- “Quindi
anche i demoni si ammalano, eh?”
- All’udire
di quelle parole – in una tensione che
concretizzava l’aere in solido spugnoso – la tazza
tenuta malamente tra le mani
di Shun – quella preziosa ceramica riportante sulla sua
superficie il duro
lavoro della sua dolce sorella Ruri, che con calma e dedizione vi aveva
dipinto
su un giglio dalla fioritura rigogliosa – poco
mancò dovesse incontrare la sua
fine sulla candida superficie del pavimento, lasciando di esso cocci
scomposti
e caldo latte ormai imbevibile.
- Crow
Hogan era da sempre paragonato alla tempesta;
il fatto che non facesse assolutamente nulla per porre a tacere simili
idee nei
suoi confronti non era che il risultato dei mille attentati cardiaci
che il
giovane scienziato dagli occhi dorati ancora segnava sulle noticine di
un
libricino dalla copertina lisa - che nessuno sospettava essere un
qualcosa di
simile ad un diario personale. Poco importava l’importanza
del luogo e delle
occasioni, nessuno avrebbe visto arrivare la sua zazzera impazzita se
non
quando quella voce squillante veniva a tirarti giù tutti i
santi che il
paradiso aveva da offrirti; odiarlo veniva quasi spontaneo, in un
ambiente dove
il silenzio è un qualcosa di tanto obbligato da non
richiedere nemmeno la
formale richiesta di riscatto, ma per Shun – almeno fino a
quel momento – quel
suo essere tanto libero dalle normali convenzioni non aveva mai
costituito
null’altro se non del semplice tumulto in una monotonia
pronta a spezzarlo.
- Però
quel giorno non poteva avere tutta quella
gentile considerazione nei confronti di uno che sembrava trovare quasi
divertente quelle sue entrate ad effetto; posata la tazza sul tavolino
ingombro
di carte e cartelle – e terribilmente pieno perché
unico mezzo di sostentamenti
per carte e fascicoli vari che non fosse il rigido pavimento in marmo
– fu sua
premura fulminarlo con uno di quei suoi sguardi alla soda caustica, suo
fiero
orgoglio e di certo sua invincibile arma per placare anche chi aveva
l’argento
vivo nelle vene.
- “Di
certo tu non aiuti la croce, portandomi
l’uragano Katrina nella mia stanza”
- Il
luogo nel quale il ragazzo era solito ricevere
i suoi ospiti – ossia i fortunati che avevano il privilegio
di venirlo a
chiamare le rare volte in cui faceva tardi in laboratorio –
non possedeva il
fascino che Reiji invece rievocava
nell’elementarità del bello; il suo era un
semplice triste, di quelli che dimostravano non il saper ponderare la
giusta
dose di pieni e vuoti, ma il semplice disinteresse verso qualunque
orpello si
mostrasse troppo distante dall’essenziale. Ci viveva da quasi
cinque anni,
all’interno di quella stanza, ma a parte quel tavolino in
legno – pronto a
cedere al prossimo carico di lavoro – il letto puntualmente
sfatto – e di
coperte che, nel loro candore, non si staccavano dal bianco dominante
della
stanza – due sedie rubate da chissà dove - e
scomode nella plastica che era
stata usata nel minimo indispensabile – e
l’orologio appeso alla parete –
bianco pure quello – nulla si era mai andato ulteriormente ad
accumulare. Il
suo vestiario era affidato ad uno scatolone poco distante dal letto, i
suoi
pochi effetti personali al bagno che si affacciava nella parete opposta
della
stanza. Andarci
– per chiunque – si
trattava di andare realmente a soverchiare il significato della
frugalità, e di
tutta quella serie di mancanze a cui gli scienziati non sembrano
nemmeno fare
caso.
