Anime & Manga > Yu-gi-oh serie > Yu-gi-oh! Arc-V
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Autore: Selena Leroy    24/02/2018    1 recensioni
Il progetto "Les Enfant Terrible" aveva uno scopo: dare alla luce una nuova generazione più consapevole, più capace e più ambiziosa della precedente. Non era rimasto molto, d'altronde, agli ultimi superstiti di un pianeta arso vivo dalla Peste, un nuovo morbo che infesta il pianeta uccidendo qualunque creatura esistente si trovi sul suo cammino.
Yuya Sakaki è una di queste speranze, cresciuta assieme al padre e alla medicina. Ha solo sedici anni, ma il suo quoziente intellettivo supera di gran lunga quello delle sue normali coetanee; con il suo amico di sempre, quel ragazzo di nome Yuto segretamente innamorato di lei, continua una battaglia che però sembra persa in partenza.
E la situazione, per lei, volgerà inaspettatamente verso il peggio; alla morte improvvisa del padre, le decisioni di un uomo mai visto né sentito e che risponde al nome di Leo Akaba, la porteranno via dal suo luogo natio, dai suoi affetti e dai suoi amici, e in quella solitudine imposta da estranei, nelle cui menti si cela un segreto dalle cupe ombre, tutto ciò che le rimane da fare è lottare, e continuare quella ricerca ora così preziosa. Se farlo o meno da sola, dipenderà solo da Reiji Akaba...
[Pendulumshipping]
Genere: Fantasy, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akaba Reiji/ Declan Akaba, Yuto, Yuya Sakaki
Note: AU | Avvertimenti: Gender Bender
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“Quindi anche i demoni si ammalano, eh?”
All’udire di quelle parole – in una tensione che concretizzava l’aere in solido spugnoso – la tazza tenuta malamente tra le mani di Shun – quella preziosa ceramica riportante sulla sua superficie il duro lavoro della sua dolce sorella Ruri, che con calma e dedizione vi aveva dipinto su un giglio dalla fioritura rigogliosa – poco mancò dovesse incontrare la sua fine sulla candida superficie del pavimento, lasciando di esso cocci scomposti e caldo latte ormai imbevibile.
Crow Hogan era da sempre paragonato alla tempesta; il fatto che non facesse assolutamente nulla per porre a tacere simili idee nei suoi confronti non era che il risultato dei mille attentati cardiaci che il giovane scienziato dagli occhi dorati ancora segnava sulle noticine di un libricino dalla copertina lisa - che nessuno sospettava essere un qualcosa di simile ad un diario personale. Poco importava l’importanza del luogo e delle occasioni, nessuno avrebbe visto arrivare la sua zazzera impazzita se non quando quella voce squillante veniva a tirarti giù tutti i santi che il paradiso aveva da offrirti; odiarlo veniva quasi spontaneo, in un ambiente dove il silenzio è un qualcosa di tanto obbligato da non richiedere nemmeno la formale richiesta di riscatto, ma per Shun – almeno fino a quel momento – quel suo essere tanto libero dalle normali convenzioni non aveva mai costituito null’altro se non del semplice tumulto in una monotonia pronta a spezzarlo.
Però quel giorno non poteva avere tutta quella gentile considerazione nei confronti di uno che sembrava trovare quasi divertente quelle sue entrate ad effetto; posata la tazza sul tavolino ingombro di carte e cartelle – e terribilmente pieno perché unico mezzo di sostentamenti per carte e fascicoli vari che non fosse il rigido pavimento in marmo – fu sua premura fulminarlo con uno di quei suoi sguardi alla soda caustica, suo fiero orgoglio e di certo sua invincibile arma per placare anche chi aveva l’argento vivo nelle vene.
