La
ballata di John Watson.
Il
filtro della sigaretta
brucia leggermente, nel momento in cui Sherlock lo riappoggia in
prossimità
delle proprie labbra: l’incandescente brace di tabacco e
sostanze tossiche ha
ormai raggiunto e cancellato il trafiletto contenente la ben nota marca
di
cicche; un’ulteriore inspirata e tutto quel che
arriverà direttamente ai suoi
polmoni sarà plastica, o forse pura diossina.
John
produce col proprio volto
una smorfia grottesca di completo disappunto, osservandolo da poca
distanza, e
si sistema nervosamente nella poltrona per mezzo di movimenti stizziti:
inizialmente accavalla la gamba sinistra, poi la distende quasi
completamente
contraendo il quadricipite; infine piega il ginocchio destro e tutto il
suo
polpaccio scompare quasi magicamente sotto la corrispettiva coscia. Non
c’è
sicuramente la necessità di essere grandi osservatori per
riuscire a
comprendere che oggi John H. Watson è particolarmente
irrequieto.
«Allora?»
borbotta, continuando
a muoversi. «Mi hai chiesto di venire qui per guardarti
fumare?» aggiunge, scricchiolando
le dita delle mani soltanto con l’ausilio di scatti delle
ossa; tic, tic, tic. «Sai
che odio il fumo,
Sherlock, ed odio te che mi fumi bellamente in faccia.»
Sherlock
lo guarda; la cicca
ancorata saldamente in mano, la vestaglia blu che indossa leggermente
sganciata
e calante in prossimità del petto: i suoi occhi si
socchiudono appena, mentre
mormora un “ovviamente no”.
«Allora
spengi quella dannata
sigaretta, per piacere» scandisce fermamente il dottore; una
pronunziazione che
pare più un ordine, piuttosto che una gentile richiesta.
Sherlock
non risponde, sul
momento: osserva di sbieco il mozzicone tuttora fumante che stringe tra
le dita
ed il movimento che la sua mano compie con l’obbiettivo di
spengerlo, per poi
gettarlo all’interno del posacenere in alabastro che Mycroft
gli ha regalato lo
scorso Natale.
«È
la mia ultima sigaretta» lo
dice con l’arto ancora impegnato nello spegnimento; un
processo semplice e
teoricamente immediato che però sembra durare ore intere: ma
è così che deve
essere, crede. È la sua personale sigaretta del coraggio, in
fondo. Ma John,
ovviamente, tutto ciò non può neanche
lontanamente immaginarlo.
«Non
ci credo» è infatti la
risposta immediata del dottore, che subito abbozza un sorriso scettico,
alzando
soltanto un angolo della bocca. «Quante volte hai pensato o
detto questa
frase?» le sue mani continuano a scricchiolare provocando
suoni secchi e
rimbombando esageratamente in vuoti conversazionali fin troppo lunghi.
Sherlock
si sistema nella sua
poltrona; un unico movimento netto, la coscia destra che va a
sovrastare
l’altra: adesso sono occhi negli occhi.
«L’ho
detto molte volte, non
posso darti torto. Spesso solamente con l’obbiettivo di farti
contento; ma
stavolta sono convinto, ed è la verità»
il suo discorso è veloce, lineare:
Sherlock mantiene un tono di voce basso, mentre gli occhi di John
iniziano a
vagare nel nulla.
I
suoi capelli oramai
totalmente grigi permeano nella loro perfetta composizione ingellata;
la sua
mano destra però li percuote comunque, indirizzando la piega
più volte e sempre
nella solita direzione.
«Congratulazioni,
allora»
scandisce con evidente sarcasmo, mordendosi poi leggermente il labbro
inferiore.
«Vuoi che organizziamo una festa?»
«No,
John» è la risposta
istantanea di Sherlock che per una volta rimpiange; rimpiange quella
sigaretta
finita. La sigaretta del coraggio.
«Allora
cosa vuoi, Sherlock?»
quasi un sibilo, in realtà un po' fioco.
