanto pareva Candice teneva tanto a che suonasse di nuovo per lei, ma Sherlock aveva sempre declinato con un no piuttosto secco, dicendo di aver di meglio da fare. Cosa peraltro vera. Quella, dunque, era la prima volta che si sincerava di quanto schifosamente ricca potesse essere quella coppia di noiosi. Grande, imperiosa e con dei giochi di luce che illuminavano sapientemente la facciata, Villa Stamford era una vera e propria meraviglia. Impressionante già da quel lungo stradone alberato che aveva percorso in auto da dopo il cancello e quindi oltre, su sino ad arrivare in cima alla collinetta ripida. Sherlock non era quel tipo di persona che amava concedere a se stesso troppi lussi, e ancor meno permetteva agli altri di godere di quanto avrebbe potuto lasciar trapelare da sotto la maschera che portava. Sentimenti, emozioni… ne provava, ma appartenevano a lui soltanto. Nessuno avrebbe mai avuto l’onore di guardarlo per ciò che era veramente. Lo stupore o il venir contraddetto, non erano cose che gli accadevano tutti i giorni, al punto che a lungo aveva escluso la possibilità che potesse anche sbagliarsi. Non c’era persona, oggetto o fatto accaduto che potesse davvero sorprenderlo. Almeno così era stato, già perché di recente, per colpa di John Watson era stato costretto a rivalutare buona parte delle proprie convinzioni. A peggiorare una precaria stabilità mentale, ora ci si metteva persino Mike e la sua stupida casa. Non seppe dire di cosa fu il merito, se della solitudine nella quale imperava anche quando era circondato da altre persone o magari del fatto che nessuno badava a lui, ma quella sera e di fronte a Villa Stamford, si permise d’esser stupito. E di scendere dal taxi con un’espressione in viso che lasciava trasparire tutta la sua incredulità. Accadde quindi che si ritrovò ai piedi di un’ampia scalinata, a guardare all’insù con una stupidissima faccia da beota. Attorno a lui, il fastidioso chiacchiericcio degli ospiti e un valzer di Strauss che fuoriusciva dalla porta a vetri tenuta aperta. Dentro di lui, solo il cuore che batteva forte e il cui pulsare rimbombava ovunque in quel caotico palazzo mentale.

Erano da poco passate le nove e il parco di auto e taxi che affollava il giardino appena avanti l’ingresso, era nulla se paragonato all’andirivieni di uomini in abito scuro e signore impellicciate che sfilavano neanche fossero regine o principesse. Senza trattenere una smorfia di disgusto per l’umanità dentro la quale s’era volontariamente infilato, Sherlock iniziò seriamente a chiedersi che cosa diavolo ci facesse in un posto simile. Perché aveva deciso di dar retta a Mrs MacGill e alle sue sciocche idee sulle feste danzanti? Solo per la speranza di poterlo fare con John? Era ridicolo anche il semplice teorizzare che una cosa simile potesse accadere; non avrebbe ballato con nessuno e questo era un dato di fatto. Perché così aveva deciso! Ora doveva soltanto concentrarsi e riacquistare un minimo di controllo, magari riprendere a respirare e tentare di domare il battito impazzito del cuore. C’era solo da camminare e da mettere lentamente un passo avanti all’altro. Neanche si preoccupò di chiedersi che cosa stessero pensando gli altri e quale espressione dimorasse sul suo viso, come aveva previsto nessuno si curava della sua presenza. Addirittura, coloro che lo riconoscevano acceleravano il passo per dirigersi da un’altra parte oppure deviavano lo sguardo, facendo finta di nulla. La fama prima di tutto, si disse facendo loro un mentale inchino e stirando al contempo un sorriso amaro. Li odiava, ognuno di loro. Ma preferiva sempre il poter scegliere chi ignorare e chi invece no. Trovarsi faccia a faccia con muri alti quanto quell’intero palazzo, gli spezzava sempre un po’ il cuore. E a peggiorare le cose c’era il fatto che gli Stamford dovevano aver invitato tutta l’Inghilterra, di certo l’intera Oxford. Aveva riconosciuto una qualche faccia nota e specialmente tra coloro che frequentavano l’università, ma dato che sapeva per certo che nessuno aveva intenzione d’intrattenere una conversazione con lui, preferì tenere gli occhi a terra e levarsi da lì. Avrebbe salutato la coppia felice, suonato quel che doveva e dopo se ne sarebbe andato. Non avrebbe ballato, si ripeté e soprattutto non avrebbe cercato John Watson con lo sguardo come già stava facendo.
“Dannazione!” imprecò mentalmente, dandosi dell’idiota. No, non avrebbe ballato con nessuno e mai e per alcuna ragione lo avrebbe domandato a John. John del quale sperava di scorgere il volto tra la folla, sussultando le volte in cui intravedeva una chioma bionda. John che gli strappava il cuore dal petto nel suo non esser mai lui. John di cui sperava di poter sentire di nuovo il profumo. John che non gli aveva ancora sorriso in quel suo modo così unico, diverso da quello che riservava alle altre persone. John, al cui pensarci gli si torceva lo stomaco di un sentimento indefinito, di certo spaventoso. Pauroso. Stupendamente orrendo. Un'emozione che non lo lasciava, ma anzi scorreva sotto la pelle e gli serpeggiava nelle ossa. E se per caso glielo avesse domandato John, di fare un giro di valzer? Probabilmente non sarebbe nemmeno riuscito a mettere un piede avanti all’altro, né ad articolare una risposta che fosse grammaticalmente corretta. No, niente balli. Mai e con nessuno. Non lui. Lui era Sherlock Holmes. Ecco forse avrebbe concesso a se stesso un bicchierino; non avevano forse accennato a un buffet? La più logica deduzione da fare era che, se c’era del cibo, c’erano per forza anche degli alcolici e aveva stranamente voglia di qualcosa di forte. Ubriacarsi pareva essere l’unico modo per riuscire a sopravvivere a un simile inferno. Fu esattamente con un simile pensiero per la mente a stirargli un ghigno ironico, che oltrepassò la soglia dell’ingresso. Un respiro pesante rilasciato mentre si ritrovava a stringere con più forza la custodia con dentro il violino. Lo stomaco perduto in uno sfarfallio deflagrante al pari di una bomba. Indossare una maschera d’indifferenza non fu mai tanto difficile.

