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Autore: Neferikare    03/03/2018    1 recensioni
Dopo l'ultimo delirio di onnipotenza di Pitch Black, per i Guardiani è iniziato un periodo di relativa pace e calma piatta, uno di quelli che fanno pensare al lieto fine delle favole.
Un periodo che non è però destinato a durare, dopo l'improvviso quanto casuale arrivo di una stella cometa fin troppo ubriaca per capire le conseguenze delle proprie azioni tutt'altro che responsabili, conseguenze che hanno il volto di un antico nemico dimenticato in un Abisso da tutti.
O almeno quasi, tutti.
Perché nulla è per sempre, nemmeno la pace.
Nemmeno l'amore.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri | Personaggi: Altri, I Cinque Guardiani, Manny/L'uomo nella Luna, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Se non ci fosse stata la regina a guidarli, si sarebbero sicuramente persi nella foresta dopo nemmeno un centinaio di metri.

Alberi alti quanto palazzine talmente fitti da fare ombra tutt’intorno, immensi tronchi nodosi con insenature così profonde che ci si poteva accomodare dentro in più persone, gigantesche radici che spuntavano qua e là dal suolo come vere e proprie braccia demoniache, pronte a trascinare lo sventurato di turno negli inferi dal quale parevano provenire.

E c’erano liane, soprattutto liane.

Fottutissime liane muschiate che pendevano ovunque, finendo per attorcigliarsi intorno agli arti, al corpo, addirittura al collo come tentacoli di una piovra; in più di un’occasione si erano ingarbugliate ai capelli di un povero Phobos che -puntualmente- iniziava a gridare come una ragazzina fra le risate generali, salvo poi ridere lui quando Emily Jane -che in quei momenti di scherno certo non si era contenuta- si prese un mezzo infarto a sentire “un serpente su per il culo”, reduce com’era dal vivido ricordo della gita nei boschi del Galles con papà.

La regina, invece, strisciava sicura e decisa in mezzo a quel suolo tanto ombroso quanto lussureggiante: si muoveva piano, silenziosamente, quasi non volesse disturbare la foresta stessa con la sua presenza, trovando comunque il tempo di parlare con le sue serve.

Era un’abile conversatrice, bisognava riconoscerglielo: sempre con la risposta pronta, sempre disposta a mettersi in discussione e ascoltare le opinioni altrui con estremo interesse, sempre con quel suo tono così vispo e allegro che avrebbe reso affascinante anche la narrazione di “Guerra e Pace” a un sordo.

O a due loschi figuri che giravano con abiti da danzatrice del ventre, insomma.

«Airë Tári Phentesilea, potrei farvi una domanda?» prese parola Madre Natura mentre attraversavano un fiume, il ponte formato dal tronco di un enorme albero cresciuto quasi orizzontale al terreno.

«Certamente, carissima, qualsiasi cosa».

«Non ho potuto fare a meno di notare che il vostro harem è composto anche da altre Ophidians, sebbene siano in numero esiguo rispetto a schiave di altre razze, e che anche loro indossano questo» si toccò il collare dorato «sono schiave, forse?»

Tornarono sulla terraferma, per la gioia di una certa schiava rossa dal dubbio sesso che si aggrappava agli scivolosi rami coperti di fiori per il terrore di cadere e fare “splash” come un Magikarp.

«Lo sono, infatti» rispose la naga a voce bassa «ed è la fine peggiore che una regina possa desiderare di fare, quella di diventare concubina di un’altra regina. Specie quando finisci per diventarlo di una tua intima conoscente, un’amica d’infanzia, una parente».

«Addirittura?»

«Addirittura, sì».

La serpentessa invitò entrambi a sedersi con lei su un masso piatto e largo.

«È una triste realtà, lo riconosco, ma è la realtà di Quetzalli, della mia casa, della mia gente, ed è socialmente accettata e incoraggiata: quando un’Ophidians nasce, lo fa con l’obiettivo di possedere più schiave possibili, e la consapevolezza che finirà schiava a sua volta, se non riuscirà nel suo intento».