“Di certo tu non aiuti la croce, portandomi l’uragano Katrina nella mia stanza”
Il luogo nel quale il ragazzo era solito ricevere i suoi ospiti – ossia i fortunati che avevano il privilegio di venirlo a chiamare le rare volte in cui faceva tardi in laboratorio – non possedeva il fascino che Reiji invece rievocava nell’elementarità del bello; il suo era un semplice triste, di quelli che dimostravano non il saper ponderare la giusta dose di pieni e vuoti, ma il semplice disinteresse verso qualunque orpello si mostrasse troppo distante dall’essenziale. Ci viveva da quasi cinque anni, all’interno di quella stanza, ma a parte quel tavolino in legno – pronto a cedere al prossimo carico di lavoro – il letto puntualmente sfatto – e di coperte che, nel loro candore, non si staccavano dal bianco dominante della stanza – due sedie rubate da chissà dove - e scomode nella plastica che era stata usata nel minimo indispensabile – e l’orologio appeso alla parete – bianco pure quello – nulla si era mai andato ulteriormente ad accumulare. Il suo vestiario era affidato ad uno scatolone poco distante dal letto, i suoi pochi effetti personali al bagno che si affacciava nella parete opposta della stanza.  Andarci – per chiunque – si trattava di andare realmente a soverchiare il significato della frugalità, e di tutta quella serie di mancanze a cui gli scienziati non sembrano nemmeno fare caso.
E di certo Shun non rimpiangeva la mancanza di un mobilio, o di soprammobili che portassero il giusto colore ad un piatto grigiore che non comunicava nulla. Aveva da lamentarsi solo dell’assenza di un divano – il luogo ideale, nel suo immaginario, per la revisione di testi e carte – ma quella era la sola debolezza a cui non avrebbe mai ceduto, la consapevolezza che, una volta stesosi su tanta morbidezza, nemmeno la forza di un titano sarebbe riuscita a farlo studiare decentemente. E questo il piccolo sofà di Reiji glielo aveva insegnato molto bene.
Fu per questo che ignorò platealmente gli ennesimi commenti del collega al riguardo della sua povertà – che nemmeno si poteva dire esatta – e fece quanto era in suo potere per fargli comprendere quanto sgradita fosse la sua presenza.
“Non lo sai che i demoni malati sono più aggressivi di quelli normali? Perché sei venuto a tuo rischio e pericolo?”
Fumare era uno dei vizi nel quale era solito cedere quando lo stress lavorativo minacciava di non farlo dormire; in quel caso, tuttavia, il risveglio malvagio delle sigarette assassine fu soltanto l’ennesima trovata escogitata per far scacciare via quel salutista sciattone il cui unico pregio era la consapevole lotta al fumo passivo.
“Questa storia te la sei appena inventata, e che tu sia un demone o meno fumare non ti farà certamente star meglio” disse infatti il collega, la piccola preziosità di tabacco sottratta dalle esili dita dell’altro e calpestata malamente su un suolo che di certo non avrebbe pulito lui. Precauzione suggerì anche una decisa distanza dal luogo del misfatto – lo sguardo minaccioso di Shun che suggeriva fulmini e saette -  e amor proprio una lesta presa del pacchetto appoggiato poco distante su quel tavolo che lo rendeva quasi invisibile.
“Comunque” affermò subito, percependo finalmente i sentimenti di Shun “non sono qui per darti fastidio, tanto meno ora che sei  malato. Sono venuto qui perché ho delle novità”
“Spero per te che si tratti di lavoro” fece il moro, il corpo a poggiarsi mollemente sul letto.
“E di cosa, altrimenti?” rovistò nelle tasche, Crow, solo per maledirsi della sua stupidità; ciò che avrebbe dovuto siglare le sue parole, dargli consistenza tattile e l’immancabile del vero, giaceva in quel momento nella stessa stanzina nella quale il grande oggetto di interesse riposava profondamente, sicuramente crollato al suolo in uno dei suoi  numerosi momenti di distrazione. Gli venne voglia di metter mano a quei capelli già di loro tanto caotici solo per poter far provare al suo cervello la stessa pressione che adesso avvertiva lui nel comprendere quanto mancasse di effetto la sua visita.
