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Autore: _Ella_    16/02/2018    3 recensioni
"Itachi era il dio e la lente, Sasuke la formica; Naruto era la terra solida e fertile che lo avrebbe accolto per rinascere di nuovo."
[NaruSasu - ItaSasu implicito]
Genere: Angst, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha | Coppie: Naruto/Sasuke
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incest | Contesto: Naruto prima serie
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A Bug's Life 

 

"Vattene, gli ha detto, pur sapendo che l'avrebbe odiato se l'avesse fatto, non mi puoi salvare, ho il sangue avvelenato, ho ucciso tutti quelli che ci hanno provato. 
Io non sono come gli altri, ha detto Juli, che indossava una sua felpa, noi siamo fratelli, se il tuo sangue è avvelenato allora lo è anche il mio". 
Le ferite originali, Eleonora C. Caruso 

 

Sasuke non aveva davvero una propria opinione circa l'esistenza o meno di un dio, da qualche parte nel mondo o nell'universo; non perché pensava che la questione fosse banale, o perché riteneva di essere al di fuori da tutto il meccanismo, ma perché, semplicemente, non gli interessava: se quel dio esisteva, non stava facendo un buon lavoro, e se tutto il dolore e la sofferenza che aveva subito erano nel disegno predestinato della sua vita, non aveva altra scelta se non quella di odiarlo.  

Quindi, a conti fatti, pensava che probabilmente sarebbe stato meglio per qualsiasi divinità non esistere. Sasuke aveva quattordici anni, si sentiva immortale ed invincibile, ed era dell'idea che se un dio non esistesse, allora lui sarebbe senz'altro potuto esserlo; gli piaceva la sensazione di onnipotenza, gli piaceva l'idea di poter far del male a chiunque quando e quanto avesse voluto, o salvarlo se avesse sentito il bisogno di doverlo salvare: era come lasciar bruciare lentamente una colonia di formiche e sentirsi magnanimi nel lasciarne in vita anche solo un paio, che lo avrebbero odiato per tutto il dolore causato ma ringraziato per averlo lasciato in vita. 

Sakura era la sua formica, e spesso Naruto la lente che utilizzava per torturarla. 

Era un calcolo semplice, con poche variabili, il risultato era sempre inevitabile: più Sakura tentava di avvicinarsi a lui, più Sasuke si allontanava, guardandola attraverso il vetro spesso della sua lente, e non lo avrebbe mai raggiunto, avrebbe sempre e solo visto Naruto che li divideva, che li teneva separati, e soffriva lentamente per scottature che sembravano di sigaretta, ma non avrebbe mai visto che era lui a tenere l'impugnatura fuori dal suo campo visivo. 

Sasuke aveva quattordici anni, e forse era sì invincibile, sicuramente non immortale, ma era davvero troppo giovane per rendersi conto che, nel suo ragionamento, a rendere onnipotente quel dio che credeva di essere era l'arma che impugnava tra le mani: senza quella lente, qualsiasi formica sarebbe riuscita a sgusciare tra i granelli del terreno e non lasciarsi schiacciare dalla suola delle sue scarpe. 

Sasuke era anche troppo sicuro di sé, e questo era un bene ed un male incurabile allo stesso tempo; nella sua sicurezza affogava tutte le colpe, tutte le paure, tirandole fuori quando ormai non avevano più respiro ed erano diventate rabbia. Nella rabbia poi affogava le insicurezze, quelle poche che erano rimaste, quelle che di tanto in tanto gli soffiavano all'orecchio come gatti nervosi ed erano impossibili da ignorare, facendosi le unghie sui cuscini del divano impolverato che c'era in salotto, pisciandoci sopra per marcare il territorio. 

Dicevano tutte la stessa cosa: tu sei la formica, Itachi è Dio, i suoi occhi letali quella lente che non ti permetterà mai di avvicinarti a lui. Itachi lo aveva torturato e lasciato in vita, lo aveva costretto ad odiarlo e a ringraziarlo per la sua pietà: Sasuke era l'unica formica rimasta in vita di tutta la colonia, ed aveva sulle spalle il peso lasciato dalla sopravvivenza.  

Poi incassò un pugno di Naruto – o meglio, di una delle sue tante copie – in pieno viso, sentendo le mucose lelle guance strapparsi contro i denti. 

