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Autore: Makil_    19/02/2018    6 recensioni
Il fuoco del conflitto arde ancora, più vivo e forte che mai.
A Pantagos, gli esuli scampati al massacro più violento dell'ultima decade si affannano a vivere con i loro fantasmi: tra essi, respira ancora ser Bartimore di Fondocupo, la colombella di Sette Scuri che da formica si accinge a divenire un leone.
Intrighi, macchinazioni e inganni sono ora alla portata di chiunque: la pace sembra quasi un dono irrealizzabile, l'odio vive ancora aggrappato al mondo dei mortali e la guerra è ancora tutta da giocare.
[Atto secondo de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", di cui si consiglia caldamente la lettura]
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Pantagos'
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Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

Ossa di tanverna: vengono impiegate, fuse, nella creazione di gioielli d'importantissimo valore e armi, poiché molto robuste, lunghe, e spesso colme di essenze magiche o, addirittura, proprietà venefiche. 
Accolitoapprendista di grado infimo che accompagna ogni esperto votato legalmente all'Accademia al fine di apprendere da quest'ultimo e al tempo stesso essergli d'aiuto.
Fiore Rosso: morbo sopraggiunto a Pantagos dalle Terre Spezzate con l'avanzare della Guerra Grigia; la malattia si manifesta con delle macchie color vinaccio sparse indistintamente sul corpo in seguito ad un contagio che, nella maggior parte dei casi, è causa di morte.


 


 



