Avvertenze:
Questa
shot è la
prima di una raccolta e fa parte dell’universo che ho creato
nella long-fic
“Tutte le tue bugie.” In particolare, approfondisce
alcuni argomenti accennati
nella stessa. Nonostante alcuni riferimenti alla long fic, puoi leggere
la
storia anche considerandola come un testo scollegato dalla storia madre.
Vanheim,
il suo
ordinamento politico e culturale, Vili, Sigyn e tutti i personaggi
presenti
nella fiction oltre a Loki, Odino e Thor così come sono
descritti, sono una mia
elaborazione. Lo stesso dicasi per gli accenni alla gioventù
di Loki e Thor.
Per quanto concerne il canone del film, pur utilizzando aspetti,
considerazioni
e sviluppi provenienti di tutta la trilogia e della saga di Avengers ho
rimaneggiato
questo universo considerando solamente la fine di Thor: The Dark World.
Buona
lettura!
L’ombra
che è rimasta di te
L’ombra
che è rimasta di te, fa male
solo a guardarla. Fu questo il pensiero che gli attraversò
ingiustamente la
mente quando la porta si richiuse alle sue spalle. Tentò di
mascherare il
disagio di quell’ultima, straziante visita sgridando per un
nonnulla uno dei
domestici di Asgard, colpevole soltanto di non avergli portato
abbastanza
rapidamente il vino. In un’altra occasione, in un tempo
diverso, anzi, il
servitore avrebbe risposto con un inchino rigido e risentito al suo
sfogo
crudele. Invece abbassò il capo e gli porse le sue scuse.
No, bugia: disse “mi
dispiace,” e il dio degli inganni capì
immediatamente che si riferiva non alla
richiesta esaudita male, ma al suo,
di compito. Quello rinchiuso oltre le pesanti porte di quercia lavorate
con un
disegno che raffigurava l’Yggdrasill, il frassino sacro, e di
cui nessuno, su
Godhaimer, poteva parlare. Come spiegare a un popolo di guerrieri
feroci e
audaci che il loro fiero e capace Re cantava ninnenanne e si era perso
in mezzo
ai brandelli di un tempo passato, dimenticato?
Afferrò
bruscamente il corno che il
domestico gli offriva regalandogli uno sguardo carico di odio per
quell’intromissione inopportuna, scortese; pretendeva di
capire come stesse,
immaginava gli importasse di quel vecchio avido, bugiardo e crudele che
aveva
combattuto con tutta la forza e ogni mezzo e, infine, era riuscito a
sconfiggere nel peggiore e più doloroso dei modi:
spezzandolo dentro. Quando
aveva intravisto la mano tremante del padre firmare l’accordo
tra Asgard e
Vanheim, non era riuscito ad associare l’incertezza del gesto
con i primi segni
della malattia che lo avrebbe ridotto all’ombra sbiadita e
sfilacciata del
severo sovrano che era stato. Aveva attribuito all’ira e alla
vergogna per la
disfatta subita lo spasmo che aveva reso incerta la scrittura di Odino.
Un
segno di debolezza di fronte cui Loki Laufeyson aveva esultato.
Ricordava con assoluta
precisione quel momento. Aveva sorriso soddisfatto mentre parlava della
necessità che Vanheim e Asgard trattassero da pari, in pace,
nascondendo sotto
le sue parole brillanti e ponderate la gioia nervosa che la ratifica
del
trattato tra i due paesi gli provocava: Asgard costretta a venire a
patti, ad
accordarsi con lui, a causa sua. Sulla carta, i due stati avevano
cessato le
ostilità di comune accordo, ma il messaggio che era passato
nei Nove Regni
tutti era stato un altro: gli Asi avevano trovato pane per i loro denti
e, per
una volta, erano stati costretti ad abbassare le armi e ascoltare.
Odino lo aveva
visto, quel suo il
sorriso laterale e breve. Tra le dita stringeva ancora la lunga penna
intinta
di inchiostro. Fissandolo, gli aveva detto una delle ultime cose
sensate che
avrebbe pronunciato in vita. “Sei stato bravo, figlio mio.
Davvero bravo. Ma
ora toglimi una curiosità: sei soddisfatto?”
Maledetto Odino.
Maledetto vecchio
crudele, scorretto, bugiardo. Non era nella sua natura la
soddisfazione, non lo
sarebbe stata mai. La vittoria di un giorno non poteva cancellare
l’ingiustizia
che credeva di aver subito per una vita intera, né il
riconoscimento sporadico della
sua abilità era in grado di offuscare le numerose volte in
cui l’ombra troppo
grande di Thor avevano annichilito le sue imprese. Gli rispose come
avrebbe
dovuto, sfoggiando il suo tono più indisponente e arrogante,
sventolandogli
davanti il corno colmo di idromele con cui brindava a quel giorno
glorioso.
“Immensamente”
mentì, e poi rise
fingendo che il liquore sapesse meno di fiele.
Se ne era andato
masticando un’amarezza
che mal si accordava con la vittoria, irritato con Odino per le sue
parole
concilianti, per il tentativo sospeso di recuperare un rapporto
infranto, lacerato:
aveva revocato ufficialmente il bando troppo tardi, lo aveva chiamato
di nuovo
figlio forse presto. Sì, con tutta probabilità
era sempre stato quello il
problema, tra loro: non riuscivano a trovare il momento giusto per
confrontarsi
e scontrarsi, come se le Norne li avessero condannati a una perenne
mancanza di
tempismo che avrebbe esacerbato sempre di più tensioni e
contrasti, esasperando
il non detto e travisando il resto. Eppure le loro conversazioni erano
sempre
state brillanti, vivaci. Dispute affascinanti che si combattevano sul
filo
dell’astuzia, della retorica e della coerenza, messe in atto
da due
fuoriclasse: lo scaltro Re dotato di un’astuzia lupesca e il
suo furbo e
intelligente figlio che da lui aveva assorbito ogni gesto, frase, modo
di
pensare. Sì, Loki e Odino si assomigliavano come e
più che se fossero stati
davvero legati da un vincolo di sangue, e il motivo non era da imputare
solamente alla brillante capacità del dio degli inganni di
imitare alla perfezione
il genitore adottivo, ma a qualcosa di diverso, più
profondo. Condividevano il
modo di ragionare e formulare i pensieri, cui univano la sottile
sagacia che sfoggiavano
quando manipolavano e irretivano il loro prossimo per ottenere un
tornaconto
personale. Forse era stata questa estrema somiglianza a far nascere la
frattura. Ognuno dei due vedeva nell’altro i propri difetti
amplificati,
esasperati, ingigantiti, ed era pronto a giudicare azioni e pensieri
dell’altro
con una precisione spietata e crudele.
Poi
c’era la mancanza di tempismo,
certo. Quell’errore causato con godimento dalle Norne
beffarde e annoiate, che
avevano fatto cadere Odino nel suo Sonno proprio mentre cercava di
spiegare a
Loki come le peggiori intenzioni potessero tradire chi le immaginava e
trasformarsi inevitabilmente in qualcos’altro – una
lezione che anche il dio
degli inganni avrebbe appreso, suo malgrado, ma questa è
un’altra storia.