Adesso
John lo guarda
intensamente e la sua mascella quasi trema, rimbalzata da denti
abituati a
scontrarsi l’uno contro l’altro durante notti di
terrore e di dolore.
Sherlock
respira. Respira
ossigeno e polvere, paura e coraggio.
«Voglio
che tu venga a vivere
qui insieme a Rosie.»
***
Sherlock
Holmes ha
inevitabilmente compreso di non sapere più molte cose, per
colpa e per mezzo
degli eventi intercorsi durante l’ultimo periodo della sua
esistenza.
Sicuramente, proprio senza alcun dubbio, non sa come sia possibile il
fatto che
John abbia accettato la sua improvvisa proposta. La logica e la
razionalità,
infatti, non potevano che fargli capire tutt’altro: i
movimenti di John
potevano essere accomunati a nervosismo e mal sopportazione, le
profonde
occhiaie e lo scricchiolare sinistro di ogni sua articolazione si
traducevano
in insonnia ed incubi; il suo tono di voce, gutturale e basso, urlava
in realtà
rabbia a gran voce. John Watson non era evidentemente più a
suo agio,
posizionato in maniera scomposta ed impaziente in prossimità
della sua poltrona
al 221B di Baker Street, quel preciso giorno non troppo lontano.
Eppure
si era trasferito. Eppure..
Sherlock
lo guarda; può farlo
adesso, nel presente, davvero. John è impegnato nel cullare
dolcemente sua
figlia, girovagando a vuoto nell’area del loro salotto,
oramai pieno di
giocattoli e biberon sparsi qua e là. A stento in lui
riconosce ed individua
quell’uomo che ha visto ridere in maniera sprezzante, di
rimando alla sua
proposta di convivenza. Quello stesso uomo che, dopo interi minuti
passati a
produrre un’assurda quanto isterica risata, si era zittito
improvvisamente e lo
aveva osservato con uno sguardo mortalmente serio.
«Non
fumerai davvero più?»
aveva mormorato ed i suoi occhi erano lucidi, le sopracciglia un po'
aggrottate: sembrava in procinto di piangere e Sherlock avrebbe voluto
abbracciarlo, ma non sapeva se gli era permesso farlo.
«Non
fumerò più» si era quindi
limitato a dire, sorreggendo lo sguardo di John in maniera intensa.
«Giuralo,
Sherlock» lo aveva
incalzato e, ancor prima che la pronunziazione fosse terminata, un
forte
assenso da parte del diretto interessato era immediatamente arrivato in risposta.
«Lo
giuro» gli aveva detto, ma
non bastava. «Lo giuro» aveva ripetuto.
John
aveva sospirato. John si
era passato di nuovo una mano fra i capelli perfettamente pettinati,
accavallando
due o tre volte di seguito le gambe. Aveva poi scrocchiato tutte le
ossa delle
falangi ed aveva contratto in automatico la mascella, umettandosi le
labbra visibilmente
secche.
«Va
bene» aveva infine
sillabato. Semplicemente un “va bene”.
Difficile,
davvero difficile,
il comprendere John Watson. Sherlock ci prova; lo fissa, lo analizza,
lo
studia. Lo osserva mentre addormenta sua figlia, tenendola
delicatamente
poggiata sul proprio petto: un piccolo fagotto di appena cinque mesi,
avvolto
da una leggera coperta rosa tenue. Lo guarda, sì, lo guarda
sempre: ma la
verità è che non capisce.
Quel
che conta è che John sia qui;
ecco quel che ripete a se
stesso oramai da quattro settimane e dieci giorni. Anche se il cuore
gli fa
male, gli fa male ogni dì, seppur ad ore diverse; ma da quel
dolorino pungente
non può scappare. È proprio in
prossimità del petto, quell’area sfigurata dal
buco; il buco provocato dal proiettile che Mary gli ha sparato addosso:
una
cancrena oramai più estesa, che sembra avergli infettato gli
organi interni; a
volte crede che anche il suo cervello ne sia uscito inevitabilmente
compromesso. La realtà dei fatti è che
ultimamente Sherlock Holmes si è
riscoperto debole: non di un’effimera debolezza fisica, ma
piuttosto debole
d’animo. Debole di cuore.