La luce del sole tingeva alla bell’e meglio quel nido gigantesco di fusti contorti, braccia nodose di finissimo legno da cui penzolavano frutti di ogni genere e forma. Tra gli ammassi di limoni gialli come l’oro, cornucopie di frutta di ogni genere si accalcavano l’una sull’altra tra i folti e floridi grovigli di foglie del giardino.
Quello che avevano di fronte i quattro vagabondi era a tutti gli effetti uno degli spettacoli più belli della natura. I giardini fioriti si estendevano per un indefinito numero di acri e coprivano gran parte di un suolo che, in un clima di carestia così forte, non avrebbe facilmente partorito tutti quei beni. Chi aveva progettato quei giardini lo aveva fatto con immensa pignoleria, studiando un metodo davvero efficiente per permettere al corso del Ravinh di deviare ed incunearsi all’interno delle siepi verdeggianti che coronavano il giardino, affinché abbeverasse ogni fusto di quel campo con meticolosa cura. Ovunque di posassero gli occhi di Bart, c’erano rami intricati e robusti, altri sottili, appena nati, e tanti altri ancora molto alti. I limoni pendevano da quasi ciascun arbusto, splendendo sotto il sole cocente di quella calda giornata come tanti piccoli soli appostati l’uno dietro l’altro. Quella che si trovavano davanti era a tutti gli effetti un tesoro ribollente, succoso, profumato e dannatamente invitante.
Persino lo zampino inquisitore di Steffon era stato dolcemente schiaffeggiato sul nascere quando si erano ritrovati di fronte a quella immensa tana di cibo. «Una miniera» aveva mormorato correttamente ser Mark. «Potremmo tuffarci lì dentro ed uscirne di notte. Sono sicuro che diverremo grossi come quei limoni là in fondo.»
Al che Steffon aveva riso. «Una miniera: hai ragione, ma non la nostra. Questa è la miniera di Giardino Fiorito, miei signori, un campo di frutta che ha il compito di far proliferare l’economia del regno a cui appartiene. Se l’avessi intuito prima, vi avrei detto di procedere verso est. Questo campo è di proprietà della casa Wargrave, di cui i figli si dicono essere tipi tutt’altro che ospitali e molto gelosi delle cose che gli appartengono»
Tuttavia, malgrado le prediche dell’esperto, tutti e persino lui avevano ceduto alla tentazione di avvicinarsi anche solo di poco a quei piccoli arbusti di limone: la fame aveva iniziato a farsi desiderare ardentemente, e non c’era rischio o pericolo che effettivamente potesse costringerli ad indietreggiare. Non c’era guardia a difesa di quei possedimenti, né un singolo arciere nascosto tra le fronde di qualche albero: solo il giardino, unico custode di sé stesso e di quelle dolci prelibatezze. Chi si sarebbe accorto del furto di una misera parte di quella consistente riserva?
Pochi passi li avevano condotti in un grande spiazzo all’interno del giardino, circondato da ogni lato dalle schiere di alberi colmi di frutta. Il corso del fiumiciattolo giungeva al centro dello spazio sterrato e si tramutava in una piccolissima sorgente, la quale scendeva sotto la terra e passava a piccoli sorsi all’interno di tunnel scavati proprio per irrigare a poco a poco le radici di ogni fusto.
«Questa qui è opera di un esperto» ipotizzò Steffon. «Solo un uomo ben istruito sarebbe capace di creare un simile sistema di irrigazione». Bart sapeva, invece, che non era proprio del tutto vero.
A Sette Scuri era stato lo stesso Dalton Kordrum, su probabile ideazione di sua moglie Amisa, a rendere possibile l’inizio degli scavi per quelle che furono presto chiamate Vene d’Acciaio, un ammasso di canali sotterranei che si intersecavano l’un l’altro come serpenti imbizzarriti, utili tutti insieme per condurre l’acqua calda nelle vasche di ogni casa del regno e nelle stanze private della corte reale.
«Dividiamoci» propose ser Mark divorando una nocepesca afferrata al volo. «Prendete quanto più potete prendere e dopo tornate qui. Passiamo a fil di spada questo maledetto giardino!»
Steffon piegò le labbra in segno di diniego. Il patres avrebbe sicuramente avuto molto da ridire, ma ser Mark non gli diede modo di rimproverarlo: il cavaliere corse più avanti e si inoltrò all’interno del giardino di rami che li circondava. Steffon avrebbe preso la sua parte di guida, se non avesse avuto la stessa fame di ciascuno dei suoi compagni. Il patres spostò il carretto verso ovest e si preparò a setacciare i piccoli arbusti di limone in riga sulla sponda del fiumiciattolo.
Ser Dayn e ser Bart passarono a raccogliere i frutti di ogni arbusto che si affacciava sulla breve sponda orientale della sorgente, entrambi sul dorso delle loro bestie. Nuvola e Lenticchia si stacano sollazzando in tutta quella buona, dolce e succosa frutta. Per quel poco che gli fu consentito, Lenticchia se la spassò nell’afferrare gli scuri grappoli d’uva con colpi netti del muso.
Le ciliegie splendevano nei loro piccoli fusti, le pesche crescevano tondeggianti sugli alberi di pesco, l’uva sbucava dai viticci, viola, ricca di polpa. C’era talmente tanta frutta, che presto i quattro erranti si persero di vista pur di acciuffare in modo migliore quanto più cibo potessero ghermire.
Bart fece avanzare Lenticchia verso oriente, spingendosi sempre più all’interno di quell’intricato ammasso di arboscelli. Avrebbe dato la vita pur di rimanere per sempre lì dentro a gustare tutte quelle sane prelibatezze. Il profumo di tutta quella frutta era capace di irretire i suoi sensi.
Poco lontano dalla sua postazione, il nitrito affamato di Lenticchia gli fece notare uno dei più robusti alberi di ciliegie. «Sh» fece alla bestia. «Piano ci arriveremo.»