La maledizione
si era rinnovata
quando Thor lo aveva condotto in catene di fronte al trono:
c’era stato un
momento, prima che Loki si prendesse gioco di tutta la situazione
presentandosi
come un ragazzino arrogante di fronte al Padre di Tutto, battendo i
tacchi
degli stivali e imitando con malcelato spregio l’attenti dei
soldati, in cui
forse il cuore del dio delle forche avrebbe potuto ammansirsi. Se Loki
fosse
stato meno sarcastico, se nei suoi occhi chiari Odino avesse
riconosciuto
l’ombra di un sincero pentimento, le cose sarebbero potute
andare diversamente.
Ma Lingua d’Argento era stato sprezzante e tronfio e si era
presentato ammantato
di tutta la sua feroce eleganza di fronte al padre adottivo che non lo
aveva
chiamato figlio, ma prigioniero. Un altro imperdonabile errore dovuto
non alla
mancanza di discernimento di Odino, ma all’amara
constatazione di come Loki, il
suo brillante cadetto, non fosse poi così acuto come pensava
e sembrava. Come
poteva aver bisogno di sentirsi appellare figlio? Non lo era forse
stato? Come
osava sputare sopra il progetto di una vita intera schiacciando mondi,
con
quale faccia arrogante si azzardava a svelare di fronte a tutti le
necessarie
brutalità compiute per realizzare l’idea che si
era concretizzata sopra il
sangue e le ossa dei soldati morti in battaglia nella formazione dei
Nove
Regni? Se Loki fosse stato astuto come spesso dimostrava di essere,
forse Padre
Tutto non lo avrebbe fatto rinchiudere nelle prigioni sotterranee di
Asgard.
Solo che il dio degli inganni, prima di perdersi in un abisso senza
fondo e
lasciarsi cadere in un nefasto oblio, gli aveva confessato, sul ponte
del
Bifrost distrutto e spezzato, di aver tradito e tramato per Asgard, per
lui. Le
Norne erano state incerte su quale risposta Odino avrebbe dovuto dare
al figlio
penzolante oltre il ponte ormai a pezzi. L’interminabile e
incessante filare si
era interrotto un istante. Quale svolta dare al destino di entrambi,
dei Mondi?
La scelta era ricaduta su un errore, di nuovo. La frase era giusta, ma
il
momento sbagliato. Odino avrebbe dovuto salvare Loki e metterlo al
sicuro da se
stesso e dalle sue ombre e poi, solo poi, spiegargli il suo
imperdonabile
errore. Così non era stato, e Lingua d’Argento si
era affrancato da Asgard per
diventare il fiero e feroce principe perduto degli Asi, alleato o
avversario a
seconda del caso.
Ora il tempo era
finito, cessato: non
ci sarebbero più stati fraintendimenti perché era
impossibile ci fosse un
dialogo vero. La mente di Odino vagava senza riuscire a collegare tra
loro
volti e ricordi. L’improvvisa chiarezza di un momento si
trasformava in un
tunnel di oscura confusione un istante dopo.
Loki Laufeyson
bevve fino all’ultima
goccia di idromele, poi gettò con stizza il corno a terra.
Lo vide sbattere sul
pavimento lucido e rotolare fino alla punta degli stivali di Thor, che
lo
attendeva a braccia conserte e con un sorriso mesto sul viso stanco.
“Chi
eri stavolta?”
Loki
piegò le labbra in una smorfia
infastidita. “Ha importanza?”
“Non
posso parlarne che con te,” gli
ricordò il dio del tuono sfoggiando una sincerità
assoluta, perfetta,
inattaccabile, vera. Un’ammissione che nemmeno lui poteva
ignorare o aggirare.
Lo sguardo di
Lingua d’Argento si
puntò in quello del fratello. “Mi ha riconosciuto
all’inizio, per quello che
vale.”
“Sei
uno dei pochi fortunati. Io sono
il suo barbiere, il domestico, il palafreniere, un fastidioso
mendicante,
persino,” elencò il tonante nel tentativo di
rendere meno pesante l’aria che si
respirava in quel corridoio invaso dalla penombra.
“Chissà
che belle chiacchierate, che
vi fate.” Loki rispose con un certo divertito distacco, ma
era evidente come
avesse apprezzato il tentativo conciliante di suo fratello e le
lusinghe con
cui voleva renderlo parte di qualcosa da cui lui, invece, era fuggito.
Ogni volta che
attraversava il
Bifrost per tornare a Vanheim, dove il suo nome veniva pronunciato con
un misto
di soddisfazione e dispetto insieme, si riprometteva che quella sarebbe
stata
l’ultima visita che faceva alla figura sempre più
emaciata e smunta di suo
padre, perché quel vecchio debole e malato non era
più Odino. I loro discorsi
non erano che la replica sbiadita di altri già fatti o
l’ipotesi amara di un
passato inesistente. Ascoltare ciò che rimaneva di Padre
Tutto era una
straziante perdita di tempo capace solo di ricordargli, una volta di
più, le
ironiche contraddizioni della sua esistenza. Certamente non esclusive
– Loki
era troppo intelligente per credersi l’unica vittima di un
destino avverso e
sapeva perfettamente che ogni essere vivente è costretto a
sopportare le sue
personali tragedie –, ma non per questo meno dolorose.
“Ieri
mi voleva cacciare via con un
bastone. Ha chiamato le guardie, diceva che volevo rubargli
l’idromele,”
raccontò il maggiore dei due.
L’ingannatore
abbassò il volto per
nascondere il riso divertito che gli era salito inevitabilmente alle
labbra
immaginando la buffa scena, perché nonostante tutto faceva
ridere l’idea che
Odino avesse scambiato il suo erede designato per un furfante ubriacone
e si
fosse messo in testa di chiamare le guardie.
Un’ilarità che capitava
maledettamente a sproposito, a dire il vero, perché Loki non
era ancora
disposto a perdonare Asgard o suo padre o Thor e, forse, non lo sarebbe
stato
mai.
“Deve
essere stato spassoso,”
confessò nonostante tutto.
“Come
no, spassosissimo,” si lamentò
Thor indicandogli un livido che gli deturpava la fronte. “Lo
vedi, questo? Me
lo ha fatto lui. Con te è più
tranquillo,” aggiunse.
Il sorriso
divertito svanì dalle
labbra perennemente ironiche di Lingua d’Argento.
“Sono venuto fin troppo
spesso qui. I miei affari sono altrove.”
“È
nostro padre.”
“Era
mio padre quando mi ha rinchiuso
e poi bandito?”
“Ti ha
perdonato. Dovresti farlo
anche tu, viste le sue condizioni.” Com’era
cambiato suo fratello! Non era il
dio del tuono irruente e guerrafondaio con cui era cresciuto,
quell’uomo deciso
di fronte a lui che gli parlava del potere liberatorio della clemenza.
Aveva un
atteggiamento più posato, riflessivo, maturo. Di Re. Loki lo
guardò dall’alto
in basso e gli rispose con un ghigno tetro, amaro.
“Quanta
parte hai avuto in quella
decisione?”
“Non
ha importanza,” sospirò l’altro.
“Ritorna. Fallo per te o per me, se non per lui.”
Il dio degli
inganni aveva masticato
un’imprecazione tra i denti e si era allontanato per le volte
immense e buie di
Asgard senza voltarsi.