«È una pressione psicologica non indifferente, per delle bambine» osservò la figlia dell’Uomo Nero, lei che pensava che i compiti scolastici fossero già abbastanza oppressivi da soli «come fanno a reggere una situazione del genere?

«Non hanno scelta, devono farlo. In caso contrario…» fece una breve pausa «… finiscono come le sorelle di Airë Tári Antiope. Chiedete a qualsiasi mia concittadina, e vi racconteranno come sono tutte quante finite a far parte dell’harem della loro “sorella alpha”, come ama definirsi lei stessa. E Antiope è considerata alla pari di mostro, dalle sue serve, per cui vi lascio immaginare come se la passano quelle poverette».

Colse da un albero un frutto simile a una melagrana azzurra e verdognola, aprendolo e passandolo agli altri.

«Se una regina sfida un’altra regina con lo scopo di appropriarsi del suo harem, non solo quella perdente e tutti i suoi averi diventano legittimamente proprietà della vincitrice, non solo lo diventano le sue concubine, ma -ahimè- alla sua consorte e alle sue figlie tocca lo stesso destino».

«Anche le figlie?» ripeté il rosso, incredulo e col cibo ancora in bocca «Come è possibile? Non hanno colpe se le loro madri sono delle incompetenti nel combattimento!»

«È precisamente ciò che pensiamo io e mia moglie, Airë Tári Hippolyta, e infatti nel nostro harem non sono presenti i familiari delle regine sconfitte, e mai ci saranno» convenne, accennando un sorriso tanto dolce quanto severo. Che svanì poco dopo, però «Se la regina vincitrice lo ritiene opportuno, ha la facoltà e la libertà di concedere la grazia all’altra, rinunciando al rendere schiava lei, o almeno la sua famiglia. Fortunatamente, la concessione di una grazia va per la maggiore, non tutte sono assetate di schiave».

«Ma alcune lo sono, immagino».

«Mi duole confermarlo, ma è così» sospirò rassegnata.

«Ci sono regine disposte a tutto pur di superarne altre, regine come Antiope, che -per questo- finiscono per attaccare sovrane ancora giovani sapendo bene di avere vittoria facile, prendendosi loro e tutto il pacchetto al seguito senza vergogna alcuna». Strinse forte il frutto fra le dita diafane, sporcandosele del succo giallastro «Non c’è proprio nulla di cui vantarsi in un gesto del genere, non è una vittoria onorevole se una delle parti combatte con un bastone di legno e l’altra con una lancia di ferro, né tantomeno se sodomizzi una madre davanti alla sua stessa figlia “per insegnarle il suo futuro mestiere”. Eppure succede,  Phoebe, succede eccome…» gli occhi le divennero lucidi «e noi lo permettiamo. Lo sosteniamo, Lo incoraggiamo».

Probabilmente emotivamente provata da quei discorsi, l’Ophidian si tirò la coda al petto e ci poggiò la testa sopra, lasciando cadere mollemente le braccia lungo i fianchi prima di cingersi la testa con le stesse.

Il tonfo della melagrana a terra spezzò il silenzio della foresta.

«State bene, Airë Tári Phentesilea?» le domandò Phobos, mettendole una mano sulla spalla come se fosse realmente preoccupato «Volete tornare indietro? Devo chiamare qualcuno?»

«Sto bene, Phoebe, ti ringrazio» si sforzò di sorridergli, il volto stanco e gli occhi lucidi «stavo solo… riflettendo».

«Su cosa, se posso chiedere?»

«Sul fatto che sia una società tremendamente sbagliata, la nostra» mormorò.

Si alzò, strisciando fino al ciglio del precipizio appena attraversato.

«Che ci crediate o no, non siamo sempre state così, noi Ophidians. C’è stato un tempo dove vivevamo in pace e armonia col il resto della gente di Exodus, in cui eravamo guerriere il cui orgoglio e forza erano ammirati e applauditi da tutti, è esistito un passato che dove le nostre bambine giocavano serene e contente con i figli degli “stranieri venuti di là dalle montagne”, come definiamo oggi coloro che stanno al di fuori di Quetzalli. Pretendiamo di aver dimenticato tutto questo, fingiamo che non sia mai successo, ma non tutte riescono o vogliono farlo».