“Guarda che ci sento, puoi benissimo dirmeli a voce, i risultati dei test”
“Non è questo, è che sarebbe stato più chiaro mettere in mostra la... differenza, direi”
Crow non era mai stato un genio, nel campo della retorica. Nella sua mente andavano ad aggrapparsi circa un migliaio di pensieri, tutti riportanti anche uno stesso concetto, ma espresso in una qualche forma che ne deturpava i parametri di importanza dati ai rispettivi soggetti, e l’indecisione con il quale venivano gestiti suddetti pensieri erano la causa principale di tutte quelle frasi spezzate, di quei toni incerti e di quelle parole sostituite con poca arguzia. In breve, si otteneva un discorso incerto, traballante, e la cui comunicabilità si restringeva a pochi luminari capaci di intuire il valore essenziale anche quando il quadro generale si perdeva in un labirintico sistema espressivo.
E Shun era senza alcun dubbio uno di questi geni; da un discorso tanto disagevole e contorto comprese chi fosse Shiunin Sora, e anche cosa avrebbe potuto rappresentare.
“Insomma, so che non stai bene, ma...”
“Arrivo” concluse Shun, lapidario “Dammi il tempo di darmi una sistemata e scendo. Ci vediamo nel Limbo?”
“Aspetta, e Reiji? E andato a cercare Yuya, e...”
“E allora sarà contento, quando ci vedrà già al lavoro al suo arrivo. Lo conosci, è uno che non ama perdere tempo”
 
Shun Kurosaki non era un bugiardo; delle bugie egli odiava quella sostanza oleosa e zuccherina che condiva verità inevitabili, l’obbligo a mostrarsi come tali vincolato invece da altri che si sentivano il dovere di assurgersi il ruolo di Dio e modellarsi dunque la realtà a loro esclusiva fantasia. Mentire, dunque, era una pratica tanto lontana, dal suo modo di essere, che  mai avrebbe pensato di risultare convincente, quando aveva davvero permesso all’ombra di Reiji di invadere il campo del discorso. Forse il suo corpo contava sulla certezza di raggiungere seriamente Crow nella stanzetta di ospedale che li avrebbe operati di lavoro, forse semplicemente la sua mente sapeva tener fede alle sue priorità con una convinzione maggiore del suo cuore ballerino. O forse semplicemente lui era un pessimo bugiardo, ma Crow Hogan era troppo ingenuo per avvertire i suoi sbalzi d’umore.
Il suo era un passato noto a tutti; era nato e cresciuto nella soleggiata Heartland fino a quando gli studi e i giusti agganci non gli avevano concesso il posto di lavoro che occupava attualmente; lavorava indefessamente per guadagnarsi la pagnotta, odiava i ritardatari e chi prendeva poco seriamente il ruolo di eroi che avevano assunto e aveva come unico vizio quello del fumo. Erano le sue bio generali, quelle che qualsiasi collega anziano avrebbe potuto mettere in mano ad un novizio senza dover inventare alcuna scusa per quel palese curiosare nei fatti altrui.
Ma a Shun andava bene così e fin quando  non si scavava più a fondo, nessuno rischiava la vita nell’averlo accanto, e la sua fortuna consisteva nel lavorare in un ambiente dove il guardare al futuro ti faceva dimenticare di avere un passato. Per questo nessuno era a conoscenza di Yuto, nel racconto della sua vita, né avrebbe mai pensato che un tipo così scorbutico era stato un tempo un giovane scavezzacollo con la propensione a sfidare tutti i muri i grandi osavano porgli d’innanzi. Sapeva del progetto Les Enfant Terrible solo perché suo padre era uno dei maggiori promoter di simile pazzia, l’idea di creare delle menti asettiche di ogni sentimento talmente radicatasi in lui, talmente luminosa nelle sue promesse da fargli scordare di quel marcio che ci cresceva intorno, del pattume che non aveva considerazione di quel valore umano ormai da troppo tempo dimenticato. Lui sfidava l’impossibile, a quell’epoca, così come aveva sfidato suo padre e la sua testardaggine – sebbene col tempo fosse giunto alla conclusione che la sua non era davvero  una folle fissazione, ma una semplice fobia relegata all’idea di morte, una morte che si preannunciava sempre più vicina nelle vesti della Peste.
