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Autore: StellaDemone    15/02/2018    0 recensioni
Quanto era bella la noia.
Amavo potermi crogiolare in quegli attimi eterni tra quei momenti di strana ed insolita felicità e quelli, magari, un po’ più buii. La sentivo proprio scendere sulla mia pelle, come fosse una pioggia di acqua calda che riscalda il corpo. Sentire di non dover fare nulla, perché si è fatto di tutto. Quella stessa noia che prima mi accompagna dolcemente e, successivamente, si trasforma in uno sgradevole tedio. Nel momento esatto in cui iniziavo a pensare a me stesso, la pioggia che sentivo prima si trasformava in stalattiti che mi trafiggevano le membra. Ah, la noia quant’è bella.
E’ proprio così che inizia tutto: la noia spinge l’uomo a non annoiarsi. Cerchiamo di riempirci di impegni, di cose da fare, da leggere, da ascoltare, pur di non giungere mai davanti a quella sensazione che rende impotenti dalla testa ai piedi.
Ed io, io sono molto annoiato, lo sai. Lo sai, forse, anzi quasi sicuramente, cosa significa morire di noia.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime, Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Lettera numero 11
 


Mia cara Giulia
non smetterò mai di guardarti mentre fai le faccende di casa. Te lo giuro. Sembra quasi che tu stia danzando sulle note di una canzone di cui non ricordo nemmeno il nome. Ed il mio nome te lo ricordi, almeno? Se sì, gridalo forte. Urlalo a tutti, fino a distruggerti le corde vocali. Grida al mondo il mio nome e aggiungi, sussurrando, che sei solo mia. Dimostra a tutti quanto il nostro amore sia forte. Anche se -di forte- non c'è nessuno di noi due.

Mi hai appena chiesto cosa stessi scrivendo. Hai i capelli legati, alcuni sono bianchi, ti donano, sai? Penso ti diano un'aria da persona saggia, che sa che cosa sta facendo. Ti ho risposto che stavo buttando giù due righe per la presentazione del mio prossimo romanzo. Ci credi e continui a pulirmi attorno, senza mai sfiorarmi, come se avessi paura di alzare il polverone che c'è dentro di me. Mi giri attorno con quei tuoi abiti da casa e mi urli che dovrei smettere di fumare e di iniziare a pulire qualcosa. Come faccio a pulire quello che mi circonda, se io ho sporca pure l'anima? Sei appena entrata nella stanza di Marco. È a scuola e fra qualche ora dovrò andare a prenderlo. Lui è l'unica cosa pulita che ne è uscita da noi due. Lo amo infinitamente, darei la mia stessa vita per lui e so che faresti anche tu la stessa cosa. È forse lui quello che ci tiene legati? La precauzione di non romperlo, come se fosse un oggetto, è più grande dei nostri stessi desideri? No, non voglio credere che lui sia il motivo per cui tu stia ancora con me. Voglio confidare nel fatto che tu possa ancora amarmi. Non saperlo mi logora dentro, fino al midollo. Ho paura a chiedertelo perché ho paura di sentirne la risposta.
Squilla un cellulare. È il tuo. Credo, dal tuo tono di voce confidenziale, che sia la tua amica Martina. È quella a cui racconti sempre tutto, vero? E di me e te, cosa hai raccontato? Gliene hai parlato di quando ti scrissi per metterci d'accordo per vederci per parlare dell'incidente? Penso di sì. E di come per quello stesso appuntamento, fosti in ritardo e per scusarti mi portasti un cioccolatino?
Dio mio. Me lo ricordo come se fosse successo ieri. Quel tuo sorrisetto sfacciato nel porgermi quel Lindt, come se quello potesse scusarti per il forte ritardo. In realtà, ti avrei scusata anche senza nessuna carineria. Mi bastavano i tuoi occhi come dolce, antipasto, primo e secondo. Quei meravigliosi occhi in cui mi perdevo, manco fossi un labirinto kafkiano. Eppure, continuo a perdermi e tu non mi dai la possibilità di accedere nel tuo palazzo mentale. Mi ricordo che quando ti pagai il caffè, ti opponesti con tutte le forze, dicendomi:
"Siamo nel XXI secolo e le donne sono abbastanza emancipate per pagarsi il caffè da sole."
Che femminista agguerrita che eri, mi guardasti con quegli occhi di sfida. Sembrava come se avessi capito che ero rapito da te, che non ti avrei mai potuto opporre resistenza.
Ti sento parlare ancora al telefono dalla stanza di Marco, mentre sbatti i tappeti dalla sua finestra e fai un casino pazzesco. Lo stesso casino che sento quando ti guardo, mentre dormi. Anche se l'unico suono che fai è quello del tuo respiro profondo, quello che sento io è un vero e proprio concerto di tutte le canzoni che ci hanno portati fin qua. Fai un chiasso assurdo anche se stai in silenzio.
"Sìsì, è a scuola. Ieri m'ha portato una nota dalla maestra. Non mi dire niente. Sì sì, l'ho sgridato male. Appena s'azzarda a non fare i compiti di nuovo sa quello che gli faccio". Menti. Non gli alzeresti manco un dito, hai paura che possa odiarti, proprio come tu odiavi tua madre per tutte le angherie che ti fece da bambina, da adolescente e da donna. L'hai odiata per tutte le cose cattive che ti disse e, dopotutto, tu la perdonavi costantemente perché non avevi altro se non quel luogo d'appartenza, che era la tua casa. Me l'hai sempre detto che quando stavi dai tuoi, stavi male, avevi l'ansia, eri un'altra persona e che quando uscivi ti liberavi un po' dal peso che ti portavi, da quella situazione familiare un po' strana e malata. Tua madre che sembrava che ti odiasse per la sua eterna frustrazione ed insoddisfazione e quel tuo padre che, nel suo silenzio, nella sua assenza, nella sua sottomissione dovuta alla moglie, non faceva altro che lamentarsi della sua stessa vita e della tua. Ed è la verità che la famiglia è il primo luogo che forma l'anima. Ma è pur vero che da quell'ambiente, tu sei cresciuta come la ginestra, ai piedi del vulcano, di cui in versi ne descriveva la forza Leopardi.