Guardò la propria immagine riflessa nell’acqua, contemplando con sguardo assente i lineamenti deformati dalla corrente.

«Abbiamo distrutta l’entrata della città settecento anni fa, ma l’isolamento è iniziato prima, molto prima: è stato lento, graduale, silenzioso, è passato inosservato tanto ai nostri occhi quanto a quelli altrui. Quando il ponte è crollato, nessuna di noi era veramente pronta ad abbandonare il mondo esterno».

«E per quale motivo lo avete fatto comunque?» chiese il rosso, incuriosito e confuso.

La regina, di tutta risposta, fece spallucce.

«Non avevamo scelta. Nessuno ci voleva, ma eravamo troppo orgogliose per lasciarci chiudere fuori dal mondo, così abbiamo chiuso noi il mondo fuori per prime, convinte com’eravamo e come siamo tutt’ora che Quetzalli sia un paradiso dorato nel quale vivere… ah!»

Con la coda, lanciò sbadatamente un sasso nel fiume; rimase ipnotizzata a lungo a osservare le onde concentriche create dall’impatto della pietra con la superfici dell’acqua.

«Quetzalli mi ha portato via una figlia, sette secoli or sono, l’unica e sola figlia che abbia mai avuto» sussurrò dopo un po’, con gli occhi lucidi.

«Nessuna mia simile ha mai capito cosa io provassi e cosa attualmente provi a vivere come una madre a metà, mutilata della creatura che ha messo al mondo, si sono sempre interessate di più al numero delle mie concubine che al dolore che mi stava dilaniando… che mi dilania ancora oggi…» le lacrime iniziarono a rigarle le guance pallide «persino mia moglie non capiva, all’inizio, tante volte mi sono chiesta se ci soffrisse anche lei o se io fossi l’unica a starci male. Ai tempi, mi consolava e mi diceva “Se un’altra figlia può farti stare meglio, allora possiamo farla,  nemmeno stessimo parlando di un giocattolo rotto che si può sostituire. Ora si limita a non parlarne e basta... ed è meglio così: non voglio che viva anche il mio dolore, ha già abbastanza cose di cui occuparsi all’interno del Calaciryandë».

Ci furono lunghissimi attimi di silenzio che parvero non finire mai, dopo quella frase, un silenzio talmente intimo che né Phobos né Emily Jane -dall’alto del loro essere lì solo per puro interesse- si azzardarono a profanare dicendo qualcosa.

A spezzarlo, solo i singhiozzi e la lacrime di Phentesilea.

«Devo vivere tentando di convincere me stessa e chi mi circonda di non aver mai messo al mondo una figlia, di non essere mai diventata madre. Devo dimenticare di avere una parte della mente costantemente preoccupata per lei, anziché fingere che sia morta come fa mia moglie, come fanno tutte. Devo negare di immaginarmi la mia piccola affacciata alla finestra a guardare la Luna là, a Phantasia, mentre lo sta facendo anche sua madre qui, a Quetzalli, ogni sera, quando calano le tenebre e resto sola coi miei pensieri, coi miei demoni. Allora, la mia unica consolazione è il sapere che la Luna che guardiamo è la stessa, quindi non possiamo essere poi così distanti».

«A Phantasia?» intervenne Madre Natura, piegando la testa.

«È lì che abita mia figlia, alla corte della regina Harmonia» confermò la serpentessa, asciugandosi intanto le lacrime «è la sua partner, oltre che la prima dei suoi generali, per cui-»

«Voi siete la madre di Myricae?!!»

 

In quel preciso istante, i neuroni della Pitchiner si presero una pausa.

Quella era la madre di Myricae.

Quella.