Quando il padre arrivò a togliergli pranzo e cena, per simili coercizioni senza risultato, balenò, nella testa di Shun, che il suo piano non era sbagliato, ma semplicemente architettato male; di un cubo non bisognava guardare un solo angolo, e per renderlo imperfetto si potevano smussare più spigoli. Fu dunque questo l’inizio che si poneva da sfondo ad un’amicizia tenuta nel silenzio del mondo, perfino di quella sorella sempre troppo curiosa di sapere in quale nuovo guaio si fosse andato a cacciare.
“Devi essere un pazzo per venirtene da solo nell’inferno”
Era solo, in quella specie di giardino che tanto ricordava l’ora d’aria dei prigionieri. Nessuna attività ricreativa, naturalmente, non un disegno e  nemmeno un fiore per cercare una ragione ultima a quella ricerca tanto avida e insensata. Stavano lì, a pasciare nell’erba come bestiame, il compito di percepire l’aria e i suoi cambiamenti a rovinare quello che loro stessi chiamavano momento di riposo. L’angolo nel quale Shun era capitato – le macchie sulla pelle a sottolineare le numerose escoriazioni che il muro e il filo spinato avevano inflitto sulla sua pelle – avrebbe dovuto rappresentare quel tipico vicolo cieco che, nel suo non condurre a nulla, rimaneva dunque privo di significato e privo di memoria. E invece c’era qualcuno lì, posto nell’angolo che il muro realizzava per distinguere quel piccolo quadrato privo di uscite all’aere circostante e comunque recluso, acquattato nel silenzio per cercare qualcuno che, evidentemente, non doveva venire a conoscenza della sua presenza.
E Shun fu malefico, quella volta, a sorprenderlo sussurrandogli all’orecchio col chiaro intento di farlo spaventare. A ripensarci, comprendeva quanto fosse stato folle simile azzardo, perché se Yuto non avesse avuto quella freddezza atipica degli uomini, l’urlo che ne sarebbe derivato fuori avrebbe certamente segnalato la sua posizione, mettendo nei guai la sua famiglia o, peggio, mettendolo assieme agli altri prigionieri.
E poi egli se ne uscì con quelle parole, con quella denuncia che nel presente Shun gli dava come corretta. Eppure, anche in quello che era davvero un inferno creato da uomini, pure non avrebbe mai mostrato il dovuto pentimento per ciò che aveva fatto. Significava negare Yuto, negare la sua amicizia, il profondo legame di fiducia che si era instaurato.
Un legame che aveva vinto le distanze, la morte e le sue nere vicissitudini per non ledersi nemmeno quando richiedeva un netto e inesprimibile sacrificio.
L’interesse per la scienza, Shun, aveva iniziato a dimostrarlo quando riconobbe una sua inferiorità nel disquisire rapido e brillante di un ragazzino più piccolo di lui eppure tanto più intelligente da far sembrare lui un pulcino capace solo di emettere timidi singulti. Era sciocco – e per tale ragione non lo andava a raccontare ad anima viva – ma a quel divario che si era innalzato tra i due – o meglio, quel grande muraglione che Shun vedeva come opprimente, senza dar conto a Yuto di come si sentisse – l’interesse primario che lo spinse ad indagare meglio le conoscenze matematiche, e in sostanza i suoi primi approcci alla fisica quantistica e alla chimica, erano dovuti alla smaniosa ricerca di un qualunque argomento, anche il più futile, che servisse come punto di forza per non farlo vacillare in una conversazione.
E a quel punto le loro divennero più amichevoli battaglie, che veri incontri fortunati; senza nemmeno essere coscienti di quanto facevano, realizzavamo uno scambio osmotico di informazioni e ne ridevano a crepapelle, quasi quella battaglia di cuscini immaginari avesse uno scopo ultimo, un vincitore che poi, nel presente, non era mai stato eletto.
