Capitolo IV – Corruttibile.
Guyana,
7 luglio. Abbiamo chiamato il nuovo Pokémon, Mew.
Contrariamente
a ogni aspettativa (e, a dire il vero, anche a ogni buon senso) la Silph scelse
di annunciare subito, pubblicamente, la scoperta del nuovo Pokémon,
accompagnando lì annuncio con una foto un po’ sfocata, in bianco e nero,
scattata da Portia e inviata a Zafferanopoli per posta: di meglio non si era
potuto fare, perché non si era previsto che una spedizione partita per
raccogliere campioni fossili e dati ambientali avesse bisogno di scattare
fotografie, e non c’era perciò grande disponibilità di materiale fotografico.
Dal punto di vista del signor Dale, quella di dare l’annuncio subito era una
strategia di marketing vincente sotto tutti gli aspetti, dato che per l’azienda
si trattava di tutta pubblicità gratuita.
Dal punto
di vista della scienza, invece, quella scelta era invece un po’ più
discutibile. La scoperta che la Guyana ospitava l’habitat di un Pokémon che non
era mai stato avvistato sino ad allora suscitò, oltre alla prevedibile
attenzione dell’intero panorama scientifico internazionale, anche l’altrettanto
prevedibile avidità di tutti gli allenatori, cacciatori e bracconieri di
Pokémon del mondo. Chi non avrebbe voluto essere il primo a catturare e ad
allenare (o vendere) il Pokémon più raro del mondo, chi non avrebbe voluto
affacciarsi sul palcoscenico competitivo internazionale con una nuova e
imprevedibile specie di Pokémon?
Per qualche giorno parve che tutto il mondo volesse partire alla volta della Guyana e riversarsi nelle sue paludi, finché il governo non intervenne provvidenzialmente a emanare severe e restrittive norme a tutela e difesa della fauna locale; ma neppure questa misura fu sufficiente. Sia pure in misura minore, allenatori e cercatori continuarono a sbarcare in Guyana e ad addentrarsi illegalmente nelle giungle; il numero di dispersi in quelle zone inesplorabili fu altissimo, e più di un cadavere fu portato a riva dalle correnti dei fiumi. Ci sarebbe voluto un bel po’ perché quella febbre si placasse.
Le loro
ricerche continuarono senza sosta. Aiutati da un’équipe di geologi e speleologi
inviata dal governo, il team di ricerca guidato dal dottor Fuji batté palmo a
palmo l’intera zona del ritrovamento, procedendo in modo estremamente lento e
incostante per disturbare il meno possibile la colonia dei Gloom; ma di altri
esemplari non si trovò traccia.
Alle
ricerche Rotwang non volle prendere parte, e a detta di Portia, per la verità,
quella era la soluzione migliore.
«Non te la
prendere, Emir» gli diceva in tono di confidenza ogni volta ch’egli sbottava a
imprecare contro quel maledetto tedesco. «Sai che non voglio difenderlo, ma è
ancora sconvolto. Non so come potrebbe reagire se si trovasse a fissare negli
occhi un altro Mew frugando dietro un cespuglio: questo è stato il caso più
difficile della sua carriera. Ti prego, lascialo stare per qualche giorno.»
Certo, Emir era umano, era comprensivo e soprattutto era superiore a quel dannato tedesco; ma era comunque il capo della spedizione, e gli sembrava d’esser anche troppo paziente. Rotwang aveva fatto il suo lavoro esattamente come tutti, un lavoro per il quale, per quanto egli si ostinasse a sputare sul nome dell’azienda, era profumatamente pagato, e ora tutti (che lavoravano esattamente quanto lui) dovevano persino chinare il capo e dir di sì e di no in ossequio ai suoi preziosi sentimenti feriti. Era davvero un comportamento professionale, quello?
Persino il
nome del Pokémon era stato lui a sceglierlo. Quando ci si era riuniti per
cercare di fare il punto della situazione, e di sbrogliare un poco i nodi di
quell’inferno in cui si erano ritrovati, non aveva voluto sentir ragioni.
«Si chiama Mew» aveva detto semplicemente, picchiando col dito sull’intestazione dei documenti che Emir stava compilando, là dove avrebbe dovuto inserire il nome del Pokémon e che avrebbe voluto lasciare in bianco. Dopo una rapida occhiata a Valérien, che non appariva in grado di manifestare una propria opinione in merito, Emir aveva sospirato e aveva scritto: Mew. Il diritto di scegliere il nome del Pokémon sarebbe spettato a Valérien, che lo aveva scoperto, e a lui, che guidava la spedizione; ma il dolore di Rotwang durante l’operazione era stato animale, e a quel dolore, dopotutto, non si poteva non riconoscere un qualche diritto.
Ma poi i
diritti del dolore di Rotwang si erano tramutati in capricci, o almeno così gli
pareva.
Che si rifiutasse di fare l’autopsia del cadavere di M1, com’era stato necessario chiamare il primo sventurato esemplare, era prevedibile, ed Emir non aveva neppure provato a insister troppo; di quell’operazione si erano dovuti occupare lui e Valérien, che erano biologi e avevano operato più di una vivisezione, certo, ma non erano medici, e della supervisione di un medico avrebbero avuto bisogno. Ma Rotwang si era rifiutato persino di leggere e firmare il reperto dell’autopsia, e neppure le accorate preghiere di Portia, che aveva passato tre ore nella sua tenda a cercare di convincerlo e di tranquillizzarlo, avevano potuto smuoverlo dalla sua ostinazione. Ma Portia l’aveva supplicato ancora di cercare di capire, di dargli tempo, che non ci si poteva umanamente aspettare che Rotwang tornasse a mettergli le mani addosso dopo esserselo sentito morire sotto i ferri o che leggesse della sua autopsia; ed Emir, raspando con le dita il fondo del barile della sua pazienza, si era arreso. La firma di Rotwang sarebbe servita a falsare i documenti e a far risultare agli atti un’autopsia perfettamente legale, firmata da tre persone di cui un medico, secondo i protocolli interni della Silph; senza la sua firma bisognava perciò far finta di nulla e stare alla sorte; ma d’accordo, dato che Herr Doktor era troppo prezioso per poter anche solo firmare un foglio, si sarebbe fatto senza la sua firma, e ci si sarebbe inventati qualcosa al momento.
Ma quando gli erano venuti a dire di prima mattina, con tutto il tatto del mondo, che Rotwang si rifiutava di partecipare alle ricerche, allora Emir si era diretto verso la sua tenda per discutere civilmente, ma l’unico risultato che aveva ottenuto era stato di ritrovarsi di nuovo tra le braccia di Vincent e Valérien a scalciare e a gridare che non voleva uccidere nessuno. Di nuovo Portia era intervenuta a difendere i sentimenti feriti del povero dottore, ed Emir aveva acconsentito a pazientare per l’ultima volta. Rotwang non era stato l’unico a soffrire quella notte, e se si fosse rifiutato ancora senza un buon motivo di fare il suo dovere, allora l’avrebbe licenziato sul serio.