All’inizio
Odino lo aveva
riconosciuto, era vero. Loki era entrato senza farsi annunciare e lo
aveva
trovato intento a leggere un poema antico. Con l’indice
seguiva le rune che si
susseguivano le une alle altre sulla carta e muoveva le labbra senza
far uscire
alcun suono, come se volesse assaporare meglio il senso di quella
lettura.
Il dio degli
inganni aveva
riconosciuto immediatamente il libro dalla copertina e si era stupito,
perché
non credeva fosse il genere di suo padre. Si era domandato se lo avesse
scelto a
causa della malattia che tirava fuori la sua natura senza inibizioni
né controlli,
o se fosse un’altra delle cose scollegate e senza senso che
sempre più spesso
gli capitava di osservare. Gli chiese perché lo stesse
leggendo e cosa pensasse
della storia e dove era arrivato.
Padre Tutto
alzò lo sguardo un tempo
vivo e acuto su di lui. “Loki, sei tornato. La tua traduzione
era così
appassionata che volevo controllare l’originale.”
Il dio degli
inganni si irrigidì. Non
aveva la benché minima idea di cosa stesse dicendo suo
padre. Non leggeva quel
poema da anni e non ricordava di averlo mai tradotto. Forse,
rifletté, la mente
di Odino era rimasta impigliata in qualche punto indefinito della sua
adolescenza. Sì, forse in effetti poteva aver fatto una
traduzione di qualche
passo dell’opera quando ancora andava a scuola.
“Non
dico che non sia ben fatta,
Loki. È solo un po’ libera. Avvicinati,”
lo incalzò con un gesto. Loki si accostò
cauto alla poltrona dove era seduto il genitore. “Vedi qui?
Qui dove il Poeta
usa questo verbo? Tu hai tradotto usando dispiacere,
ma avresti potuto scegliere un termine differente. Nostalgia
o rimpianto
sarebbe andato meglio.”
Loki lesse le
righe incriminate e
cercò di difendere un lavoro che non ricordava di avere
svolto, ma dovette
ammettere a se stesso che le note di Odino erano esatte. Se avesse
dovuto
tradurre in quel preciso istante il brano nella lingua degli Asi,
avrebbe usato
la parola rimpianto,
senz’altro. Ma la
versione che gli veniva attribuita era comunque corretta e assecondarlo
faceva
parte del piano, della strategia che lui stesso aveva suggerito con
riluttanza
a Thor. Sarebbe stato inutile cercare di discutere con un vecchio
demente.
Meglio compiacerlo, nei rari momenti di serenità come quello.
“Capisco
la tua scelta, ma dovresti
essere più preciso e letterale. Ogni parola ha un senso
preciso, una sfumatura
particolare e tu devi scegliere quella giusta, tutto qui,”
insistette l’anziano
Re sottolineando la frase con un gesto delle sue mani un tempo grandi e
forti.
Loki non poté fare a meno di chiedersi se quella brillante
considerazione gli avesse
attraversato la mente quando lo aveva chiamato prigioniero,
anziché figlio.
“Il
fatto,” concluse Odino con una punta di
improvvisa dolcezza, “è che sei giovane, Loki, sei
solo un ragazzino e non sai
ancora cos’è il rimpianto, per fortuna.”
Quello non era
suo padre. Era la sua
ombra sbiadita e scollegata. Il signore di Asgard non aveva tempo per
interessarsi dei suoi compiti. Non si era mai speso nello spiegare
così
approfonditamente qualcosa. L’Odino che conosceva gli avrebbe
detto che il suo
lavoro era imperfetto, manchevole, inesatto. Voleva sapere
perché? Studiasse
meglio, allora. Non si aspettava certo che se un giorno avesse avuto un
trono sotto
le terga qualcuno gli sarebbe venuto a dire dove sbagliava, vero?
Certo, era un
padre più vigoroso, giovane
e sanguigno di adesso, quello di quando lui era adolescente. Non
sembrava
nell’aspetto un vecchio pallido e fragile, ma era un uomo
vigoroso e nel pieno
delle sue forze. A tradire una certa stanchezza ci pensavano la testa
già
bianca e le molte rughe che gli solcavano la fronte, ma per il resto
l’Odino di
quel tempo era stato un sovrano dotato di un pugno di ferro.
All’epoca in cui
Loki si spaccava la testa sulle traduzioni delle Rune, suo padre
schiacciava
senza pietà popoli ribelli ai confini dei Nove Regni.
No, al tempo in
cui quello stesso
volume che ora il vecchio sovrano stringeva tra le dita era posato
sulle sue
ginocchia, Loki non conosceva il rimpianto, ma era già
affondato fino all’orlo
degli stivali nel sangue e nel fango dei campi di battaglia di Asgard.
Aveva provato
la paura di morire che tiene svegli la notte e sentito in bocca il
sapore
metallico del sangue. Si era portato il poema – di questo si
trattava, in una
campagna militare particolarmente feroce e quella sua traduzione libera
l’aveva
fatta di sera, mentre accanto a lui Thor dormiva, anzi russava. Lui,
con una
luce fioca e un foglio trovato per caso, aveva aperto il libro, scelto
un passo
di media difficoltà e aveva cercato di trovare le parole
giuste che sapessero
restituire, nella lingua degli Asi, il senso del brano. Era un
ragazzino con il
moccio al naso, allora, e le aveva appena prese. Non riusciva a dormire
perché
nella foga della battaglia era stato colpito, e sul suo torace non
ancora
sviluppato spiccavano i segni bluastri di un grosso livido. Vanno in
guerra molto
presto i figli degli Asi, e questo è il prezzo da pagare
affinché diventino
guerrieri feroci e abili.
Il ricordo non
riaffiorò
immediatamente nella mente di Loki Laufeyson. Lo fece piano, con
lentezza,
piuttosto, risalendo quando Odino aveva ormai smesso di riconoscerlo e
parlargli come se fosse adolescente e si era messo a discorrere
scambiandolo
per qualcun altro, o forse no. In fondo, anche Padre Tutto parlava con
un’ombra, solo che non ne aveva la consapevolezza. Credeva di
spiegare un verso
straniero al suo giovanissimo figlio dallo sguardo offeso e con un elmo
vistoso
che gli calzava troppo grande sul capo, e invece quel Loki non
c’era più, non
esisteva che nella sua testa. Al suo posto c’era un altro, un
uomo nel pieno
delle sue forze cui non occorreva che nessuno chiarisse niente,
tantomeno cosa
fosse il rimpianto. Odino continuò il suo chiosare e poi gli
raccontò come
avesse sempre amato quel testo perché trovava che dicesse
cose vere e belle, e aggiunse
che il suo autore doveva aver avuto un animo davvero molto sensibile
perché
sapeva guardare con attenzione dentro al cuore degli uomini.
“Come
quel… come quel” s’incartò,
sfiorando tra loro i polpastrelli dell’indice e del pollice.
Il nome che gli
era salito alle labbra e stava per pronunciare davanti a
quell’adorabile
insolente di suo figlio improvvisamente svanì,
sfumò. Non era più di fronte a
un ragazzo brillante che andava educato, ma a un viso ben noto e
combattuto, di
cui non poteva non riconoscere lo sguardo grifagno e fiero.
“Cosa
sei venuto a fare, qui?” disse
quasi tremando.
Loki non rispose
immediatamente. Vide
l’occhio vacuo e azzurro di Odino fissarlo in modo cattivo,
riconobbe la paura
nella sua voce, ma non fu in grado di capire dove volesse andare a
parare il
genitore, così attese nuovi indizi, pronto a cogliere
qualsiasi mutamento
nell’aspetto e nelle parole dell’altro.
