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Autore: Heihei    20/02/2018    2 recensioni
Della vita che ha lasciato, a Beth non resta nient'altro che un buco in testa e qualche incubo. Quindi cerca di tornare indietro, seguendone le tracce.
Nel frattempo, le certezze di Daryl vacillano e ritorna su ciò che ha lasciato, seguendone la luce.
Questa storia NON mi appartiene; mi sono limitata a tradurla con il consenso dell'autrice, che è Alfsigesey. Potete trovare la storia originale su fanfiction.net
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beth Greene, Daryl Dixon
Note: Traduzione, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Stranger.

 

GLENN VAI A TERMINUS

- MAGGIE

Beth se ne sta in piedi di fronte a quel messaggio disperato scritto col sangue per un tempo che sembra equivalere al passare di diversi giorni.
Otto mesi di ricerche e quel graffito sbiadito è l’unica traccia che ha trovato.
Si chiede da quanto tempo sia lì, perché è stato consumato dall’ambiente; la pioggia e le alluvioni devono averlo colpito più volte di recente, ma ha resistito: anche se è evidente che le lettere abbiano perso quel rosso intenso che deve averle caratterizzate all’inizio, sono ancora chiaramente leggibili.
Nell’immediato, non può fare a meno di sentirsi elettrizzata. Non ha mai avuto nessun ricordo di Maggie e Glenn che fosse posteriore alla caduta della prigione. Zero. Sa solo di aver avuto paura, perché ha pensato che fossero morti quello stesso giorno, come suo padre, ma allo stesso tempo sa di non poter contemplare quella sensazione troppo a lungo e permetterle di mettere le radici nel suo cuore. Insieme al sollievo, infatti, qualcos’altro scuote il suo subconscio ed è il terrore. È terrorizzata e lo è stata per tutto il tempo.
Maggie e Glenn sono sopravvissuti all’attacco alla prigione. Devono essere sopravvissuti, e Maggie probabilmente ha lasciato quel messaggio perché… devono essersi persi. Forse sono fuggiti insieme e qualcosa li ha costretti a trovare un altro punto d’incontro, in cui magari lei non ha potuto fermarsi.
Terminus.
Quel nome la fa rabbrividire; spazza via in un lampo ogni tipo di sollievo e speranza che è riuscita a provare nei loro confronti, lasciandole solo l’amarezza e la paura.
Prima di iniziare le ricerche, ha trascorso ben due mesi in convalescenza in cui è rimasta nei pressi della fattoria, uscendo solo per cacciare e cercare qualcosa di utile, ma appena ha cominciato ad allontanarsi da lì, la prima cosa a cui ha pensato è stata l’idea di tornare alla prigione. Senza preoccuparsi dei rischi che avrebbe potuto correre, ha percorso settanta miglia di strada, perché non sapeva cos’altro fare. Ha pensato di doverli trovare, ma la prigione non ha saputo offrirle nient’altro che ricordi. Ha fatto dietro front ancora prima di arrivare ai giardini, perché già guardarla da lontano faceva un male non indifferente. Perlomeno, dato che il percorso non presentava particolari problemi, si è messa a cercarli nei dintorni, anche se era passato così tanto tempo che ormai non aveva più senso. Tutto ciò che ha trovato, infatti, è stato un bus abbandonato, inutile e arrugginito e, allontanandosi ancora di più, ha visto quei cartelli che promettevano un rifugio.
Sembravano vecchi e trascurati, ma si era permessa di sperarci almeno un po’. Eppure, anche quella volta, più si avvicinava, più quella speranza diventava piatta e irrazionale. I cartelli hanno cominciato a riempirsi di avvertimenti del tipo “Non c’è nessun rifugio” e cose così, ma Terminus era vicina a Senoia. Non le costava nulla dare un’occhiata, ma ha trovato solo macerie bruciate. Proprio come la fattoria; proprio come la prigione. Il vuoto più totale.