Il maestro Kakashi li guardava dall'alto, appollaiato sul ramo di un albero con la sua solita espressione annoiata, come se avesse assolutamente molto di meglio di fare, ma attento, consapevole che se si fosse distratto per solo un momento, lui e Naruto avrebbero provato ad uccidersi a vicenda. 

Sputò il grumo di sangue, Sakura urlò. Non aveva idea di cosa avesse da urlare ogni volta che lui e Naruto sanguinassero, e non la capiva, ma se Sakura una volta tanto avesse davvero capito loro due, allora avrebbe dovuto gridare sempre, in continuazione, finché non si sarebbe finalmente stracciata le corde vocali, perché lui e Naruto avevano entrambi ferite profonde che non si erano mai chiuse e che non erano prossime a rimarginarsi. Sasuke non sapeva neppure lui per quante volte avesse rischiato di annegare nel proprio sangue. 

Disattivò lo sharingan, abbandonò la posizione di difesa, si pulì la bocca e socchiuse gli occhi, spossato, dolorante e senza più nemmeno una goccia di chakra; Naruto – quello vero – corse da lui per afferrarlo e sorreggerlo prima che si rompesse l'osso del collo, quando le gambe non riuscirono più a sorreggerlo. 

Itachi era il dio e la lente, Sasuke la formica; Naruto era la terra solida e fertile che lo avrebbe accolto per rinascere di nuovo. 

 

Il cielo di Konoha, di notte, era un sipario calato dietro il quale avvenivano i cambiamenti di scena; Sasuke aspettava che arrivasse il buio per rivestirsi, infilare i sandali ed uscire senza il coprifronte della foglia e senza l'attrezzatura, come quando era bambino, e per fingere di essere un valido ninja era costretto ad infilare i sassolini nelle tasche dei pantaloni ed intagliare qualche rametto più spesso per dargli la forma di un kunai. 

Sasuke non soffriva d'insonnia, ma preferiva dormire il meno possibile, quel poco ed indispensabile, perché così la stanchezza l'aveva vinta ed il sonno era profondo e senza sogni – senza incubi, anche se a volte si svegliava più spossato della notte precedente, con gli occhi ancora umidi di lacrime. Riteneva che tutto sommato fosse un buon compromesso, perché ciò che aveva importanza era non ricordare: aveva già troppe memorie che lo stavano lentamente portando all'autodistruzione, e gli allenamenti, il fissarsi un unico, enorme obiettivo, lo aiutavano ad ignorarli il più possibile. Era come accecarsi guardando il sole e non riuscire più a distinguere nulla del panorama. 

Stare da solo, in maniera attiva, decidere di uscire e trascinarsi sui tetti e nelle strade vuote, mentre tutti dormivano – e non in maniera passiva, come sempre, come tutti i suoi ultimi anni di vita, perché rientrava a casa e non c'era più nessuno – lo aiutava a sbrogliare i pensieri, anzi, a non pensare del tutto: vedeva un gatto ed era solo un animale, non una chimera, vedeva la propria ombra ed era solo lei, non lo spettro angosciante della presenza di Itachi. 

Spesso – no, sempre, tutte le notti – i suoi passi lo conducevano davanti alla stessa rampa di scale, che portava alla stessa porta, dietro la quale c'era la stessa persona, la sola ed unica che fosse riuscita ad introdursi nel cammino tra lui e la vendetta. Sasuke restava a fissare l'ingresso dell'appartamento di Naruto in silenzio, che fosse poco o molto tempo non aveva importanza, e se per sbaglio la sua mente provava a chiedersi "perché sono qui?", l'ironia della risposta era avvilente.  

Una sera, Sasuke non si era semplicemente fermato a guardare la rampa di scale dal basso, ma l'aveva inforcata, facendo prima un gradino alla volta, poi a due a due quando era arrivato più in cima, per paura che se non avesse tenuto stretto il pomello della porta sarebbe andato via come aveva sempre fatto. Aveva bussato, trattenendo il respiro. "Usuratonkachi" aveva detto, sapendo che sarebbe scappato via a gambe levate se non si fosse annunciato; adesso l'orgoglio lo avrebbe inchiodato lì alla sua croce, senza possibilità di farlo tornare indietro. "Apri la porta". 