“Torna
da dove sei venuto. Torna in
mezzo ai ghiacci,” gridò il vecchio alzandosi
all’improvviso dalla poltrona.
Non fu solo il
riferimento alla
bianca e inospitale Jotunheim, a colpirlo. Fu il corpo di suo padre.
Nell’atto
di alzarsi la coperta che gli copriva le gambe cadde rivelando la
figura
emaciata e avvizzita di un vecchio. Dov’era il sovrano
prestante che, quando
batteva col suo pugno sui braccioli dell’Hlidskjalf, faceva
tremare l’intera
sala?
Il terribile Re
che non si era
commosso neanche vedendolo in ceppi dopo averlo creduto morto era
svanito,
perso. L’ultima volta che Loki lo aveva visto era stato
quando, con una punta
di esitazione, aveva firmato quel fottuto trattato. “Tu hai
permesso la mia
presenza,” gli ricordò.
Una mano
scivolò rapida sull’elsa del
pugnale che teneva sempre al fianco e le dita ne accarezzarono il
metallo
freddo. Non ce ne sarebbe stato bisogno, eppure era una precauzione che
non
poteva fare a meno di adottare. Una misura spiacevole che gli scatti
improvvisi
di Odino rendevano inevitabile.
“Non
ti appartiene,” esplose il
vecchio. “Non ne hai alcun diritto. Non puoi tornare e
ripensarci. Non è una
cosa tua, non è un oggetto.”
Le vene sulla
fronte di Odino si
gonfiarono e la sua voce tornò a essere improvvisamente
quella del dio delle
forche* spietato e inclemente. Una guaritrice, sentendo le urla,
entrò e gli
disse che forse era il caso che andasse via per non agitare
ulteriormente suo
padre e Loki uscì dalla stanza senza ribattere né
replicare. Di nuovo, il tempo
era loro nemico. A cosa, anzi a chi
si stava riferendo? Quale antico avversario gli aveva messo davanti la
sua
mente sfilacciata? Il dio degli inganni era troppo intelligente per non
aver
pensato a un nome in particolare e rifletté su quanto
fossero state
infinitamente meno penose, le volte in cui lo aveva scambiato per il
suo guaritore,
un lontano parente di Frigga o un commilitone conosciuto quando era
ragazzo. La
voce di Odino, gonfia d’ira, attraversò la soglia
ancora aperta e lo investì
per l’ultima volta.
“Un
picco di ghiaccio. L’ho trovato
su un picco di ghiaccio. Tu cosa ne vuoi fare, adesso?
Un’arma contro di me?”
Era stato allora
che Loki aveva
ordinato al servitore più vicino di portargli in fretta un
corno di idromele,
mentre l’urlo sguaiato di suo padre ancora gli rimbombava
nelle orecchie e un
pensiero lo coglieva: dal fondo del tunnel dove era precipitato, Odino
non solo
riviveva brandelli di ciò che era stato, ma anche di ciò che avrebbe potuto essere,
smarrendosi in un reticolo dove il
passato si confondeva con ipotesi, incubi e desideri. Il sovrano di un
tempo,
temuto e rispettato da tutti i Nove Regni, ora era schiavo delle sue
parole e
delle sue speranze, in una giostra senza fine da cui non sarebbe sceso
mai più.
Odino non aveva mai avuto modo di apostrofare in quel modo Laufey, il
signore
di Jotunheim, ma molto spesso, nel cuore della notte, gli era capitato
di
immaginarsi quel dialogo. Avveniva quando si affacciava nella camera
dei
bambini e osservava i suoi figli finalmente addormentati, due pesti fin
troppo
vivaci che riposavano scomposti in un letto con le coperte
aggrovigliate e
l’aria serena e beata. Non erano ancora il dio del tuono e
quello dell’inganno,
ma gli indifesi eredi del suo retaggio. Mentre loro sognavano di essere
già
grandi, Padre Tutto avrebbe voluto fermare il tempo e lasciare che
rimanessero per
sempre bambini rumorosi e felici, quasi che una parte di lui avesse
sempre
saputo, fin da allora – e come avrebbe potuto non essere
così, del resto? – che
un giorno la verità da cui cercava di proteggere la sua
famiglia sarebbe venuta
fuori, e la ragione di stato avrebbe fatto i conti con gli affetti.
Loki tutto
questo non lo avrebbe
saputo mai, né avrebbe potuto immaginare quanto il suo
lancinante pensiero si
fosse drammaticamente avvicinato al vero. Si maledisse mentalmente per
essersi
imposto una volta ancora di incontrare quell’uomo anziano e
malato che chiamava
padre, e gli parve di risentire la sua voce tristemente ironica, mentre
tornava
a rinchiudersi nel suo esilio volontario su Vanheim. Quella che aveva
quando
era ancora il sovrano degli Asi e la sua mente non se n’era
andata. Le parole
dell’ultima frase che gli aveva rivolto mentre siglava con la
sua firma il
trattato di pace tra Asgard e i Vanir gli risuonarono dentro in tutta
la loro
profonda semplicità. Toglimi una
curiosità: sei soddisfatto?
***
A Vanheim il
freddo era forse meno
pungente, ma tirava comunque un vento fastidioso e insolente capace di
infilarsi sotto i vestiti e gelare la pelle e le ossa. Loki Laufeyson
scelse di
entrare da una porta secondaria e, sgrullandosi il mantello dalla neve,
si
incamminò rapido e deciso verso un luogo neutro, silenzioso
e solitario dove
avrebbe potuto calmare i propri nervi esasperati: la biblioteca, il
posto
perfetto dove rinchiudersi se era troppo presto per dormire e non era
dell’umore adatto per cercare compagnia. Il vecchio Njord**
non era un lettore
accanito né un uomo particolarmente colto, ma amava
collezionare testi rari e
fare sfoggio della propria ricchezza. Nel corso del suo lunghissimo
regno,
aveva accumulato una quantità enorme di volumi, tanto che le
sale che
costituivano la biblioteca avevano dovuto essere ampliate per ben due
volte. A
usufruire dell’impressionante raccolta era quasi
esclusivamente Loki, motivo
per cui aveva sempre con sé una copia delle chiavi delle
ampie stanze ed era
solito entrare e uscire nelle ore più disparate. Fu questo
il motivo per cui vi
si rifugiò senza nemmeno prendere in considerazione
l’idea che avrebbe potuto
non essere solo.
Le sue
aspettative vennero
immediatamente disattese dalla penombra calda che regnava nella
biblioteca e
dall’odore sottile e amarognolo di brace. Il gigantesco
camino che scaldava le
stanze era acceso e un fuoco flebile e tremante, ormai vicino a
spegnersi,
gettava una luce rossastra sugli scaffali ordinati ricolmi di libri,
sui
pesanti tavoli di quercia dalle zampe intarsiate e sulle poltrone
rivestite di
pelle. Su una di queste dormiva, rannicchiata sotto a una coperta
leggera,
l’intrusa che aveva osato violare il suo spazio. Sigyn.
Al dio degli
inganni non poteva
interessare di meno del perché la nipote di Njord fosse
lì nel cuore della
notte. Gli sarebbe importato molto di più sapere il motivo
per cui la ragazzina
aveva scelto proprio la sua poltrona per addormentarsi.