“Glenn vai a Terminus.”
Nel ritrovarselo di nuovo davanti dopo molti mesi, rilegge il messaggio lasciato da Maggie tra i denti. Si sono separati dopo l’attacco alla prigione, proprio come lei e Daryl si sono separati dal resto del gruppo. Gli aveva lasciato un messaggio nella speranza che lo leggesse…
Ma non l’ha lasciato a te.
Deglutendo rumorosamente, Beth cerca di dare sia a se stessa che a sua sorella il beneficio del dubbio. Ancora non è sicura dell’ordine in cui si sono succeduti gli eventi, la sua memoria non rende ancora le cose del tutto chiare. Ci deve pur essere qualche ragione valida che abbia spinto a sua sorella a darla per spacciata, no?
Non le è servita una ragione, solo sapere che mi ha persa è stato sufficiente. Io non sono come gli altri, si risponde da sola.
Infatti, Glenn è stato il destinatario di quel messaggio perché lui era quello che sarebbe potuto sopravvivere. Maggie deve aver soppesato le loro possibilità di vita, le loro capacità, e aveva scelto la persona che più era possibile rincontrare per strada. E non era sua sorella.
Pensandoci, Beth realizza che Maggie ha avuto torto marcio sul suo conto. Volge il viso verso il calore del sole e tira una necessaria e profonda boccata d’aria.
Hanno rinunciato a me, conclude, espirando. Quindi perché io li sto ancora cercando?
I suoi pensieri vengono spezzati da uno scricchiolio proveniente dal bosco alle sue spalle. Raggiunge il coltello che porta sul fianco con la mano sinistra e afferra la pistola con la destra, per poi cominciare a muoversi il più in fretta e in silenzio possibile verso la sua auto. È stato un rumore isolato e veloce. Forse è stato di qualche animale, ma certamente non è stata opera di un vagante.
Senza mai voltare le spalle al bosco, si trascina lungo la fiancata dell’auto e raggiunge il cofano, dove può sostituire la pistola con uno dei vecchi fucili da caccia di Otis.
Quando sono fuggiti dalla fattoria, sono riusciti a portare via con loro la maggior parte delle armi, ma per fortuna è riuscita a trovare un paio di altre cose che Otis e Patricia dovevano aver nascosto prima di morire quando ancora non si fidavano dei loro ospiti.
Con il calcio del fucile poggiato sulla spalla, si avvicina alle file di alberi e valuta che quella cosa che ha sentito, qualsiasi essa sia, dovrebbe essere ancora almeno a una ventina di metri dai binari del treno, a meno che non si sia avvicinata per attaccarla senza che sia riuscita a sentirla. Utilizzando il mirino per osservare la fitta boscaglia, resta sull’attenti per un po’, con il fucile ben fissato sull’osso della sua spalla. In un primo momento non vede nulla, neanche una potenziale cena, ma poi un piccolo movimento attira la sua attenzione: a primo acchito, sembra solo un vagante spiaccicato sul terreno che ha ancora la forza di muoversi ancora un po’, di dimenarsi quel tanto che basta per farsi riconoscere. A quel punto, Beth abbassa il fucile, ma decide di doverlo abbattere prima di andare via.
La sua figura è così mimetizzata col terreno che chiunque potrebbe camminarci sopra senza accorgersene. Ora che sa che è solo un vagante solitario ed innocuo, è meno cauta nei movimenti e, quando è abbastanza vicina e con il coltello pronto all’uso, quella creatura sembra diventare improvvisamente più vigile. Poi gira la testa, ed è allora che si rende conto del suo grave errore.
Merda!