“Potrei
avere un infarto”, è
quel che vorrebbe dire a John Watson, tuttora intento nel coccolare la
piccola.
Un John che lentamente ondeggia dandogli le spalle in pochi metri
quadrati,
intonando una cantilena deprimente; perché
le canzoni per neonati devono essere sempre così
dannatamente tristi?,
vorrebbe aggiungere, mentre il suo organo cardiaco pulsa in maniera
frenetica.
La cassa toracica sembra realmente espandersi, mentre il suo respiro si
mozza.
Se ne sta appollaiato sulla sedia, intirizzito e fermo, ed intanto John
continua a cantare.
“Arise, arise, arise and tell to me
What thou has done with the babe I
saw and heard weep by thee?
I put him in a tiny boat and cast
him out to sea
That he might sink or swim, but he’d
never come back to me..”
Le
parole raggiungono i suoi
orecchi quasi sottoforma di sussurri lontani e per un attimo, soltanto
per un
solo singolo attimo, Sherlock chiude gli occhi e si lascia trasportare
dalla
litania. Abbassa le palpebre ed
il
dolore improvvisamente scompare; ogni cosa sparisce, trasportata via
dalla
rassicurante voce di John. Inizia quindi a dondolarsi
impercettibilmente,
seguendo il ritmo della ballata, ed è calore reale e
tangibile quello che pian
piano comincia ad irradiarsi nel suo petto, mentre una solitaria
lacrima
percuote la sua guancia sinistra. Una lacrima che invece è
fredda, gelata, e che
sembra scivolare dal dotto lacrimale a rallentatore, sradicando ancor
più
profondamente il pungente dolore. Ma la voce si arresta,
all’improvviso e
malamente, e Sherlock non vuole, davvero, ma è costretto ad
aprire gli occhi.
John
lo fissa. I suoi bulbi
oculari spalancati e sorpresi lo scrutano inerti; nessun battito di
ciglia,
perlomeno non nel lasso di venti secondi circa. Il volto della bambina,
adesso
completamente esposto, è sereno e rilassato: Rosie apprezza
le ballate
deprimenti, è ovvio. Sennò il suo papà
non le intonerebbe così frequentemente.
Il
tempo si dilata, durante
quest’istante: è come se ogni cosa si
pietrificasse, stabilizzandosi in
un’immobilità innaturale e quasi mistica; li
riesce quasi a scorgere, i milioni
di granelli di polvere sospesi nell’aria del loro salotto. E
lo spera, lo spera
vivamente: fa’ che anche John sia immobile; prega
scioccamente una sua
personale divinità del destino immaginaria del momento. Fa’ che non mi abbia visto.
Ma
John sbatte le palpebre e
questo attimo eterno e perfetto può forse dirsi finito.
Anzi, semplicemente lo
è.
«Sherlock..»
John esita
fiocamente. È spiazzato, sbigottito, incredulo. Decine di
sensazioni trapassano
il suo volto e Sherlock, in questo preciso momento, si sente
leggermente
sollevato: talvolta riesce ancora a capirlo, in fondo. Saltuariamente
può
considerarsi ancora quel Dio della deduzione che in passato il dottore
tanto
idolatrava, tutto sommato.
Vede
John stringere la bambina
un po' più intensamente; le ossa delle mani scricchiolano e
Rosie mugola un
versetto contrariato. Gli occhi di suo padre tornano quindi in un
attimo a
posarsi su di lei: un misto di preoccupazione e di timore si manifesta
immediatamente sul volto di John; tale status si quieta subito dopo
aver
constatato l’espressione serena ancora caratterizzante il
visino addormentato
della piccola. Il dottore rilassa la presa, comunque, un istante prima
di
posare il corpicino a giacere nel box posizionato in
prossimità della parete
destra della stanza.
«Sherlock..»