Perciò,
mentre le ricerche proseguivano e la giungla veniva perlustrata e frugata
centimetro per centimetro, Rotwang se ne rimaneva al campo a occuparsi di M2,
il che non era poi del tutto un male, dato che qualcuno con lei ci doveva pur
stare; ma naturalmente questo Emir si guardò bene dall’ammetterlo. Quelle manie
da primadonna e da vittima degli eventi proprio non poteva soffrirle, e
l’ultima cosa che voleva era proprio incoraggiare quel dannato tedesco.
Mew era
l’essere vivente più grato che avesse mai visto, ed era estremamente felice di
stare con loro.
Avevano fatto accuratamente in modo che non vedesse mai il cadavere di Mew, ma qualcosa, dentro di lei, pareva indicare che aveva capito che era morto, e che l’aveva accettato, tanto naturalmente e serenamente da non recare in sé alcun dolore. Essa portava in sé esattamente la stessa fiducia incondizionata e senza pari del suo compagno, lo stesso affetto esuberante e infantile con cui M1 si era affidato a loro ed era morto senza accuse né rancore sotto i ferri di Rotwang. Ma come poteva, si ritrovava a pensare Emir quando M2 gli sedeva vicino, la sera nella sua tenda, e l’osservava lavorare cercando di tanto in tanto di portargli via la penna, come poteva fidarsi di loro tanto ciecamente ed essersi affezionata tanto da protestare se appena veniva lasciata sola per più di qualche minuto?
Le
ricerche nella palude dei Gloom non diedero alcun risultato, ma a dire il vero
nessuno di loro ci aveva particolarmente sperato. Se erano stati i primi ad
avvistare quel Pokémon, almeno a quanto era dato sapere, doveva essere perché
era un Pokémon dannatamente raro e altrettanto dannatamente abile a
nascondersi, e se M1 si era mostrato a Valérien era solo perché era ferito, e
doveva aver capito che da quel ragazzo timido ed esitante non poteva provenire
alcuna minaccia; ma non ci si poteva esimere dal cercare ancora, non quando
l’intera attenzione mondiale era puntata su di loro.
Lasciata
quella zona, le ricerche si spostarono altrove e l’équipe esplorò e perlustrò e
mappò tutte le zone paludose circostanti nel raggio di un paio di decine di
chilometri; di cercare fossili, ormai, non si parlava neppure più. Mew era
diventata la priorità assoluta, e il caso aveva voluto che fosse capitata tra
le loro mani quando già avevano raccolto una quantità di fossili e di dati più
che sufficienti a dare lo sprint finale di cui aveva bisogno il loro progetto.
Quello era un momento di assoluta fortuna per la Silph, e il dottor Emir Fuji
si trovava alla guida dell’équipe di ricerca che aveva scoperto il Pokémon più
raro del mondo e che ben presto avrebbe donato al mondo i cloni dei Pokémon
preistorici che avevano popolato la terra al tempo dei dinosauri; ma si sentiva
un po’ meno soddisfatto di come si sarebbe sentito se tutto ciò fosse accaduto
al tempo della creazione di Porygon. Quella era la prima volta che il suo
genio, che gli aveva dato tutto ciò che uno scienziato avrebbe potuto
desiderare al mondo, non lo appagava quand’egli si trovava a osservare i propri
risultati; e questo perché aveva visto Mew morire. Eppure non era la prima
volta, e Pokémon più sacri di altri, lo sapeva bene, non ne esistevano. Allora
perché?
Finalmente,
quando l’infruttuosità delle ricerche finì per scoraggiare anche i piani più
alti di Zafferanopoli, e i costi della spedizione cominciarono a farsi un po’
troppo proibitivi rispetto alle probabilità di trovare un altro esemplare, il
signor Dale telegrafò che era più conveniente per l’azienda interrompere le
ricerche e dare inizio agli studi il prima possibile. Emir se ne sentì quasi
confortato: frugare nella giungla, spostandosi di accampamento in accampamento
nell’aria mefitica e insalubre delle zone paludose con la consapevolezza che
altri esemplari non sarebbero saltati fuori, era forse quanto di più frustrante
potesse immaginare.
Perciò,
finalmente, sotto gli occhi del mondo intero, l’équipe del laboratorio fece i
bagagli e imbarcò attrezzature e fossili e Mew su un aereo privato diretto a
Kanto, e il primo di agosto un traghetto proveniente da Aranciopoli attraccò al
molo di Isola Cannella, dove uno stuolo di giornalisti e fotografi e curiosi
attendeva ormai da ore.
«Bella
prova, Fuji» commentò Rotwang battendogli una mano sulla spalla, mentre si
affacciavano sul ponte a osservare la folla che assediava il molo. «Sei sempre
così discreto o dobbiamo ringraziare l’occasione?»
In che
modo Emir potesse esser ritenuto responsabile dell’assedio dei media sul molo
non era dato sapere, ma quando egli si volse per chiederglielo, ed
eventualmente per gettarlo dal traghetto, lo sguardo supplice di Portia lo
pregò di non farlo. La dottoressa Mann avrebbe dovuto rendergli un bel po’ di
favori quando fossero tornati a casa, concluse Emir distogliendo ostentatamente
lo sguardo.
Quel che
Rotwang ancora non sapeva, e che era troppo orgoglioso e supponente per
permettersi anche solo di pensare o chiedere, era che Dale aveva ovviamente
pensato in anticipo a quel problema, e si era perciò organizzato per permettere
loro di sbarcare senza problemi o interferenze. Quando il traghetto attraccò,
il team di ricerca toccò terra protetto da poliziotti e transenne, e due
automobili aziendali li attendevano per accompagnargli a casa; quanto al
materiale diretto in laboratorio, e soprattutto a Mew, se ne sarebbe occupato
il personale della Silph. Dale poteva anche vivere in un palazzo di cristallo,
relegato da Zafferanopoli in un dorato esilio, ma quantomeno sapeva come
organizzare un trasporto.
Per
evitare ulteriori crisi diplomatiche, Portia immediatamente caricò Rotwang
sulla prima automobile e sbatté dietro di sé la portiera facendo cenno
all’autista di partire. Se la fortuna avesse voluto, dopo un intero mese
trascorso a sopportare quell’intollerabile tedesco e i suoi capricci, forse
nelle settimane seguenti Emir avrebbe trovato un po’ di pace.
Dopo un
lungo giro per le strade assolate e torride del paese, pallenti di sole e di sale,
dove neppure un’anima osava affacciarsi nelle ore più calde del giorno,
finalmente l’auto si fermò all’imboccatura del breve viale che conduceva alla
villa d’aspetto fatiscente e desolato che Emir non aveva ancora avuto il cuore
di ristrutturare per timore di ferirla. Era a casa, finalmente, e finalmente lo
attendevano una doccia calda e abiti puliti e stirati e il suo letto…
Ma mentre
Emir si precipitava a scendere con voluttà di riposo e si affrettava a
scaricare i propri bagagli, d’improvviso un rapido lampo di luce balenò ai
margini del suo campo visivo, come il
riflesso di luce su una portiera, e una voce ch’egli aveva tanto sperato di non
sentire per un po’ esclamò: «Emir, finalmente! Ha due minuti per un vecchio
amico?»