Si allontana con un grosso scatto all’indietro, mettendo tra loro alcune file di alberi e di cespugli. Raggiunge la sua auto, che la stava aspettando pazientemente sui binari, vi ci entra e accende il motore, partendo in retromarcia per ripercorrere le strisce che ha lasciato a terra quando, guidando lungo la ferrovia, aveva visto il messaggio di Maggie.
Solo quando rimette la prima per andarsene via, Beth si sofferma di nuovo su quello che ha appena visto: un essere umano, una persona vivente. Da quando si è svegliata, le ultime persone vive che ha visto sono state Hiatt e Wanda. Non è neanche riuscita a capire se fosse un uomo o una donna, quell’essere che sguazzava nel fango. Sa solo che non era un vagante e che non era affamato di lei, ma solo stanco. Deve essersi ricoperto di fango e di sangue per camuffarsi e dormire in santa pace.
Si era alzato in modo maldestro e lento, proprio come un vagante, ma poi aveva sbadigliato e lei non aveva mai visto sbadigliare un vagante. I vestiti che indossava erano troppo grandi e sporchi, così come lo erano il collo e il viso. Aveva i capelli lunghi fino alle spalle, arruffati e completamente incrostati di fango. Le sono sembrati quasi una sorta di elmo.
Non si è mai sentita così pulita come in quel momento, quello in cui ha scoperto che era vivo.
Quando la sua testa stava ancora guarendo, aveva dei capelli pessimi. Era troppo difficile prendersene cura senza tirare il cuoio capelluto e causare quell’atroce dolore pulsante che le restava impiantato nel cranio per ore. Come Hiatt aveva previsto, il foro d’uscita era abbastanza piccolo da permettere alle ossa e alla pelle di rimarginarsi da sole, anche se quella macchia rotonda, grande quasi come una moneta da venti centesimi, è leggermente infossata rispetto al resto del cranio e, anche se il suo cuoio capelluto si è cicatrizzato, le ha lasciato un punto della testa che sarà permanentemente calvo.
Gestire i suoi capelli da sola si era rivelato troppo oneroso, soprattutto con la ferita in via di guarigione e con una chioma così folta. Così, per pura frustrazione, ci aveva dato un taglio e la situazione era decisamente migliorata, le faceva anche meno male. Adesso, i capelli le arrivano alle spalle e, anche se è difficile avere una buona visuale della parte posteriore della sua testa, è certa che il punto calvo sia ancora visibile, a meno che non lo copra con una sciarpa.
Alla fine, se lei continuerà a non farsi vedere, nessuno lo vedrà comunque.
Continuando a pensare a quanto sia stato difficile prendersi cura di se stessa in quelle condizioni, si morde il labbro inferiore e osserva lo specchietto retrovisore.
Se Wanda e Hiatt non mi avessero vista quando ero ancora un disastro e non avessero deciso di aiutarmi, probabilmente ora sarei morta, si dice. E quella creatura nei boschi ha decisamente bisogno di aiuto.
Dannazione.
Il suo cuore accelera i battiti. Ha pensato a lungo e con impazienza alla possibilità di ricongiungersi con la sua famiglia e a volte, quando le fa troppo male pensarci, pensa a come sarebbe la situazione se trovasse qualcuno, chiunque, qualsiasi altra brava persona rimasta nel mondo. Odia stare da sola, ma allo stesso tempo, dal momento che ha paura di avvicinarsi a chiunque, pensa che è meglio così.
Sono passati più o meno otto mesi da quando hai visto altri esseri umani e potrebbero passarne altri otto prima che tu ne veda ancora. Potrebbe non accadere mai più.
Schiacciando il freno, Beth si volta a guardare il parabrezza posteriore, chiedendosi quale sia la scelta giusta da fare.
Potrebbe essere pericoloso.
Fa’ attenzione.

