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Autore: _Polx_    28/02/2018    4 recensioni
A sei anni dall'uscita di Skyrim, ormai pilastro videoludico.
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“Perché ti sei arruolato?”.
Il ragazzo si guardò attorno, incerto: “dici a me, signore?”.
“A chi altri?”.
Quello ridacchiò: “be', pagano bene, signore... e, ovviamente, il Concordato”.
“Certo” anche lui ridacchiò “il Concordato”.
“E tu, signore? Perché hai accettato di stanziarti in questa terra vile e fredda?”.
“Il destino mi ha condotto qui”.
La fronte dell'altro si corrugò: “non è la risposta che mi sarei aspettato da te, signore”.
“Auri-El qui prende il nome di Akatosh, o sbaglio?”.
“Non sbagli, signore”.
“Ebbene, lui ha voluto che arrivassi a Skyrim. Aveva un dono per me” sospirò “ho avuto molto da fare”.
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Dovahkiin, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Mio signore, perché sei stato inviato a Skyrim?”.
Fu la possente Thalmor che con tanta insistenza preservava il proprio scetticismo nei confronti di Dovah a porre la domanda.
A un'occhiata perplessa e irritata di questi, lei tentò di giustificarsi: “non desidero apparire irrispettosa, ma da anni ormai il numero di Inquisitori sul territorio va calando e ve ne sono fin troppi, ora come ora, a gestire le nostre forze militari. Perché ti trovi qui?”.
“Leggi il messaggio che portavo con me e avrai risposta” replicò Dovah seccamente. Sperò tra sé di non aver osato troppo: aveva osservato quella pergamena il tempo necessario a scorgervi il nome di colui cui aveva sottratto il ruolo, ma non conosceva il contenuto della missiva.
L'Inquisitore al suo fianco, al contrario, l'aveva letta con cura, eppure non reagì: con sua fortuna, Dovah non era caduto in fallo.
Prestava attenzione affinché l'alto collo della sua casacca non lo tradisse, poiché un amuleto di Talos si nascondeva sotto di esso e neppure Akatosh in persona sarebbe riuscito a proteggerlo dalla verità, se quei Thalmor l'avessero scoperto.
“Mio signore, guarda” la voce d'uno dei soldati, il più anziano e sanguigno, li raggiunse dal ciglio opposto della strada, aggettante su una valle di neve e abeti.
Allermo lo raggiunse di malavoglia.
“È un peccato che non sia toccato a noi” si rammaricò il soldato.
Incuriosito e al contempo turbato, Dovah si sporse a sua volta dal margine malamente lastricato: un drappello Thalmor, che poco differiva dal loro, era incappato nel corso delle proprie peregrinazioni in una casupola di eretici. Era più che probabile che la loro incursione non fosse dovuta alla mera casualità, bensì a una qualche provvidenziale delazione.
Una donna giaceva in ginocchio, gravata da pesanti catene e dalle accuse dell'Inquisitore che si ergeva di fronte a lei. Due soldati vagavano per casa, mettendola a soqquadro in cerca di prove cui fingevano d'interessarsi.
“Guarda, Allermo, signore”.
L'Inquisitore seguì con lo sguardo il dito del soldato.
Questi sogghignava divertito: “un bastardello Nord che agogna ad accompagnare la madre eretica nella morte”.
Dovah strinse i denti vedendo un bambino poco più grande di Cal celarsi all'ombra di un tronco mozzato: assisteva inerme , colmo di smarrimento e paura.
La donna fu infine giustiziata e presto giacque a terra esanime. Il bambino reagì con un gesto tanto istintivo quanto sciocco: senza abbandonare il proprio riparo, impugnò la piccola fionda che portava con sé e la caricò con un sasso.
Dall'alto della sua appartata posizione, il soldato rise sguaiatamente: “guardate che leone” lo schernì “Allermo, signore, la minaccia che rivolge ai nostri commilitoni è sufficiente a giustificare una reazione?”.
“Se il colpo di quel piccolo pezzente eretico andasse a segno, sarebbe indubbiamente un affronto imperdonabile” constatò l'Inquisitore.
“Coraggio, Ilmaril” il veterano si tolse l'arco da tracolla e lo consegnò al soldato più giovane del trio, rimasto fino ad allora mesto e taciturno “è ora di iniziare questa verginella, non lo credi, Cirleya?” chiese poi all'altra compagna “è un bersaglio fermo e ben visibile”.