Lanciò appena uno
sguardo sbieco e rapido ai libri posati sul tappeto, ma poi i suoi
occhi finirono
inevitabilmente per salire con lentezza sulla lana in cui era avvolta
la Vanir,
sulla figura snella che intuiva sotto lo strato spesso di stoffa, sulle
ciocche
bionde sparpagliate sul bracciolo e sulle labbra leggermente schiuse.
La
coperta penzolava da un lato scoprendole appena la dolce linea del
collo e il
principio della scollatura rotonda del vestito. Indovinò che
indossava un abito
semplice e femminile, capace di esaltarle le forme senza accentuarle e
si
sposava fin troppo bene con la sua carnagione chiara. Loki si
stravaccò sulla
poltrona gemella, sistemata di fronte a quella dove dormiva Sigyn.
Non avrebbe
cambiato posto perché lì
c’era lei. Aprì un testo zeppo di rune e formule,
appuntandosi su una pergamena
brevi sunti dei punti più salienti. Ciò che i
Vanir non capivano, quello che
non riuscivano a interiorizzare e a far proprio, era che non bastava
accumulare
libri od ottenere una vittoria, per poter dire di essere potenti.
Occorrevano
costanza, determinazione e fermezza per mantenere i punti fermi
acquisiti e
accaparrarsene di nuovi. Se
ora Njord poteva
trattare da pari con gli Asi era perché lui, Loki Laufeyson,
si era preso
l’onere di guidare le sue armate e decidere le tattiche
militari migliori e
continuava a lavorare per non perdere terreno e prestigio. Era anche
per questo
che tutti gli dovevano qualcosa, a Vanheim. Alzò la testa
per sgranchire il
collo contratto, e il suo sguardo pungente e accigliato si
posò di nuovo su
Sigyn addormentata. Oltre l’orlo del corsetto che le fasciava
il busto sporgeva
la dolce curva del seno che si alzava e abbassava con placida lentezza.
Una
visione disturbante, piacevole, rubata e per questo più
intrigante, soprattutto
in quell’ora della notte in cui ogni rumore o pensiero veniva
ingigantito dal
buio. Una scena simile sarebbe capitata in un altro luogo, in un tempo
diverso,
ma identico sarebbe stato il desiderio.
“Sigyn.”
La svegliò lui? Pronunciò
veramente il suo nome? La ragazza stesa davanti a lui
sospirò stirandosi appena
sotto la coperta di lana e poi batté lentamente le palpebre,
aprì gli occhi
assonnati e gonfi, sussultando nel ritrovarsi il suo sguardo verde
addosso a
quell’ora, nella penombra della biblioteca deserta.
Era bella e non
lo sapeva. Si sollevò
rapidamente dalla poltrona, senza accorgersi del disordine in cui
versava,
spettinata com’era. Loki Laufeyson ne approfittò
per guardarla ancora e di
nuovo, crogiolandosi nel suo disorientamento perché amava
ammirare il caos,
quando se lo trovava di fronte.
“Dove
sei stato?” Una domanda
insolente detta con voce impastata, ma non priva di una nota di
estranea
dolcezza e di una familiarità che non avrebbe dovuto
esserci.
Sigyn lo
disapprovava apertamente eppure,
alle volte, lo guardava negli occhi e gli faceva quelle domande
assurde, perché
nella sua realtà fatta di libri e grandi ideali
l’ipocrisia dei Vanir era
un’offesa e la gentilezza andava elargita a tutti, persino al
dio degli inganni
con cui litigava ai banchetti. A Vanheim, Loki era un cortigiano
indispensabile
e scomodo allo stesso tempo che non faceva parte di nulla, di niente.
Lei
conosceva ciò che si diceva su di lui, aveva cognizione di
chi fosse e cosa
avesse fatto, eppure talvolta si permetteva di bacchettarlo,
apostrofarlo,
litigare, perché l’Ase avrebbe potuto scegliere di
essere dalla sua parte nelle
varie conversazioni che si tenevano a cena e forse sotto sotto lo era,
ma
preferiva lasciare che si arrangiasse e assecondava Njord per mero
comodo. Lei
questo lo sapeva e con quei suoi begli occhi grigi non glielo
perdonava, ma
talvolta ugualmente gli riservava la dolcezza che l’aveva
resa cara a Njord e a
molti altri. Era stata premurosa, ecco. Loki arricciò le
labbra in una smorfia
di disappunto, perché gli affondi della sua lingua affilata
e crudele erano
meno potenti, se venivano contrapposti alla gentilezza e alla cortesia.
“Ti
stai interessando dei miei spostamenti.”
Più che una domanda retorica era un’annotazione,
un appunto che sottendeva
quanto fosse stata inappropriata la sua battuta.
Sigyn
inclinò leggermente il capo da
un lato e si passò una mano tra i capelli in un altro dei
suoi gesti sensuali e
irresistibili che faceva con infinita grazia e totale inconsapevolezza.
Se non
fosse stata la nipote di Njord, Loki avrebbe ghignato di fronte alla
sua
bellezza e avrebbe cercato un modo per avvicinarsi di più a
quel corpo snello e
invitante. Solo che toccare Sigyn o anche guardarla troppo intensamente
era più
di un reato: se solo l’avesse sfiorata, gli sarebbe pesata
immediatamente sul
capo un’accusa di alto tradimento, perché nelle
vene che spiccavano sotto i
polsi chiari della ragazza scorreva il sangue della stirpe che aveva
governato
Vanheim da sempre. Loki strinse leggermente le palpebre affaticate e
scosse il
capo come se volesse scacciare un pensiero fastidioso; l’ora
tarda e la
stanchezza gli avevano fatto guardare per un attimo la bionda Sigyn in
una
maniera sbagliata, diversa.
“Stasera
a cena mi sono mancate le
tue battute. Tutto qui,” sospirò lei lanciandogli
un sorriso d’intesa.
“Da
quando le mie battute ti mancano,
principessa? Non ricordo una cosa su cui siamo mai stati
d’accordo.” Il titolo
servì a ristabilire gerarchie e lontananze, a rammentare
all’Ase quanto fosse
impossibile ottenere la ragazza di fronte a lui. Deliziosamente
impossibile.
“No.”
Sigyn guardò in basso, verso il
tappeto finemente intrecciato con fili blu, verdi, bianchi e dorati che
la
scarsa luce notturna rendeva un’unica macchia indistinta.
“Noi su alcune cose
la pensiamo allo stesso modo, solo che a te non conviene dirlo. Non lo
ritieni
utile.”
Loki si protese
verso di lei e rise, freddamente
divertito per la compita serietà di Sigyn che si fissava la
punta degli
stivaletti scuri.
“Sarei
ipocrita?”
La ragazza
scosse la testa e lo
guardò con aria affranta. La puntuale perifrasi
dell’Ase era stata scarna e
pungente, ma non esatta. C’era troppa crudeltà
nella definizione che aveva
dato. “Ti chiamano dio dell’inganno”,
spiegò. “Esibisci atteggiamenti che non
ti appartengono. Solo che questo modo di fare tu non lo mascheri
né te ne
vergogni. Non te ne penti. Sei tu e basta.” Si
alzò tirandosi appresso la
coperta di lana che ancora tratteneva il calore del suo corpo.