è un altro
mormorio inconsistente; un’invocazione che Sherlock vorrebbe
poter smettere di
udire. No, non ha voglia di ascoltare; non ha proprio alcun senso
l’ostinarsi
nel ripetere il suo nome come se volesse dire chissà cosa.
“Perché
piangi?” ecco quel che
John Watson dovrebbe invece chiedergli, spingendolo ad alzarsi dalla
sua
scomoda seduta ed asciugandogli la guancia con l’ausilio dei
polpastrelli.
“Non
devi piangere” dovrebbe poi
continuare, senza aspettarsi alcun tipo di risposta al primo quesito.
Sherlock
apprezzerebbe il suo sguardo, in quel determinato momento: due occhi
sicuramente carichi di dolcezza, quella stessa tenerezza che ogni
giorno John
riserva a sua figlia; e potrebbe sicuramente anche avvertirla nel suo
tocco, in
quelle mani che hanno curato le sue ferite fisiche e morali infinite
volte,
donandogli un senso di protezione mai sperimentato anteriormente. In
fondo
c’era sempre e solo stato il niente, prima di John Watson.
“Non
c’è nessun motivo per il
quale piangere, Sherlock” dovrebbe sillabare ancora e ancora,
il suo John.
Fregandosene del suo silenzio, intrappolandogli il volto tra le mani e
guardandolo dritto negli occhi. Senza esitazioni, privo di
tentennamenti, con
il suo sguardo caldo e con la sua pelle perennemente bollente. I suoi
capelli
profumati, la barba un po' ispida: John dovrebbe baciarlo, infine ed
infatti.
Un bacio tenero, niente di troppo passionale; in tutto ciò
non ci sarebbe
fretta, né alcun tipo di urgenza.
Non
ci sarebbero fantasmi
intenti nell’alitare sui loro colli, all’interno
del loro salotto: presenze
evanescenti, ma tuttavia tangibili; eppure tempo fa, un tempo che
oramai pare
passato remoto, Sherlock apprezzava i fantasmi. Non aveva paura di loro
poiché
li capiva; se li capisci, pensava fermamente, poi trovano la pace. Anche io l’avevo trovata,
riflette di
sfuggita nel presente reale. Ma alla fine
l’ho persa.
Sono
un fantasma, lo
crede, lo sente. Lo avverte osservando John
che rimane saldamente ancorato al box di Rosie, incapace di accennare
anche
solo un singolo passo verso di lui. Lo capisce da quella sua mano
destra
stringente la maniglia esterna del recinto per bambini; le dita si
contraggono ritmicamente
e lo scricchiolio delle ossa pervade tutto l’ambiente. Dio,
quant’è irritante. Quanto
fa male.
Sherlock,
banalmente, se ne
rende conto
riflettendo su tutte le
azioni che John dovrebbe compiere ma che invece, purtroppo, non fa. Il
dottore
rimane immobile, orribilmente pietrificato; ed anche se prima
desiderava la sua
staticità, adesso tale visione è soltanto in
grado di far ripartire il sordo
dolore in prossimità del suo cuore.
«Sherlock..»
ripete ancora
mentre lo occhieggia da lontano. Sempre così lontano.
È
solo il silenzio, poi, quel
che lo accompagna nel suo alzarsi dalla sedia velocemente,
ricomponendosi
appena la vestaglia ormai sgualcita. Soltanto silenzio, sì,
ed il ticchettare
delle ossa dell’uomo che dovrebbe abbracciarlo, che dovrebbe
baciarlo, che
dovrebbe amarlo. Sherlock gli dà le spalle, adesso, e
riflette ancora su tutto
ciò: su quel che John Watson dovrebbe fare. Su quel che John
dovrebbe dire.
«Sherlock.»
Ma
John, semplicemente, non fa
niente. Neanche quando codardamente fugge
all’interno della sua camera,
chiudendosi con slancio e forza voluta l’uscio alle spalle.
John non dice
niente, già; non può farlo.
Non
può proprio fare niente,
pensa, lasciandosi malamente cadere sul
letto. Sospira, poi, mentre sente le fitte nel petto che si acuiscono
pian
piano. Vorrebbe sinceramente fumare, ma non lo farà: ha
giurato. Ha giurato a John, ha
giurato per John.