“Tutto è pericoloso ormai”, sussurra mentre fa inversione di marcia, con il cuore ancora a mille.
Allo stesso tempo, però, sa di non poter semplicemente tornare là e parlare con quella persone. Rischierebbe e si esporrebbe troppo.
Lo seguirò e lo osserverò. Solo allora, deciderò cosa fare.

 

∂∂∂∂∂∂∂∂∂

 

“Sembra stabile. Devono essere qui già da un po’ di tempo”, dice Aaron con cautela e a pochi centimetri dalla spalla di Daryl, che sente il calcio del suo fucile premergli al centro del petto mentre li osserva dal mirino.
“Quanti ne vedi?”, mormora. Lui, da lontano, è riuscito a individuarne solo due: un ragazzo asiatico piuttosto tarchiato e un uomo alto con degli occhiali da vista tenuti insieme da del nastro isolante sporco e argentato.
“Credo siano sei. Ho visto quattro uomini, una donna e forse c’è qualcuno malato o ferito nella tenda verde. Quello grosso è tornato mezz’ora fa con del cibo e l’ha semplicemente lasciato lì. Non riesco a capirci molto, ma dalle ombre sembra che ci sia una persona minuta, che apparentemente non riesce a tenersi in piedi.” Aaron gli dà un colpetto sulla spalla, indicandogli la tenda verde situata nel punto più lontano del campo, dietro a un albero.
Nel chiarore del mattino, la persona sdraiata al suo interno forma effettivamente un’ombra molto piccola. Aaron ha ragione, deve essere piccola e distesa di schiena. Magari ha la febbre, o cerca di non muoversi per il dolore.
“Nessuno sembra particolarmente squilibrato”, aggiunge il suo compagno con una nota di speranza.
Peccato che questo non basti, pensa, ma frena la lingua. Ha decisamente abbandonato l’idea di poter trovare qualcuno in quel viaggio, perché la sua mente è stata quasi sempre concentrata sul loro ritorno alla fattoria. Magari ci sono ancora delle scorte di cibo nel seminterrato, dato che quando sono scappati via hanno dovuto lasciarne indietro un bel po’; per non parlare poi delle altre scorte. Non c’era solo roba per bambini, ma anche il Winniebago di Dale, che non ha mai dimenticato. Certo, le probabilità che riesca a farlo funzionare dopo due anni che è rimasto fermo nello stesso posto sono piuttosto scarse, ma deve provarci lo stesso.
A essere onesto, la cosa che più è determinato a trovare sono le fotografie. Vorrebbe rivedere il suo viso, vorrebbe essere certo di poter mettere a posto le cose almeno nella sua testa. È davvero come se la ricorda? O l’ha trasformata in qualcosa di finto, di troppo perfetto per essere davvero stato vissuto? Ha bisogno di rivederla.
A dieci miglia dalla fattoria, hanno trovato questo piccolo accampamento e Aaron ha ragione: effettivamente, sembra che stiano lì già da un po’, anche se non sembrano abbastanza furbi. Sì, dalla strada nessuno potrebbe vederli perché sono abbastanza lontani, ma non sono davvero ben nascosti.
Vede l’asiatico dare un colpetto sulla spalla allo spilungone. È un gesto semplice, scherzoso, ma lo rassicura del fatto che almeno queste persone sono un gruppo. Magari non allo stesso modo in cui Rick ha trasformato tutti loro in una famiglia, ma c’è aria di qualcosa di simile. Forse non sono furbi, forse non sono una famiglia, ma non sono neanche un gruppo di stronzi che stanno insieme semplicemente per non morire. Già è qualcosa.
“Il tizio alto con gli occhiali non sembra poi così tanto un sopravvissuto”, dice.
Non li sta prendendo in giro, è solo curioso di sapere come quell’uomo abbia fatto a sopravvivere mentre altri, magari più forti di lui, non ce l’hanno fatta. Il modo goffo con cui maneggia in continuazione la pistola mentre torna al centro del campo la dice lunga: è evidente che odia portarla in giro, che non è abituato ad usarla; è paranoico e la guarda come se potesse spararsi da un momento all’altro sui piedi.
“Lui no, ma il resto sì e sembra che lo proteggano, che non sia solo un peso morto. Lo stesso vale per quello nella tenda”, ribatte Aaron.
Daryl annuisce, spostando il suo mirino per vedere qualcos’altro. “È difficile dirlo dato che ha tutta quella merda in faccia, ma l’asiatico mi sembra...”, taglia corto prima di dire la parola ‘familiare’ e punta lentamente l’unica donna del gruppo, quella che Aaron aveva già indicato. Ha i capelli ricci e castani, tirati indietro alla bell’ e meglio per comodità. Anche se indossa semplicemente una semplice canotta e dei jeans, c’è qualcosa di innegabilmente rigido nella sua postura, come se nella sua mente stesse indossando un’uniforme.
Shepherd, mi prendi per il culo?!”, sente gridare, e sposta velocemente il mirino sul ragazzo asiatico, per poi cercare l’uomo alto con gli occhiali. Alla fine, però, s’imbatte in un bestione con la testa rasata che non avrebbe potuto dimenticare così facilmente.