Per quanto
egli avesse fatto sempre dell’ipocrisia il valore fondante della sua vita,
neppure lui quel giorno riuscì a esimersi dal levare involontariamente gli
occhi al cielo per un attimo, mordendosi le labbra. Eppure avrebbe dovuto saperlo che avrebbe
voluto parlargli di persona dopo una scoperta di quel genere, certo, e ora era
da sciocchi stupirsene…
Girando
stancamente su se stesso, Emir si sforzò di sorridere e rispose: «Che sorpresa,
signor Dale! Beve un bicchiere con me?»
Oltre agli
innumerevoli altri aspetti che Emir amava della propria casa, essa aveva
l’incommensurabile pregio di mantenersi fresca anche in estate; il precedente
proprietario, che l’aveva ipotecata svariate volte e l’aveva perciò perduta a
suo vantaggio, aveva avuto quantomeno il buonsenso di costruire pareti
enormemente spesse per mantenere le temperature più miti possibili. Una volta
visto il resto della casa, naturalmente, diveniva chiaro che il suo buonsenso
si era limitato a questo: con i suoi corridoi ciechi e le sue stanze senza
finestre, era alquanto evidente che l’intero progetto era l’incubo di un
architetto.
L’ingresso
della villa sembrava perciò situato in una fascia climatica tutta sua rispetto
all’esterno. La signora delle pulizie, che era venuta a rinfrescare e a
rassettare la casa per tutta la durata della spedizione, aveva lasciato
qualcosa in frigo in previsione del suo ritorno: Emir ebbe di che ringraziare
il suo sesto senso perché, oltre a un’insalata di cavolfiore e lenticchie che
egli non aveva assolutamente alcuna intenzione di mangiare, quantomeno trovò
una bottiglia di bianco frizzante da offrire al suo ospite, con la speranza che
Dale non si soffermasse troppo a guardare l’annata. Per fortuna, quel giorno
era un po’ troppo caldo perché persino un uomo come lui vi prestasse attenzione.
Dale, che
appariva estenuato e sudato in un costoso quanto improbabile completo di lino
bianco, lo ringraziò con lo sguardo mentre accettava il bicchiere che gli
porgeva, accavallando le gambe sul divano del salotto che Emir teneva riservato
per gli ospiti. Aveva l’aria di volergli dire grandi cose, ed Emir gli gettò
uno sguardo di cortese invito a parlare mentre versava un secondo bicchiere di
vino.
Dopo un
primo sorso, Dale pareva non poter smettere più di sorridere.
«Mi
dispiace aver fatto irruzione così, Emir, ma non potevo proprio fare a meno di
venire qui a complimentarmi con lei per l’ottimo lavoro svolto. So che lei non
segue la borsa, ma forse le farà piacere sapere che abbiamo avuto un rialzo di
due punti percentuali da quando si è saputo di Mew… e immagino che capisca
anche da solo quale guadagno questo porti all’azienda.»
Emir s’intendeva di borsa né più né meno che di cucina francese, ma la parola rialzo era sempre promettente. Ricambiò stancamente il suo sorriso. «Certo, posso intuirlo.»
«Non ne
dubitavo. Ora, Emir, sia detto tra noi…» La voce di Dale si abbassò di una nota
in tono di complicità, tanto che Emir si chinò d’istinto verso di lui. «Ancora
non dovrei dirle niente, perché sa come sono queste questioni, e bisogna prima
ottenere l’approvazione del consiglio e via discorrendo. Ma sono quasi certo
che andrà così, perciò ho proprio voglia di dirglielo: credo che riusciremo a
darvi un grosso contributo nel prossimo trimestre. Glielo volevo anticipare di
persona perché, lei sai com’è… le buone notizie mettono tutti di buonumore. O
sbaglio?»
Un grosso contributo voleva dire un aumento di budget. Tutte le ulteriori richieste di fondi che aveva inoltrato dopo lo spegnersi dell’entusiasmo per la creazione di Porygon erano state respinte con le più svariate motivazioni, che solitamente erano tutte riducibili a una singola spiegazione di fondo: i soldi extra sarebbero arrivati dopo aver visto i primi risultati del progetto dei fossili, ossia le prime grosse entrate. Dopotutto la Silph doveva pur guadagnare qualcosa dal laboratorio: investire di più in progetti non vincenti avrebbe significato rischiare di pareggiare le entrate e le uscite. Era sempre stato questo il grosso problema della Silph: premiare poi piuttosto che investire prima, e questo era il motivo per cui Emir doveva barcamenarsi qua e là cercando una soluzione adatta per ogni esigenza. Ma ora finalmente il denaro stava spuntando fuori: ciò avrebbe significato, finalmente, maggiori fondi per il progetto di rigenerazione dei fossili che era rimasto in stallo anche troppo a lungo, e maggiori fondi per la strumentazione clinica, come Rotwang gli chiedeva ormai da almeno nove mesi. Certo, la maggior parte sarebbe stata naturalmente da destinarsi a Mew, ma Emir era sempre stato bravo a spalmare poco burro su molto pane: il pensiero non lo preoccupava per niente.
«È
fantastico, signor Dale… la ringrazio moltissimo.»
Dale gli
gettò un’occhiata molto più che compiaciuta sopra il bordo del suo calice. «Oh,
non ringrazi me, Emir, ringrazi piuttosto il Presidente, e naturalmente gli
azionisti. Dopotutto, io ho solo fatto la proposta… che cosa vuole che sia.»
Dale
s’incensava di fronte a lui tanto platealmente da riuscire persino genuinamente
simpatico in quei momenti. Era forse l’unica azione umana e davvero amichevole
ch’egli gli avesse mai visto compiere e che gli faceva talora ricordare – ma
non troppo spesso – che anche Dale era un uomo come lo era lui, e in fin dei
conti non poteva incarnare la Silph in ogni momento della sua vita.
«I miei
colleghi gliene saranno grati.»
«Beh,
faranno bene a esserlo, non le pare?»
Ma subito
dopo queste facezie, Dale tornò a essere il rappresentante dell’azienda e a
comportarsi come tale. Si rigirò per qualche istante il bicchiere nella mano,
osservandone pensierosamente le volute di vino che si inerpicavano sul vetro.
Era tornato serio. «Ora parliamoci da professionisti, Emir… lei sa quanto il
laboratorio mi stia personalmente a cuore. Che cosa può già dirmi riguardo a
Mew? Naturalmente quello che mi dirà rimarrà in questa stanza, perciò parli
pure liberamente.»