Ma
seppur John sia in quella
casa, con sua figlia. Con i giochi sparsi sul divano, decine di libri
poggiati
come al solito sulla scrivania. I tremendi maglioni ordinati
perfettamente
nell’armadio e quell’enorme aggeggio per
sterilizzare i biberon sempre posto in
prossimità del lavello. La foto di Mary sul comodino e la
dispensa sempre ben
rifornita. Con il profumo del suo dopobarba aleggiante
nell’aria e le sue ossa
scricchiolanti.
Seppur
tutto questo; a
malincuore e con estremo dolore, forse il dolore più grande
di tutta la sua
intera esistenza, Sherlock lo pensa: la
verità è che John non c’è.
John
non c’è, perché tuttora
non mi ha perdonato.
Forse..
forse non lo farà mai.
***
È
notte ed una mano accarezza
la guancia di Sherlock con lentezza. Lì per lì
non gli interessa affatto capire
se è la realtà, o se magari tale sensazione
derivi da un sogno particolarmente
vivido tipico del perenne status di dormiveglia che recentemente
caratterizza
sempre le sue nottate: la percezione comunque è piacevole,
così piacevole,
troppo piacevole. Non vuole che finisca. Non
deve finire.
È
un tocco particolarmente
delicato: due dita gli si poggiano sulla tempia destra e si soffermano
su tale
area, per poi scivolare a rilento sul suo zigomo; polpastrelli
singolarmente
caldi e ruvidi, che seguono la linea della sua mascella in maniera
precisa e si
vanno infine a posare sul mento. Esitano per un attimo in
prossimità delle sue
labbra, ma non osano. Riprendono il loro percorso dalla tempia, poi, in
una
ripetizione di gesti che va avanti da almeno dieci minuti. Magari
mezzora. Due
ore, forse.
Non
lo sa. Sa che non vuole
aprire gli occhi, in compenso, ma sa anche che molto probabilmente
è necessario
farlo. Il respiro accelera, mentre la sua mente formula tale pensiero.
«Non
li aprire» è un ordine
secco, perentorio, ma a suo modo dolce. John Watson è quindi
disteso nel letto
accanto a lui, occupato nell’accarezzargli il volto, ma ben
attento nel
mantenere tutto il resto del suo fisico a debita distanza; a stento
Sherlock
riesce a percepire il suo calore corporeo e fallisce miseramente nel
dedurre se
egli sia posizionato sotto le coperte o sopra il lenzuolo. Il contatto
si
limita a quelle due dita; indice e medio, suppone. Comunque non alza le
palpebre, piacevolmente colpito anche solo da ciò.
Non
parla. In realtà non sa che
dire; non sa proprio cosa sillabare, in risposta a John ed a quei
polpastrelli
ora impegnati nel levigare la sua fronte. Il buio, nella sua mente,
regna
sovrano e l’unica reazione fisiologica percepibile
è quella del suo respiro che
accelera nel momento in cui John inizia a sfiorargli il naso; le dita
passano
poi sul pomo d’adamo e lo schema di tocchi finora adottato si
può dichiarare
ufficialmente concluso. John gli tasta delicatamente la carotide, in
seguito,
soffermandosi nell’area per almeno un minuto; il silenzio
è spezzato soltanto
da profondi respiri e dalla moltitudine di domande che gli iniziano a
vorticare
nel cervello: sarà totalmente disteso oppure parzialmente
seduto? Indosserà il
pigiama o magari soltanto i boxer? Vorrà uccidermi o..
«Il
tuo battito è davvero
accelerato.»
..
baciarmi?
Che
constatazione ovvia, John;
potrebbe tranquillamente dirgli. Ma non lo
fa, anche se sarebbe il solito, anche se così sarebbe
Sherlock, quello Sherlock
che John ha conosciuto, con il quale ha convissuto, con cui ha
litigato,
condiviso avventure, guai e drammi. Quello Sherlock del quale spesso si
è preso
cura, per il quale ha preparato ogni qualvolta colazione, pranzo e
cena; lo
Sherlock che John ha sgridato, odiato e picchiato a sangue. Uno
Sherlock che,
almeno in parte, in realtà non esiste più.