- E
di certo Shun non rimpiangeva la mancanza di un
mobilio, o di soprammobili che portassero il giusto colore ad un piatto
grigiore che non comunicava nulla. Aveva da lamentarsi solo
dell’assenza di un
divano – il luogo ideale, nel suo immaginario, per la
revisione di testi e
carte – ma quella era la sola debolezza a cui non avrebbe mai
ceduto, la
consapevolezza che, una volta stesosi su tanta morbidezza, nemmeno la
forza di
un titano sarebbe riuscita a farlo studiare decentemente. E questo il
piccolo sofà
di Reiji glielo aveva insegnato molto bene.
- Fu
per questo che ignorò platealmente gli ennesimi
commenti del collega al riguardo della sua povertà
– che nemmeno si poteva dire
esatta – e fece quanto era in suo potere per fargli
comprendere quanto sgradita
fosse la sua presenza.
- “Non
lo sai che i demoni malati sono più
aggressivi di quelli normali? Perché sei venuto a tuo
rischio e pericolo?”
- Fumare
era uno dei vizi nel quale era solito
cedere quando lo stress lavorativo minacciava di non farlo dormire; in
quel
caso, tuttavia, il risveglio malvagio delle sigarette assassine fu
soltanto
l’ennesima trovata escogitata per far scacciare via quel
salutista sciattone il
cui unico pregio era la consapevole lotta al fumo passivo.
- “Questa
storia te la sei appena inventata, e che
tu sia un demone o meno fumare non ti farà certamente star
meglio” disse
infatti il collega, la piccola preziosità di tabacco
sottratta dalle esili dita
dell’altro e calpestata malamente su un suolo che di certo
non avrebbe pulito
lui. Precauzione suggerì anche una decisa distanza dal luogo
del misfatto – lo
sguardo minaccioso di Shun che suggeriva fulmini e saette - e amor proprio una lesta
presa del pacchetto
appoggiato poco distante su quel tavolo che lo rendeva quasi invisibile.
- “Comunque”
affermò subito, percependo finalmente i
sentimenti di Shun “non sono qui per darti fastidio, tanto
meno ora che
sei malato. Sono
venuto qui perché ho
delle novità”
- “Spero
per te che si tratti di lavoro” fece il
moro, il corpo a poggiarsi mollemente sul letto.
- “E
di cosa, altrimenti?” rovistò nelle tasche,
Crow, solo per maledirsi della sua stupidità; ciò
che avrebbe dovuto siglare le
sue parole, dargli consistenza tattile e l’immancabile del
vero, giaceva in
quel momento nella stessa stanzina nella quale il grande oggetto di
interesse
riposava profondamente, sicuramente crollato al suolo in uno dei suoi numerosi momenti di
distrazione. Gli venne
voglia di metter mano a quei capelli già di loro tanto
caotici solo per poter
far provare al suo cervello la stessa pressione che adesso avvertiva
lui nel
comprendere quanto mancasse di effetto la sua visita.
- “Guarda
che ci sento, puoi benissimo dirmeli a
voce, i risultati dei test”
“Non è questo, è che sarebbe stato più chiaro mettere in mostra la... differenza, direi” - Crow
non era mai stato un genio, nel campo della
retorica. Nella sua mente andavano ad aggrapparsi circa un migliaio di
pensieri, tutti riportanti anche uno stesso concetto, ma espresso in
una
qualche forma che ne deturpava i parametri di importanza dati ai
rispettivi
soggetti, e l’indecisione con il quale venivano gestiti
suddetti pensieri erano
la causa principale di tutte quelle frasi spezzate, di quei toni
incerti e di
quelle parole sostituite con poca arguzia. In breve, si otteneva un
discorso
incerto, traballante, e la cui comunicabilità si restringeva
a pochi luminari
capaci di intuire il valore essenziale anche quando il quadro generale
si
perdeva in un labirintico sistema espressivo.
- E
Shun era senza alcun dubbio uno di questi geni;
da un discorso tanto disagevole e contorto comprese chi fosse Shiunin
Sora, e
anche cosa avrebbe potuto rappresentare.