«Sherlock Holmes» enunciò, porgendo a colui il quale poteva anche essere il maggiordomo, il proprio invito.
«Ma certamente, Mr Holmes. Ho ricevuto precise istruzioni di occuparmi del suo violino, se me lo permette. Mrs Stamford si è molto raccomandata che ne avessi cura e che glielo facessi avere per quando deciderà di esibirsi.»
«Si tratta di uno Stradivari» gli rispose con un tono secco, quasi privo di una qualsiasi emozione, mentre si levava cappotto e sciarpa. Aveva deciso di saltare ogni formalismo. Quel maggiordomo aveva ormai una certa età e negli occhi dimorava lo sguardo furbo e spiccio di chi sa già perfettamente come funzionano certe cose. E lui che da sempre odiava i salamelecchi inutili, era quasi sicuro che quel tale gli somigliasse almeno un po’.
«Occorre trattarlo con la massima attenzione. Niente colpi, né scossoni e che nessuno apra la custodia o tocchi il violino.»
«Sarà fatto» annuì questi prima di indicargli, con un elegante cenno della mano, la parte della casa dove si stava tenendo il ballo. Stava lì, appena sulla destra del corridoio. Da una porta tenuta aperta si riusciva a intravvedere il salone, dal quale fuoriusciva una musica invitante. Vita d’artista, si disse riconoscendo immediatamente il brano di Strauss. «I signori la attendono» sentì dire dal maggiordomo, prima che questi sparisse dietro a una porta, lasciandolo vagamente inquieto. Non amava il sapere con certezza che il suo prezioso Stradivari era in mani che non fossero le proprie. Si fidava già poco delle persone per quanto riguardava la vita quotidiana, figurarsi se riusciva a restare tranquillo di fronte alla certezza che il suo “migliore amico” (come ormai definiva il suo violino) potesse venir affidato a persone che non ne conoscevano il reale valore. Uno di un tipo sentimentale, naturalmente e non di certo meramente economico. Tuttavia, invece che indugiare nel pensiero che potesse succedere qualcosa di terrificante, preferì scuotere la testa e proseguire. Dopo, fu subito musica.

La sala da ballo era imponente. Lasciando da parte, per sanità mentale, l’attenta osservazione di soffitti decorati e fregi di varia natura, non si poteva dire che fosse un brutto posto. Non riusciva a trovare un altro termine per descriverla, se non bellissima. Era a dir poco sbalordito da quella lunga serie di finestroni a mo’ di porta che si affacciavano sul giardino, per non parlare della balconata che s’apriva su quello che pareva essere un labirinto di siepi e che avrebbe adorato il visitare. Ma non era tutto, ovviamente no. Già perché, sul fondo ovvero dall’altra parte rispetto all’entrata, c’era una piccola orchestra che suonava. Niente di eccessivamente importante, però aveva elementi sufficienti ad affrescare la festa di buona musica. Infine vi era il centro, occupato da impacciati ballerini intenti a cimentarsi per un giro di valzer. Chi per divertimento e chi, al contrario, per il semplice gusto di mettersi in mostra. Di nuovo e senza che lo desiderasse per davvero, i suoi occhi vagarono sulla folla presente. C’erano così tanti dettagli da annotare, da diventar matto. Troppi particolari da catalogare. Reazioni da studiare. Deduzioni da stilare che il suo cervello immagazzinava e quindi cestinava immediatamente. C’erano persone, tradimenti, matrimoni felici. Un figlio segreto. E poi amanti, amanti ovunque. Menzogne e bugie d’ogni tipo. Belle facce sorridenti dipinte su invidie e gelosie, malignità celate da parole dabbene. Era forse quella la gente a cui avrebbe dovuto esser più simile? Se la normalità era da ritenersi come un mucchio di parole fasulle da non smascherare per buon dovere civile, beh, Sherlock non aveva alcuna voglia di somigliarvi. Preferiva essere lo stronzo asociale che tutti detestavano, almeno era onesto con se stesso e non mentiva, non lo faceva mai e mai lo avrebbe fatto. Sì, probabilmente se fosse stato in condizioni migliori avrebbe ritenuto interessante l’enorme quantità di materiale da valutare. Ce n’era sicuramente per un mese intero di analisi e deduzioni, e almeno tre o quattro casi interessanti a cui lavorare. Ma non vi voleva fare troppo caso. La sua mente era oberata da un’unica terrificante verità: di John Watson non c’era ancora nessuna traccia. E se avesse cambiato idea? Se avesse deciso all’ultimo di non venire? Ma certo che non era venuto, ovvio. Si sentiva così stupido ad averci sperato, che per un istante temette seriamente d’essere arrossito sull’intero viso. Inaspettatamente, poi, qualcuno venne a salvarlo da se stesso e da una fuga colossale.