«Sei
cambiato» è il sussurro di
John, questa volta più vicino; sente il suo fiato tiepido in
maniera estrema,
proprio in prossimità del suo orecchio destro. È
come un sibilo bollente che
dal suo canale uditorio inizia un percorso all’interno del
corpo intero; scorre
lentamente attraverso le sue vene, si mischia al suo stesso sangue ed
infetta
ogni cosa con quel piacevole calore caratterizzante. Infine arriva al
cuore ed
il colpo che assesta è forte, violento ed inatteso. Sherlock
geme appena,
soffocando un singulto in gola con forte determinazione. John, in
risposta,
rimuove le dita dal collo ed in un attimo arriva a poggiarle sul suo
occhio
destro; gli tocca delicatamente la palpebra ancora abbassata: una
leggerezza
particolare, quasi come se egli stesse avendo a che fare con un
qualcosa di
davvero fragile.
È
strano. John Watson gli
accarezza la palpebra e Sherlock Holmes si sente il cuore in procinto
di
scoppiare; ma non di dolore, né di tristezza. Semplicemente
di gioia.
«Ti
devo chiedere scusa,
Sherlock» continua a parlare, John, ed il suo corpo
è ancora distante, ma la
consistenza dei suoi polpastrelli ruvidi è sempre
più nitida ed adesso riesce
ad avvertire anche il suo odore: John sa prettamente di Rosie, questo
è certo;
dell’ammorbidente biologico che usa per lavare a secco le sue
tutine, in primis.
C’è anche un sentore di borotalco, quella polvere
densa e bianca con cui sempre
la ricopre dopo ogni bagnetto.
«Scusa»
sospira, o forse
respira soltanto un po' più pesantemente. La mascella
scricchiola e i denti
strusciano; ma le dita no, non provocano alcun rumore.
«Scusami.»
Vorrebbe
dire qualcosa,
Sherlock; vorrebbe sinceramente urlare a John che non ha alcun motivo
per il
quale chiedere scusa. “Perdona me!”, vorrebbe
invece esclamare; rizzarsi,
mettersi in ginocchio ed invocare richieste d’amnistia in
prossimità dei suoi
piedi scalzi. Baciarli pure, magari.
Ma
John continua ad
accarezzarlo; adesso gli tocca i capelli, finalmente con
l’ausilio dell’intera
mano: i movimenti sono circolari, mentre gli occhi di Sherlock si
mantengono
volontariamente chiusi. Uno stato di elevato assopimento gli invade la
mente
nel medesimo istante in cui avverte il viso del dottore improvvisamente
più
vicino; il suo fiato sul collo e l’arto ancora impegnato
nello smuovere i
capelli con il sicuro fine di esporre ulteriore cute. Le labbra di John
si
posano sulla sua mascella; e lo sente, lo sente davvero, il suo cuore
che batte
all’impazzata.
«Sherlock,
io..» è il basso
mormorio di John contro le sue labbra pietrificate; labbra in
realtà già
dischiuse: una bocca immobile che però brama, brama e ancora
brama. Non sa che
cosa; forse un tocco, magari soltanto una parola. Una grazia. Una
salvezza. «Io
ti..»
Un
rumore metallico ed
artefatto percuote all’improvviso l’aria,
espandendosi nello spazio e
rimbombando su ogni parete: il pianto di Rosie, inizialmente accennato,
aumenta
di volume e d’intensità nel lasso di attimi ed
accompagna il distacco graduale
ma inevitabile di John.
«Devo
andare» lo sente dire con tono titubante mentre avverte distintamente il suo innalzamento dal
letto;
Sherlock ha ancora gli occhi chiusi, ma non fatica
nell’immaginarselo al di là
delle sue palpebre abbassate: lo osserva quindi mentre armeggia in
prossimità
del comodino alla ricerca dell’interfono; poi si allontana ed
infine esita
sull'uscio, quasi come se fosse avvolto da un tepore estraniante che
Sherlock
stesso avverte in maniera tangibile. Un urletto più acuto
della bimba lo
risveglia però da tale status, spingendolo a varcare
velocemente la soglia
della porta e socchiudendosela gentilmente alle proprie spalle.