Naruto aveva aperto la porta dopo diversi minuti di insistenza, fissandolo con gli occhi gonfi di sonno, i pantaloni del pigiama storti in vita, con una delle gambe coperta fino alla caviglia ed una fino al ginocchio, la maglia a mezze maniche evidentemente sporca di latte, ramen e chissà che altro, il suo ridicolo cappellino dalla forma dubbia. Lo fissava sorpreso, e Sasuke pensò che se gli avesse chiesto che cosa ci facesse lì a quell'ora non avrebbe davvero saputo cosa rispondergli – cosa rispondersi – e forse, allora, sarebbe finalmente scappato; ma Naruto, forse per il sonno, per lo stordimento, forse per delicatezza (la meno probabile) semplicemente lo lasciò entrare. 

La porta di casa Uzumaki, da quella notte, per tutte le notti seguenti, rimase socchiusa. 

Sasuke era la formica, Naruto il suo nascondiglio tra le foglie in una calda giornata d'estate. 

 

Sasuke rise, fortissimo, quando Naruto cadde come un perfetto idiota nel fiume, facendosi trascinare dalla corrente per diversi metri prima di riuscire ad aggrapparsi ad un sasso e venirne fuori. 

Quella mattina stavano svolgendo una semplice missione di ricognizione, roba di livello C, ed il maestro Kakashi li aveva divisi in due squadre: Sasuke e Naruto assieme da una parte, lui e Sakura dall'altra. Sasuke si era sentito sollevato dalla sua decisione, nonostante passare del tempo a stretto contatto con quello svampito non fosse nel podio dei suoi passatempi preferiti, ma immaginava che fosse molto meglio che passare tutta la giornata assieme a quella ritardata di Sakura Haruno. 

"Teme" sibilò lui, mettendo i piedi sul terreno, completamente zuppo dalla testa ai piedi. "Potevi aiutarmi, invece di ridere!". 

Sasuke gli porse il suo coprifronte, che aveva recuperato al volo prima che l'acqua lo portasse fino alla cascata; Naruto glielo strappò dalle mani e se lo legò rabbiosamente tra i capelli, facendo i nodi con decisione. In momenti come quello, quando era adirato, o sotto pressione o persino serio, una volta tanto, Sasuke si rendeva conto di come i suoi lineamenti fossero in evoluzione: era come se sotto la patina da acerbo ragazzino restasse sopito l'uomo attraente – attraente?! – che sarebbe diventato una volta cresciuto abbastanza; Sasuke era geloso di quella visione come lo sarebbe stato del manifestarsi di un miracolo. Sperava di essere l'unico ad essersene accorto, l'unico che l'avrebbe tenuta sotto gli occhi per tutto il tempo prima che si sarebbe rivelata in maniera evidente. Naruto era più basso ed anagraficamente più piccolo di lui, ma era chiaro che fosse un adolescente, non più un bambino, e che si sarebbe modellato come creta negli allenamenti e che sarebbe cresciuto solido come legno di quercia.  

"Non ti serviva il mio aiuto" disse ad un certo punto, e dopo un momento di silenzio Naruto gli sorrise, sfacciato, mostrandogli tutto il profilo lucido dei denti che nascondeva sotto le labbra morbide.  

"Per una volta ti do ragione, teme" lo spintonò per una spalla e Sasuke gli tirò un calcio, ma poi risero entrambi, strattonandosi per le maglie – erano due cuccioli di tigre che si mordono le orecchie e le code per giocare, non per ferirsi davvero. 

"Dovresti mettere ad asciugare quei vestiti prima che vada via il sole, dobe" disse ad un tratto, e non seppe perché, ma si sentì quasi meschino a sperare che accettasse la sua idea; quando Naruto annuì, si rese conto che la sensazione di quella soddisfazione sporca si era espansa. 

"Ci stavo pensando anche io". 