«Sherlock!» La voce di Mike Stamford lo scosse con prepotenza, strappandolo via dalla minuziosa opera di osservazione alla quale s’era lasciato andare. Si era letteralmente trasportato altrove, viaggiando a una velocità che anima viva sarebbe mai riuscito realmente a capire e lo aveva fatto in mezzo a tanta gente. In verità avrebbe voluto restare per sempre immerso in quelle riflessioni, non sentirsi più in dovere di parlare con qualcuno e volare nell’infinta leggerezza del suo palazzo mentale. Là sarebbe stato libero. Eppure quelle voci, e la musica, e il pensiero martellante di John che inondava ogni cosa, erano un richiamo troppo forte. Si risvegliò con un sussulto, sbatté le palpebre una o due volte e fu allora che li vide. Candice, agghindata in un abito scuro. Sobrio ma elegante e con un gioiello non troppo vistoso che le ornava il collo. Era obiettivamente una bella donna, si ritrovò a osservare. E con quella cascata di capelli neri, tenuti fermi da una crocchia di gusto vagamente retrò sopra la testa, pareva una Lady d’altra epoca. Al braccio, naturalmente c’era suo marito, il quale ora lo stava salutando con un gran sorriso.
«Sherlock, ma che piacere che ci ha fatto a venire» se ne uscì Candice una volta che lo ebbe raggiunto. Aveva allargato appena le braccia e ora sembrava volesse stringerlo in una maniera quasi materna. Ecco qual era un mistero degno d’essere risolto, dopo tanto tempo ancora non si capacitava del suo piacere tanto alla moglie di Mike. Com’era possibile? In genere le donne le teneva a distanza dato che riusciva sempre a farle arrabbiare, il che avveniva quando le offendeva (anche se non sapeva dire con precisione come ci riuscisse). Alla regola facevano eccezione Mrs Hudson e Mrs MacGill, ma erano praticamente delle zie e non contavano per davvero. Stranamente, però, a quella Candice riusciva a piacere in maniera sincera. Per un frangente si domandò se dietro espressioni così paciose e onestamente interessate alla sua esistenza, non si nascondessero due spietati serial killer. Due che lo abbordavano con modi gentili, salvo poi sparargli con un colpo di rivoltella o stenderlo con una badilata in testa, magari dando la colpa al giardiniere. Probabilmente aveva letto troppi gialli, pensò sorridendo. E proprio quel sorriso venne recepito come un invito ad abbracciarlo, già perché subito dopo Mrs Stamford lo stringeva al petto e rideva felice.

Qui però occorreva essere sinceri, a Sherlock non piaceva troppo farsi toccare. Al contrario aveva sempre considerato baci e abbracci come una violazione del suo spazio personale, e in quel momento avrebbe proprio voluto fuggire. Eppure non si mosse e, non appena lei lo ebbe lasciato libero, si esibì in un lieve inchino. Uno quasi impercettibile, a cui seguì un baciamano degno di un qualsiasi altro gentiluomo.
«Mrs Stamford, Mike» mormorò, rivolgendosi a entrambi «i miei auguri per il vostro anniversario e le mie congratulazioni: avete una casa magnifica e la festa è altrettanto stupefacente.» Era strano, pensò di se stesso mentre irrigidiva la postura. Non era mai accomodante. Mal tollerava chiunque lì dentro e avrebbe certamente passato volentieri la serata a zittire ogni idiota gli si palesasse di fronte, ciononostante era come se i veleni che avrebbe tanto voluto sputare fuori, gli si fossero fermati in gola e non ne volessero sapere di uscire. Aveva l’impressione che a una buona parte di sé sarebbe spiaciuto veder deluse le aspettative di Candice e Mike. Erano di sicuro meno intelligenti di quanto fosse umanamente accettabile, ma erano persone carine e Sherlock non se la sentiva di essere bruscamente sincero, né troppo onesto. Quella era la prima volta, in effetti mai si era ritrovato immerso in pensieri del genere. Che stesse diventando umano? O che, peggio, vagamente simile a quella gente? Sì, ma quand’era successo e come mai proprio adesso? Perché con gli Stamford? E se fosse stato per la medesima ragione per cui ancora adesso e, nonostante tutto, cercava John Watson tra la folla? Avrebbe dovuto esser onesto, però a rispondere aveva quasi paura.