Aveva davanti la stramaledetta madre di quella stramaledetta naga che voleva nella tomba tanto quanto ci volesse l’altra stramaledetta centauressa dal culo spanato che rispondeva al nome di Harmonia.

Avrebbe potuto, voluto, farle di tutto, l’occasione c’era ed era succulenta come non mai!

A dirla tutta, si sarebbe chinata volentieri ai suoi intinti anche solo per colpire trasversalmente quelle dannata Ophidian dalle squame color smeraldo, più che per fare del male a una creaturina fragile e delicata com’era la sua mammina. Emotivamente distrutta e indifesa com’era, sicuramente Phentesilea non avrebbe opposto resistenza alcuna alla lama di un coltello che le affondava nella gola, occupata com’era a compiangere la sua figliola perduta sarebbe stato un lavoro di una semplicità talmente disarmante da sentirsi quasi in colpa, un po’ come rubare le caramelle a un bambino senza braccia.

Quasi, appunto, perché certo non si sarebbe pentita.

Quando toccò il pugnale che si teneva alla cintola, però, Emily decise improvvisamente di scacciare quei pensieri dalla sua mente: doveva restare lucida, attenersi al piano e non dare nell’occhio, ora.

Finché non avessero avuto conferme della posizione dello scettro, qualsiasi azione o gesto avventato sarebbe stata troppo rischioso; doveva prendere fiato, calmarsi e, soprattutto, non fare domande o insinuazioni sospette che non fossero inerenti a ciò che potevano sapere di loro o aver ascoltato, così da mantenere la copertura fino al momento propizio.

“Dovere”, sempre quel verbo in mezzo: e doveva fare questo, e doveva fare quell’altro, e doveva sottostare agli ordini di un disgraziato che pareva appena uscito da un centro per la riabilitazione degli alcolizzati cronici.

Doveva farlo lei, la regina di Tandokka.

La regina.

Re-gi-na.

Regina che, adesso, pensava solo una cosa: “che il piano si fotta”.

 

«Sono la sua Amìl, sì… ma voi come fate a sapere il nome di mia figlia?» domandò sorpresa la naga, alzandosi «La conoscete? L’avete vista? Ci avete parlato, forse? Come-»

«No no no no no, nieeeeeeeeente di tutto ciò! Ma va! Si figuri!» si affrettò a chiarire Phobos, agitando nervosamente le mani davanti a sé. Esibì il sorriso più falso che riuscì a racimolare in mezzo alle gocce di sudore che gli imperlavano la fronte «Abbiamo sentito parlare di lei, ma non la conosciamo di persona» si girò verso la sua compagna, dandole un vigoroso colpo di gomito sul braccio «vero, Emilia Gianna? Vero, che non conosciamo affatto la tenerissima figliola della regina? Vero

Lei, girata di spalle, si limitò a ridacchiare.

«Airë Tári Phentesilea?» la chiamò dopo un po’, atona.

«Sì, cara?»

«Lo scettro di Madre Natura si trova al tempio di Medusa, immagino».

A quelle parole, l’Ophidian si paralizzò: gli occhi sbarrati, il respiro ridottosi a un flebile soffio appena percettibile, il volto contratto in una smorfia di puro terrore.

«C-come lo s-sai?» fu l’unica frase che, a stento, riuscì a pronunciare mentre tremava «Chi… chi t-te l’ha d-de-detto?»

L’altra si voltò, sorridendole.

«Voi. Proprio ora».

 

«Cosa? I-io? Io n-non… n-n-non…» balbettò la regina indietreggiando, le pupille che guizzavano da un alto all’altro degli occhi a studiare i volti di quelle che -fino ad ora- aveva creduto essere semplici schiave. Si fermò quando la sua schiena incontrò il tronco di un albero.

Priva di vie d’uscita, circondata su tutti i fronti, senza la minima speranza di avere la meglio in uno scontro corpo a corpo, Phentesilea fece l’unica cosa che era nelle sue possibilità: urlò.

O almeno, tentò di farlo.

Stava per aprire la bocca per chiamare aiuto, quando il fiato le morì in gola.