Sasuke aveva sempre trovato Naruto una persona tendenzialmente stupida, imbarazzante, odiosa fino ai limiti estremi del sopportabile; ultimamente stava cercando di accettare che la sua inaspettata forza e bravura in battaglia non fossero solo dovute alla fortuna, ma derivassero da qualcosa che aveva nel sangue, nell'anima, in ogni singola cellula del suo corpo come il codice genetico, esattamente come per lui, che aveva un bollo di garanzia timbrato in fronte con la parola "Uchiha" e che la gente si fermava ad osservare come se fosse esposto in vetrina –  "guarda qui" sembravano dire "non sembra affatto male, mi fiderei a comprarlo, mi hanno detto che è una marca ottima", ma nessuno dei rivenditori si sprecava mai a dire che i modelli di quel tipo avevano una scadenza molto breve, perché garantivano sì prestazioni incredibili, ma poi ad un certo punto gli ingranaggi si fondevano, smettevano di oliarsi, e si distruggevano. Sasuke sapeva di non valere il prezzo che gli avevano inciso sulla pelle grattandola con le unghie. Naruto, invece, era un modello inaffidabile, di quelli di seconda, se non terza scelta, quelli messi in saldo per essere venduti più in fretta e liberarsene ma che poi, alla fine, più passava il tempo più funzionavano meglio; neppure lui valeva il suo prezzo, ma in senso totalmente differente. 

Sasuke trovava che comunque, in un certo senso, in questo fossero uguali: lui e Naruto erano destinati ad essere valutati male e, di conseguenza, a valutarsi male. Era per questo che si trovò profondamente sorpreso quando si ritrovò a dover girare la faccia per non mostrargli quanto miseramente fosse arrossito, vedendolo con indosso solo un paio di boxer vagamente trasparenti, slabbrati ed anche un po' bucati, a dimostrazione del fatto che fosse un idiota che non era neppure capace di fare il bucato in maniera decente e comprarsi dei vestiti che gli stessero bene addosso.  

Continuò a fissarsi gli alluci quando Naruto si sedette accanto a lui vicino al fuoco, che avevano acceso per far asciugare più in fretta i suoi vestiti e per non farlo raffreddare. 

"Sas'ke" lo chiamò, tenendo i piedi verso le braci e gli occhi puntati nella sua tempia come se volesse trapanarla. "Posso chiederti una cosa?" Sasuke si mordicchiò il pollice, annuendo brevemente; aveva ancora il viso rosso, ma avrebbe potuto dare la colpa al calore del fuoco. "A te proprio non piace Sakura-chan?". 

Rise, inevitabilmente; non in modo sguaiato, ma una risata breve ed asciutta, di ironia e scherno. "No" disse poi, lapidario, perché era sempre meglio rendere le cose più chiare possibili quando si parlava con lui. "Perché dovrebbe?" poteva immaginarselo benissimo, il suo broncio offeso ed oltraggiato. 

"Tanto per iniziare" spiegò, muovendo i piedi. "È una ragazza davvero carina, e gentile". 

"Gentile" Sasuke lo ripeté lentamente, come per accertarsi che lui e Naruto avessero detto la stessa parola. "Sai davvero cosa vuol dire, no? Perché altrimenti il termine che cerchi è violentapsicopaticadelcazzo  – tutto attaccato". 

"E poi" continuò, alzando il tono della voce per mettere in chiaro che aveva tutta l'intenzione di fingere che non avesse parlato. "È intelligente, ed un'ottima ninja". 

Sasuke questa volta si limitò a fare un risolino ed una smorfia divertita.  

"Come al solito vedo che capisci poco meno di un cazzo, usuratonkachi".  

Finalmente voltò il viso per guardarlo, e come gli capitava spesso nella vita, restò in silenzio mentre i pensieri corsero veloci, accelerarono fino a schiantarsi: crash test, nessun sopravvissuto. 

Il suo fisico era asciutto, slanciato, solido, ma di quella durezza dovuta all'acerbo, non alla piena maturità. Sasuke lo fissò, e con orrore pensò ad Itachi. Lui e Naruto non avevano nulla, niente in comune, erano persone a sé cresciute e vissute in contesti completamente estranei, ma in quel momento il corpo di Naruto gli ricordò il suo, per il modo in cui aveva reagito agli allenamenti, alla stanchezza, alla fatica, per il modo in cui Sasuke si sentiva nel fissarli, come se avesse voluto lanciarsi tra quelle braccia e non uscirne mai più.  