Il giovane Altmer guardò l'arco con occhi straniti: “Allermo, mio signore, avrà nove anni a dir tanto” obbiettò.
“Gli risparmieremo una vita barbara tra genti barbare. Un Nord in meno oggi è un eretico in meno domani. Credo che il tuo commilitone abbia ragione: impedisci a quel piccolo insolente di arrecar danno”.
Il respiro di Dovah si fermò quando vide il giovane Thalmor incoccare la freccia e puntarla verso la valle. Le sue mani fremevano dal desiderio di fermarlo, di abbatterli tutti alla stregua di lupi rognosi, ma come quel bambino rischiava d'abbandonare la vita troppo presto, allo stesso modo Cal si trovava in grande pericolo e lui aveva bisogno di raggiungerlo al più presto, senza intralci, senza ritardi, senza compromessi.
Tacque e pregò gli Otto perché fossero clementi con quella povera anima.
Intanto la freccia di Ilmaril indugiava nella scocca. Il suo compare lo esortava ad agire mentre il suo superiore fremeva d'impazienza, per l'insubordinazione cui temeva di dover far fronte più che per la fretta di fermare quella piccola mano in realtà innocua.
Il bambino esitava quanto il giovane che minacciava la sua vita, la fionda tesa e vibrante. I due soldati erano ancora intenti a sconquassare la sua casa. L'Inquisitore attendeva oltre la soglia.
“Abbassala”.
Questo Dovah sentì sibilare tra i denti di Ilmaril.
“Abbassala, bastardello”.
Infine i Thalmor impegnati nella perlustrazione si ritirarono. Il bambino lasciò cadere il sasso e corse a perdifiato nella foresta.
L'arco s'abbassò di colpo, la freccia morbidamente appoggiata alla corda.
Ilmaril sospirò profondamente e restituì l'arma al commilitone, che la guardò deluso e stranito.
L'istante di quiete fu breve, poi l'aria fu spezzata dal sonoro schiaffo che colpì il volto dell'indocile soldato: “è così che ubbidisci agli ordini?” inveì Allermo.
“Non aveva intenzione di agire” insistette tenacemente il giovane.
“Tali non sono decisioni che tu devi prendere. Ciò che ti viene comandato è legge e tu l'hai infranta”.
“Così come la infrange giustiziare sommariamente cittadini non colpevoli”.
“Chi è Nord è colpevole. Se la madre di quel bambino era eretica, lui lo sarà altrettanto”.
“Chiedimi dunque di occuparmene tra una decina d'anni, quando sarà in età da processo” fu zittito da un secondo colpo, più forte, più rabbioso.
“Dovrei rispedirti a Cyrodiil in catene” ma Dovah si frappose ai due, ponendo fine allo spiacevole diverbio: “è chiaro a tutti che il giovane Ilmaril abbia trattenuto la propria mano per vigliaccheria e non per senso del dovere come desidererebbe lasciarci intendere. È palesemente fresco d'accademia, un novellino senza spina dorsale. Dagli il tempo di forgiarla: non tutti sono fin dal principio fieri e integerrimi come noi siamo stati, Allermo”.
Quelle parole lusinghiere parvero acquietarlo: “i miei uomini camminano da ore” deviò “ci accamperemo per tre ore, il tempo necessario a recuperare le forze, poi ci rimetteremo in marcia”.
Dovah desiderava opporsi a una tale, sconcertante perdita di tempo, ma comprendeva di non disporre ai loro occhi di valide ragioni con cui giustificare la propria fretta.
Tacque ancora una volta e i suoi occhi tornarono alla casupola e al cadavere steso di fronte a essa: “dunque riposate, ma le mie gambe sono state ferme per giorni, in quelle gabbie vampiresche. Desidero sgranchirle. Scenderò a valle e mi assicurerò che i nostri compagni d'arme abbiano fatto un buon lavoro. Tornerò a breve”.
Non attese assensi né obiezioni: s'incamminò per l'impervio sentiero e presto raggiunse la soglia scardinata.