«Grida, e ammazzerò tutte le bambine di questo buco città» la minacciò il rosso, stringendola a sé grazie all’avambraccio intorno al collo. Mantenne la presa finché non vide la pelle bianca diventare bluastra, e nemmeno allora la liberò.

I tentativi della donna di divincolarsi da quella morsa furono inutili, considerata la scarsità di muscoli nel suo esile corpo.

«Ho un branco di leoni neri pronti a sbranarle, quelle piccole e dolci Ophidians dalle squame ancora tenere. Aspettano solo un mio ordine per avventarsi sui loro corpicini inermi e usarle come gomitoli, per cui» estrasse un pugnale dalla tasca, facendoglielo scorrere dal collo alle labbra, un rivolo di sangue che le colò dalle stesse «non ti conviene urlare o anche solo pensare di poter avvertire chicchessia della nostra presenza, bellezza».

«Non le ba-bambine, non l-loro» mormorò la regina, in lacrime «fatemi ciò che volete, qualsiasi cosa vi venga in mente, ma non toccate le bambine: torturatemi, stupratemi, uccidetemi se volete, ma non fate loro del male, v-vi… vi p-prego, vi prego!»

«Uh-uh, che mammina sentimentale e coraggiosa che abbiamo qui, addirittura disposta a immolarsi e prostituirsi per delle mocciose!»

Certo che lei non avrebbe fiatato, le tolse il coltello dalla bocca; con tocco lento ma inesorabile, lo fece scivolare fino alla sottile catenella argentata che reggeva la setosa stoffa che le copriva il décolleté. Un rapido movimento del polso, e quella si spezzò senza difficoltà, lasciandola a seno scoperto.

«Quasi quasi, un pensierino sulla tua seconda offerta ce lo farei pure, ora che mi ci fai pensare» le sussurrò all’orecchio, leccandoglielo, incurante dei mugolii sommessi dell’altra «sono proprio curioso di vedere come-»

Uno scappellotto sulla nuca da parte di Madre Natura lo interruppe.

«Non siamo venuti qui per divertirci, idiota!»

Le lanciò un’occhiataccia terribile «Ma tu-»

«Ma io ho scopato con lei per avere informazioni utili a entrambi, che è ben diverso dal farlo per sfogare i propri ormoni» lo anticipò, zittendolo.

Si avvicinò a Phentesilea, in preda ai brividi. Tirò una liana a sé, strappandone un filamento col quale ricompose alla bene e meglio l’agganciò lacerato dell’abito della regina; non era un lavoro particolarmente degno di nota, ma bastava perché non girasse mezza nuda.

Non seppe precisamente perché lo fece, avrebbe anzi dovuto gioire al pensiero che venisse fatto del male alla madre di Myricae, ma -in quel momento- non se l’era sentita di infierire: “i figli non dovrebbero pagare le colpe dei genitori”, aveva detto l’Ophidian poco prima, che potesse valere anche al contrario?

Non l’avrebbe mai saputo, e non voleva nemmeno saperlo: aveva voluto farlo e l’aveva fatto, punto.

«Trattieniti i tuoi ormoni, o -riacquistati i poteri- lo scettro finirò per infilartelo su per il culo, e allora voglio vedere se avrai ancora voglia di violentare qualcuno» fulminò l’uomo, che intanto continuava a borbottare. Si girò verso di lui, prendendo il pugnale che era scivolato a terra e puntandoglielo all’inguine «Immagina, Phobos: una Airë Tári disperata, in lacrime, con qualche livido addosso e gli abiti strappati. Al suo fianco, due schiave che fischiettano indifferenti. Cosa credi, che nessuno farà domande?»

Lo premette sulla carne non con forza, ma abbastanza perché avvertisse la lama attraverso il tessuto e temesse per la vita del suo povero membro.

«E cosa gli risponderai, genio? “Se l’è andata a cercare, andava in giro vestita in modo provocante”? Non siamo sulla Terra, queste stronzate non funzionano» fece una breve pausa «per fortuna» aggiunse.