- “Insomma,
so che non stai bene, ma...”
“Arrivo” concluse Shun, lapidario “Dammi il tempo di darmi una sistemata e scendo. Ci vediamo nel Limbo?”
“Aspetta, e Reiji? E andato a cercare Yuya, e...”
“E allora sarà contento, quando ci vedrà già al lavoro al suo arrivo. Lo conosci, è uno che non ama perdere tempo” - Shun
Kurosaki non era un bugiardo; delle bugie
egli odiava quella sostanza oleosa e zuccherina che condiva
verità inevitabili,
l’obbligo a mostrarsi come tali vincolato invece da altri che
si sentivano il
dovere di assurgersi il ruolo di Dio e modellarsi dunque la
realtà a loro
esclusiva fantasia. Mentire, dunque, era una pratica tanto lontana, dal
suo
modo di essere, che mai
avrebbe pensato
di risultare convincente, quando aveva davvero permesso
all’ombra di Reiji di
invadere il campo del discorso. Forse il suo corpo contava sulla
certezza di
raggiungere seriamente Crow nella stanzetta di ospedale che li avrebbe
operati
di lavoro, forse semplicemente la sua mente sapeva tener fede alle sue
priorità
con una convinzione maggiore del suo cuore ballerino. O forse
semplicemente lui
era un pessimo bugiardo, ma Crow Hogan era troppo ingenuo per avvertire
i suoi
sbalzi d’umore.
- Il
suo era un passato noto a tutti; era nato e
cresciuto nella soleggiata Heartland fino a quando gli studi e i giusti
agganci
non gli avevano concesso il posto di lavoro che occupava attualmente;
lavorava
indefessamente per guadagnarsi la pagnotta, odiava i ritardatari e chi
prendeva
poco seriamente il ruolo di eroi che avevano assunto e aveva come unico
vizio
quello del fumo. Erano le sue bio generali, quelle che qualsiasi
collega
anziano avrebbe potuto mettere in mano ad un novizio senza dover
inventare
alcuna scusa per quel palese curiosare nei fatti altrui.
- Ma
a Shun andava bene così e fin quando
non si scavava più a fondo, nessuno
rischiava
la vita nell’averlo accanto, e la sua fortuna consisteva nel
lavorare in un
ambiente dove il guardare al futuro ti faceva dimenticare di avere un
passato.
Per questo nessuno era a conoscenza di Yuto, nel racconto della sua
vita, né
avrebbe mai pensato che un tipo così scorbutico era stato un
tempo un giovane
scavezzacollo con la propensione a sfidare tutti i muri i grandi
osavano porgli
d’innanzi. Sapeva del progetto Les
Enfant
Terrible solo perché suo padre era uno dei
maggiori promoter di simile
pazzia, l’idea di creare delle menti asettiche di ogni
sentimento talmente
radicatasi in lui, talmente luminosa nelle sue promesse da fargli
scordare di
quel marcio che ci cresceva intorno, del pattume che non aveva
considerazione
di quel valore umano ormai da troppo tempo dimenticato. Lui sfidava
l’impossibile, a quell’epoca, così come
aveva sfidato suo padre e la sua
testardaggine – sebbene col tempo fosse giunto alla
conclusione che la sua non
era davvero una
folle fissazione, ma una
semplice fobia relegata all’idea di morte, una morte che si
preannunciava
sempre più vicina nelle vesti della Peste.
- Quando
il padre arrivò a togliergli pranzo e cena,
per simili coercizioni senza risultato, balenò, nella testa
di Shun, che il suo
piano non era sbagliato, ma semplicemente architettato male; di un cubo
non
bisognava guardare un solo angolo, e per renderlo imperfetto si
potevano
smussare più spigoli. Fu dunque questo l’inizio
che si poneva da sfondo ad
un’amicizia tenuta nel silenzio del mondo, perfino di quella
sorella sempre
troppo curiosa di sapere in quale nuovo guaio si fosse andato a
cacciare.