Per
qualcuno che non fosse uno scienziato, quella domanda non doveva riservare
particolari difficoltà, e probabilmente Dale l’aveva posta in perfetta
buonafede. Ma, a differenza sua, Emir era uno scienziato, e quella domanda lo
metteva più a disagio di quanto il suo superiore potesse immaginare.
Sbilanciarsi in qualsiasi modo, senza aver ancora compiuto quasi nessun tipo di
studio o analisi, sarebbe stato profondamente antiscientifico: ma in quel
momento erano soli, per fortuna, ed egli era ragionevolmente certo che Dale non
avrebbe avuto alcun interesse a divulgare notizie affrettate. I suoi interessi
personali in quel progetto erano troppi per poter correre il benché minimo
rischio.
«Senza
effettuare qualche test genetico e simulazione di lotta non ci è possibile dir
molto, e ovviamente non ci era possibile realizzarli in piena sicurezza al di
fuori del laboratorio, quindi per quanto riguarda le statistiche non posso
ancora dirle nulla. Posso però anticiparle che conosce la mossa Trasformazione»
precisò.
Gli occhi
di Dale si fecero istantaneamente più grandi. «Trasformazione? Ma credevo che
solo Ditto potesse…»
Quest’informazione
aveva riscosso esattamente l’effetto che Emir sperava.
«Questo è
quello che si è sempre creduto almeno dal diciannovesimo secolo a oggi» ammise
annuendo gravemente. «È per questo che non possiamo ancora sbilanciarci troppo.
Il rischio di sbagliare è enorme, e la sola scoperta di Mew basta da sola ad
aggiungere un capitolo nei libri di biologia. Ancora dobbiamo finire di
studiare l’autopsia di M1, perciò lei capisce che i dati a nostra disposizione
finora sono…»
A queste
parole Dale ebbe un movimento improvviso, come se gli venisse in mente qualcosa
che era stato sul punto di dimenticare. «Ah già, proprio a questo proposito…
c’è una cosa che non capisco, Emir. Abbiamo notato che a firmare il referto
dell’autopsia siete stati lei e il dottor Lestournelle. Ora, non che non ci
fidiamo di voi, ma il medico è il dottor Rotwang. Avrebbe dovuto firmare lui, è
pagato per questo. C’è stato qualche problema?»
Sarebbe
stato così semplice raccontargli tutto. Dale ce l’aveva con Rotwang da ormai
qualche mese, semplicemente perché Rotwang aveva protestato con qualcuno più in
alto di lui per la questione dei fondi: naturalmente non aveva ottenuto nulla,
ma Dale, a ogni modo, si era sentito scavalcato.
Il
contratto di Rotwang, esattamente come il suo, non prevedeva in nessun caso
qualcosa come l’obiezione di coscienza: se Dale avesse saputo che Rotwang si
era semplicemente rifiutato di effettuare l’autopsia, avrebbe di certo preso
provvedimenti seri. Per la verità, Emir non si era ancora del tutto dimenticato
di come l’aveva chiamato Rotwang, quel giorno nella tenda, e non poteva dire in
tutta sincerità che si sarebbe disperato poi troppo per un suo ammonimento
formale. Ma fare la spia non rientrava proprio nel suo genere, perciò,
schiarendosi discretamente la voce, rispose: «Rotwang ha avuto un attacco di
dissenteria. Probabilmente deve aver bevuto per errore dell’acqua infetta. Poi
lo sa come sono questi tedeschi: il referto l’ha letto, ma non ha voluto
firmare perché gli sarebbe parso di commettere un illecito…»
Gli occhi
di Dale si spalancarono per lo stupore. «Dissenteria, ha detto?»
Emir si
strinse nelle spalle cercando di simulare un’espressione innocente. Possibile
mai che, dopo tutto quello che Rotwang gli aveva fatto passare, ora gli
toccasse pure di coprirgli le spalle? «Una cosa terribile, terribile. Nel cuore
della giungla, senza bagno, senza antibiotici… una settimana d’inferno. Mi è
quasi dispiaciuto per lui.»
Dale non
sembrava molto convinto. «Ne è certo, Emir?»
«Beh,
naturalmente non potrei giurare che fosse proprio dissenteria, così a occhio.
Ma le garantisco che ci somigliava molto. Forse poteva essere una parassitosi
intestinale…»
Se anche
avesse parlato di una cancrena intestinale, o di un tumore del sondino
nasogastrico, o di qualsiasi altra cosa assolutamente inesistente e
impossibile, Dale sarebbe comunque stato troppo ignorante in materia per
poterlo contraddire. Ragion per cui, con l’espressione particolarmente delusa
di qualcuno che avesse appena visto sfumare di fronte a sé una magnifica
occasione, egli tornò a bere il proprio vino borbottando: «Beh, se le cose
stanno così, immagino che non si potesse fare altrimenti.»
«No,
signore» confermò Emir con tutta la convinzione possibile, desiderando tanto
che in quel momento Rotwang potesse essere lì ad ascoltare per rendergli il
favore. Non che l’avrebbe mai fatto, naturalmente, ma forse avrebbe mutato
almeno un po’ atteggiamento se avesse saputo di essergli debitore di qualcosa,
e che egli non era poi così venduto alla Silph come credeva. «Anzi, visto che
parliamo di antibiotici…»
«Tra un
minuto, Emir, tra un minuto. Dopo la bella notizia, ne ho una brutta da
comunicarle… ma non se la prenderà troppo, spero.»
Una brutta
notizia, quando a riferirla era Dale, poteva essere una cosa sola: tagli di
fondi. Ma come poteva essere, quando appena un minuto prima gliene aveva
garantito un incremento? Che fosse piuttosto un licenziamento, allora? Ed Emir
come avrebbe fatto a comunicarlo ai suoi colleghi?
«Devo
allarmarmi?» domandò con cautela, sforzandosi miseramente di sorridere.
«Nulla di
tutto quello a cui sta pensando» garantì Dale in tono compiaciuto. La qual cosa,
se possibile, contribuì a inquietarlo ancora di più. «Solo una comunicazione da
parte dell’azienda. Abbiamo deciso di mettere in pausa il progetto di
rigenerazione dei fossili. Solo per qualche mese, sa. Per il momento, vogliamo
che tutti gli sforzi del laboratorio si concentrino sulla ricerca su M2.»
Se si
fosse trattato un licenziamento, sarebbe stato quasi meglio.
Di fronte
all’ineluttabilità di quell’informazione e alla totale impossibilità di
comunicarla ai suoi colleghi, sentendosi annegare, Emir tentò di dibattersi per
prendere tempo come di fronte a una fiumana che lo tirasse a fondo.
«Ma…
credevo che avesse detto che i fondi sarebbero aumentati» protestò a bassa
voce, cercando di suonare ragionevole e poco aggressivo. «Lei sa che io sono
sempre stato bravo a far quadrare i conti. Le posso garantire che…»
«Oh, non
c’entrano i conti, sa» ribatté Dale con indifferenza, senza neppure guardarlo.
