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Autore: Trainzfan    25/02/2018    1 recensioni
7000 d.c. - L’umanità è divisa in due ceti: aristocrazia/clero e popolo. Tutta l’economia della Terra è basata sull’energia fornita dal Goddafin, sorta di raggi di immensa potenza che discendono dal cielo finendo dentro a cupole blindate, gestiti e distribuiti dall’aristocrazia/clero che, grazie a questo, può tenere in suo potere tutto il resto dell’umanità: il popolo. Esso dipende dal clero sia per l’energia necessaria per calore e illuminazione sia per attrezzature metalliche necessarie alla coltivazione o piccole operazioni quotidiane. Per evitare una ribellione la classe dirigente mantiene il popolo nell’analfabetismo e soggezione mediante una religione che insegna quanto il popolo sia costituito dai superstiti risparmiati da Dio, durante lo scatenarsi della sua ira in un lontanissimo passato mentre l’aristocrazia rappresenta l’eredità del popolo eletto assurto a guardiano dell’energia donata da Dio agli uomini mediante i raggi del Goddafin che da millenni alimenta la Terra.
Chi-Dan, giovane archeologo dell’aristocrazia della Celeste Sede (sorta di Vaticano della religione del Goddafin), viene incaricato dallo zio, Sommo Tecnocrate, di indagare su di un misterioso ritrovamento che aprirà letteralmente un mondo nuovo sconvolgendo e cancellando drasticamente tutto quanto è stato ritenuto sacro e reale
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 4 - Sotto

So-Dan camminava con andatura calma ma decisa guidando il fratello Chi lungo l’ampio e deserto corridoio che portava verso lo studio personale di loro zio, il Sommo Tecnocrate Saru-Dan III.
Lungo la strada l’opertec rassicurò nuovamente il fratello circa l’informalità dell’incontro a cui si stavano recando.
 
«Non ti preoccupare per gli indumenti che hai indosso» gli disse «Avrai tempo più tardi per sistemarti. Ora è molto più importante recarci subito dallo zio che ci sta già aspettando».
 
«Ma non puoi, almeno, accennarmi il motivo di questa urgenza e segretezza?» protestò un’ultima volta l’ormai rassegnato archeologo.
 
«No, Chi» replicò laconico il giovane prelato «Abbi pazienza ancora un momento. Siamo praticamente arrivati. Ora saprai tutto direttamente da lui. Così Egli stesso ha comandato!».
 
Saru-Dan era seduto alla sua scrivania, nella penombra creata dai vetri polarizzati alle sue spalle, e osservava la parete di fronte a lui la quale, come se fosse stata trasparente, mostrava il corridoio esterno ed i due fratelli che lo stavano percorrendo.
Quando i due giunsero davanti alla porta del suo ufficio, Saru-Dan III fece passare la sua mano destra, con un gesto rapido, su di un sensore nascosto incastonato nel piano della sua scrivania. A questo segnale la polarizzazione dei vetri alle sue spalle si abbassò permettendo così alla luce del sole di tornare ad inondare la stanza.
Contemporaneamente la parete di fronte a lui si opacizzò tornando ad avere il suo abituale aspetto di solido muro al centro del quale troneggiava un grande ologramma rappresentante l’onnipresente sacro simbolo del Goddafin.
Sempre restando seduto dietro la propria scrivania il Sommo Tecnocrate comandò l’apertura della porta la quale scivolò di lato, nella parete, permettendo l’ingresso dei due che attendavano.
 