“Sembrerebbe
un’amara constatazione,”
fu la laconica risposta.
“Non
è amara. Davvero. Tu valuti se
appoggiare un punto di vista rispetto a un altro, ma non pretendi di
essere ciò
che non sei. Ti fai chiamare dio degli inganni: chiunque scelga di
parlare con
te sa già cosa rischia,” puntualizzò
Sigyn. “Discutevano del Solstizio,
stasera,” proseguì, “mancano ancora tre
mesi e già si preoccupavano di quanto
dovessero essere grandi e sontuosi gli addobbi e i festoni.”
“Una
conversazione irrinunciabile.”
“Appunto.
Me l’avresti resa più
tollerabile.”
“Proprio
tu dici questo? È la tua
festa preferita,” ricordò l’Ase giocando
con le pagine del volume che aveva
scelto di consultare quella notte.
“Lo
è perché vivo dentro queste mura.
Se fossi povera o senza una famiglia non lo penserei, ti
pare?” Sigyn si morse
le labbra. Non riusciva mai a dire la cosa giusta, quando parlava con
Loki.
Discorrere con lui era qualcosa di esaltante e terribile. La viva
intelligenza
di Lingua d’Argento la irritava, la spronava, la lusingava e
la conquistava
allo stesso tempo, provocandole un miscuglio di sensazioni che nessun
altro
interlocutore era capace di farle provare.
“Godi
di quello che hai, allora.”
Sigyn
aggrottò le sopracciglia, si
strinse di più nella coperta. La frecciata era stata
involontaria, e questo
l’Ase senz’altro lo aveva capito o forse non gli
interessava, anche se la piega
nostalgica delle sue labbra ironiche suggeriva altro e contrastava con
la
durezza del suo sguardo. La ragazza pensò anche a cosa
avesse e cosa, invece,
le mancasse, e scoprì che le assenze avevano un retrogusto
amaro, come la
festività sontuosa e inevitabilmente tragica che si
avvicinava. No, gli occhi
di Loki non erano severi e protervi, tutt’altro. In loro
c’era un rimpianto
oscuro che lei non poteva conoscere né toccare.
“Le
Norne non hanno filato per noi un
destino eterno, Sigyn. Tutto quello che abbiamo, che odiamo, che
desideriamo
finirà, prima o poi.” Glielo disse senza
guardarla, continuando a sfogliare
distrattamente le pagine scritte fitte del volume, ma alla ragazza
sembrò che
il dio degli inganni stesse cercando non di convincere lei di quanto
fossero
provvisori e fugaci i mondi retti dall’Yggdrasill, ma se
stesso. Se ci fosse
stata una maggiore confidenza tra lei e l’Ase, forse Sigyn si
sarebbe
arrischiata a domandargli il motivo per cui parlava come se avesse
diverse
migliaia di anni sulle spalle, ma lei e Loki non condividevano nulla se
non
l’ironia con la quale alle volte osservavano quanto fosse
ipocrita il mondo e
un certo interesse per i libri, così tacque.
Addentrarsi in
una conversazione
sulla caducità dell’esistenza sarebbe stato
affascinante, ma la notte era
troppo profonda e dietro il sorriso laterale e breve di Lingua
d’Argento c’era
un’inquietudine che la ragazza riconobbe come pericolosa, in
qualche modo.
“Credo
che mi preparò una tisana, per
dormire,” annunciò. “Potrei farla anche
a te.”
Il dio degli
inganni le puntò addosso
il suo sguardo trasparente e aguzzo, come se volesse valutare le sue
reali
intenzioni. “Non c’è bisogno,”
si affrettò a rispondere ripristinando
all’istante posti e ruoli.
Sigyn
sospirò allontanandosi “Potrei
farne troppa comunque e lasciarla nelle cucine,” concesse
esitando, e sparì
nell’ombra assieme al suo profumo.
***
Loki
tornò ad Asgard quando mancava appena
un mese al Solstizio. Lo fece sfruttando sentieri noti a lui solo, con
il
favore delle tenebre. Thor gli aveva detto che Odino era peggiorato, e
anche se
si era ripetuto mille volte che ogni sua curiosità era stata
soddisfatta e non
voleva più vedere il disfacimento fisico e mentale
dell’uomo che aveva chiamato
padre, si era ritrovato suo malgrado a calpestare di nuovo la terra
brulla
degli Asi già ricoperta di soffice neve. Non si tolse il
mantello, al cospetto
di quello che era stato il sovrano di Asgard. Si lasciò
cadere sulla poltrona
più vicina osservando la figura indaffarata
dell’uomo che gli aveva insegnato a
trattare e a mentire e che, nascondendo sotto un’espressione
indecifrabile
l’ammirazione, si era accorto per primo del suo talento con
le Rune***. Se solo
glielo avesse detto.
Odino rovistava
nei cassetti e negli
armadi e sembrava non prestargli alcuna attenzione. Di tanto in tanto,
alzava
il suo unico occhio su di lui per esortarlo a cercare delle pinze, un
po’ di colla
o a prestargli uno dei pugnali che gli scintillavano al fianco e che il
vecchio
intravedeva sotto il mantello.
“Sei
pigro, sei pigro. Vivere lontano
da Asgard anziché fortificarti ti ha reso debole,”
sentenziò con voce
stentorea.
Loki attese
prima di rispondere,
chiedendosi una volta di più come facesse, la mente
scollegata di Odino, a
cogliere e a riconoscere in maniera sorprendente alcuni dettagli e
ignorarne
completamente altri. Forse aveva registrato il pesante mantello di lana
e aveva
notato i fiocchi di neve che erano rimasti aggrappati sulle sue spalle,
ragionò, ma questa spiegazione, per quanto fosse plausibile,
non bastò a
placare la sua inquietudine.
“Per
cosa?” domandò inclinando il
capo.
Padre Tutto lo
fissò come avesse due
teste o fosse ubriaco. “Lo hai sentito prima, no? Non riesco
a sopportare che
stia così e che mi guardi a quel modo. Devo fare qualcosa, e
ci riuscirei, se
solo trovassi le mie pinze.”
Se Thor era
stato più volte preso a
bastonate da Odino e scambiato per un ladro, il motivo era da imputarsi
solo e
soltanto alla sua scarsa, anzi inesistente capacità di
adattarsi alle
circostanze, rifletté Loki. Di fronte alle domande e alle
azioni del fratello
il vecchio genitore si innervosiva, perdendo ancora di più
il filo dei suoi
ragionamenti labili. Con lui, in effetti, generalmente era
più calmo perché lo
assecondava adattando risposte e reazioni al momento.
Batté
le palpebre, espirò con forza.
“Certo. Hai provato in quel cassetto?”
Aveva indicato
uno spazio qualunque
della stanza, ben consapevole di ritrovarsi all’interno di
una recita senza sapere
il ruolo che gli era stato assegnato. L’attimo di
disorientamento, l’istante in
cui Lingua d’Argento osservava suo padre chiedendosi cosa
l’altro vedesse al
suo posto, rappresentavano non solo per Thor, ma anche per lui un
momento di
puro, incalcolabile panico.
Odino
seguì il suo sguardo, si
accarezzò la barba bianchissima. “Può
darsi, in effetti.”
“Potresti
aspettare domani,” lo interruppe
Loki. “Non credo se la prenderà. Ormai
è sera: beviamo un po’ di idromele e
raccontiamoci qualche vecchia battaglia,” propose.