Bart afferrò la maggior parte degli acini d’uva di quella folta vite, assicurandosi di mettere tutte quelle che non c’entravano in bocca nella sacca creata arrotolando la camicia. Finito il lavoro, spronò Lenticchia ad avanzare verso un nuovo arbusto. Senza neppure badare a quanto sbagliato o giusto fosse il suo gesto, Bartimore continuò a privare ogni arbusto dei suoi frutti, riflettendo solo su quanto ancora non fosse sazio e su quanto filo da torcere stesse dando Lenticchia, che nel frattempo si stava dando da fare per scalciare sempre più nervosamente. «Ora ci arriviamo» cercò di quietarlo, ma il cavallo non rispose in alcun modo alle sue parole.
L’acqua stava gorgogliando lentamente sotto ai suoi piedi, nelle cavità più interne al terreno, occupandosi di dar da bere a tutte quelle piante. Bart fece avanzare Lenticchia verso un robusto albero di limoni. “Ne prenderò qualcuno” si disse. Allungò la mano.
«Altolà, impostore!»
Bart, la bocca piena di ciliegie e le guance rosse cotte dal sole, fu costretto a gettare ogni cosa ai piedi di Lenticchia. Le ciliegie iniziarono a rotolare vicino agli zoccoli del cavallo e uno dei tanti limoni discese fino ad arrivare vicino all’uomo che lo aveva richiamato. Il grosso e rubicondo cavaliere lo schiacciò col piede e rigirò l’arto sull’agrume per ben due volte prima di sollevare lo sguardo. Bart fece per indietreggiare, ma il grasso cavaliere sfilò fulmineamente la sua spada e la puntò al suo petto. L’uomo che lo minacciava di non muoversi era un tipo dal ventre molto prominente, il naso rosso e pieno di vene scoppiate, gli occhi sporgenti, le sopracciglia folte e il capo calvo. Bart fece per parlare: alzò le mani.
«Ho detto che devi fermarti» ordinò con una voce profonda. Il naso del cavaliere grasso colava appena di un sangue scuro e asciutto. Al braccio destro cingeva uno scudo dipinto di bianco dalla forma triangolare, sul cui dorso era disegnata una fanciulla sanguinante in gonna e corona.
«Posso spiegare…»
«Nessuno ti ha dato ordine di parlare» riprese il cavaliere con tutta l’aria di volerlo pungolare veramente al petto. «Scendi da questo cavallo, nel buon nome degli dèi… qualunque siano i tuoi!»
Bart non attese che il cavaliere lo minacciasse nuovamente; smontò da Lenticchia senza lasciarne la presa delle redini e portò rapidamente la mano sinistra all’elsa di Lungacrestra.
«Ti trovi nella proprietà della corona Wargrave, impostore, e stavi rubando la ricchezza di una casa secolare. Dovrai risponderne di fronte alla buona giustizia dell’Accademia, nel buon nome degli dèi che servi!». Il cavaliere non accennò ad abbassare il braccio. «Sei un altro sporco traditore della Signora dei Merletti?»
«Non conosco nessuna Signora dei Merletti, ser. Se posso, io avevo solo…»
«Sta’ muto o ucciderò entrambi.»
«Entrambi?» riuscì a domandare Bart, quasi terrorizzato da quell’uscita minacciosa.
«Te e il cavallo, lurido figlio di una cagna.»
Il tono del cavaliere non poteva certo apparire amichevole: persino Lenticchia lo notò presto e, per questo, prese a nitrire e scalciare molto furiosamente.
«Chi ti manda a rubare le provviste del mio signore, allora?» chiese il ser.
«Nessuno: solo la fame. Non mangio da…» rispose secco Bart.
«Queste in cui ti trovi sono terre di sua signoria Roscart Wargrave, e non è concessa l’entrata ai mercenari.» lo fermò il cavaliere. «Ma tu non sei un mercenario, ser. Vorrai negarlo?»
«Non lo nego.»
«Io li conosco quelli come te. Oh, non giriamoci a lungo attorno allora, giovane ficcanaso, quella baldracca sporca della tua Signora dei Merletti ti ha comandato di riportarle i giardini… o almeno i frutti di quello che dice essere di sua proprietà. Un vero peccato per te che qui ci fossi io. Non è la prima volta che tentate di mettere le vostre luride zampe sul bene primario dei Wargrave. E ora ve le tagliamo noi, le mani. E poi magari le appendiamo anche ad uno di questi alberi, così il prossimo che passa a rubare acciuffa qualcosa di più della solita frutta.»
«No» mormorò incondizionatamente Bart. “Non questa volta”. «Hai sbagliato persona, ser.»
«Come dici?». Il cavaliere tese maggiormente la spada ed infilzò il suo petto girando la punta dell’arma nella sua carne. Ne risultò una scura fuoriuscita di sangue, di un rigagnolo che attraversava appena la camicia.
Bart si morse il labbro fino a fare sanguinare anche questo. «Ho detto che hai sbagliato persona.»
Non resistette un secondo di più. Si tirò indietro, diede un calcio nel ginocchio del cavaliere con una forza che bastò a farlo cadere per terra e sfilò rapidamente Lungacresta. In breve la situazione si ribaltò: Bart si stagliò contro il ser panciuto, puntò la sua spada contro di lui e lo minacciò severamente con lo sguardo. «Non una sola parola di più, o ti taglio tutto ciò che hai di più caro.»
Il cavaliere si spostò per terra strisciando sul ventre con i gomiti sporchi di terra, poi si girò supino.
«Per chi agisci?» domandò furioso Bart. “Razza di bifolco”.
Il cavaliere non osò rispondere; si limitò a squadrarlo torvo e a sputargli sul piede destro.  
Bart alzò la lama contro il cielo e fece per abbassarla minacciosamente. “Ne ho il diritto?” si chiese prima di compiere quel gesto. Gli era sempre stato insegnato ad utilizzare la parola prima che l’acciaio, qualunque fosse la gravità della situazione presente.
«Cavaliere» pronunciò lentamente il grasso ser oppresso. «Riponi la tua spada e parliamone da civili. Io… io… potrei aver sbagliato.»
«Potresti» fece Bart, prima di rinfoderare Lungacrestra. «Potresti davvero». Gli diede la destra e lo aiutò a rimettersi in piedi. «Ma ti consiglio di fare più attenzione, la prossima volta.»
Il cavaliere si esibì in un sorrisetto mellifluo. «E io ti consiglio di farlo adesso!»
A quel punto Bart perse la concezione del reale. Fu colpito alle spalle da un colpo d’elsa alla base del collo e fu costretto a cadere pesantemente sulle ginocchia. In breve si ritrovò con la testa schiacciata contro il suolo, lo stivale del ser grassoccio a schiacciare la sua guancia, la lama puntata dritta contro la sua schiena.