La donna morta ai suoi piedi era giovane. Sul suo collo spiccava il segno livido d'una catena che le era stata strappata in malo modo, probabilmente un amuleto di Talos che non aveva accettato di ripudiare.
Dovah guardò la panca in legno macilento che affiancava la porta di casa: vi erano stivali da uomo sotto di essa.
Alzò gli occhi al cielo: il tramonto stava ormai calando.
Lasciò che il suo sguardo vagasse tra i molti abeti: un sentiero malamente divaricato tra le frasche del sottobosco si dipanava verso est.
Lo imboccò, poiché una famiglia di Nord insediatasi in una zona tanto isolata non poteva che vivere di caccia ed era ormai ora di rientro, per un uomo la cui famiglia attendeva a casa il momento della cena.
Come previsto, entro breve i suoi passi incrociarono quelli di un giovane carico di selvaggina. La corda di lepri che teneva tra le mani cadde a terra quando scorse l'Inquisitore avanzare verso di lui.
“Pace” lo acquietò Dovah, mostrando i palmi aperti in segno di resa “non sono ciò che sembro e di certo non sono tuo nemico”.
“Nemico, mio signore? Io non ho nemici” azzardò penosamente.
“Ne hai, invece, e mi duole riferirti che hanno già compiuto più danno di quanto tu possa immaginare”.
A quelle parole, il volto del giovane sbiancò. Dimentico d'ogni paura, raggiunse l'imponente Thalmor e lo implorò a mani giunte: “mio signore, lo giuro, non vi è male che possiamo arrecarvi. Siamo solo umili cacciatori. Dì ai tuoi uomini...”.
Dovah frugò rapidamente nel collo della propria casacca ed estrasse l'amuleto di Talos che portava su di sé.
Il giovane lo guardò stranito.
“Non sono ciò che sembro” ribadì “ed è ormai troppo tardi. La tua dimora è stata violata”.
“Di che parli, Elfo?” chiese concitatamente.
Dovah indugiò per qualche istante: pareva troppo giovane per essere padre del bambino che aveva visto inoltrarsi nelle selve, ma d'altronde altrettanto pareva la povera sciagurata che ora giaceva nella polvere. Inoltre, indossava una fede al dito e la paura che si era impressa sul suo volto alla notizia che un drappello Thalmor fosse incappato nella sua famiglia era difficile da quantificare.
“La tua casa si trova a ovest di qui, ai piedi del clivo che conduce alla strada?”.
L'altro annuì.
“Una donna e un bambino abitano con te?”.
Annuì di nuovo.
“Mi duole riferirti che la tua sposa ha rifiutato di abiurare ed è stata giustiziata da un Inquisitore della Dominazione”.
A quelle parole le sue gambe cedettero d'un passo e il giovane indietreggiò malfermo.
“Il bambino ha rischiato di abbandonare il Nirn al suo fianco, ma ha avuto il buon senso di fuggire”.
Un velo di speranza parve rinvigorirlo: “l'hai visto?” chiese con fervore “hai visto mio figlio fuggire?”.
Dovah annuì: “e se desideri vivere in pace ti conviene sbarazzarti dell'amuleto che ti resta. Quello di tua moglie è stato la sua fine”.
Il giovane incespicò nelle proprie parole: “non vi è amuleto che...”.
L'Altmer ridacchiò sprezzante: “tale è il motivo per cui la mia gente vi considera carne da macello e schiavi per natura: siete a tal punto sciocchi da sentire le fauci d'un lupo nella vostra carne e insistere a definirlo un agnello. Dammi il tuo maledetto amuleto, ragazzino, e forse vivrete un giorno di più”.
Quello infine cedette.
“Voi Nord dovete imparare a pregare il vostro dio senza ostentarlo”.
“Tu stesso indossi il suo simbolo”.
“Non perché veneri Talos” negò fermamente e la spiegazione che seguì fu vaga quanto astrusa alle orecchie del giovane “io e lui abbiamo un patto diverso” indicò poi un punto nel folto “il bambino s'è diretto verso sud. Sei un cacciatore: seguilo, trovalo e andatevene da qui. A essere in te, mi dirigerei a Windhelm: è ancora un luogo sicuro, per un Nord eretico che desidera stare alla larga dal giogo del Dominio. Ora sparisci”.