«Oh, ma quant’è gentile! Non trovi anche tu che sia gentile, caro?» se ne uscì Candice, rivolgendosi al marito, il quale si limitò ad annuire vistosamente. «Ad ogni modo, mi auguro abbia portato con sé il suo bel violino.»
«L’ho dato all’uomo in livrea che stava alla porta.»
«Allora può star tranquillo, avevo detto io a Geoffrey di aspettarla.» Sherlock fu sinceramente sorpreso da una simile affermazione; quella donna era riuscita a percepire la sua agitazione? L’ansia che provava? Impossibile perché, per quanto scombussolato ancora fosse, dubitava che gli si leggessero le emozioni tanto chiaramente. Così come non credeva che fosse acuta al punto da comprendere che, il dar via a quel modo un caro amico, equivaleva per lui a una sorta di privazione fisica. Più probabilmente, pensò infine e concludendo il ragionamento, si trattava solo di convenevoli. Era quello che la gente faceva, giusto?
«Grazie per la rassicurazione.»
«Però, Sherlock, devo farle una confessione. Io muoio dalla curiosità, mi dice cosa suonerà?»
«Preferisco farle una sorpresa e sono certo che sarà più che gradita» le rispose invece, sorridendole apertamente e forse con un pelino di falsità. Una bugia che non era di un tipo malevolo, non aveva in sé alcuna cattiveria. «Adesso, se permettete, mi piacerebbe lanciarmi sul buffet. Buon proseguimento.» No, la scomoda verità sulla quale prese a rimuginare nei minuti successivi, era che non ci aveva pensato affatto. Aveva semplicemente portato con sé il violino, senza riflettere troppo sul brano da suonare. Non lo aveva ritenuto un dettaglio così tanto importante da meritare la sua concentrazione. In quel momento e mentre indietreggiava sparendo tra la folla, comprese che non aveva la minima idea di che cosa fare. Sì, avrebbe potuto fregarsene e fuggire via. Andarsene come voleva fare dal primo istante in cui aveva messo piede in quella casa, eppure per una strana ragione sentiva di non voler deludere Candice Stamford. La sua gentilezza sincera, il suo sorridergli e il non dare per scontato che fosse un mostro senza cuore solamente perché era ciò che tutti dicevano di Mr Holmes, gliela facevano trovare piuttosto simpatica. Sherlock non era un uomo che si preoccupava spesso delle altre persone e di come farle felici, non aveva mai avuto alcun obbligo emotivo verso nessuno e magari quella sarebbe stata la prima e ultima volta che ci pensava, ma non ebbe cuore di deluderla. Per il resto della serata, l’algido e severo professore di chimica, colui che tutti trovavano antipatico e distante, ad altro non pensò che a Mrs Stamford e alla musica più adatta a lei.
 

Aveva appena finito di mandar giù il secondo bicchiere di champagne, sorseggiato dopo aver divorato tre o quattro tartine al salmone con una voracità che raramente gli apparteneva, ed era tutto preso a osservare il centro della sala con un fare adorante in viso. Tanta scrupolosa attenzione non era merito dei pessimi ballerini che l’affollavano, ma nasceva dall’invidia che lo divorava dentro. La realtà? Adorava ballare, fin da bambino quando si metteva sui piedi di Mycroft e pretendeva di poter condurre o di riuscire anche solo a insegnargli qualcosa delle lezioni di classica che prendeva. Amava muoversi a ritmo con la musica, il sentirla dentro e percepire come il corpo reagiva ai dettami della mente. Era talmente innamorato della danza, che assai spesso si ritrovava a volteggiare da solo nel soggiorno di casa, del tutto incurante di non avere alcun compagno. Ma quella era tutta un’altra faccenda, una piuttosto imbarazzante in effetti. In quegli attimi si disse semplicemente che, esser lì e non approfittarne, era un enorme spreco. Specie se si considerava che erano già le dieci passate e che da una buona mezzora non si muoveva dall’angolino seminascosto che era riuscito a ritagliarsi. Triste e solo, decisamente furioso nel suo non aver ancora intravisto John Watson da nessuna parte. Il che significava che i suoi timori erano fondati: non era venuto. Cosa faceva ancora lì? Chiese nuovamente a se stesso. Poteva salire su un taxi e tornarsene a casa, almeno avrebbe tentato di farsi passare quel cupo nervosismo che gli corrucciava lo sguardo e divorava lo stomaco. Se fosse scappato a ben pochi sarebbe importato, nessuno lo considerava o gradiva la sua presenza. Da quando era arrivato aveva a stento aperto bocca. Anche adesso molti lo fissavano, pur tenendosi a debita distanza. Alcuni deviavano subito lo sguardo mentre altri parlottavano alle sue spalle, ridacchiavano e infine lo indicavano. Si sentiva così stupido e umiliato… terribilmente inadatto a qualsiasi tipo di rapporto umano. Stava per ripetersi, per un’ennesima volta, di prendere la porta levarsi di torno, quando riuscì in qualche maniera a convincersi che non poteva sparire senza aver fatto almeno un passo o due. Non seppe mai dire se la colpa fosse da addebitarsi al vino che aveva in corpo, oppure se era di quel Sangue viennese che riecheggiava per l’intero salone e che sembrava essergli entrato dentro. Caricato di una nuova determinazione, avvicinò l’unica persona con la quale avrebbe potuto azzardarsi a tanto. Poco lontano da dove s’era fermato, infatti, Candice Stamford teneva al braccio il marito e chiacchierava amabilmente con una coppia non conosceva e di cui avrebbe senz’altro dimenticato fattezze e dettagli di lì a poco. Desiderava chiederle di ballare e non perché fosse come John Watson (nessuno lo era), ma perché sembrava una buona alternativa. La riteneva la persona più adatta con la quale lanciarsi in mezzo alla sala e senza doversi preoccupare d’apparire inumano ai suoi occhi. Era la scelta ideale, ed era quasi emozionato all’idea.