«Lo avevo detto a quel tuo bastardo di un compagno» urlò il grasso cavaliere. «Com’è che aveva detto di chiamarsi? Oh sì, ser Wilbert delle Marche Brune… come dimenticare! E non potrò dimenticare neppure le urla che seguirono al suo arresto, quando gli facemmo staccare di sana pianta la testa dal collo e la gettammo nel catrame. Non avete tutti i torti voi della resistenza della Signora dei Merletti: il sangue è fetido… sì, il vostro lo è tanto». Il cavaliere sospirò e ridacchiò. «Ser Walifer, arresta questo lurido impostore… è tempo che sappiano quanto vale la parola dei Wargrave: la loro signora sembra averlo scordato da un pezzo. Solo le legnate avranno modo di ridarle coscienza.»
Ser Walifer era il cavaliere che lo aveva colpito con l’elsa della sua spada: un uomo dalle spalle larghe, le braccia robuste e poderose come i fusti dei tanti arbusti che li circondavano. La cosa che più incuteva terrore era il suo volto: un viso dalla mascella squadrata con una perfezione magistrale, i lineamenti perfettamente disegnati, se non per l’occhio sinistro mancante e sostituito con un bulbo vitreo color fuoco, oltrepassato da una lunga cicatrice scarlatta.
Ser Walifer non aspettò l’ordine successivo: come un cane richiamato dal suo padrone, si apprestò a sollevare di forza il corpo smagrito di Bart per la collottola, lo voltò di spalle e gli afferrò le mani in modo tutt’altro che gentile. Bart non rimase impassibile: tentò di farsi di lato due volte, ma si liberò solo alla terza. Un pugno abbattuto sulla cotta di ser Walifer gli diede il tempo di sguainare Lungacresta e di portarla sulla sinistra, mentre il suo nemico si contorceva con le mani allo stomaco per il dolore causato dal colpo.
«Ser» lo richiamò il grasso cavaliere che si era lasciato alle spalle. Non appena Bart si voltò, il ser dal ventre poderoso sguainò rapidamente un pugnale; portò l’arma alla stessa velocità sotto alla gola di Lenticchia e recise nettamente il collo del cavallo. Il colpo, mirato perfettamente alla carotide della bestia, mandò l’innocente creatura ad accasciarsi dapprima sulle gambe, poi definitivamente per terra. Fu con uno sguardo di piena incoscienza che la creatura lanciò un ultimo sguardo puro a quello che era stato il suo più fedele compagno di viaggio negli ultimi mesi di vita.
Bart non vide più quale freno potesse trattenerlo: scartò di lato, mulinò furiosamente la sua lama e la scontrò verso il grasso ser. Questi parò il suo primo colpo, deviò un suo fendente, e continuò ad affrontarlo per un altro paio di mosse. Bart aveva tutta l’intenzione di abbatterlo: non aveva alcun dubbio su questo. Fece una finta, alzò la lama e gliela scaraventò sul suo corpo, ma il cavaliere panciuto riuscì a parare il colpo con il suo scudo triangolare, che si frantumò tra le sue mani e si sbriciolò in cento pezzettini di legno e schegge.
Infierì presto con un fendente e riuscì ad infilzarlo sul costato. «Vediamo se anche tu hai del sangue». Bart mulinò la sua spada e gliela calò con forza all’altezza del braccio. Gli strappò via quel poco legno che aveva messo a pararlo, dilaniò la sua cotta e...e…
…e uno strano suono investì lo scontro: la mano del ser panciuto si staccò di netto dal suo braccio, la spada cadde definitivamente ai suoi piedi, e lo stesso arto rotolò sul terreno come un limone appena staccato dal suo fusto. Il ser urlò per il dolore e il suo volto si fece molto più rosso di quello di Bart, sporcandosi non solo dell’ira del cavaliere, ma anche del sangue che zampillava da quella grande ferita.
«Lurido essere schifoso» piagnucolò il ser panciuto ricadendo sulle ginocchia e afferrando ciò che rimaneva del suo braccio con l’intento di fermare la fuoriuscita del sangue. Il cavaliere dal ventre sporgente iniziò a dimenarsi per terra. «Cavaliere della Forca, dannato uomo inutile, acciuffa questo impostore e uccidilo!»
Ser Walifer prese a rincorrerlo per il giardino.
Bart scavalcò per primo il cavaliere panciuto genuflesso sul terreno, poi anche il cadavere inerte del suo povero cavallo, e fuggì via verso ovest: lo stesso punto da cui era arrivato lì. Ripercorse rapidamente la strada fatta sul dorso di Lenticchia, lo sguardo annebbiato dal dolore e dall’ardimento. Il cavaliere che lo rincorreva era tanto grosso quanto lento e presto lo perse di vista allo stesso modo con cui lui perse la sua preda. Si precipitò attraverso un sentiero di siepi basse, passò sotto al ramo contorto di un piccolo albero di mele e scavalcò un robusto macigno di granito.
Ben presto si ritrovò nello spiazzo di terra battuta che conteneva la sorgente d’acqua: ma ciò che vide non fu nulla di rincuorante. Patres Steffon e ser Dayn giacevano per terra, mani e piedi legati, due daghe puntate violentemente alle gole da due ser arcigni tanto quanto quelli che si era lasciato alle spalle. A giudicare dal sangue che avevano sul corpo, anche i suoi due compagni dovevano aver combattuto, benché la superiorità numerica di tutti quei cavalieri doveva averli abbattuti senza scrupoli.
«Steffon!» urlò Bart che di colpo si era fermato sulla sponda destra della sorgente, agitando le sue deboli braccia. «Dayn!»
Chissà cosa avrebbero risposto quei due, se lui li avesse potuti osservare anche solo da una distanza più ravvicinata. Steffon, nonostante le ferite, avrebbe sicuramente avuto modo di lamentare la loro stupidità o avrebbe addirittura rimproverato i suoi scellerati modi accentuati dalla fame. Forse ser Dayn lo avrebbe accolto con uno dei suoi caldi sorrisi, con i suoi occhi luccicanti e pieni di speranza.
Bart non poté mai dare conferma dei suoi pensieri: ser Walifer, il Cavaliere della Forca, lo afferrò aggressivamente dalle spalle, gli piegò le braccia dietro alla schiena e gli afferrò con una sola mano la nuca. L’ultimo suono che avvertì fu lo scricchiolio delle ossa del suo collo, ruotato con impeto a sinistra, che lo mandò a coricarsi per terra, nel buio più totale. 