‘E, in fondo, il vero vincente era sempre stato Yuto; solo, era troppo modesto per ammetterlo’ pensava ogni tanto il ragazzo, e ne sorrideva come a bearsi di un passato che non concedeva ritorni, e dunque ne emergeva l’infelicità che si segnava di conseguenza nelle parole non dette.
La vita non era stata benevola, perché, a chiunque, aveva pensato bene di togliere a tutti un qualcosa di prezioso; non aveva concesso loro la beltà di un duro legame, di un tempo discorsivo in un dispiegarsi lontano, né si era zittita a quel singolo scampolo di felicità che il mondo aveva concesso ad un povero ragazzo costretto da mostri in forma umana a scarnificare la sua esistenza per la peste; la morte dei suoi genitori aveva chiuso un capitolo prezioso della sua esistenza, e per Shun l’impossibilità di crescere Ruri si era tradotta in un obbligo forzoso che lo aveva sospinto verso Miami e dunque verso i suoi prossimi parenti, zii generosi nel loro accogliergli – e nonostante la ragione per cui loro adesso erano orfani – ma incapaci di lasciare la loro vecchia vita per permettere il perdurare di un legame che andava comunque tenuto adeguatamente occultato.
Il loro era dunque un filo prossimo allo sdrucirsi, un connettersi che si doveva interrompere con violenza e dolore. Ma Shun non lo aveva permesso, e né Yuto si era mostrato disposto a rinunciare all’unica altra persona al mondo – oltre alla cara Yuya – con cui era stato capace di aprirsi. Il segreto perdurava nelle loro lettere, nelle mail spedite con prudenza, nei messaggi da criptare in quel loro antico gioco infantile; e aveva vissuto, fino ad arrivare a quel fantomatico allarme, a quello Yuto tanto incosciente da chiamarlo in un orario lavorativo e per giunta senza alcuna occlusione che rendesse il suo numero irrintracciabile.
“Ho scoperto per quale motivo Akaba ha preso con se Yuya” aveva esordito, nessun preambolo a rubargli secondi che sapeva essere preziosi.
“Di che diavolo stai parlando? Tutti sanno perché Sakaki Yuya è qui, e dovresti saperlo anche tu, no?”
“Adesso non posso spiegarti nulla, non a telefono almeno, ma credimi... c’è, esiste una vera e ultima ragione per cui quel bastardo si è approfittato della morte di Yusho!”
Aveva dovuto allontanarsi, Shun, per evitare ad orecchie sconosciute il riconoscimento di quella voce solitamente tanto pacata e mite nel suo mostrarsi. Il momento in cui aveva accettato la chiamata era coincisa con il definirsi, nella sua mente, di frasi ingiuriose da rivolgergli per quell’increscioso rischio da lui corso, ma bastò la percezione della sua rabbia funesta per acquietare ogni stupido commento salace. No, Yuto non era sciocco, di certo il rischio lo conosceva bene anche lui, forse anche maggiormente. Quello che adesso lui trattava, dunque, andava a riguardare un tale livello di pericolosità che aveva necessitato, anzi imposto – pure ad un freddo calcolatore come lui – di buttare dalla finestra ogni ragguaglio suggerito per metterlo sull’attenti.
“Quello di Yusho è un incidente...”