Naturalmente niente andò come aveva previsto. Perché quella che aveva creduto essere una semplice coppia, era in realtà un gruppetto di persone tra le quali c’era proprio John Watson. Lo stesso John Watson a cui pensava da giorni, per il quale aveva suonato (eccitandosi) e che aveva per l’intera serata cercato tra la folla. John con smoking e bastone, su cui appoggiava gran parte del peso del corpo, e che adesso lo stava guardando con un’espressione che pareva esser pregna di stupore. Una sorpresa non di un tipo gradevole. Di questo tuttavia non poteva dirsene sicuro, quell’uomo restava indecifrabile su troppi fronti. Ad ogni modo, lo vide balbettare il suo cognome malamente prima di abbassare lo sguardo a terra. Perfetto. Iniziava bene. Neanche tollerava la sua vista, e lui che sperava in chissà che cosa.
«Sherlock» se ne uscì un provvidenziale Mike, spezzando imbarazzi e indugi e prodigandosi in tutti quei riti sociali che tanto erano detestabili. «Ti presento Mr e Mrs Barnes, il loro amico, Mr Hunt e poi c’è il nostro John Watson, naturalmente. Signori, il professor Sherlock Holmes.»
«Holmes? Quell’Holmes?» trillò Mrs Barnes, con fare entusiasta prima che il marito riuscisse a interromperla.
«Ho sentito molto parlare di lei» intervenne per l’appunto Mr Barnes, facendo tintinnare il bicchiere di scotch che teneva tra le mani. Si trattava di un uomo sulla sessantina, magro e abbastanza alto. Aveva un naso adunco e in viso portava un’espressione fintamente arcigna, seppellita dietro a un paio di folti baffi scuri. Sua moglie invece pareva leggermente più giovane, aveva un abito vistoso e gioielli importanti. Il volto paffuto era abbellito da guanciotte rosee e da un ampio sorriso che, ora, rivolgeva proprio a lui.
«Proprio qualche giorno fa io e mia moglie discutevamo delle stupefacenti vicende che la riguardano. Stimato professore di Oxford e da qualche tempo a questa parte anche detective, a quanto pare. Un paio di mesi fa ricordo di aver letto un articolo sullo Strand Magazine che raccontava di quel ladro mascherato, mentre la settimana scorsa, il Times riportava fedelmente in quale brillante modo ha contribuito a far arrestare un pericoloso criminale. Il tutto grazie a un’analisi chimica sulla suola di un paio di vecchie scarpe. Stupefacente.»
«Erano stivali» lo corresse Mrs Barnes, la quale non aveva sedato l’emozione e pareva ben decisa a intervenire di prepotenza nella conversazione, al punto da frapporsi fisicamente tra lui e il marito. «Sherlock, caro ragazzo. Posso chiamarla Sherlock, non è vero? Beh, ma certo che sì, in fondo potrebbe essere mio figlio! D’altronde è così giovane… Oh, ma insomma dicevo, lei è eccezionale. Sono una sua grande ammiratrice, tutte quelle avventure e i misteri affascinanti che risolve. Ah, deve avere una vita per nulla noiosa.» Avrebbe tanto voluto farle sapere che per la maggior parte del tempo che trascorreva fuori dal laboratorio, aveva l’impressione che il suo cervello marcisse per colpa del niente da fare. E che temeva che un giorno ci sarebbe morto, di noia. Così come avrebbe desiderato tanto dirle che non era per nulla un detective, e che i casi che aveva contribuito a svelare avevano a che fare con un certo ispettore di Londra, che altri non era che il giocattolo sessuale di suo fratello. Eppure tacque e non per buona creanza nei confronti dei primi e unici fan che avesse mai incontrato, ma perché a frapporsi nelle intenzioni che aveva di reagire con supponenza, fu proprio John. Un John che, a quanto pareva, aveva il potere di farlo tacere.
«Non è la prima volta che sento storie di questo genere, collabora spesso con Scotland Yard?» gli domandò. Inaspettatamente aveva mutato espressione, non sembrava più infastidito dalla sua presenza quanto sinceramente interessato a ciò aveva da dire. In effetti chiunque pareva esserlo, il che era una stravagante novità. Solitamente evitava la gente proprio perché sapeva quanto desse loro fastidio, rimare in disparte era meglio che leggere l’odio sul volto degli altri. Tuttavia lì e in quel momento, doveva star avvenendo una sorta di miracolo. Non seppe dire se fossero tutti sinceri o meno, quel dannatissimo soldato Watson stordiva ogni cosa dentro lui e il suo cervello era un caotico grumo d’informazioni mal classificate. Però il sorriso che gli nacque sul volto e che andò a tendergli le labbra, era sincero e non aveva nulla di malizioso. Fu semplicemente una reazione spontanea, nata dall’appagamento d’esser capito. E stimato. Un qualcosa che non aveva mai sperimentato prima d’allora e che gli ingigantiva ego e orgoglio in una maniera stupefacente.
«Solo quando so di potermi rendere utile» replicò, ghignando un poco «e sembra che la polizia londinese brancoli spesso nel buio. In questo caso specifico, l’omicida aveva avuto la pessima idea di fuggire dalla città e rifugiarsi in campagna, sperando che questo potesse scagionarlo. Purtroppo per lui, la chimica non mente. Tuttavia, non ritengo me stesso un detective. Sono un chimico che dà una mano quando necessario.»