In un battito d'occhi aveva otto anni, ed Itachi era lì, a promettergli allenamenti che non sarebbero mai arrivati, a regalargli sorrisi che nascondevano segreti. Dopo un altro battito era lui, lì, in quel momento, c'era anche Itachi, il suo ricordo che non l'aveva mai abbandonato, la sua figura forgiata nella bugia e nella perversione: Sasuke aveva quattordici anni, ed odiava suo fratello – lo avrebbe voluto afferrare per i capelli con forza e schiantarlo contro un muro di roccia per vederlo sgretolarsi in tante piccole schegge di cristallo – ma Sasuke aveva quattordici anni, e di suo fratello conservava anche il ricordo di come lo aveva sempre considerato prima di quella notte maledetta, e allora lo amava. 

Forse c'era un punto di congiunzione, tra le due cose, così come il vapore poteva diventare ghiaccio, e viceversa, senza dover per forza passare prima per lo stato liquido.  

Al terzo battito di ciglia, Sasuke calò la sua bocca su quella di Naruto: era lui il passaggio di stato tra gas e solido, tra odio e amore, tra Dio e formica. 

 

"Juli, ma tu davvero credevi di essere qualcuno? Sei un avanzo, una cosa mia rimasta nella pancia della mamma per nove anni; sei la mia dolcezza, la mia ingenuità, sei i pesi che ho lasciato dentro l'utero per uscire più in fretta e che poi ho rimpianto; sei la parte migliore di me, la parte sana di me. 
Ho provato a inglobarti, ma non ne ho avuto coraggio. Ho provato a proteggerti, ma non ne ho avuta la forza. Hai detto che non mi lascerai solo, e siccome io non posso uscire, tu verrai con me". 
Le ferite originali, Eleonora C. Caruso 

 

Sasuke aveva sentito parlare di malattie ereditarie – non per situazioni particolari ma, semplicemente, era capitato; aveva sentito parlare di quelle come dell'alternarsi delle stagioni, delle diverse lunghezze d'onda che componevano la luce bianca, della riproduzione, della tecnologia, del corretto modo per preparare dell'ottimo pesce alla griglia, di quale fosse la tecnica per apparecchiare una tavola, ma a differenza di tutte queste elencate, quella notizia era diventata un tarlo che grattava sulla superficie gelatinosa del cervello. 

Sasuke pensava spesso alla sua famiglia, molto più spesso di quanto gli piacesse ammettere – ancora più spesso a suo fratello, ed ammettere questo gli piaceva ancora di meno. A volte gli venivano in mente le belle giornate passate a giocare coi suoi cugini, i sorrisi dei suoi zii, l'ottimo odore di zuppa di miso nell'aria poco prima che rientrassero tutti per cena; altre volte pensava a suo cugino Shisui, morto suicida, alla strage che Itachi aveva fatto, ai suoi antenati, Madara Uchiha in primis, e allora non poteva proprio fare a meno di restare in silenzio, e ragionare. Forse c'era un filo conduttore, in tutto questo, forse era destinato ad impazzire, e terminare i suoi giorni lanciandosi giù da un crepaccio e non lasciare nulla del proprio corpo, ad ammazzare chiunque ritenesse un ostacolo, a rendersi un nemico tanto potente e temuto da meritare una statua per ricordare a chiunque che, finalmente, fosse morto. 

Consapevole di tutto questo, inutile dirlo, Sasuke provava una sconfortante ed inevitabile paura, perché sapeva di essere disposto a tutto pur di portare a termine la sua vendetta. Forse Itachi non aveva sbagliato a sterminarli tutti, magari neppure se ne era reso conto, forse non aveva fatto poi un così grave errore ad estirpare tutte quelle erbacce, ma il suo unico errore era stato, allora, lasciare in vita lui, lasciare che ripopolasse il giardino, concimato col suo stesso odio.  

Sasuke non sapeva come sarebbe morto, ma immaginava non sarebbe stato da anziano, al caldo nel suo letto e con la sua bella famiglia a piangerlo al capezzale – quello di cui era sicuro, era che lui sarebbe stato l'ultimo degli Uchiha, e che la pazzia lo avrebbe prima alimentato e poi sarebbe stata la sua condanna a morte. 