Rimasto finalmente solo, Dovah bruciò l'amuleto ligneo in una tenue vampata di fiamme che scaturì dalla sua mano, quindi s'accinse a tornare all'accampamento.
Tre dei Thalmor suoi sgraditi compagni sedevano attorno a un fuoco. Allermo riposava nella tenda eretta per lui sul ciglio del sentiero.
“Ne desideri una anche per te, Arilion, signore?” chiese Cirleya.
Dovah negò seccamente e andò a sedersi in disparte, su una pietra imbiancata di licheni. Il suo sguardo si perse a nordest, dove era il passo che tanto gli premeva raggiungere.
Le sue rimuginazioni furono fugate da una timida intromissione: “ti ringrazio, signore, per avermi sottratto all'ira di Allermo”.
“Chiudi la bocca” Dovah zittì il giovane Ilmaril senza remore.
Il soldato non parve offendersi e sedette a terra, al suo fianco.
“Voglio però che tu sappia, signore, che non ho agito per vigliaccheria”.
“Devi inserire l'appellativo 'signore' in ogni affermazione, soldato?”.
“Non è forse la regola, signore?”.
Dovah si ritrovò a pensare che, in fin dei conti, non vi fosse grande differenza tra gli stranieri soldati Thalmor e i patriottici soldati Manto della Tempesta: animosi, asserviti, ubbidienti. Tutti quanti, o quasi.
“Conoscevo un giovane come te, forse persin più folle. Un Thalmor, di stanziamento qui a Skyrim ormai... sei anni fa, credo. Figlio d'un pezzo troppo grosso perché gli fosse concesso il congedo, ha deciso di disertare. Chissà, forse bazzica ancora queste terre, libero, indisturbato e traditore”.
Il ragazzo parve comprendere: “parli di Otar, signore? Otar, figlio di Turnfael?”.
“Lo conosci?”.
“E chi non sa di lui, almeno per sentito dire? È una delle macchie più amare del nostro Dominio. Per anni l'hanno cercato e ora credo abbiano semplicemente mollato l'osso: un solo cane non vale tanto affanno. Se mai dovessero trovarlo, stai pur certo, signore, che lo appenderanno a una forca e lo umilieranno di fronte a tutta la regione selvaggia in cui ha deciso di rintanarsi prima di concedergli la morte”.
“Suo padre è uno dei più influenti Giudici supremi a Cyrodiil. Non credi che intercederebbe per lui?”.
“Suo padre è un bastardo, signore” si rese immediatamente conto di ciò che aveva asserito così impunemente e serrò le labbra “perdonami, signore”.
Dovah sorrise: “non l'ho mai incontrato e probabilmente mai lo incontrerò. Nessuno oltre me saprà ciò che pensi di lui”.
“Neppure io l'ho mai incontrato, ma se c'è qualcuno che vuole Otar a bruciare e strillare come una serpe arroventata su un rogo, signore, quello è Turnfael”.
“Lo credi o lo sai per certo?”.
Il giovane Thalmor strinse le spalle, perplesso: “lo credo, signore”.
Lo sguardo di Dovah si perse nuovamente nell'orizzonte latteo. Per quanto impaziente, non era tanto sciocco o avventato da compromettersi, così prossimo alla meta.
“Perché ti sei arruolato?”.
Il ragazzo si guardò attorno, incerto: “dici a me, signore?”.
“A chi altri?”.
Quello ridacchiò: “be', pagano bene, signore... e, ovviamente, il Concordato”.
“Certo” anche Dovah ridacchiò “il Concordato”.
“E tu, signore? Perché hai accettato di stanziarti in questa terra vile e fredda?”.
“Il destino mi ha condotto qui”.
La fronte dell'altro si corrugò: “non è la risposta che mi sarei aspettato da te, signore”.
“Auri-El qui prende il nome di Akatosh, o sbaglio?”.
“Non sbagli, signore”.
“Ebbene, lui ha voluto che arrivassi a Skyrim. Aveva un dono per me” sospirò “ho avuto molto da fare”.
Il giovane Thalmor lo squadrò a lungo, in silenzio: “qual è il tuo dispiegamento, signore?”.
“Perché me lo chiedi? Ti piacerebbe richiedervi il trasferimento?”.
Quello annuì e Dovah rise sommessamente: “forse ne riparleremo in futuro”.
  
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