«Io credo sia fantastico.»

Quell’affermazione era uscita dalle labbra di John Watson con una foga mal trattenuta che Mrs Barnes aveva inconsciamente avallato. Lei che adesso andava snocciolando una lunga sequela di fatti relativi alla cattura del suddetto assassino (Perché il Times l'aveva riportato fedelmente), riusciva ugualmente a non esser troppo fastidiosa. Anche se teneva la voce elevata e gesticolava in maniera eccessiva, coinvolgendo persino il silente Mr Hunt nella conversazione, Sherlock riusciva a non sentirla. Quel “fantastico” lo aveva pronunciato John, ed era successo per davvero. Nel senso che era reale e non il frutto di quella sua fervida immaginazione, che rendeva palpabili le illusioni che si creava. Era tutto dannatamente vero. I suoi sensi acuti avevano riconosciuto la voce e l’intonazione della frase, detta con sincerità e carica di un’inspiegabile bellezza. Ciononostante, per interi minuti stentò a credere alle proprie orecchie. Gli aveva già sentito dire qualcosa di simile, il giorno in cui aveva suonato per lui, in università, ma credeva che fosse da addebitare al brano che aveva suonato. E che “fantastico” fosse merito Vivaldi. Non pensava gli si potesse dire un qualcosa del genere con così tanta onestà. Perché la vedeva, la meraviglia c’era per davvero in quei suoi occhi blu spalancati e aperti a guardarlo. Occhi che s’abbassarono solo poco più tardi, probabilmente tradendo un certo imbarazzo. Occhi, che facevano galoppare il cuore di Sherlock Holmes di un’incontrollabile emozione. Per un frangente temette sinceramente di non farcela a reggere, e che avrebbe finito con lo scappare di lì a gambe levate. Si sentiva come stretto da una morsa, non riusciva a distogliere lo sguardo da John, ma neanche a concentrarsi a sufficienza da riuscire a fare qualche deduzione. Stava semplicemente fermo a fissarlo. Come un idiota. Inaspettatamente, a levare tutti quanti dall’impaccio, un provvidenziale Mike Stamford s’infilò nella discussione. Mai tanto puntuale. Mai tanto acuto nel capire di dover fare qualcosa.