Era per questi e tanti altri motivi che, quando Naruto lo seguiva a casa, entrando con lui nel quartiere Uchiha, Sasuke si sentiva un po' come se stesse portando una persona sana in un lazzaretto di appestati. Provava allo stesso modo il profondo desiderio di tenerlo lontano da tutto, per proteggerlo, per vergogna, ed anche la necessità di trattenerlo, penetrargli la pelle con le unghie per aggrapparsi con disperazione e pregarlo di non andarsene mai più. Sasuke sentiva che Naruto era la boccata d'aria fresca dopo l'incendio, le lenzuola asciutte dopo un naufragio: aveva un bisogno viscerale di lui, ma proprio per questo sapeva di doverlo allontanare, perché lui non voleva altro che appiccare il fuoco e mandare la barca alla deriva. 

Naruto si muoveva nella sua casa assolutamente a suo agio, padrone di quello spazio come Sasuke non lo era più da tanto tempo, perché erano anni che si sentiva ospite dei propri fantasmi; ma se i mostri vengono fuori al buio, allora Naruto era la luce che riusciva a tenerli lontani almeno per un po'. 

"Ogni volta che vengo qui" disse Naruto, sedendosi al suo fianco e costringendolo a fargli spazio sullo zabuton. "Penso che casa mia sia veramente un buco del cazzo". 

Sasuke rise, scuotendo la testa. "Chiamala casa, è una stanza" sbottò, guardandolo divertito. "E col casino che c'è nemmeno si riesce a camminare". 

Naruto lo spintonò, fingendosi profondamente offeso, incastrandogli il gomito tra le costole; faceva un male cane, ma col suo corpo addosso Sasuke non pensò nemmeno per un attimo di lamentarsi. "Però" fece dopo poco, puntando gli occhi nei suoi. "Devi sentirti un po' solo". 

Sasuke sentì una voce nella sua testa urlare, perché un po' solo non era esattamente la definizione che avrebbe usato, eppure era sicuro che Naruto lo sapesse, che lo capisse; per un attimo pensò di dirglielo, di farsi consolare, di iniziare un pianto che non si sarebbe mai estinto perché non aveva radici e non poteva essere sradicato, o che forse ne aveva troppe, e allora non poteva essere sradicato comunque. Però i suoi occhi erano troppo belli per distrarsi adesso che li aveva così vicino, ed avrebbe zittito ogni pensiero, ogni paura, pur di non smettere di guardarli, la sua bocca troppo invitante per non baciarla, leccarla e morderla come invece stava facendo, le stretta delle sue mani troppo solida per provare anche solo a trovare la forza di scioglierla. 

Naruto sembrava conoscere, nella pressione di ogni singola porzione di pelle a contatto con la sua, nella combinazione dettata dalla posizione delle dita, dal modo in cui premeva le labbra sul suo collo, il codice esatto per arrivare a succhiare alla fonte diretta del suo dolore: riusciva a scorgere la sua anima, perché il dolore era, e Sasuke lo sapeva, la chiave di lettura di tutta la sua esistenza. 

Era dolore mentre Naruto gli entrava dentro, piantandosi nelle sue viscere come una lama di fuoco, lo era ad ogni spinta, ed era angoscia mentre provava piacere e gli veniva da piangere per la tristezza. 

La sua esistenza era Itachi. Sasuke gli apparteneva perché Itachi era il suo creatore ed il suo distruttore, il suo carnefice, l'utero nel quale si era generato: ogni pensiero, ogni respiro, ogni convinzione, ogni battito del suo cuore erano plasmati dalle sue mani ed erano un tributo a lui. Sasuke era nient'altro che un agnello nato e cresciuto per essere sacrificato all'altare della sua memoria. 

"Itachi" lo disse, mentre era a cosce aperte e con le unghie piantate nella schiena di Naruto; poi lo ripeté, per essere sicuro di averlo detto a voce alta. Voleva – no, aveva bisogno – che Naruto gli facesse del male, per restituirgli fisicamente tutta quella sofferenza con cui Itachi gli aveva stracciato l'anima condannandolo a morte. "Onii-chan" singhiozzò, e ad ogni sobbalzo arrivava un'altra spinta. "Scopami" tremò. "Più forte". 