“Quel bastardo ha cercato di uccidermi una volta.”
“Quale?”, chiede Aaron bruscamente.
“Quello grosso. Si chiama Licari… conosco questa gente.” Abbassa il fucile e lo guarda con una smorfia. “Non ci crederai, ma sono quelli che stavamo cercando. Gli stronzi dell’ospedale per qualche ragione hanno abbandonato le uniformi e sono finiti a vivere per strada.”
Le sopracciglia di Aaron si avvicinano velocemente all’attaccatura dei capelli. “Il dottore c’è?”
Daryl annuisce. “È quello con gli occhiali. A quanto pare, è ancora vivo.”
“Visto che sappiamo chi sono, ci avviciniamo adesso o aspettiamo ancora per capire se ce ne sono altri? Potrebbero essersi uniti ad altre persone.”
“Sono solo in sei. I loro numeri sono crollati. Forse c’è altra gente, forse no...”, scuote la testa dopo averci pensato per un momento. “Ma io credo che non ci sia. Fa’ quello che devi fare.”
Il fatto che Aaron debba approcciare a quel gruppo lo rende piuttosto nervoso. L’ultima volta che l’hanno fatto Daryl era lì e non sono stati proprio gentili.
“Se qualcuno comincia a prenderti a pugni, non posso prometterti che non gli sparerò.”
Aaron sgrana gli occhi. Sa che fa sul serio. “Per favore, non farlo. Probabilmente reagiranno come ha reagito Rick quando ho trovato voi. Cerca di non pensarci, dà loro una possibilità. Ha già funzionato prima d’ora, no?”
Daryl annuisce per non preoccuparlo, ma riconosce in silenzio che il suo assenso è solo una bugia con le gambe corte, e Aaron sembra esserne consapevole.
Mentre il suo compare si avvicina a loro, cerca un punto di osservazione versatile da cui potrà essere in grado di seguire il discorso e al contempo di puntare il mirino in testa a chiunque si avvicini troppo ad Aaron. La sua presa intorno al fucile s’indurisce man mano che lo osserva avanzare.
Quel giorno li aveva quasi uccisi, quei maledetti figli di puttana. In quel corridoio sarebbe bastato un solo respiro per finire il lavoro e ficcare un proiettile in testa a ciascuno di loro. Il sangue scorreva sul pavimento e aveva sentito qualcuno gridare, ma l’unica cosa che sa è che un secondo dopo stava portando il suo corpo tra le braccia. Non gli importava più. Le loro teste potevano anche restare sulle loro fottute spalle, ma qualcuno doveva portarla via, e doveva farlo lui.
Adesso, a distanza di circa otto mesi da quel giorno, la rabbia ricomincia a farsi strada ed è tentato di ammazzarli tutti seduta stante, di nuovo. Le linee incrociate del mirino gli trasmettono ansia, prurito.
Non premere il grilletto. Ad Aaron non piacerà.
Non sparerà a nessuno solo perché lui gli ha chiesto di non farlo, ma è al limite dell’autocontrollo e sarà ancora peggio quando la polizia dell’apocalisse lo accoglierà con la cordialità che sta immaginando.
Aaron sta andando in direzione della donna. È sola, al di fuori del campo, a controllare le trappole e, nel momento in cui la vede sfoderare la pistola, Daryl capisce che non può starsene a guardare. Quel piano forse sarebbe andato bene per Eric, ma lui ha già visto morire altra gente senza fare nulla per impedirlo. È già successo troppe volte e non può restare ancora indietro. Sa che è una buona strategia e che ha senso, sa anche che sarebbe più utile ad Aaron se lo conservasse come piano di riserva nel caso le cose vadano male, ma ci sono buone probabilità che un giorno, approcciando in quel modo, qualcuno lo sparerà a vista. E tutto ciò che lui avrà fatto sarà stato guardare.
Ben consapevole di star facendo il suo primo esordio ufficiale da scout alessandrino, con un pizzico di speranza, Daryl ripone il fucile dietro la sua schiena e afferra la balestra, convinto di non poter assolutamente lasciare che Aaron faccia tutto da solo. Fa un giro piuttosto largo lungo tutto l’accampamento, puntandoli come un avvoltoio farebbe con il suo pranzo. Stanno facendo casino. Può sentire le loro voci rimbombare tra gli alberi. Molti chiedono spiegazioni, tuttalpiù gridando. Solo un paio di loro stanno cercando di mantenere la situazione sotto controllo. Non può sentire la voce di Aaron, ma è normale. Finché non ci danno un taglio non potrà mai sentirla. Infatti, solo quando finalmente c’è abbastanza silenzio, riesce a sentire qualcosa.
So che può sembrare sconvolgente e inaspettato, ma vi assicuro che non ho brutte intenzioni. Sono un amico e porto buone notizie.”
Stronzate!”, grida una voce gutturale, e gli altri sembrano acconsentire rumorosamente.
In quanti siete?”, chiede un’altra, ma poi le voci diventano così basse da essere inudibili.
Daryl ormai è in agguato nei loro pressi. Rallenta il passo e si nasconde, con la balestra alzata e caricata. Tra un battito e l’altro, comincia a calmarsi un po’, ma non abbastanza da sentirsi meglio. Vuole ancora entrare e portare via Aaron, ma sa che lui vorrà comunque parlare con loro, anche se è un rischio.