Dall’altro non provenne risposta.

Attestato che quel silenzio indicasse che avesse capito il concetto, Emily Jane si dedicò alla serpentessa.

«Ora ti spiego cosa faremo: tu ci accompagnerai al tempio, e noi prenderemo i resti del mio scettro. Non urlerai, non cercherai di scappare, non dirai nulla all’infuori di ciò che concorderemo. Se incontreremo Axechasti, e la incontreremo quasi certamente, allora manterrai la calma e fingerai che sia una visita come tante altre» le spiegò. Piantò il coltello nel tronco di un albero, facendola sobbalzare «Attieniti al piano, e potresti pure tornare a casa, questa sera. Tutto chiaro?».

Phentesilea, impossibilitata a fare altro, annuì.

Per tutta la durata del tragitto, in rigoroso silenzio, pregò: che Quetzalcoatl gliela mandasse buona, o che l’uccidesse prima di farla parlare e condannare la sua gente.

 

 

 

Sapevano che il santuario si trovava all’interno delle mura di Quetzalli, ma -a vederlo- il dubbio di essersi persi o finiti fuori strada li assalì comunque.

Niente mura d’oro, niente pavimento di gemme, niente fontane che anziché acqua sputavano preziosi cristalli arcobaleno, per quell’immensa piramide in perfetto stile azteco: pietra, semplice e comune pietra scura resa viscida dal muschio e fissurata dalle intemperie. Solo salendo un pezzo della lunghissima scalinata costellata di statue serpentine se ne poteva vedere la sommità, una sorta d’imponente tempio greco sorretto da alte colonne scavate e intagliate ora a forma di serpente, ora a sembrare tronchi nodosi.

Salirono gradino dopo gradino quella scala che pareva infinita, gli occhi combattuti fra il dover stare appiccicati a Phentesilea perché non facesse scherzi, alle maestose statue precolombiane di ofidi che li accompagnavano nella salita o, invece, al paesaggio che -da lassù- offriva una prospettiva diversa di ciò che li circondava: una sconfinata distesa verde e oro, ecco cos’era la El Dorado delle naga ermafrodite, un fazzoletto di terra posato sul volto di un pianeta che entrambi avrebbe voluto radere al suolo, se mai non fossero riusciti a salire al trono.

Non fecero nemmeno in tempo a decidersi, che i gradini finirono.

Prima di entrare, la figlia dell’Uomo Nero afferrò il polso all’altra donna.

«Ricordi ciò che ci siamo detti, vero?» la interrogò, ricevendo di risposta il debole sussurro di un “sì” ben poco convinto «Dì solo e soltanto ciò che abbiamo accordato, e allora nessuno si farà male: tornerai a casa e farai finta che non sia successo nulla, una volta finito qui, contenta?»

«Pure se non lo fossi, immagino che non sarebbe importante».

«E brava la mia Ophidian! Hai già capito tutto della vita!» le diede una pacca sulla schiena, poi fece lo stesso con Phobos «Signori e signore, si entra in scena!»

 

E in scena c’erano pure entrati, salvo trovarsi Axechasti a una cinquantina di metri.

In realtà, lei non parve nemmeno notarli, impegnata com’era a sistemare dei fiori in alcune anfore bianche poste ai piedi dell’altare; dietro di esso, i giganteschi monumenti raffiguranti i suoi genitori avvolti l’uno intorno all’altra, adornati con gioielli e ghirlande floreali, probabilmente doni per qualche grazia ricevuta.

Concorde alle loro peggiori previsioni, l’antenata comune delle Ophidians era più grande e robusta di queste ultime. Già solo la massiccia coda -coperta nella parte superiore fino alla punta di un soffice piumaggio, i cui colori variavano dall’acquamarina al turchese, fino al verde e al giallo- avrebbe potuto costituire un problema, a giudicare dagli spuntoni che la percorrevano superiormente nella sua interezza!