Naruto posò il palmo della mano sui suoi occhi, schiacciò; Sasuke era certo che, con la pressione con cui la sua nuca premeva sul pavimento, il suo cranio sarebbe esploso come un chicco d'uva da un momento all'altro. Pensò di meritarlo. Poi però lui lo chiamò otouto  – Sasuke dovette sentirlo tre volte, prima di esserne sicuro – poi Sa'ske-chan, e capì il valore della sua mano a tenergli le palpebre serrate. 

Sasuke gemette, il ventre umido di umori e di sudore e la sensazione di essere spaccato a metà, e quando afferrò i capelli a Naruto quasi si stupì che non fossero lunghi, tra le dita, ma li immaginò comunque in quel modo.  

Era Itachi che lo stava cavalcando – era lui che si prendeva la sua verginità, perché gli apparteneva come tutto il resto, l'infanzia, la sua vita, la sua sanità mentale, la sua vendetta – era lui che gli ansimava contro la bocca, che gli diceva che era strettissimo, che non avrebbe voluto fare altro.  Sasuke si sentiva sporco – anzi, sapeva di esserlo. Era molto più a suo agio a sapere che era suo fratello maggiore a scoparlo, piuttosto che l'unico amico che avesse mai avuto, perché sapeva di averlo infettato, adesso: era una macchia d'olio che si espandeva nel mare dei suoi occhi. 

Baciò Naruto – baciò ItachiItachi – e sentì che le sue labbra erano umide. Capì due cose: la prima, era che Naruto gli avesse coperto gli occhi per non fargli vedere che stava piangendo (non, o forse, non solo per aiutarlo ad immaginare); la seconda, era che avrebbe tanto desiderato che Itachi piangesse per lui. 

 

Sasuke si guardò distrattamente in giro, seduto su una delle altalene del piccolo parco giochi che c'era nel villaggio; ricordava di averci passato poco tempo da bambino, molto più interessato agli allenamenti, rinchiuso nel suo piccolo guscio formato dalle pareti della sua casa e poi da quelle del suo quartiere.  

Si spinse debolmente, facendo pressione coi talloni sul terreno, che a furia di essere calpestato e spostato aveva formato una piccola conca: quante persone erano state prima di lui, su quell'altalena? Quante altre ce ne sarebbero state? Sasuke in quel momento era solo uno dei tanti bambini, ed era strano, ma consolatorio, essere per una volta solo un bambino, e non il bambino, quello Uchiha, il primo in accademia, il preferito del maestro Kakashi, la promessa, il sopravvissuto; tutte quelle accezioni sembravano incollarsi alle sue ali come miele – dolcissime, ma non riuscivano a fargli spiccare il volo. 

Chiuse gli occhi, le palpebre videro rosso per il sole che ormai tramontava. 

E se fosse anche stato il traditore, un giorno? 

L'altalena che occupava Naruto dondolava in fretta, cigolando sotto l'energia delle sue spinte: era lì a muoversi avanti ed indietro da una cosa come dieci minuti buoni, ma non sembrava meno entusiasta di quando aveva appena iniziato, anzi. Era questo che gli aveva sempre invidiato: l'entusiasmo. Sasuke non lo sentiva più da molto tempo. 

Lo guardava e vedeva solo qualcuno di migliore, qualcuno che non sarebbe mai stato: Naruto era il fondo della tazzina di caffè, dove si forma la cremina con lo zucchero non ancora sciolto; era l'erba morbida ed umida sotto l'ombra di un albero quando faceva caldo; era la risata che mozzava il respiro, il bacio della buona notte, il tè caldo mentre fuori pioveva, era tutte le promesse che avrebbe sempre mantenuto e l'uomo che sarebbe diventato. 

Sasuke lo ammirava, in silenzio, e sempre in silenzio lo amava. Non gli aveva mai reso giustizia per nulla. 

Piantò i piedi per terra e si alzò, afferrando con decisione una delle braccia dell'altalena, per fermarlo; la giostra dondolò pericolosamente, Naruto urlò per la sorpresa, ed imprecando riuscì per pochissimo a non cadere con la faccia nel terreno del parco.  

"Ma che cazzo ti prende?". 

Sasuke pensava che fosse terribilmente sboccato, immaginava che fosse una conseguenza ovvia per il fatto che non avesse ricevuto una educazione che potesse essere definita come tale.  