Alla fine, trova un compromesso con se stesso e si accovaccia a terra con la balestra pronta all’uso nel caso la cosa dovesse cominciare a degenerare, ma resta comunque in disparte come gli è stato ordinato.
Stanno guardando le foto in silenzio, e Aaron sta facendo il suo solito discorso, quello in cui dice che Alexandria è il paradiso che hanno sempre sperato di trovare, ma lo fa comunque con cautela. È troppo intimorito per dar voce alla fantasia.
Quello è Noah?!”, la voce di Shepherd sembra cambiare completamente quando i suoi occhi sbarrati cadono su una delle immagini.
Porca puttana. È lui”, dice Licari.
Già”, risponde Aaron velocemente. Tutti gli sguardi, ancora colmi di sospetto, finiscono su di lui. In qualche modo, sta fingendo di essere tranquillo nonostante lo tengano in ginocchio e con le mani alzate in modo tale che tutti possano tenerle d’occhio.
Abbiamo incontrato un altro gruppo qualche mese fa, su questa stessa strada. In verità, sono stati loro a mandarmi qui. Hanno detto che avremmo trovato un gruppo, in un ospedale, che avrebbe potuto unirsi a noi.
Noah è lì?
Aaron non sembra troppo ansioso all’idea di ammettere che Noah è stato solo pochi mesi ad Alexandria prima di morire, ma non fa in tempo a comunicare quella verità perché Shepherd, dubbiosa, gli pone un’altra domanda.
Quel gruppo… quelli che erano con Noah ti hanno mandato a prenderci?
Le brave persone sono difficili da trovare. Qui fuori ci sono dei veri predatori e quei pochi di noi che aspirano a un minimo di civiltà dovrebbero restare uniti.” Il petto di Aaron si alza e si abbassa freneticamente. È nervoso, e questo rende nervoso anche Daryl.
L’uomo che gli stringe le spalle sposta il suo peso e si muove quel poco che basta per permettere a Daryl di vedere una lunga lama raggiungere la schiena di Aaron e, dalla sua espressione, deve anche avergli già reciso la pelle.
“Basta così”, sussurra tra i denti mentre si alza in piedi e posa in automatico la balestra per afferrare di nuovo il fucile. “Non farete mai più cadere un’altra goccia di sangue dal corpo di nessuno dei miei”.
“HEY!”, grida quando è in parte ancora coperto dagli alberi. “Fatelo alzare! Nessuno qui ha cattive intenzioni, se non voi!”
Tutti i mirini delle loro armi si sono spostati su di lui ma, come si aspettava, vacillano. La mascella di Licari gli sbatte praticamente contro il petto quando lo riconosce. Daryl lo sente a stento mormorare un altro “porca puttana” pochi secondi dopo.
“Abbassate le armi, prima che uccida ognuno di voi.” Mantiene il fucile automatico su di loro, che sono armati di semplici pistole. Non c’è competizione: anche se provassero a sparargli, lui ne colpirebbe due o tre negli stessi secondi che impiegherebbero a cercare di prendere il bersaglio. “So quanto possano essere scivolose le vostre dita”, aggiunge poi, ringhiando.
“Daryl! Ti avevo detto di aspettare!”, dice Aaron con esasperazione, ma Daryl può comunque avvertire una nota di sollievo nel suo tono di voce.
“Sentite, stiamo dicendo la verità. So che chiedervi di fidarvi di noi è molto, ma ne vale la pena per quello che vi stiamo offrendo.”
Continuano a non abbassare le armi. Il dottore, che fino a quel momento ha mantenuto una distanza considerevole dalla discussione, comincia ad avanzare lentamente, stringendo a sua volta una pistola, anche se è evidente che non sa neanche come si usa. “Come funzionerebbe se decidessimo di venire con voi?”
Chiaramente sollevato dai suoi progressi, Aaron sospira. “Vi diamo un giorno per decidere e preparare la vostra roba. Conosciamo un posto dove potrebbero esserci rifornimenti e, prima di andarcene, vorremmo ripulirlo. Il viaggio è lungo, ma vi guideremo noi.”
“Quindi non ci direte dove stiamo andando?”
“Assolutamente no”, risponde lui con fermezza, come se potesse addirittura rassicurarli. “Non possiamo rischiare di farvi sapere dove siamo prima di essere sicuri che veniate. Non è per sembrare esagerati, ma l’ultima cosa che vogliamo è che qualcuno di voi si divida dal gruppo e spinga qualcun altro a saccheggiarci.”
“Qualche predatore?”, dice l’asiatico ridendo, ma un attimo dopo sembra preoccupato. Evidentemente, deve averci pensato abbastanza.
“In ogni caso, noi ce ne andiamo”, interviene Daryl. “Abbassate le armi e lasciatelo andare.”
Licari mantiene ancora il suo sguardo con intensità, ma poi allenta la presa su Aaron, liberandolo. “Tornerete domani e decideremo?”
“Se vi troviamo pronti ad andare e con la roba a posto, la sistemeremo e verrete con noi. Se invece deciderete di restare qui, non ci vedrete mai più. Ce ne andremo e basta.”