«Sherlock» tossicchiò, tentando di riportare l’attenzione dei presenti su un discorso concreto «poco fa stavamo parlando di questi magnifici valzer che l’orchestra sta suonando e di quanto poco i nostri fisici reggano allo sforzo. Se non ricordo male tu sei un eccellente ballerino.» Cos’era meglio che dicesse? Cielo, non ne aveva idea. Doveva forse mentire? No, era escluso. Per quanto l’affermazione di John ancora gli riecheggiasse per la mente, sconvolgendogli ogni stanza del palazzo mentale, non era così tanto stordito. Amava ballare e non credeva ci fosse qualcosa di cui vergognarsi.
«Sì, da bambino ho preso anche delle lezioni di danza classica. Tuttora mi piace ballare, purtroppo non ho mai tante occasioni» ammise, arrossendo un poco sulle guance adesso tinte di un lieve porpora mentre abbassava anche lui gli occhi a terra. Era meglio evitare di guardarlo, non voleva fare di nuovo una pessima figura.
«Ma questo è perfetto» se ne uscì Candice, trillando felice «stavamo giusto cercando di convincere John a buttarsi nella mischia, ma dice di non esser proprio capace e chi meglio di lei potrebbe insegnargli il valzer?»
«Io non…»
«Candice» borbottò John a denti stretti, evidentemente in imbarazzo. Stava stringendo le labbra in un accenno di sorriso, il disappunto era evidente in lui così come il fastidio. Ecco avuta la sua risposta, pensò. Non voleva ballare con lui. Però avrebbe accettato comunque per non dare un dispiacere a Mrs Stamford, John aveva sempre troppo cuore. Sarebbe stato saggio rifiutarsi di proseguire oltre e distaccarsi da tutto quel delirio di emozioni, magari sparire da un attimo all’altro. Stranamente preferì agire in altra maniera. Una del tutto illogica e priva di alcun senso. Forse sarebbe stata la sua unica occasione. Anzi, lo sarebbe stata di certo. Doveva approfittarsene. Sì, però non era ingiusto? Non era una di quelle cose cattive che non si dovevano neanche pensare? Sinceramente, non seppe darsi una risposta. Sapeva soltanto che desiderava più di ogni altra cosa ballare con John Watson. Nonostante ciò non insistette, anzi non disse proprio nulla. Rimase semplicemente fermo dove stava, ritto e in piedi. Con le dita intrecciate dietro la schiena a tamburellare nervosamente e lo sguardo puntato diritto avanti a sé. In viso una serietà discreta. Nell’animo, una spietata guerra tra giusto e sbagliato. Il cuore che già batteva a ritmo di tre.
«Mi piacerebbe, ma ho paura di essere irrecuperabile e poi non penso che il professor Holmes sia disposto a insegnare a uno come me. Ho anche il bastone e…»
«Accetto! Le darò una lezione» esclamò Sherlock immediatamente e quasi senza badare alle conseguenze di quello che stava dicendo. Ma chi voleva prendere in giro? Ormai c’era ben poco che potesse fare per arginare il problema. Doveva semplicemente affrontare il mostro e combatterlo, nascondersi non aveva alcun senso. E doveva farlo avendo coscienza di quelle che erano le armi a propria disposizione, quasi si trattasse di una battaglia. Voleva ballare con John. Lo voleva disperatamente e quale miglior occasione di quella? Pertanto accettò senza indugiare, offrendogli la mano con fare brusco e vagamene rude, di certo per nulla carino. Eppure sempre con quel consueto accenno vago di eleganza che persisteva nei suoi modi di fare. Per tutto il tempo in cui il silenzio fece loro da compagnia, sotto lo sguardo divertito di Mrs Barnes e quello malignamente complice di Mike Stamford, Sherlock ebbe la sensazione che il proprio cuore si fosse fermato. E che qualcuno gli stesse prendendo a calci lo stomaco. Fino a quando, a un certo punto, John non intrecciò le dita con le sue. E il mondo si fermò per davvero.

Voci di primavera. Una delle migliori composizioni di Johann Strauss, a suo avviso la più emblematica della parola: valzer. Fu esattamente quello il brano che prese a suonare nell’attimo stesso in cui presero posto al centro del salone, non prima d’aver sgomitato per farsi largo tra la folla. Attorno a loro persone senza alcuna importanza. Facce senza volti, i cui sguardi maligni non contavano. Non più. Ora c’era John con lui e il pensiero pareva bastargli a placargli l’animo, a domargli lo spirito. John che era pronto come se stesse andando a far battaglia e che aveva sicurezza da vendere dentro di sé, un fare caparbio dietro a quel sorriso tirato. Tanta certezza da apparire determinato in una maniera quasi assurda. Era chiaramente impacciato e non doveva aver alcuna idea di che cosa stava per fare, il che gli causava un’evidente ansia. Aveva un discreto rossore che gli formicolava ovunque e che Sherlock osservava affascinato correre su per il collo, sino a che le guance non gli si tinsero di rosso. Fu allora che la rivide, quella stessa ombra che per un mese intero gli aveva dato di che pensare, era lì adesso. Pronta a farsi studiare con cura. Quello sguardo aveva in sé una sfumatura di dolcezza, ma era più che altro la ferocia, a dominarlo. Forse rabbia. Non per qualcosa che qualcuno gli aveva fatto, certo che no. Probabilmente più verso se stesso o addirittura per la vita intera. Così tanti erano i dettagli di quell’uomo che ignorava... Non seppe dire come fece a riacquistare la lucidità mentale necessaria a iniziare a fare qualcosa, perché avrebbe potuto trascorrere l’intera vita a studiarlo. A guardarlo in silenzio. Giorni interi ad ammirare le rughe del suo volto, a selezionare le sfumature della sua voce una dopo l’altra. In un miscuglio di morbosa ossessione e curiosità scientifica che gli sconvolgevano il cervello.
«Condurrò io» enunciò a un certo momento, e senza aver capito per bene come fosse riuscito a parlare chiaramente e non a farfugliare qualcosa. «Se lo lasciassi fare a te finiremmo nel parcheggio a furia di girare e girare.»
«Professore, io…»
«Sherlock» lo corresse «soltanto Sherlock. Ballare non è quel genere di attività che faccio con chiunque, non ti farò usare il mio cognome e io non userò il tuo, John.»
«D’accordo, d’accordo» ne rise, sollevando le mani in un divertito cenno di resa. Questo scambio di battute lo aveva rilassato, anzi aveva rassicurato entrambi che quella non era la fine del mondo, né la cosa più imbarazzante che fosse capitata loro. Era semplicemente un valzer. Un dannatissimo e stupefacente valzer viennese. «Comunque io continuo a non sapere assolutamente niente.»
«Oh, questo lo so anche da me. Mi auguro almeno che tu sia arrivato a capire che si tratta di un valzer. Non pretendo che tu riesca a contare subito mentalmente nella maniera corretta ed è per questo che condurrò io. Poi magari, se sopravvivremo, un giorno ci scambieremo i ruoli. Ma per il momento… Dunque, una mano va messa qui» gli spiegò afferrandogli il braccio in maniera brusca e facendo in modo che lo stringesse per un fianco. Non c’era alcuna dolcezza nei suoi modi e non voleva ammettere a se stesso che fosse il nervosismo a parlare, però questo era un altro discorso. «L’altra così, stringila alla mia. Ecco fatto. Sì, ehm, tieni le spalle dritte e non essere rigido» disse poco dopo aver intrecciato le loro mani che si fusero come se fossero una sola. Erano pronti.
«Lasciati trasportare.» Furono queste le ultime parole che gli rivolse. Nella voce alcuna emozione a trasparire, nessuna traccia di sentimento nello sguardo. Una maschera perfetta e inattaccabile, o almeno così sperava. Allora e allora soltanto, fu la danza a farli vivere.