«Benvenuti, nipoti» li accolse Saru-Dan con quello che avrebbe voluto essere un sorriso ma che, in realtà, sembrava più una sottile crepa che increspi un, altrimenti impenetrabile, muro di pietra.
Imitando il fratello che lo precedeva, Chi-Dan chinò lievemente il capo come risposta al saluto e si pose a fianco dell’opertec, in piedi, davanti alla scrivania.
Era la prima volta che il giovane archeologo si trovava nell’ufficio privato del Sommo Tecnocrate e, quindi, approfittò del momento per guardarsi un poco attorno.
Sulla parete alla loro destra vi era un mobile lungo e basso, di colore grigio chiaro con finiture più scure, dotato di cassetti, stipetti, ripiani a giorno e delle vetrinette, alcune illuminate, contenenti un eterogeneo assortimento di oggetti, non tutti immediatamente identificabili, ma sicuramente di grande valore.
Alla loro sinistra una parete spoglia interrotta da un unico oggetto: un quadro, di due metri per uno, raffigurante, in dimensioni reali, lo stesso Saru-Dan III, a figura intera, vestito con lo sfarzoso abito cerimoniale simbolo della sua funzione.

Chi-Dan sapeva, in quanto gli era stato riferito in confidenza dal fratello, che quel ritratto celava la porta che conduceva agli appartamenti privati del Sommo Tecnocrate.
Alle spalle di questi, un poco spostata sulla sinistra, c’era una grande porta finestra che costituiva l’unica fonte di luce naturale della stanza e attraverso la quale si accedeva alla spaziosa terrazza sita, praticamente, alla sommità della cupola stessa della Celeste Sede.
La stanza era dotata anche di altre fonti di luce. Infatti, oltre ad una lampada da tavolo posta all’estremità destra della scrivania, l’intero soffitto della stanza emetteva una diffusa luminescenza lattiginosa la quale, pur rischiarando perfettamente l’ambiente, non creava alcun effetto d’ombra né particolari riflessi sulle lisce superfici delle diverse suppellettili.

Di fronte ai due giovani stava, infine, la grande scrivania del loro augusto zio. Anche questa era in sintonia con il carattere del suo austero proprietario.
Lunga un paio di metri e larga uno, appoggiava a terra su due massicci parallelepipedi d’acciaio posti ognuno ad un opposto lato della scrivania e connessi tra di loro da un piano, dello stesso materiale, su cui era fissata una lastra, perfettamente levigata, di ossidiana purissima da tre centimetri di spessore.
La caratteristica più stupefacente di questo particolare materiale era che, nonostante la sua naturale lucentezza, nel lontano passato in cui era stata fabbricata aveva subito un trattamento per cui, oltre a non emanare alcun riflesso, il suo colore nero era talmente assoluto da dare l’impressione di assorbire la luce stessa quasi fosse una sorta di piccolo buco nero.
 
«Accomodatevi» invitò Saru-Dan indicando brevemente loro le due comode sedie imbottite poste di fronte alla scrivania.
 
I due fratelli si sedettero e, subito, fu chiaro un altro piccolo espediente utilizzato dal Sommo Tecnocrate per sottolineare la propria posizione di predominio: la scrivania e la poltrona di Saru-Dan III erano montate su di una pedana, perfettamente mimetizzata, per cui il Sommo Tecnocrate, nonostante la sua normalissima statura che non superava il metro e settanta, si trovava sempre con il proprio capo un poco più in alto rispetto a chiunque altro fosse seduto di fronte a lui.
Non appena accomodati Chi-Dan fece per chiedere all’alto prelato circa le motivazioni della loro convocazione ma questi, intuendo la domanda e prevenendo il nipote, lo fermò con un breve gesto della mano sinistra alzata.
 
«So, Chi, che ti stai domandando circa il motivo per cui siete stati convocati così d’urgenza ed in segreto» esordì Saru-Dan «ed ora che siete qui posso chiarirti le motivazioni. Sono certo che anche tu capirai subito dopo che non era possibile fare altrimenti».
 
Detto questo il Sommo Tecnocrate, per la prima volta, si alzò da dietro la scrivania per avvicinarsi al mobile basso alla sua sinistra.
Chi-Dan poté, quindi, osservare che il vecchio prelato indossava una specie di sarong, di ottima fattura e qualità, costituito da un paio di comodi pantaloni color grigio ferro in cui era infilata una camicia bianca, con scollo a “V” e senza colletto. A dividere i due capi d’abbigliamento una ricca fusciacca di seta nera. Sopra alla camicia indossava, invece, una giacca aperta, del medesimo colore dei pantaloni, lunga fino a metà coscia e riccamente decorata con ricami color giallo oro. In ultimo le scarpe, comodi mocassini in morbidissima pelle, dello stesso colore dei ricami della giacca.