«Ma abbiamo convenuto che la cosa migliore è non disperdere le forze. Vorremmo
che tutta l’équipe si concentrasse anima e corpo sullo studio di Mew per una
semplice questione di priorità.»
«Signor
Dale, ascolti… sono anni che lavoriamo sul progetto dei fossili. Si tratterebbe
di concludere un percorso. Cerchi di capire…»
«Perché
non cerca lei di capire me, invece?» riprese Dale, in un tono che cominciava
chiaramente a tradire il suo nervosismo. Non gli piaceva sentirsi contraddire,
non quando una cosa gli pareva tanto chiara e lampante, e cominciava a
spazientirsi. «Non sono io a scegliere. C’è un consiglio di amministrazione e
ci sono degli azionisti che vogliono dei risultati concreti, e subito. Gli
azionisti non vogliono investire su qualcosa che non rende. Le ho già detto che
abbiamo avuto una grossa crescita in borsa solo grazie all’annuncio della
scoperta, e il consiglio pensa che sarebbe meglio approfittare di questa
congiuntura. Lei s’immagina che crollo borsistico rischieremmo se venisse fuori
che stiamo lavorando su tutt’altro?»
«Mew non
sarà trascurata in alcun modo, signor Dale, glielo posso garantire. Io e il
dottor Rotwang siamo disponibili a fare doppi turni, e credo che anche gli
altri…» Rotwang l’avrebbe ucciso se l’avesse costretto a fare doppi turni, ma
l’avrebbe ucciso anche se avesse perso i fondi per la ricerca sui fossili alla quale
egli aveva dedicato tutti gli ultimi anni, a un passo appena dalla
realizzazione del progetto. Tutto ciò che gli rimaneva da scegliere era per
quale motivo litigare con lui, e probabilmente anche col resto dell’équipe, e
francamente Emir preferiva passare per uno sfruttatore tirannico e stacanovista
che per un venduto. Se l’unico modo per ottenere i fondi per il progetto era
quello di richiedere a tutti straordinari doppi turni non pagati, i membri del
suo team avrebbero protestato, certo, e si sarebbero infuriati, ma avrebbero
dovuto per forza riconoscere anche loro che quella era l’unica scelta
possibile.
Di fronte
alla sua evidente difficoltà Dale ebbe almeno la buona grazia di mostrarsi
contrito, anche se non gli riuscì molto bene.
«Mi
dispiace, Emir, davvero, e spero che lei capisca che questo non vuole
assolutamente dire che noi intendiamo gettar via tutto il lavoro fatto sinora.
Lei capisce che non converrebbe neanche a noi: sa bene quanto abbiamo speso per
questo progetto… Ma io non ho potere decisionale, Emir, lo sa anche lei, e sono
gli azionisti ad avere l’ultima parola. In fin dei conti si tratta di
posticipare il lavoro di quanto? Forse sei, otto mesi al più? Lei non pensa che
si potrebbe aspettare? Per parte mia, posso garantirle che eserciterò sul
consiglio tutta la pressione che potrò per far sbloccare i fondi il prima
possibile. Naturalmente, s’intende che questo dipende anche da voi… dai
risultati che saprete portare.»
Emir si
sentiva tanto attonito da non riuscire a parlare, come travolto da quelle
futili promesse. Che cosa voleva dire tutto ciò? Ma Dale, o almeno qualcuno
lassù ai vertici della Silph, aveva almeno una vaga idea di cosa comportasse
scoprire un nuovo Pokémon? Di quanti test, verifiche, certezze vi fosse bisogno
anche solo per potersi pronunciare con cautela sulle sue statistiche?
«Di quali
risultati stiamo parlando esattamente?»
Dale si
strinse nelle spalle come se la cosa non avesse la minima rilevanza, per
qualcuno che non fosse del mestiere.
«Me lo
dica lei, Emir. L’azienda non intende aspettare oltre la prima metà di
settembre per fare una prima conferenza stampa ufficiale. Che cosa possiamo
dare in pasto ai giornalisti per quella data?»
Con la
sensazione di poter svenire da un momento all’altro, Emir cercò a tentoni con
la mano il bordo del tavolo dietro di sé e disse con voce sorda: «Il nome.»
L’espressione
noncurante di Dale gli morì in viso. Dopo un lungo angoscioso attimo di
silenzio, sforzandosi di sorridere, ma in modo non particolarmente convincente,
mormorò: «Bisognerà trovare qualcosa di più succoso, non le pare?»
«Il nome» ripeté
Emir. «Colore, peso, misure generiche. Possiamo sistemare e pubblicare quel
poco che è emerso dall’autopsia di M1. In un mese e mezzo non possiamo neppure
ottenere risultati attendibili per gli elementari test del DNA, e poi come
facciamo? Con un solo soggetto in vita… no, signor Dale, mi dispiace, ma non si
può fare. Il nome e i risultati dell’autopsia. Di più non posso proprio
garantirle.»
Per tutta
risposta, Dale emise una risatina nervosa, quasi isterica. «Lei non ha capito,
Emir. Noi non faremo una conferenza stampa per annunciare cose che i
giornalisti sanno già. Credo che lei non si renda ben conto di quello che c’è
in gioco… lei sembra non accorgersene, ma ha lo stesso interesse che abbiamo
noi in borsa, eppure sembra che non gliene importi.»
«A me
invece sembra che lei non sappia che cos’è un’indagine in doppio cieco, se è
per questo.»
Quando
Emir si rese conto del tono che aveva usato, era troppo tardi.
L’arroganza
del suo tono parve ridurre improvvisamente Dale alla calma, ma a una calma
minacciosa e inquietante, del tutto priva di empatia. Con le labbra ridotte a
fredde linee sottili e il naso che fremeva di rabbia, Dale sorrise.
«Sì, so che cos’è un’indagine in doppio cieco, dottore» ribatté con la massima calma. «Non commetta l’errore di dimenticarsi per chi lavoro, e che sto un po’ più in alto di lei. Ma gliel’ho detto, non sono io a decidere: è la borsa, sono gli azionisti… la borsa vuole dei risultati, Emir. Lei conosce questi circoli viziosi: se l’azienda non guadagna, non ci saranno mai fondi per i fossili. Mi dispiace tanto che le cose stiano così, ma l’azienda non lavora pro bono, e al suo posto io non sottovaluterei il rischio che cerchi qualcuno che sappia produrre risultati corrispondenti alle aspettative…»
Dunque i patti erano quelli, Dale non avrebbe potuto essere più chiaro di così. Risultati chiari, immediati, subito, per settembre, e più che soddisfacenti, o almeno spendibili dal punto di vista mediatico; altrimenti non solo il progetto sui fossili sarebbe rimasto bloccato, ma gli avrebbero portato via Mew, e al suo posto avrebbero trovato qualcuno più giovane, più pronto e più grato di lui alla Silph…
La
sensazione d’esser stato sconfitto e costretto a una resa totale,
incondizionata, era così umiliante da sentirsene mancar l’aria. Se solo fosse
stato un uomo diverso e un po’ più coraggioso, e un po’ più devoto agli ideali
della scienza piuttosto che al suo lavoro, Emir sarebbe rimasto fermo sulle
proprie posizioni e avrebbe ribadito che quello che la Silph richiedeva da lui
non era né professionale né possibile, e allora forse le minacce di Dale
sarebbero cadute nel vuoto. Ma della Silph egli aveva troppo bisogno, e aveva troppa
paura di venirne cacciato, e non avrebbe mai avuto il coraggio di dir di no…
«Possiamo
annunciare il tipo» mormorò. «Forse qualche mossa, visto che Trasformazione la
conosciamo già. Ma non possiamo far di più… in un mese…»
Il signor
Dale sorrise con l’aria di qualcuno che fosse molto soddisfatto d’esser
riuscito a ricondurre alla lucidità un bambino irragionevole.