Odino
aggrottò la fronte e, per un
attimo, il suo occhio azzurro recuperò la severa durezza dei
passati fasti.
“Tu
non hai figli e non sai che vuol
dire vederli tristi.”
Lingua
d’Argento si mosse
nervosamente sulla poltrona. “Li vizierai.”
“Ma
figurati!” rise Odino. “Saranno
Asi. Cresceranno forti e sani e guideranno le mie armate,”
preconizzò con una
voce traboccante orgoglio. Strano, perché lui e Thor avevano
comandato
innumerevoli volte le truppe scelte di Asgard, e raramente il sovrano
era
sembrato soddisfatto del lavoro svolto. Quando il dio degli inganni non
era che
un ragazzo, capitò che rimanesse ferito durante un assalto.
Aveva perso i sensi
ed era svenuto in mezzo al sangue e ai cadaveri degli altri soldati.
Fortunatamente, Thor era riuscito a trovarlo e a trarlo in salvo,
caricandoselo
letteralmente sulle sue forti spalle. Odino lo aveva raggiunto quando
ancora
era ricoverato nell’infermeria del campo e, fissandolo
dall’alto in basso senza
soffermarsi con troppa attenzione sulle bende ben visibili che si
incrociavano
sul suo torace, gli aveva rivolto parole dure e secche. “Sei
tu che devi
mettere in salvo le Armate che ti affido, e non viceversa.”
La soddisfazione
non era nella sua natura, ma nemmeno in quella del suo vecchio padre,
rifletté.
Fu colto da un’idea crudele.
“Tutti saranno Asi, Odino? Che ne
sarà del figlio del gigante?” insinuò.
Un tremito.
L’anziano sovrano
interruppe la sua ricerca e aggrottò le sopracciglia
bianche. “È mio figlio.”
Loki si
alzò e gli girò attorno
incurante, per una volta, delle reazioni che avrebbe potuto avere
quell’uomo
stanco e malato di fronte alle sue parole. “No, e lo sai. Un
giorno scoprirà la
verità e sarà peggio.”
“Definisci
peggio.”
“Potrebbe
rivoltare le sue armi
contro di te.”
Odino
illividì e gli puntò il dito
contro. “Cosa dici, Vili? Hai forse smesso di bere al solo
scopo di diventare
insopportabile? Che ne sai tu, di Loki? Hai forse parlato con le
Norne?”
Lo aveva
apostrofato con il suo tono
più duro e tagliente, non privo di un certo crudele
sarcasmo. Il dio
dell’inganno si ritrasse appena, sorpreso per la reazione
caustica del
genitore. Ecco chi era, nella mente svagata di Odino: Vili****, il
fratello che
aveva scelto di vivere abbarbicato sui monti perennemente ricoperti di
neve posti
molto a nord di Asgard. Un guerriero dal fare spiccio e dai modi
decisamente
discutibili, non particolarmente buon visto a corte; un eremita
solitario che
Padre Tutto non era mai riuscito completamente a gestire e di cui
disapprovava
apertamente abitudini e pensieri, legato alla più pura
tradizione degli Asi.
Vili era un predone che aveva scelto di rifiutare la politica pacifista
che
Odino aveva abbracciato a un certo punto del suo regno, quando Thor era
nato.
Le divergenze sorte erano state tali che il fratello del re aveva
deciso di
vivere per conto proprio, palesandosi solo di rado ad Asgard. In
un’altra
occasione, Loki avrebbe trovato un filo offensivo il paragone, ma non
quella
notte.
“Prevedo
solo l’ovvio risultato di un tuo
comportamento,” precisò con voce cattiva
allargando le braccia. Non gli
interessava imitare Vili, né rispondergli in modo coerente
con il personaggio.
Le Norne avevano filato che non potesse esserci alcun chiarimento, tra
lui e
suo padre, ma sembrava si divertissero a tormentarlo con quelle recite
fini a
se stesse, dove Loki poteva parlare, sì, ma con
l’ombra sbiadita di Odino,
nient’altro. Sfidando la prudenza gli si avvicinò
fin troppo, tanto da vedere
il rancore e l’odio nell’unico occhio azzurro
dell’altro.
“È
mio figlio,” ripeté il vecchio
quasi tremando, avendo cura di scandire ogni sillaba con precisione.
“Non
l’hai portato qui con buone
intenzioni, e lo sai.”
“L’ho
cullato quando piangeva,
consolato quando era malato e accudito dal primo istante in cui
l’ho trovato su
quel picco di ghiaccio,” ricordò Odino.
“Tu c’eri! Tu hai visto dove lo avevano
abbandonato a morire, da solo,” tuonò, incapace di
contenere l’ira per l’accusa
che lo aveva tormentato per una vita intera.
“Se
non fosse stato il figlio di
Laufey, lo avresti fatto?” Era crudele, il dio degli inganni,
come solo un Asi
o uno Jotunn, nei Nove Mondi, poteva essere. Provava un piacere tutto
suo nel
rimirare gli avversari sconfitti: persino quando era stato rinchiuso
nelle
celle sotterranee di Asgard, non aveva resistito dal cercare con lo
sguardo i
prigionieri che scontavano lì la loro pena a causa sua, per
il solo gusto di
compiacersi della loro disperazione.
“È
un piano che mi è sfuggito di
mano, d’accordo,” ammise Odino tremando.
“Non lo avrei accolto nella mia casa,
se non fosse stato il figlio di Laufey, ma poi, poi,
è diventato mio figlio, Vili. Quando ha mosso i primi passi
e
iniziato a parlare, era già mio. E adesso passami almeno
della colla per
riparare questo giocattolo,” insistette.
Gli occhi di
Loki assunsero una
trasparenza quasi liquida. “Se lo sono conteso?”
sussurrò.
“Come
sempre, come tutto,” scosse il
capo il vecchio re, “ma Loki adora questo drakkar e voglio
ripararglielo.”
“Non
lo farai mai. Non ricordo tu
l’abbia mai fatto.”
La voce di
Lingua d’Argento era bassa
e roca e piena di un rimpianto incolmabile, insuperabile. Quella non
era la
realtà né la replica di qualcosa accaduto anni
prima. Si trattava
dell’esternazione di un antico rammarico di suo padre per un
momento che non si
era verificato, un gesto che non aveva avuto il tempo di compiere.
Qualunque
cosa fosse, faceva male a entrambi e basta, perché non
leniva le ferite del
passato né poteva risanare gli strappi in vista del futuro.
“Potrebbe
essere su quella mensola, è
sempre tutto in disordine qui.” Odino cercava ancora gli
strumenti per riparare
quel giocattolo fantasma che era stato distrutto da tempo e il dio
degli
inganni nemmeno ricordava.
“Avresti
potuto dirlo quando Thor mi
riportò in catene, dopo Midgard. Invece mi
condannasti.”
Incurante di
aver gettato la
maschera, osservò l’anziano genitore continuare ad
arrovellarsi nella sua
ricerca vana, consapevole di non stare parlando più con suo
padre, ma con
l’ombra sempre più inconsistente che era rimasta
di lui, fatta di brandelli di
ricordi, volontà e desideri, incapace di riconoscerlo o di
avere qualsiasi tipo
di conversazione. Odino era morto quando una notte si era sentito
soffocare e
il suo cervello era rimasto isolato un momento di troppo.