Sei forte, Giulia, sei fortissima e non lo sai.

Pensi di essere debole, ma è perché ti sminuisci tanto. Sei sempre stata così. Anche quando ti chiesi di uscire una terza ed una quarta volta, non ci credevi nemmeno che potessi anche solo considerarti attraente, ma ti facevi bellissima lo stesso. Ti truccavi come se dovessi andare ad un matrimonio, mettevi gli abitini di tua sorella più grande, quelli che ti arrivavano un poco più su del ginocchio, che facevano intravedere quelle tue gambe esili e che lasciavano spazio a mille altri pensieri, forse troppo osé. Erano uscite di gruppo le nostre: io che mi portavo Francesco e qualche altro amico e tu che ti portavi dietro la tua comitiva, più grande sicuramente della mia, che era stata raccapezzata soltanto per non sfigurare davanti a te e promettendo loro di presentargli qualcuna delle tue amiche. Parlavamo, parlavamo, parlavamo del più e del meno, mentre tiravamo giù qualche drink. Ed allora ti confessai sotto i fumi dell'alcool che ci avevo riflettuto tantissimo prima di chiederti di uscire, che avevo paura che non ti piacessi, che magari ti stavo antipatico, che forse non ero il tuo tipo.
"Che ne so, magari sei pure fidanzata."
"No, ma chi io? Nessuno mi prenderebbe, fidati", eccoti che ti sminuisci.
"Ma smettila, chissà quanti te ne ronzano intorno."
"Forse è proprio così e tu sei uno dei tanti", mi fai l'occhiolino e tiri giù un altro shot. Mi invitasti a ballare, eri una donna che sapeva prendersi quello che desiderava. Io ti dissi che di ballo non ci capivo molto, ma mi hai trascinato in mezzo a quei corpi sudati. E allora ballammo, sfiorandoci e toccandoci a vicenda, ballammo per tutta la sera. Se n'erano andati tutti i nostri amici ed eravamo rimasti soltanto noi due, alle 5 del mattino, pronti a metterci in macchina per tornare a casa. Ci sorregevamo l'un l'altro per arrivare al parcheggio e ridevamo come due matti. Eravamo proprio davanti alla tua macchina, il sole si stava per scorgere dai palazzi vicini e disegnava quei colori teneri e violacei che solo l’alba riesce a fare. Ed è lì che, con poca nonchalance, ti poggiai le labbra sulla guancia per qualche secondo. Per poi spostarmi sempre di più verso il tuo orecchio sinistro, lo morsi con delicatezza. Sembrava che ti stesse piacendo la cosa, respiravi pure in maniera affannata. Però, poi ti sei spostata e mi congedasti in maniera più moderata. Mi hai dato un bacio e scappasti, come fai sempre, sopra alla tua 600 rossa. Sì, hai l'abitudine di scappare dalle cose che potrebbero farti stare bene o che ti piacciono un pochino. Hai paura che ti possano ferire e che ne puoi rimanere delusa. E pregai, quando ti vidi allontanare con la tua macchinina ancora rotta, di poterti incontrare ancora. Ti ricordi cosa ti scrissi dopo che tornai a casa?
Forse eravamo troppo ubriachi.
Mi stavo scusando, perché di te non avevo capito un bel niente. Speravo di portarti a letto, nel mio magari, quella sera stessa. Troppo preso da quegli impulsi, per accorgermi di quanto tu fossi, in realtà, timida ed insicura. 
Direi proprio di sì, però mi sono divertita lo stesso. Balli bene!”, come sai prendermi in giro tu nessuno mai. Mi hai sempre un po’ preso in giro proprio perché te lo lasciavo fare. Quante volte avrei preferito sentirti dire una parola d’amore, piuttosto che qualche cattiveria gratuita che sapevi uscire nei momenti meno adatti. Te le ho sempre perdonate tutte. Dalla prima all’ultima. Proprio come quando con voce sottile e piena di rabbia mi dicesti:
Sei un fallito.” 
Tornai a casa a pezzi dopo quella discussione. Nata dal semplice fatto che scherzai sulla tua bocciatura all’esame, che avevi preparato per un mese intero. 
Almeno io faccio qualcosa nella vita.
Sì, certo..” 