«Il tipo e
qualche mossa, siamo d’accordo, allora» concluse in tono profondamente
compiaciuto. «Io ho sempre puntato su di lei, fin dal nostro primo colloquio.
Se lo ricorda?» Emir si sforzò di sorridere. «Sì, è così. Io e lei ci siamo
sempre intesi perfettamente. I nostri interessi coincidono, dopotutto, o no?»
«Ho
bisogno di fare una doccia, signor Dale» disse Emir un po’ troppo seccamente,
per aggirare la domanda; ma Dale non ne parve minimamente turbato. Sapeva
benissimo che Emir era arrabbiato e mortificato verso di lui e verso se stesso,
e la cosa non lo turbava minimamente. «Il viaggio è stato molto…»
«Oh, lei
ha ragione, dottore. Sono apparso all’improvviso senza neppure chiederle il
permesso… la lascio subito. Restiamo d’accordo così, allora? Il tipo e almeno
due o tre mosse, sì…?»
Certo, dal
suo punto di vista doveva essere così facile, così semplice poterlo garantire.
E dopotutto, che ci voleva? Quello che per la scienza richiedeva settimane o
mesi o anni di lavoro, forse che la Silph non poteva richiederlo in pochi
giorni…?
«Arrivederci,
signor Dale.»
Quando
finalmente il suo elegante scocciatore se ne fu andato, tra innumerevoli
sorrisi, ed egli l’ebbe sorvegliato allontanarsi in solitudine nel suo completo
bianco lungo la strada irrorata di sole, la sua casa non gli parve più
confortante quanto prima.
Quella era
la prima volta che Emir si trovava solo da quando la spedizione era partita, un
mese prima, ed era la prima volta in vita sua che la solitudine e il silenzio
lo sconcertavano. Da quando si era trasferito a Isola Cannella, una vita prima,
egli aveva sempre vissuto solo, e del silenzio della sua grande casa vuota si
era sempre beato, crogiolandosi nella sensazione vivificante d’avere un piccolo
luogo privato dal quale il resto del mondo era escluso – ma il silenzio, quel
giorno, lo riempiva di sgomento.
Si sforzò
di analizzare la situazione mentre vagava lungo le stanza vuote, con la strana
sensazione di star cercando qualcosa. Era poi tanto grave che la Silph avesse
bloccato il progetto dei fossili, o tanto imprevedibile che non solamente
l’azienda, ma il mondo intero attendesse col fiato sospeso le pubblicazioni di
quella scoperta? Sarebbe stato poi giusto sottrarre alla scienza i prodigi di
Mew, lasciando in bilico per mesi le migliaia di scienziati che in quel momento
avrebbero venduto le loro madri e le loro anime per poter anche solo vedere
quel miracolo della natura, che era però proprietà privata della Silph, e le
cui informazioni potevano perciò passare solo attraverso di loro?
Certo,
posta così, la questione era facile a risolversi, e la posizione della Silph
appariva quasi nobile: se solo fosse riuscito a iperrazionalizzare e a ridurre
definitivamente il problema in quei termini, Emir si sarebbe a buon diritto
potuto ritenere assolto di fronte a se stesso. Ma la Silph non investiva certo
sul progresso della scienza; eppure neppure questo pensiero non l’avrebbe
tormentato poi così tanto, se solo egli avesse potuto illudersi di non essere
che una vittima di quel meccanismo e di non avervi collaborato affatto.
Ciò che
veramente lo tormentava – e che non l’aveva turbato mai prima d’allora! – era
il pensiero d’aver ceduto alle minacce di Dale perché aveva paura di perdere il
lavoro. Tutto ciò ch’egli aveva sempre fatto per la Silph negli ultimi sei anni
l’aveva fatto perché quel lavoro l’amava profondamente, il che sarebbe stato
nobile, se l’avesse amato in quanto uomo di scienza e non in quanto uomo di
carne. Ma tutto ciò ch’egli possedeva della scienza erano il talento,
l’intuizione, il genio: la devozione e l’ardore disinteressati, quelli sì che
gli erano sempre mancati. Di fronte alle minacce di Dale, l’uomo di scienza
avrebbe difeso la propria missione; ma lui, Emir, che quella missione non
l’aveva avvertita come tale mai, aveva avuto paura e aveva preferito restare
anche a quelle condizioni. Aveva chinato il capo e aveva obbedito alle ragioni
dell’azienda, ed era stato vile e meschino, e aveva svenduto il laboratorio.
Una doccia
gelida non riuscì a placare questa sensazione: gli rimaneva appiccicata
addosso, continuò a rimanere aggrappata da qualche parte in fondo alla sua
gola, egli la sentiva quando respirava…
Girellò
per un po’ nella sua grande casa vuota, labirintica, accese e spense la luce
nelle stanze in cui non andava mai, di cui quasi non ricordava l’arredamento,
cercando invano qualcosa che lo placasse. Quella casa era troppo grande e
dispersiva per una persona sola, e l’aveva ottenuta grazie alla Silph e al
proprio genio: era la vasta reggia della sua ambizione, ma neppure questo
riusciva a farlo sentire meglio.
Le pareti
erano spesse e umide, la sua villa, con ogni probabilità, era il luogo più
fresco di tutta l’Isola. Al di fuori di quella casa, malgrado fossero già
passate le sette, l’estate infuriava ancora e l’aria era torrida e
irrespirabile, ma Emir pensò che sarebbe stato meglio uscire, in ogni caso, per
combattere quel nodo alla gola che non lo lasciava respirare. Forse avrebbe
potuto passare in Laboratorio, sistemare un po’ di documenti, portarsi avanti
col lavoro… assieme alla sua casa, quello era il luogo in cui si era sempre
trovato più a suo agio, e non solamente in tutta l’isola, ma in tutta la sua
vita. Sperando che almeno là sarebbe stato capace di tornare a respirare, Emir
si vestì in fretta e si avviò.