Ciò che rimaneva, era
un guscio vuoto che talvolta sembrava ascoltarlo e comprenderlo,
impossibile da
ascoltare.
“…
Ma dov’è la barca, Vili? Non la
trovo.”
Non
tornò più ad Asgard fin quando
Odino visse.
***
Le Norne sono
beffarde, ironiche,
crudeli. Giocano con il tempo in maniera imprevedibile, caotica, quasi.
Per
questo Loki Laufeyson ne ammirava spesso l’operato
fantasioso; il modo becero
in cui talvolta intrecciavano tra loro i destini e gli eventi era
divertente
agli occhi di chi, come lui, fingeva di non provare rimorsi per nessuna
azione.
Un pomeriggio nevoso anche il suo filo vibrò, e non
importò alle tre filatrici
che la loro vittima stavolta fosse proprio il dio
dell’inganno in persona. Del
resto, il fiero Ase avrebbe finito per accettare con principesca grazia
l’ennesima sarcastica trovata delle tre creature. Il punto
è che il tempo
scorre anche nei Nove Mondi legati tra loro dall’Yggdrasill,
il frassino sacro,
ma talvolta si arrotola e pare ripetersi in un circuito senza fine
né
cognizione.
Per Loki il
cerchio si chiuse quando erano
passati ormai diversi anni dalla sera grigia e triste in cui aveva
lasciato
senza voltarsi la stanza di Odino. Si ritrovò tra le mani un
giocattolo rotto,
il modellino di un drakkar. Rigirandoselo tra le dita ne
osservò l’albero
irrimediabilmente spezzato. Riconobbe la manifattura propria degli Asi
e
ipotizzò che dovesse trattarsi di un regalo di Thor.
Sua figlia era
entrata nello studio
come un tornado, arrampicandosi con proterva indifferenza sulle sue
gambe per
mostrargli il terribile danno. “Non adesso,
Sonje*****,” le aveva risposto con
voce severa.
Doveva scrivere
almeno una decina di
lettera, prima di potersi alzare da quella sedia. Missive urgenti che
giacevano
già da troppo tempo sulla bella scrivania di frassino dalle
zampe intarsiate.
Poi però vide gli occhi disperati della bimba già
in lacrime, grigi, rotondi e
dolci come quelli di lei, e disse
che
gli serviva un taglierino e della colla e, dopo aver pronunciato quella
frase,
si bloccò un momento, perché così
aveva detto Odino durante il loro ultimo
incontro. Di fronte al destino che si replicava con straziante e
impietosa
puntualità, non poté far altro che mascherare
sotto un sorriso storto e mesto e
una carezza distratta ai ricci neri della figlia, l’acuta
nostalgia per quel
vecchio crudele e spietato, bugiardo più di tutti, che lo
aveva ingannato e
solo nella pazzia gli aveva mostrato un pizzico di dolcezza. Troppo
tardi, si ripeté
per l’ennesima volta.
Sonje
alzò lo sguardo umido e
supplichevole verso l’Ase. “Non si può
riparare papà? È rotta per sempre?”
Già
le lacrime le bagnavano le ciglia
lunghe e nere. Il dio degli inganni si chinò verso di lei.
“No, questa no. La
aggiustiamo. Serve della colla,” ripeté e mentre
la bimba gli buttava le
braccia al collo, si mise a cercare l’indispensabile
armamentario che la mente
persa del vecchio Odino, una sera lontana, non aveva potuto trovare.
Per la
prima volta dopo molto tempo, gli parve di provare una sorta di
nostalgica
pietà per quel sovrano spietato che lo aveva tirato via da
un picco di ghiaccio
e gli aveva mentito per tutta la vita. Riparò
l’albero del drakkar spezzato e,
mentre lo faceva, Sonje rimase a fissarlo riempiendolo di mille
domande, perché
Loki Laufeyson si era messo a raccontarle le storie ormai lontane del
regno che
era stato di Odino e di come il Re degli Asi avesse combattuto persino
nella
terra dei ghiacci perenni, Jotunheim.
“Il re
degli Asi è zio Thor,” notò la
piccola a un tratto assottigliando gli occhi grigi.
“Odino
era suo padre.” Una pausa, una
smorfia impercettibile increspò le labbra concentrate di
Lingua d’Argento.
“Nostro padre,” si corresse.
Sonje non fu
l’unica ad ascoltare
quelle storie. Anche Sigyn le udì, oltre la porta socchiusa.
Sporgendosi appena
nello studio del marito, colse l’immagine del dio degli
inganni che consegnava
il giocattolo aggiustato nelle mani della loro saltellante ed
entusiasta bimba,
e le si strinse suo malgrado il cuore nel vedere la figura alta e
nervosa
dell’Ase chinarsi per ricevere dalla piccola un sentito
abbraccio e un sonoro
bacio sulla guancia. Poi Sonje si girò verso la porta e le
corse incontro per
mostrarle il prodigio di quella riparazione esemplare e perfetta. La
principessa dei Vanir sorrise al dio dell’inganno che
tornò ad occuparsi delle
sue molte scartoffie.
“Sto
preparando una tisana. Te ne
porto una tazza?” domandò prendendo per mano la
figlia.
Loki le
puntò addosso il suo sguardo
trasparente e aguzzo, come se volesse valutare le sue reali intenzioni
e capire
quanto avesse ascoltato delle storie appena raccontate. “Non
mi dispiacerebbe,”
rispose abbassando gli occhi verso la lettera che stava scrivendo.
Caro Lettore,
La neve che ha
imbiancato le città i
questi giorni ha fatto slittare – nota il gioco di parole, ti
prego, la
pubblicazione di questa storia che si inserisce nell’universo
di “Tutte le tue
bugie”. Ti aspettano altre storie legate a quella long fic,
oltre a un seguito
più corposo, quindi… tieni gli occhi aperti! Ma
veniamo a noi. Finalmente ti ho
svelato Sonje: ebbene sì, la nostra coraggiosa Sigyn era
incinta di una bimba.
Che dire? Come al solito ti ringrazio del tuo tempo e di essere giunto
fino a
qui. Se te la senti, fammi sapere cosa ne pensi lasciandomi un
feedback,
lanciandomi una ciabatta virtuale, scrivendomi una riga, o che so io. A
presto.
*Uno dei nomi
dati ad Odino dai
norreni è quello di “dio delle forche,”
perché fu impiccato all’albero
dell’Yggdrasill, ma questa è un’altra
storia.
**In questa
storia, Njord è l’anziano
re di Vanheim, nonno di Sigyn e padre di Freyr e Freya. La mitologia
norrena è stata
stiracchiata all’occorrenza, dato anche lì Njord
è padre di Freyr e Freya ma
non c’è alcun legame con Sigyn.
***Nella vulgata
dei film di Thor, è
Frigga, la moglie di Odino, la maga della situazione. In
verità anche Padre
Tutto utilizza incantesimi.
****Vili nella
mitologia norrena è
veramente il fratello di Odino, ma il suo carattere me lo sono
inventato.
*****Nel mito,
Loki e Sigyn sono una
coppia con due figli maschi. Nell’universo che ho creato
hanno una figlia
femmina, Sonje. Il nome dovrebbe significare qualcosa come saggezza,
stando a
una rapida consultazione di Google.