Ballare con John era una delle cose più stupefacenti che avesse mai fatto in tutta la vita. Era più divertente che lavorare al laboratorio, meglio che suonare. Decisamente più eccitante che indagare su un delitto insoluto. Ballare era far sparire il mondo, percepire la realtà che si deformava. Era una medicina che azzittiva gli idioti e spegneva i maligni. Ballare con John era volteggiare in un salone, a tempo di una stupefacente musica. Era guardarlo negli occhi, e sorridergli. Era arrossire nella speranza che non si notasse troppo. Era un battito d’ali nello stomaco e il palazzo mentale che s’incendiava. Ballare con John era condurre e allo stesso tempo farsi trascinare. In un perfetto paradosso sentimentale sul quale preferì non ragionare, ma che si ripromise di analizzare con la dovuta cura. Più tardi. Non ora, ora doveva ballare. Ballare e crogiolarsi nella sensazione di non aver mai fatto altro in tutta la vita e che nulla potesse mai essere più bello di così. Anche se gli pestava i piedi e se di tanto in tanto perdeva il passo, facendo andare entrambi fuori tempo. Non importava, e nemmeno a lui che era un chimico. Perfezionista per natura. Ma lui danzava, danzava e basta. Perché ballare con John era stupendamente imperfetto e avrebbe desiderato che durasse per sempre. Purtroppo, così come era cominciato, tutto quanto finì e Sherlock Holmes si ritrovò a lato del salone, con John che ansimava per la fatica. Una quantità enorme d’informazioni da immagazzinare e nessuna reale voglia di farlo.

«Beh, non è andata poi così male.»
«Sei un ballerino terrificante, John» sputò fuori con sfacciata sincerità e senza preoccuparsi d’apparire brutale. Era come se stesse cercando di scacciarlo via e di farlo arrabbiare, allontanarlo pareva l’unica soluzione possibile per riacquistare il controllo. Lo aveva capito mentre lo lasciava andare e si allontanava, che non voleva mai più provare un simile senso di vuoto. Infatti invece che scusarsi, rincarò la dose. «E questo è stato il peggior valzer della mia vita.»
«E allora perché hai accettato d’insegnarmi?»
«Oh, per passare il tempo» mormorò, giocherellando con le dita delle mani che intrecciò dietro la schiena. Poi sollevò di scatto lo sguardo e stirò un sorriso. «Per danzare, per Strauss ovviamente e anche per dimostrare che avevo ragione...»
«Ragione su cosa?» ribatté prontamente, ma con un accenno di confusione.
«Sul fatto che non hai bisogno del bastone.» Una volta che ebbe detto questo, Sherlock Holmes s’allontanò verso il palchetto su cui stava l’orchestra. Era ora di recuperare il violino e di suonare per Mrs Stamford. Dopodiché se ne sarebbe andato e avrebbe dimenticato questa serata. Ciò che più di tutto era da ritenersi stupefacente e che continuò a tormentarlo per i minuti a venire, era proprio John Watson. Non solo non sembrava arrabbiato, né indignato per il suo pessimo comportamento. Ma il suo sguardo non lo aveva lasciato per un solo istante.
 
 


Continua
 
 



*È ovviamente un’iperbole. Secondo Wikipedia i giardini di Kensington contano ben 111 ettari.
**Chiltern Hills, zona collinare a nord di Londra che si estende fino all’Oxfordshire (ovvero la contea di Oxford).




Note: Strauss, Voci di primavera è il valzer su cui ballano Sherlock e John, ma nel corso del capitolo ne vengono citati altri come: Vita d’artista e Sangue viennese. Tutti quanti sono contenuti QUI.

Mi spiace, il capitolo è venuto lunghissimo (più del previsto). Gli altri saranno relativamente più brevi. Ringrazio tutti coloro che hanno letto fin qui e in maniera particolare chi ha recensito i capitoli precedenti. Grazie davvero per il sostegno costante.
   
 
Leggi le 7 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Koa__