Quando
arrivò non c’era già più nessuno: le casse dei materiali della spedizione erano
sistemate in corridoio, davanti all’ingresso, e qualcuno si sarebbe occupato
più avanti di collocarle nei rispettivi uffici…
Ma la
maggior parte di quel materiale riguardava il progetto dei fossili: nei
prossimi mesi sarebbe dunque stato del tutto inutile. Avrebbe dovuto lasciar
detto a qualcuno di spostarle direttamente in magazzino, in modo da evitare di
far fare del lavoro inutile… sì, ma poi che cos’avrebbero detto i suoi
colleghi, quando non avrebbero trovato il materiale nei loro uffici, quel
lunedì?
Il nodo in
fondo alla sua gola si fece se possibile più grande, più insopportabile. Emir
superò le casse sforzandosi di non guardarle, ma al momento di dirigersi verso
il suo ufficio si domandò se Mew fosse già stata sistemata nella sua stanza.
Quando
ancora si trovava in Guyana, Emir aveva concordato per telegramma con l’azienda
la necessità di ricreare in laboratorio un ambiente il più possibile simile a
quello della giungla, dato che non era possibile osservare Mew nel suo habitat
naturale, e Dale si era impegnato a farlo realizzare a tempo di record. Delle
possibilità della Silph egli non dubitava, ed era certo che avessero fatto un
ottimo lavoro, con tutti i mezzi a loro disposizione. Tanto valeva dare
un’occhiata, prima di mettersi al lavoro.
Quando
entrò nella stanza, fu come ritrovarsi di nuovo nella giungla. Tutto, tutto era
come egli ricordava: avevano piantato alberi a basso fusto, rampicanti, fiori
d’importazione… tutto ciò che di appartenente alla giungla potesse essere
acquistato col denaro, trasportato su un aereo e fatto entrare in quella
stanza, era lì. L’umidità e la temperatura erano state regolate per adottarsi a
un clima equatoriale. Mentre i suoi piedi calpestavano pregiata erba amazzonica
importata, ed egli inalava aria profumata di fiori e di frutta, Emir avrebbe
potuto illudersi di trovarsi ancora là, in Guyana, e di non esserne tornato
mai. Chissà quanto aveva speso la Silph per tutto quel materiale: M2 valeva di
certo più di qualsiasi cifra.
S’inoltrò
nella stanza con la curiosa sensazione di non essere solo. Era ragionevolmente
certo che Mew fosse già stata portata lì, per darle il tempo di riambientarsi
dopo il lungo viaggio in mare, ma non riusciva a vederla, e questo lo turbava:
adoratrice com’era della compagnia degli uomini, era strano che non fosse già
saltata fuori per salutarlo e farsi coccolare. Ma allora dove…?
Accovacciato
al suolo, dietro il tozzo tronco di un albero che gliene aveva sino ad allora
impedita la visuale, c’era Rotwang.
Mew stava
mangiando qualche cosa dalla sua mano, ma improvvisamente, quando percepì con
la coda dell’occhio la sua presenza, si sollevò di scatto, balzando nell’aria
con un impeto di gioia, e si avventò contro il suo petto. Al contatto colla
peluria delicata del suo muso, il groppo che da ore pareva soffocarlo in fondo
alla sua gola si attenuò un po’ – ma che ci faceva lì Rotwang?
«Ehi…
Fuji.» Per la prima volta da quando lo conosceva – o forse in tutta la sua
vita, chissà – Rotwang lo guardò come se si sentisse colto in fallo. «Me ne
stavo andando.»
Emir si
affrettò a fermare con la mano il suo primo tentativo di alzarsi in piedi. Ma
quando mai Rotwang era stato così disponibile, poi? «Lascia stare… ero passato
solo a dare un’occhiata. Devo andare in ufficio a compilare un po’ di roba,
perciò rimani pure.»
«Sono
venuto solo a fare dei controlli» borbottò Rotwang. «Le pulsazioni e la
pressione, sai… per controllare che il viaggio non l’abbia scossa troppo.»
Rotwang
doveva essere veramente imbarazzato d’essersi fatto trovare lì, se aveva
trovato una scusa così pateticamente, palesemente falsa. Ma quella era anche la
prima volta che Rotwang si limitava a difendersi piuttosto che attaccarlo
gratuitamente, ed Emir non ritenne saggio infrangere una così miracolosa
congiuntura. Fingendo di non accorgersi che era assai inconsueto per un medico
prendere rilevazioni su un paziente in T-shirt e vecchi jeans slavati, seduto
sull’erba e senza alcuno strumento, Emir si limitò ad annuire con aria di
comprensione.
«Capisco.
Immagino che vada tutto bene, sì?»
Rotwang
sapeva ch’egli sapeva che stava mentendo, ma gli fu grato egualmente di non
averlo dato a vedere. Si strinse nelle spalle. «Tutto nella norma. È molto
serena. Sembra molto felice di essere qui.»
Quando Emir posò due dita sul suo muso, tra i suoi occhi, e massaggiò piano la sua fronte, Mew pareva veramente felice di essere lì. Eppure era stata sradicata dal suo continente per venir rinchiusa in una stanza di un laboratorio, e il suo compagno era morto lontano da lei perché loro non erano stati in grado di salvarlo. Allora perché i suoi occhi esprimevano tanta gratitudine?
«Sì,
sembra molto felice» mormorò.
Quel nodo
in fondo alla gola era tornato, si era fatto più intenso e più tormentoso. Ma
perché? Era forse per gli occhi azzurri di Mew?
D’un
tratto una parte di lui sentì che confessare lo avrebbe fatto sentire meglio.
«Ho
parlato con Dale» disse con voce sorda.
Colto di
sorpresa, Rotwang aggrottò un sopracciglio e lo guardò come se si aspettasse
che dicesse qualcos’altro.
«Già, fate
sempre comunella, voi due» ribatté dopo un po’, in un chiaro tentativo di
invitarlo a proseguire.
«Ci hanno
bloccato i fondi per il progetto dei fossili.»
Quando
Emir si decise a chinare gli occhi su di lui, il volto di Rotwang era
corrucciato e perplesso. Stava per chiedergli qualcosa, ma alle sue domande
Emir non avrebbe mai saputo rispondere, allora proseguì macchinalmente per impedirgli
di parlare. «Dale vuole che ci concentriamo unicamente sul progetto di M2, e
ora tutti i finanziamenti sono vincolati a quello. Dobbiamo essere pronti a
rilasciare pubblicamente il tipo di Mew per la metà di settembre. Ho detto di
sì.»
«Ah» disse
solamente Rotwang. Non sembrava particolarmente turbato, né tantomeno furioso
quanto avrebbe dovuto essere. «Bella merda, eh?»