- “Devi
essere un pazzo per venirtene da solo nell’inferno”
- Era
solo, in quella specie di giardino che tanto
ricordava l’ora d’aria dei prigionieri. Nessuna
attività ricreativa,
naturalmente, non un disegno e nemmeno
un fiore per cercare una ragione ultima a quella ricerca tanto avida e
insensata. Stavano lì, a pasciare nell’erba come
bestiame, il compito di
percepire l’aria e i suoi cambiamenti a rovinare quello che
loro stessi
chiamavano momento di riposo. L’angolo nel quale Shun era
capitato – le macchie
sulla pelle a sottolineare le numerose escoriazioni che il muro e il
filo
spinato avevano inflitto sulla sua pelle – avrebbe dovuto
rappresentare quel
tipico vicolo cieco che, nel suo non condurre a nulla, rimaneva dunque
privo di
significato e privo di memoria. E invece c’era qualcuno
lì, posto nell’angolo
che il muro realizzava per distinguere quel piccolo quadrato privo di
uscite
all’aere circostante e comunque recluso, acquattato nel
silenzio per cercare
qualcuno che, evidentemente, non doveva venire a conoscenza della sua
presenza.
- E
Shun fu malefico, quella volta, a sorprenderlo
sussurrandogli all’orecchio col chiaro intento di farlo
spaventare. A
ripensarci, comprendeva quanto fosse stato folle simile azzardo,
perché se Yuto
non avesse avuto quella freddezza atipica degli uomini,
l’urlo che ne sarebbe
derivato fuori avrebbe certamente segnalato la sua posizione, mettendo
nei guai
la sua famiglia o, peggio, mettendolo assieme agli altri prigionieri.
- E
poi egli se ne uscì con quelle parole, con
quella denuncia che nel presente Shun gli dava come corretta. Eppure,
anche in
quello che era davvero un inferno creato da uomini, pure non avrebbe
mai
mostrato il dovuto pentimento per ciò che aveva fatto.
Significava negare Yuto,
negare la sua amicizia, il profondo legame di fiducia che si era
instaurato.
- Un
legame che aveva vinto le distanze, la morte e
le sue nere vicissitudini per non ledersi nemmeno quando richiedeva un
netto e
inesprimibile sacrificio.
- L’interesse
per la scienza, Shun, aveva iniziato a
dimostrarlo quando riconobbe una sua inferiorità nel
disquisire rapido e
brillante di un ragazzino più piccolo di lui eppure tanto
più intelligente da
far sembrare lui un pulcino capace solo di emettere timidi singulti.
Era
sciocco – e per tale ragione non lo andava a raccontare ad
anima viva – ma a
quel divario che si era innalzato tra i due – o meglio, quel
grande muraglione
che Shun vedeva come opprimente, senza dar conto a Yuto di come si
sentisse –
l’interesse primario che lo spinse ad indagare meglio le
conoscenze
matematiche, e in sostanza i suoi primi approcci alla fisica
quantistica e alla
chimica, erano dovuti alla smaniosa ricerca di un qualunque argomento,
anche il
più futile, che servisse come punto di forza per non farlo
vacillare in una
conversazione.
- E
a quel punto le loro divennero più amichevoli
battaglie, che veri incontri fortunati; senza nemmeno essere coscienti
di
quanto facevano, realizzavamo uno scambio osmotico di informazioni e ne
ridevano a crepapelle, quasi quella battaglia di cuscini immaginari
avesse uno
scopo ultimo, un vincitore che poi, nel presente, non era mai stato
eletto.
- ‘E,
in
fondo, il vero vincente era sempre stato Yuto; solo, era troppo modesto
per
ammetterlo’
pensava ogni tanto il ragazzo, e ne
sorrideva come a bearsi di un passato che non concedeva ritorni, e
dunque ne emergeva
l’infelicità che si segnava di conseguenza nelle
parole non dette.