“Non ho le prove per dimostrarti il contrario, ma a questo punto sono quasi spinto a credere che sia un omicidio creato ad arte”
In quei giorni, i primi dal trasferimento di Yuya, il clima del loro castello di vetro si condensava dell’odio di Reiji Akaba, ancora mortalmente offeso dallo schiaffo pubblico e ancora convinto che, nel suo bollarla come nemica, ci fosse una ragione unica firmatagli dall’universo stesso. L’immagine di lei, dunque, era solo il lontano abbaglio di molti, una bellezza ancora acerba che altri avevano complimentato con la discrezione necessaria a non perdere il loro amato posto di lavoro. Per Shun, che comunque poteva quasi vantare di conoscerla – e Yuto aveva spesso dimenticato quanto diventava logorroico, quando si trattava di renderla colei che tutto illumina al suo passaggio, nei suoi discorsi di ragazzino terribilmente cotto della sua migliore amica – la vedeva con quella simpatia che nessuno poteva negarle; scoprirla, dunque, vittima laterale di una tragedia tanto atroce, diede al ragazzo la sensazione di una secchiata gelida a ricoprire di brividi la sua pelle.
“Non posso rimanere al telefono ancora per molto, Yuto” no, non era il tempo esatto per tremare come un coniglio. Il suo amico non ci avrebbe guadagnato nulla da un moccioso pavido della sua stessa ombra “Dammi degli ordini. Cosa devo fare? Cosa devo evitare?”
“Assicurati solo che Yuya non corra alcun pericolo” rispose lapidario l’altro, la voce risuonante distorta dall’ansia “Non deve avvicinarsi troppo agli Akaba, e soprattutto non permettere che ella metta piede nel laboratorio. Non deve assolutamente entrarci!”
“Perché?”
“Perché da scienziata, temo che presto diventi lei stessa una cavia da laboratorio... e dovranno passare sul mio cadavere, prima di permettersi di farle del male! Devo portarla via da lì”
“E io ti aiuterò” rispose prontamente Shun “Come ho sempre fatto. Conta su di me, amico mio”
 
E lo aveva fatto. Mettendo in gioco il suo futuro, la sua carriera, il suo rapporto con Reiji, la sua fiducia e la fiducia nei colleghi. Dare alle cose il loro giusto grado di importanza non significava valutarle al meglio delle proprie capacità, ma essere in grado di operare le giuste scelte in un vasto assembramento di possibilità; lui aveva semplicemente messo al centro del suo grado di operosità Yuto, e tutto quello che in passato lui aveva rappresentato. Non temeva per Ruri, confidava nei suoi parenti abbastanza da sapere che nessuno l’avrebbe sfiorata senza incorrere nell’ira divina di zio Tsuyoshi; per quanto riguardava lui, era certo di quello che faceva, e tale certezza gli dava anche la forza di affrontare le dovute conseguenze dinanzi agli altri, fossero state addirittura fisiche o penali. Shun era forte  - e lo era anche dal punto di vista altrui – perché sapeva affidare la propria vita nelle mani altrui senza temere di venir stritolato dalla sua eccessiva fiducia; era, questo suo modo di fare, un attento modo per valutare gli altri e comprendere con chi davvero doveva condividere i suoi spazi, chi si rendeva degno di questa sua fiducia e chi invece doveva estromettersi all’istante dalla sua vita. Un tempo, nella sfiducia generale che il mondo aveva suscitato in lui, nell’amarezza che si era espansa nel suo cuore alla fine prematura dei suoi genitori, non avrebbe mai accettato una simile filosofia di vita, e davvero in quei giorni il concetto di fiducia si spiegava nel semplice vocabolo sciolto da ogni  umana dimostrazione o forza; aveva riacquistato tanto coraggio solo con Ruri, con i suoi nuovi familiari, e soprattutto con Yuto e la sua tenacia.
E lui doveva lasciar fiorire quel sentimento di gratitudine che sgorgava da un cuore apparentemente piatto e incapace delle sue dovute emozioni – una maschera che gli altri avevano affibbiato e che erano soliti affibbiare a chiunque non rendesse palese la sua felicità e la sua dannazione -; anche lasciando entrare quel suo caro amico di straforo nella villa Akaba, anche indicandogli la via per raggiungere Yuya, anche suggerendogli la giusta discrezione al fine di evitare le fastidiose telecamere. Lo faceva per se, per Yuto e perfino per Yuya, per quella ragazza dal sorriso sempre spontaneo e dai modi che tanto gli ricordavano la lontana Ruri.
 
   
 
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