 

∂∂∂∂∂∂∂∂∂

 

Per la bellezza di quattro giorni, Beth ha provato a convincere se stessa che sta seguendo quella donna solo perché sta andando nella stessa direzione della fattoria, e non perché abbia bisogno di aiuto.
Lei non ne ha. Se l’è cavata benissimo da sola. Certo, quando era malata e ferita magari ne aveva bisogno, ma poi da quando è guarita, si è tagliata i capelli ed è tornata in se stessa, non ha più bisogno di nessuno: se le serve del cibo, lo caccia; se le serve dell’acqua, la trova; se le servono delle armi, trova anche quelle.
È stato in quel momento che ha iniziato ad allontanarsi molto dalla fattoria. Questa volta è stata via quasi per un mese, e ora sta tornando a casa forse proprio perché quella donna sta andando in quella stessa direzione. Seguirla sarebbe da matti: è, oltre che sempre a piedi, lentissima. Un paio di volte l’ha quasi completamente persa, ma poi è comunque riuscita a ritrovarla. Ha seguito le orme che ha lasciato nei boschi fino a scovarla, per poi scappare di nuovo in macchina. Mantiene la sua stessa traiettoria, ma sempre dalla strada principale. Ogni tanto, cerca ancora le sue tracce finché non capisce dove si sia cacciata quella volta.
Quel paio di scorci che è riuscita ad ottenere non le hanno detto molto. È una piccola donna; malnutrita, oltre che minuta di per sé. È ricoperta da così tanto sangue e fango che, se non fosse per gli occhi, non sembrerebbe neanche umana. Non sembra granché neppure come combattente.
Si chiede come abbia fatto a sopravvivere senza riuscire a imparare a difendersi sul serio. Continuare solo a correre e a fuggire non la porterà così lontano.
Con un sospiro, abbassa il mirino. Adesso, per esempio, ha un taglio piuttosto profondo su un braccio. È successo mentre scavalcava una finestra per cercare provviste e, dato che la ferita continua a sanguinare, ha attirato l’attenzione dei vaganti, che ne hanno sentito l’odore nonostante gli infiniti strati di sporcizia che la ricoprono. È braccata su un albero, dove ha trascorso immobile le ultime tre ore, mentre quattro vaganti la attendono con impazienza alla base del tronco. Sono a soli dieci miglia dalla fattoria. Se vuole davvero chiederle di unirsi a lei, deve farlo ora. Qualcuno deve pur insegnarle a difendersi, a prendersi cura di se stessa.
Forse io non ho bisogno di nessuno, ma lei sì.
Quella donna, in ogni caso, non sembra rendersene davvero conto. Anche se è bloccata su un albero con un braccio sanguinante, sembra ancora solo e semplicemente stanca. Ha trovato una posizione migliore tra il tronco e un lungo ramo, appoggiandosi su di esso. Ogni tanto, guarda giù per controllare se i vaganti siano ancora lì.
Sono solo quattro. Dovrebbe saperli gestire; tutti dovrebbero. Ma per qualche ragione lei non può.
Questa storia è durata abbastanza.
Nervosa, ma sicura che sia la cosa più giusta da fare, Beth si avvicina all’albero, ai vaganti e a quella donna. “We’ll meet again!”, comincia a cantare, alzando sempre di più la voce. “Don’t know where, don’t know when, but I know we’ll meet again, some sunny day!”
I vaganti cominciano, barcollando, a ritirarsi dall’albero per seguire la sua voce. La donna sul ramo si irrigidisce di colpo, ma non si gira a guardarla. Continua a focalizzare la sua attenzione sui vaganti.
Il più energico dei quattro è il primo a raggiungerla. Beth corre verso l’albero più vicino e usa il tronco come scudo per la maggior parte del suo corpo, mentre gli blocca un braccio. Sente le costole del vagante spezzarsi per lo sforzo prima di trafiggergli il cranio con il pugnale. Dev’essere morto di recente, perché le sue ossa sono dannatamente dure, tanto da richiedere il doppio dello sforzo per estrarre la lama. Nel frattempo, un altro l’ha raggiunta, ma lei continua a indietreggiare per affrontarlo separatamente dagli altri. È sempre più semplice avere a che fare con un vagante alla volta, quindi li fa gironzolare per il bosco finché non li abbatte tutti.
D’un tratto, però, si rende conto di essersi allontanata dalla donna più di quanto avesse voluto. Infatti, quando fa ritorno all’albero, il ramo è vuoto.
...È scappata, conclude, cercando di non sentirsi troppo delusa a riguardo.
In effetti, non è stata una reazione irrazionale, la sua. Ha fatto la stessa identica cosa anche lei, la prima volta che l’ha vista. Però, voleva farlo in quel momento ed evitare di seguirla ancora.
Le sue tracce sono diventate più selvagge. Deve aver corso. Per un miglio o poco più le sue orme sono distanti, a volte sovrapposte, come se si fosse voltata indietro a controllare una volta ogni dozzina di metri. In ogni caso, non ha mai cambiato direzione: continua ad andare verso la fattoria.
Con un cipiglio, dopo un po’ Beth nota che le impronte sono più vicine tra loro, ma ancora disordinate. Le sue gambe devono essere diventate più pesanti e goffe, portandola a perdere l’equilibrio. Infatti, una notevole crepa nel terreno le suggerisce che deve essere inciampata e caduta. Ci sono delle gocce di sangue.
Oh, no.
Le è sfuggito il pensiero che quella donna stava effettivamente perdendo troppo sangue e che era ancora troppo disidratata e malnutrita per correre così in fretta e così a lungo.
Il suono di alcune voci la induce a fermarsi, con un gemito, contro il tronco di un albero. Cautamente, fa qualche passo in avanti per dare un’occhiata finché non vede la donna distesa a terra una ventina di metri più in là. Intorno a lei ci sono tre uomini e, terribilmente a disagio, si sente come se avessero qualcosa di familiare.
Infatti ce l’hanno. Hanno solo l’abbigliamento sbagliato, perché dovrebbero essere in uniforme. Sono poliziotti.
Licari. Franco. Tanaka.
Quei nomi potrebbero averceli scritti persino sulla schiena, come una squadra di calcio.
Licari solleva con cura la donna e Beth sente il sangue scorrerle freddo nelle vene.
“Corri a chiamare il dottore, ok?”
Il dottor Edwards.
Beth conosce già il suo nome e si sente inquieta anche solo a sussurrarlo.
La porteranno all’ospedale e la faranno lavorare per loro.
“Sei in debito con noi.”