A quel tempo volevo fare l’anticonformista. Pensavo che lo studio facesse soltanto perdere del tempo, che si sprecavano giorni interi sui libri per cose che nessuno mai ti avrebbe più chiesto. Avevi ragione Giulia, lo studio ti apre l’anima e la mente. Anche tu sei studio, allora. Mi piace doverti approfondire, conoscerti nei dettagli. Sei ciò che mi ha aperto il cuore.
Sta zitto!
Non dirmi che te la sei presa.
E’ troppo facile criticare gli altri, mentre tu non fai niente della tua vita.
Quello che faccio nella mia vita sono cazzi miei oppure no?
Sono anche cazzi miei quando pensi che siano divertenti le tue battute di merda.
Ma non volevo offenderti, era uno scherzo.
Non mi importa se era uno scherzo. -Sei un fallito.- Non studi, non lavori, non sei niente e nessuno e vieni qua a prendermi in giro?
Non ti risposi. Alla fine avevi ragione. Ero e sono, tuttora, un fallito. Ho perso contro la vita, mentre tu cercavi di farmi vincere. Non avevo la forza di fare niente, non sapevo nemmeno chi fossi, se forse volevo diventare un medico, un ingegnere, un mago oppure uno scrittore, un cantante o un attore. Non avevo passioni, né talenti particolari. Tutti hanno sempre qualcosa in cui sono bravi, chi riesce nella matematica, oppure è portato per qualche lingua in particolare. Io non avevo niente. Non sapevo cosa mi piacesse, se esistesse almeno qualcosa che mi interessasse. O forse amavo così tante cose, così tanti aspetti della natura umana, che non riuscivo a coltivarne nemmeno uno? Un giorno volevo fare il traduttore, il giorno dopo volevo viaggiare per tutta l’Asia, in altri, invece, avevo semplicemente voglia di dormire. Dormire per dimenticare, forse. No, forse per evitare. Sì, ecco, volevo ingannare il tempo. Scappare dalle mie responsabilità e rifugiarmi nell’onirico. Avevo troppa paura per affrontare e per affrontarmi. Sapevo che se mi fossi alzato da quella culla, mi sarei dovuto scontrare con la realtà. Dura e cruda realtà che mi rappresenta come un uomo-bambino impaurito, incapace, saccente e poco pronto per affrontare quella vita piena di squali e pescecani. Non ero pronto. Perché tutta questa fretta? Qual è il motivo? Perché correre per capire cose fare e per capirsi? Io non voglio correre, ho già il fiatone stando fermo.
Facemmo pace dopo qualche bacino e le mie più sincere scuse. Quella sera smuovesti non pochi meccanismi nella mia testa.
“Chi ero? Chi sono? Perché sono così turbato da quella frase? Mi fa male di più la verità oppure che l’abbia detta tu? Perché esisto se, effettivamente, non servo a niente? A cosa porta continuare a vivere? Dov’è che questo fottuto mondo vuole che vada?”
Riflettei sul mio letto, mi colarono delle lacrime, ma, imperterrito, continuai a fissare l’oscurità che mi avvolgeva come se stessi aspettando una sua risposta. Dicono che la notte porta consiglio, forse io lo presi troppo alla lettera. Tendevo le orecchie per essere pronto per carpire una qualche informazione su cosa e come dovessi comportarmi. È una cosa che ho fatto sempre. Immergermi nel buio per trovarne conforto. Forse perché alla luce le cose risaltano di più, i peccati sono più evidenti, le colpe e gli errori si notano. Al buio, invece, tutto è celato ed è proprio lì che si nasconde la verità delle cose. Solo che io la risposta non l’ho avuta. Ho soltanto lasciato che le cose andassero per come dovessero andare. E questo fiume di eventi, dove mi ha portato? Qui, seduto in cucina, che ti scrivo una lettera perché ho il terrore di parlarti come facevo una volta. È giusto così? Forse, ma non è quello che avrei voluto. Non è quello che avrei voluto da noi due.
Hai finito di parlare con Martina, stai passando l'aspirapolvere nel corridoio. Ti intravedo, vedo le tue linee da donna ormai, che risvegliano in me quegli stessi istinti che avevo da giovane. Vorrei prenderti da dietro e sfilarti gli abiti uno ad uno, metterti a letto e baciarti ogni singolo centimetro di pelle. Ma sono fatto vecchio e devo andare a prendere Marco.

F.

   
 
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