Con movimenti fluidi e decisi Saru-Dan si mosse lungo il mobile fino a giungere davanti ad una delle vetrinette illuminate. Questa conteneva uno strano oggetto a forma di disco del diametro di circa una decina di centimetri e con uno spessore di un paio.
Il prelato aprì la vetrinetta, prese delicatamente l’oggetto tra le mani e richiuse lo sportello di cristallo tornando alla sua poltrona dietro la scrivania.
 
«Questo oggetto» disse il Sommo Tecnocrate rivolgendosi al nipote Chi-Dan «è stato rinvenuto qualche tempo fa durante una spedizione di ricerca della nostra Accademia».
 
Detto questo porse attraverso il piano del tavolo l’oggetto al giovane archeologo che, con grande delicatezza, lo accolse fra le mani.
L’oggetto dava, al tatto, una sensazione serica ed aveva un aspetto lucido e cromato. Inoltre, mentre su di un lato era perfettamente liscio, sull’altro recava, in bassorilievo, il simbolo sacro del Goddafin. Era qualcosa di stupefacente nella sua semplicità e bellezza.
Appena preso in mano l’oggetto fu colpito dal fatto che, nonostante il solido aspetto metallico, il lucentissimo disco era molto più leggero di quello che ci si sarebbe normalmente aspettato.
 
«È strano che sia così leggero!» commentò immediatamente.
 
«Già!» constatò lo zio che lo stava osservando in silenzio, attentamente «e non è tutto. Seguimi».
 
Detto questo si alzò nuovamente dalla sua poltrona e si recò verso il punto, alle sue spalle sulla destra di Chi-Dan, dove era alloggiato il suo bastone di comando cerimoniale che emanava una lieve luminosità azzurrina la quale indicava che il simbolo di comando del Sommo Tecnocrate stava ricaricandosi dell’energia del Goddafin che lo alimentava.
Il giovane archeologo si avvicinò allo zio e, con stupore tale che quasi gli fece cadere il prezioso oggetto dalle mani, si rese conto che pure esso era circonfuso da una delicata luminescenza azzurrina.
Istintivamente indietreggiò di un paio di passi e la luminescenza dell’oggetto svanì. Tornò a riavvicinarsi e questa, immediatamente, si accese di nuovo.
 
«Proprio così!» affermò Saru-Dan III «Questo è quello che, più di tutto, mi ha colpito».
 
«Considerando la stranezza della sua leggerezza» commentò Chi-Dan quasi stesse parlando a se stesso «e questa iterazione con una fonte energetica si può ipotizzare che, in realtà, si tratti di un congegno, cavo all’interno, e dotato anch’esso di un campo energetico di qualche tipo…»
 
Solo a quel punto il giovane archeologo si rese conto che, ignorando totalmente l’alto prelato, si era girato dirigendosi di nuovo verso la sua sedia scrutando l’oggetto che aveva tra le mani, come se non vi fosse null’altro attorno, voltando quindi irrispettosamente le spalle all’augusta figura del Sommo Tecnocrate.
Ammutolì e si voltò verso lo zio, rosso in volto per l’imbarazzo.
 
«Esatto!» confermò il Sommo Tecnocrate facendo un gesto di accondiscendenza al nipote. «Questo è quello che anch’io ho sospettato fin da subito e la tua immediata comprensione della cosa mi conferma che l’averti convocato è stata la giusta scelta».
 
Chi-Dan, nel frattempo, era tornato a sedersi e continuava a rigirarsi il discoide fra le mani.
 
«Ma come posso esservi utile, eminenza?» chiese, ancora un poco imbarazzato per il suo precedente sgarbo, il giovane.
 
«Quello che abbiamo bisogno di scoprire» disse Saru-Dan «è se questo oggetto contenga effettivamente una fonte di energia e, soprattutto, qual è il suo scopo; a che cosa serve!»
   
 
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