La memoria le riporta in mente quegli eventi, portandola a stringere con più forza sia la pistola che il pugnale.
“Io non vi devo proprio un cazzo.”
Nota subito che c’è qualcosa di strano. Al di là del fatto che non indossano le loro uniformi, le istruzioni che Licari ha dato a Tanaka avrebbero un senso solo se il dottor Edwards fosse nelle vicinanze e, almeno quando l’aveva conosciuto lei, quell’uomo non avrebbe mai lasciato l’ospedale.
Le persone cambiano. Io sono cambiata, si dice, ma sa che Edwards avrebbe lasciato l’ospedale solo se sotto costrizione. Ha ucciso delle persone per rimanere lì; se lui è per strada, allora probabilmente ce ne sono altri, forse tutti.
Per confermare i suoi sospetti e cercare di darsi delle risposte, Beth comincia a seguirli, ovviamente a debita distanza, mentre portano la donna al campo. Una volta arrivata, nota che la loro sistemazione sembra piuttosto permanente e che il dottor Edwards è lì, completamente fuori luogo con quel pugnale nello stivale e quella pistola attaccata alla cintura.
Prima di poter vedere altro, ritorna alla sua auto, senza sapere esattamente cosa pensare di tutta quella storia. Razionalmente, non può fare a meno di ammettere che il fatto che ci sia un dottore sia una cosa buona per quella donna, visti quel brutto taglio che ha sul braccio e tutta la sporcizia di cui è ricoperta, che potrebbe farla ammalare da un momento all’altro, ma che prezzo dovrà pagare per le loro cure?
Devo tornare alla fattoria e rimettermi in forze. Ora so dove sono e non sembra che stiano andando da qualche altra parte. Li terrò d’occhio. Se dovrò tirarla fuori da lì, la tirerò fuori da lì.
Ha abbastanza benzina per tornare a casa e pensare a un piano più solido.
Non voglio davvero ucciderli, ammette tranquillamente a se stessa, ma forse se lo meritano.

   
 
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