♣ Angolo d'autore ♣
Entriamo nel vivo della storia con questo capitolo alquanto nefasto: i nostri hanno visto da vicino i famosi giardini descritti da Rowan Dentigialli... ma qualcosa è andato storto. 
Vi avevo promesso azione, e credo ci sia stata. Questo capitolo di snodo costituisce le fondamenta per la trama che verrà, introducendo personaggi di notevole rilevanza. Ma prima di quelli, è necessario badare un po' ai nostri.
Cosa ve ne è parso dell'atteggiamento di Steffon, distaccato ma al tempo stesso permissivo nei confronti dei compagni? Vi aspettavate una conclusione tanto disastrosa? 
Cosa mi dite del gesto di Bartimore? Del suo essersi scagliato contro il ser panciuto e minaccioso, privandolo addirittura dell'arto? Dite che il nostro giovane ser avrebbe fatto lo stesso nel primo libro? 

Siamo costretti a salutare uno dei più longevi personaggi della storia: Lenticchia. Cosa mi dite della sua morte?
E cosa della conclusione del capitolo? Cosa pensate sia successo a Steffon e Dayn... e dov'è finito ser Mark? 

Insomma, fatemi sapere... sono curiosissimo di leggervi!

Un capitolo alquanto violento e rude: così - pur con rammarico - vi lascio. Ringrazio recensori e lettori, dal primo all'ultimo. Siete tutti troppo gentili. Al prossimo appuntamento, miei cari! [lunedì 26 c.m.]

Makil_
   
 
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