"Mi stavi facendo venire la nausea, usuratonkachi" disse, poi gli legò le braccia al collo, e lo baciò. 

Baciò solo lui, per un'infinità di tempo. Baciò Naruto, il suo primo vero amico, il suo primo vero amore, il suo salvatore, il suo compagno, il suo alleato, il suo avversario.  

Naruto gli strinse i fianchi tra le mani, se lo tirò addosso, lo strinse per non farlo allontanare; lasciò le sue labbra solo quando dovettero riprendere fiato ed assicurarsi che nessuno li avesse visti, ma non smise di tenere salda la presa sul suo corpo. Sasuke seguì la scia di saliva che collegava le loro bocche, e gli lasciò un ultimo bacio, stavolta asciutto e breve, prima di posare la fronte contro la sua. 

"Non mi avevi mai baciato così, teme" Naruto aveva la faccia rossissima, Sasuke lo trovò amabile, erotico. "Era il nostro primo bacio?". Sasuke gli rivolse uno sguardo triste, per scusarsi, ed annuì. "Ne sono felice" continuò a dire, abbracciandolo e nascondendo il viso contro il suo petto. "Perché è il più bello che tu mi abbia mai dato". 

Sasuke non ebbe il coraggio di dirgli niente, si limitò a carezzargli i capelli in silenzio, lasciandosi stringere anche se gli mancava il fiato. Non ebbe nemmeno il coraggio di dirgli che quello, probabilmente, sarebbe anche stato l'ultimo dei loro baci. 

Naruto era la terra, era la sua casa, era la vagina che lo inglobava per proteggerlo e custodirlo. 

Itachi era il dio e la lente, aveva tra le mani la capacità di non lasciare alcuna traccia del formicaio. 

Ma Sasuke, realizzò, non sarebbe più stata la formica: sarebbe stato il serpente che avrebbe morso la caviglia ed avvelenato chiunque si fosse divertito ad appiccare l'incendio. 





 


 
Salve a tutti, ehilà
Sono finalmente ritornata, mi sembra passato un secolo, ad essere sincera; spero che l'anno sia iniziato nel migliore dei modi (sì, lo so, è febbrario), che qualcuno abbia passato un bel San Valentino, che chi affronta la sessione invernale, e chi invece la chiusura del quadrimestre, sia riuscito a sopravvivere indenne - io, personalmente, non ce l'ho fatta XD
Bando alle ciance, passo subito a parlare della fic.
Volevo scrivere qualcosa del genere da, tipo, sempre; qualcosa che mettesse in chiaro il rapporto molto particolare tra Itachi e Sasuke o, almeno, il modo in cui lo vedo io all'interno della storia originale - questa è poi, infatti, la prima shot che scrivo non-AU, e penso che non avrei potuto fare una scelta migliore di questa, personalmente XD Per quanto riguarda le età: so che nella prima serie di Naruto si spazia dai 12 ai 13 anni, ma non volevo correre il rischio di non essere in linea col regolamento, sebbene le scene più "spinte" non siano descritte nei particolari, ecco perché mi sono limitata ad alzare di un solo anno le età, spero mi perdoniate di essermi presa questa libertà.
Non ho molto altro da aggiungere, se non ché le parti che ho citato sono, appunto, prese dal bellissimo libro che la Caska ha uscito da poco (se non la conoscete, allora, conoscetela), che ho amato tantissimo, e quando mi sono ritrovata davanti a quelle citazioni, non ho proprio potuto fare a meno di pensare "cazzo, Itachi e Sasuke, cazzo".
Dedico questa storia alla cara JhonnyMignotta, che manco mi conosce, che sicuramente non verrà a leggere 'sta fic e che purtroppo non pubblica qui nel fandom da troppo troppo tempo, ma gliela devo, perché se questa fic è nata, è anche merito suo, al parassita che mi ha lasciato dentro al cervello, che finalmente sono riuscita ad estirpare; e poi vabbe', lei la Caska la ama, quindi niente, ritengo che sia un ennesimo buon motivo per dedicare a lei questa piccola cosa - o, meglio ancora, parassita.
Alla prossima, grazie per essere arrivati fin qui e grazie mille in anticipo a chi lascerà una traccia del suo passaggio

 
   
 
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