Solo
a questo punto Sherlock
Holmes riapre gli occhi.
La
stanza è incredibilmente
buia, ma non si sforza affatto nell’abituare lo sguardo a
tale oscurità; non
gli interessa, non ha importanza. Acuisce soltanto l’udito,
concentrandosi sul
pianto oramai lontano della bambina. Sorride, poi,
nell’ascolto quasi
impercettibile dei dolci sussurri di John.
“Arise, arise, arise and tell to me
What thou has done with the babe I
saw and heard weep by thee?
I put him in a tiny boat and cast
him out to sea
That he might sink or swim, but he’d
never come back to me..”(1)
Egli
intona ancora,
ripetutamente; ed è davvero una mesta melodia, troppo triste
ed afflitta per
essere razionalmente funzionale nell’addormentare i bambini.
Ma allo stesso
tempo, Dio, è così bella.
Richiude
inconsapevolmente gli
occhi, mentre la voce di John continua a bisbigliare la canzone, strofa
dopo
strofa. Sherlock avverte il proprio respiro farsi regolare ed i suoi
muscoli
rilassarsi in maniera inesorabile; si sforza, ci prova, ma il suo
intento di non
lasciarsi di nuovo ipnotizzare da tale ascolto fallisce miseramente. Si
addormenta, quindi.
Si
addormenta cullato dalla
triste ballata di John Watson.
Note:
(1) “Ballad
of Mary Hamilton”, Joan Baez.
Salve
a tutti, eccomi di nuovo
qua! Dopo la mia personale “Saga della Gelosia”, vi
presento la seconda parte
della “Saga della Tristezza”. Come avrà
capito chiunque abbia letto un po’ dei
miei lavori su Sherlock, io scrivo principalmente a periodi: ho avuto
un gran
bel momento porn (che in realtà mi manca alquanto e che
spero sinceramente di
rispolverare dai meandri della mia mente perversa!:P), sono intercorsa
nel cambio
di genere che mi ha dato grandi gioie creative, ho sfogato la mia
follia con scritti
deliranti ed adesso sono completamente sprofondata in quella landa
desolata che
è l’introspezione tristissima post S4. Dopo la OS
incentrata su John e senza la
presenza di Rosie, ho deciso subito di voler scrivere la controparte di
Sherlock, ma in realtà anche quest’ultima mi
è scivolata quasi completamente su
John: come mai il dottor Watson ultimamente mi sta facendo
quest’effetto? Suppongo
perché il fascino del tormento e delle complicazioni ha
sempre quel qualcosa
che stimola le mie meningi, ammaliandomi completamente. E la domanda
che mi
sorge spontanea in testa praticamente di continuo è sempre
la solita: com’è
possibile che John non si sia accorto del cambiamento che Sherlock ha
attuato
su se stesso? Come può disprezzarlo così
profondamente, senza comprenderlo
affatto? Ecco, tali pensieri hanno solleticato la mia
creatività ed hanno dato
vita propria alle mie due ultime OS. Che poi, ad essere sincera, mal
sopporto
tutto ciò: preferirei scrivere cosucce un po’
più allegre e narrative; ma all’ispirazione
non si comanda, non c’è via di fuga. Comunque
spero che la storia vi possa
esser piaciuta, nonostante tutto, e che nel finale abbiate colto quel
lieto
fine che concretamente non c’è. Ma nella mia testa
esiste, ve lo giuro.
Grazie,
davvero, e se vi fa
piacere lasciarmi un commento per esprimere ciò che pensate
a riguardo sappiate
che è più che ben accetto! Anche delle infamate
per la troppa depressione che
sta dilagando in questi miei scritti. :)
Un
saluto a chiunque abbia
letto,
AintAfraidToDie