Se Emir aveva confessato tutto questo proprio a lui, non era per qualche inconscio desiderio di uno scontro catartico che lo riconciliasse con se stesso o per il desiderio d’esser rimproverato, ma semplicemente perché Rotwang era il primo essere umano che avesse avuto la sfortuna d’incontrare quel giorno dopo Dale, e bisognava pure ch’egli parlasse con qualcuno. Non è che avesse precisamente voglia di litigare, ma quando tutto ciò che ottenne di sentirsi dire dal suo più acerrimo nemico, alla notizia che aveva appena accettato di bloccare un progetto che andava avanti da quattro anni, fu bella merda, eh?, Emir si sentì profondamente spaesato. Non provava neppure a offenderlo?
«Non hai
nient’altro da dire?» chiese.
«C’era da
aspettarselo, Fuji, e se non te lo aspettavi sei un idiota» rispose saggiamente
Rotwang. Quantomeno, sembrava tornato in sé. «I fossili non fanno guadagnare
quanto il Pokémon più raro del mondo. Io me l’aspettavo, comunque.»
«Che
cosa?» Se solo Emir avesse potuto spalancare gli occhi ancora un altro po’. «Tu
ti aspettavi che ci avrebbero bloccato il progetto? Ma se sei venuto qui per
questo!»
Rotwang era emigrato dalla Germania perché l’unico desiderio che avesse al mondo era di partecipare al progetto di rigenerazione dei fossili condotto dalla Silph SpA, e contro la Silph si era scagliato e infervorato perché i fondi non erano mai abbastanza e i macchinari erano mediocri e qualsiasi altra cosa – e ora improvvisamente era d’accordo con loro. Aveva rinunciato ai fossili, per i quali si batteva da quattro anni. Ma perché?
Emir si
sedette in silenzio accanto a lui, cosa che spinse Mew a trillare di gioia, per
chissà quale motivo. Il giorno seguente – o forse anche l’ora seguente, senza
bisogno di aspettare tanto – Rotwang sarebbe tornato a odiarlo e ad aggredirlo
con qualsiasi pretesto; ma ora le cose non stavano così.
«Ho detto
io di sì a Dale.»
«Questo è
perché sei un coglione.»
«Ho dovuto
dirgli di sì. Se non l’avessi fatto, ci avrebbero licenziati per assumere
scienziati più giovani.»
Di fronte
all’insistenza delle sue parole, Rotwang ebbe un moto d’impazienza che fece
sobbalzare Mew di protesta. «Vuoi
sentirti dire da me che hai fatto bene, Fuji? Cazzo, ma non ci arrivi a capirlo
da solo?»
Un vero scienziato gli avrebbe detto di no, pensò Emir, si sarebbe rifiutato. Avrebbe difeso i diritti e la dignità della scienza, e avrebbe detto di no. Ciò che disse invece fu: «Lo so.»
Rotwang
parve calmarsi un poco a quella dichiarazione. Tornò a tendere la mano a Mew in
segno di scusa, e quella l’accettò prontamente e la strinse tra le piccole
zampe. «Beh, hai fatto bene, Fuji. Ti sei sempre piegato a novanta davanti alla
Silph, e hai sempre sbagliato, ma stavolta non potevi fare altrimenti. Dale ti
aveva mai minacciato prima?»
Emir
dovette fare mente locale per qualche minuto. Non poteva onestamente dire che
lui e Dale fossero mai andati d’accordo in senso assoluto, ma per quanto
indietro cercasse di spingersi con la memoria, addirittura fino al giorno del
loro primo incontro, non poteva dire di ricordarsi alcuna minaccia di quel
tipo.
«Beh, no,
ma… non credo che ne abbia mai avuto bisogno. Non era mai stato così
irragionevole, e io non mi ero mai opposto. Non come oggi, comunque.»
«Wow, tu che osi dire di no a Dale… devo veramente crederci?» Emir dovette esercitare uno sforzo titanico su se tesso per non rinfacciargli tutte le volte che aveva discusso per telefono con Zafferanopoli per i suoi capricci, ma in qualche modo riuscì a non rispondergli. Non voleva litigare davanti a Mew. «Beh, comunque stiano le cose… se Dale è arrivato a minacciarti di licenziarti, dev’essere perché la Silph preme veramente su questo progetto. I contatti che abbiamo firmato non ci tutelano, quindi penso che potrebbe farlo veramente, Fuji. Lui a questo laboratorio ha vincolato tutta la sua carriera, dopotutto.»
Il
ragionamento di Rotwang era ineccepibile, eppure, in fondo alla propria gola,
Emir sentiva ancora qualcosa di pungente e amaro, doloroso. Non avrebbe neppure
saputo spiegarne il motivo, dato che mai prima di allora egli si sarebbe
neppure sognato di mettere in discussione i dettami della Silph: era una
società per azioni, non un’università insignita del dovere morale di perseguire
gli alti e puri ideali della scienza, ed era giusto che investisse il proprio
denaro nel modo più redditizio; chi non fosse stato d’accordo, non era del
resto obbligato a lavorare nel privato. Eppure, quando si trattava di Mew, Emir
proprio non riusciva a pensarla così.
«Avrei
dovuto almeno provare a far dilatare i tempi. Un solo mese per dichiarare con
certezza il tipo… è pura follia.»
«Tu e
Lestournelle dovrete fare doppi turni. Io e Dolarhyde avremo bisogno di almeno
dieci giorni solo per gli esami del DNA, ma vedrò quello che posso fare»
calcolò Rotwang sovrappensiero. Continuava a non sembrare minimamente
arrabbiato, neppure di fronte alla mole di lavoro che li aspettava, e ne
ragionava lucidamente e razionalmente senza il minimo accenno di rabbia.
«Che c’è,
Rotwang? Sei d’accordo con la Silph, adesso?»
«Che ti
aspettavi che ti dicessi, Fuji? Che ti spronassi a farci licenziare tutti?» Dal
punto di vista di qualcuno emigrato appositamente per lavorare per la Silph,
quella poteva costituire da sola una valida risposta, ma Rotwang, che ancora
aveva gli occhi infissi negli occhi di Mew, non aveva ancora finito di parlare.
Per qualche motivo, Emir sentì che ciò che era in procinto di dire era
stranamente importante, e incosciamente si protese verso di lui. «Voglio dire… possiamo
davvero permetterci di rischiare che ce la portino via?»
Buongiorno a tutti!
A sessione invernale finita mi sono presa un paio di giorni per copiare questo capitolo, piuttosto breve e soprattutto scritto su un numero limitato di fogli volanti, e pubblicare (forse per la prima volta nella mia vita, chissà) entro un tempo decente.
Riguardo a questo capitolo non ho molto da dire, ma colgo l’occasione per chiedere come vedete il formato del testo: negli ultimi mesi sto avendo dei fastidiosissimi problemi con l’HTML, soprattutto per quanto riguarda la dimensione e il font, e sto cercando di risolverli senza troppo successo.
Ciò detto, ringraziando come al solito cristal_93 per la recensione, non mi rimane altro che mandare un enorme abbraccio a tutti.
Alla prossima
Afaneia