- La
vita non era stata benevola, perché, a chiunque,
aveva pensato bene di togliere a tutti un qualcosa di prezioso; non
aveva
concesso loro la beltà di un duro legame, di un tempo
discorsivo in un
dispiegarsi lontano, né si era zittita a quel singolo
scampolo di felicità che
il mondo aveva concesso ad un povero ragazzo costretto da mostri in
forma umana
a scarnificare la sua esistenza per la peste; la morte dei suoi
genitori aveva
chiuso un capitolo prezioso della sua esistenza, e per Shun
l’impossibilità di
crescere Ruri si era tradotta in un obbligo forzoso che lo aveva
sospinto verso
Miami e dunque verso i suoi prossimi parenti, zii generosi nel loro
accogliergli – e nonostante la ragione per cui loro adesso
erano orfani – ma
incapaci di lasciare la loro vecchia vita per permettere il perdurare
di un
legame che andava comunque tenuto adeguatamente occultato.
- Il
loro era dunque un filo prossimo allo
sdrucirsi, un connettersi che si doveva interrompere con violenza e
dolore. Ma
Shun non lo aveva permesso, e né Yuto si era mostrato
disposto a rinunciare
all’unica altra persona al mondo – oltre alla cara
Yuya – con cui era stato
capace di aprirsi. Il segreto perdurava nelle loro lettere, nelle mail
spedite
con prudenza, nei messaggi da criptare in quel loro antico gioco
infantile; e
aveva vissuto, fino ad arrivare a quel fantomatico allarme, a quello
Yuto tanto
incosciente da chiamarlo in un orario lavorativo e per giunta senza
alcuna
occlusione che rendesse il suo numero irrintracciabile.
- “Ho
scoperto per quale motivo Akaba ha preso con
se Yuya” aveva esordito, nessun preambolo a rubargli secondi
che sapeva essere
preziosi.
- “Di
che diavolo stai parlando? Tutti sanno perché
Sakaki Yuya è qui, e dovresti saperlo anche tu,
no?”
“Adesso non posso spiegarti nulla, non a telefono almeno, ma credimi... c’è, esiste una vera e ultima ragione per cui quel bastardo si è approfittato della morte di Yusho!” - Aveva
dovuto allontanarsi, Shun, per evitare ad
orecchie sconosciute il riconoscimento di quella voce solitamente tanto
pacata
e mite nel suo mostrarsi. Il momento in cui aveva accettato la chiamata
era
coincisa con il definirsi, nella sua mente, di frasi ingiuriose da
rivolgergli
per quell’increscioso rischio da lui corso, ma
bastò la percezione della sua
rabbia funesta per acquietare ogni stupido commento salace. No, Yuto
non era
sciocco, di certo il rischio lo conosceva bene anche lui, forse anche
maggiormente. Quello che adesso lui trattava, dunque, andava a
riguardare un
tale livello di pericolosità che aveva necessitato, anzi
imposto – pure ad un
freddo calcolatore come lui – di buttare dalla finestra ogni
ragguaglio
suggerito per metterlo sull’attenti.
- “Quello
di Yusho è un incidente...”
- “Non
ho le prove per dimostrarti il contrario, ma
a questo punto sono quasi spinto a credere che sia un omicidio creato
ad arte”
- In
quei giorni, i primi dal trasferimento di Yuya,
il clima del loro castello di vetro si condensava dell’odio
di Reiji Akaba,
ancora mortalmente offeso dallo schiaffo pubblico e ancora convinto
che, nel
suo bollarla come nemica, ci fosse una ragione unica firmatagli
dall’universo
stesso. L’immagine di lei, dunque, era solo il lontano
abbaglio di molti, una
bellezza ancora acerba che altri avevano complimentato con la
discrezione
necessaria a non perdere il loro amato posto di lavoro. Per Shun, che
comunque
poteva quasi vantare di conoscerla – e Yuto aveva spesso
dimenticato quanto
diventava logorroico, quando si trattava di renderla colei che tutto
illumina
al suo passaggio, nei suoi discorsi di ragazzino terribilmente cotto
della sua
migliore amica – la vedeva con quella simpatia che nessuno
poteva negarle;
scoprirla, dunque, vittima laterale di una tragedia tanto atroce, diede
al
ragazzo la sensazione di una secchiata gelida a ricoprire di brividi la
sua
pelle.
- “Non
posso rimanere al telefono ancora per molto,
Yuto” no, non era il tempo esatto per tremare come un
coniglio. Il suo amico
non ci avrebbe guadagnato nulla da un moccioso pavido della sua stessa
ombra
“Dammi degli ordini. Cosa devo fare? Cosa devo
evitare?”
“Assicurati solo che Yuya non corra alcun pericolo” rispose lapidario l’altro, la voce risuonante distorta dall’ansia “Non deve avvicinarsi troppo agli Akaba, e soprattutto non permettere che ella metta piede nel laboratorio. Non deve assolutamente entrarci!”
“Perché?”
“Perché da scienziata, temo che presto diventi lei stessa una cavia da laboratorio... e dovranno passare sul mio cadavere, prima di permettersi di farle del male! Devo portarla via da lì”
“E io ti aiuterò” rispose prontamente Shun “Come ho sempre fatto. Conta su di me, amico mio” - E
lo aveva fatto. Mettendo in gioco il suo futuro,
la sua carriera, il suo rapporto con Reiji, la sua fiducia e la fiducia
nei
colleghi. Dare alle cose il loro giusto grado di importanza non
significava
valutarle al meglio delle proprie capacità, ma essere in
grado di operare le
giuste scelte in un vasto assembramento di possibilità; lui
aveva semplicemente
messo al centro del suo grado di operosità Yuto, e tutto
quello che in passato
lui aveva rappresentato. Non temeva per Ruri, confidava nei suoi
parenti
abbastanza da sapere che nessuno l’avrebbe sfiorata senza
incorrere nell’ira
divina di zio Tsuyoshi; per quanto riguardava lui, era certo di quello
che
faceva, e tale certezza gli dava anche la forza di affrontare le dovute
conseguenze dinanzi agli altri, fossero state addirittura fisiche o
penali.
Shun era forte - e
lo era anche dal
punto di vista altrui – perché sapeva affidare la
propria vita nelle mani
altrui senza temere di venir stritolato dalla sua eccessiva fiducia;
era,
questo suo modo di fare, un attento modo per valutare gli altri e
comprendere
con chi davvero doveva condividere i suoi spazi, chi si rendeva degno
di questa
sua fiducia e chi invece doveva estromettersi all’istante
dalla sua vita. Un
tempo, nella sfiducia generale che il mondo aveva suscitato in lui,
nell’amarezza che si era espansa nel suo cuore alla fine
prematura dei suoi
genitori, non avrebbe mai accettato una simile filosofia di vita, e
davvero in
quei giorni il concetto di fiducia si spiegava nel semplice vocabolo
sciolto da
ogni umana
dimostrazione o forza; aveva
riacquistato tanto coraggio solo con Ruri, con i suoi nuovi familiari,
e
soprattutto con Yuto e la sua tenacia.
- E
lui doveva lasciar fiorire quel sentimento di
gratitudine che sgorgava da un cuore apparentemente piatto e incapace
delle sue
dovute emozioni – una maschera che gli altri avevano
affibbiato e che erano
soliti affibbiare a chiunque non rendesse palese la sua
felicità e la sua
dannazione -; anche lasciando entrare quel suo caro amico di straforo
nella
villa Akaba, anche indicandogli la via per raggiungere Yuya, anche
suggerendogli la giusta discrezione al fine di evitare le fastidiose
telecamere.
Lo faceva per se, per Yuto e perfino per Yuya, per quella ragazza dal
sorriso
sempre spontaneo e dai modi che tanto gli ricordavano la lontana Ruri.