Per non parlare delle ali variopinte, sicura eredità di suo padre: non erano particolarmente grandi, probabilmente non erano nemmeno adatte al volo, ma -in uno scontro diretto- i muscoli che le muovevano non sarebbero certo stati delicati come le piume che le ricoprivano.

Sebbene sperassero e fossero ormai convinti di non essere stati notati, la naga si voltò appena avvertì i loro passi addentrarsi nel tempio.

Immediatamente, la regina che li accompagnava si affrettò ad esibirsi in un lungo inchino di riverenza.

«Valië Axechasti, buona giornata a voi».

«Oh, Airë Tári Phentesilea! È un piacere vederti» ricambiò il saluto l’altra, inchinandosi a sua volta. Rise «Ti ho detto mille volte che puoi darmi del tu, non è necessaria tutta questa formalità nei miei confronti, davvero».

«Eh? Oh… sì… sì, me lo sono… scordato, chiedo s-scusa» si corresse nervosamente, guardando le “serve”: stupida, stupida, stupida! Non poteva permettersi di sbagliare e insospettire qualcuno, ne andava della vita di tante, troppe, sue simili!

«Anche oggi sei qui a pregare per tua figlia» ruppe il silenzio la serpentessa piumata, vedendola in evidente imbarazzo «vero?»

Ricompostasi, la sovrana tirò un profondo respiro: doveva stare calma, calmissima.

«È l’unica persona che necessita delle mie preghiere, Valië» rispose dopo un po’, sospirando stanca «… ed è anche la sola la cui sorte non pare essere favorita in modo alcuno dai tuoi venerabili genitori, se posso permettermi».

«Mio padre agisce per vie misteriose, devo riconoscerlo» convenne, terminando di sistemare la composizione «ma sa distinguere bene fra le preghiere degne di essere ascoltate e quelle da ignorare. L’esilio è una scelta, Phentesilea, e tu stai soffrendo inutilmente per qualcuno che ha fatto la scelta sbagliata». Le afferrò dolcemente il mento «Non smetterò mai di ripetertelo, ma te lo dirò di nuovo comunque, perché vederti mentre ti fai del male mi spezza il cuore: mettiti l’anima in pace e dimenticala, cancella Myricae dalla tua vita una volta per tutte, perdonati e volta pagina»­ le mise le mani sulle spalle, fraternamente «Hippolyta c’è riuscita, provaci anche tu. Di figlie potete sempre averne altre, non sprecare il tuo amore di madre dietro a un fantasma».

«Potrei pure averle, altre figlie, ma guardando le foto di famiglia una voce che mi ricorderà sempre che ne manca una» controbatté la naga dalle squame bianche con tono deciso, un misto fra rabbia e disperazione.

Gentilmente, scostò la mano dalla propria spalla.

«Mi hanno privato della mia bambina, ma non permetterò a nessuno di privarmi del suo ricordo. Nessuno… ne-nessuno… nessu-» venne interrotta dai singhiozzi.

«Phentesilea…».

Axechasti rimase interdetta qualche secondo. Le asciugò le lacrime con la mano.

«Mi dispiace, non avrei mai voluto farti piangere, non era assolutamente mia intenzione causarti tanto dolore. Ti chiedo scusa» fece ammenda «c’è qualcosa che posso fare perché tu stia meglio? Ti prego, chiedimi pure qualsiasi cosa senza problemi, è il minimo».

«I-io… io non-»

«Qualsiasi cosa, Phentesilea. Ne hai diritto».

La sovrana, tremendamente combattuta, si girò verso Emily e Phobos, come a pregarli silenziosamente di non costringerla a fare ciò che avrebbe dovuto, a non farle pronunciare ciò che avevano concordato.

Da parte loro, però, arrivarono solo sorrisi compiaciuti: non aveva scelta, non ne aveva mai avuta.

Perché Quetzalcoatl non aveva ascoltato le sue preghiere? Perché la stava costringendo a sottoporsi a quel supplizio? Perché voleva che si macchiasse del tradimento, anziché ucciderla come lei l’aveva scongiurato di fare?

 

«U-una cosa ci sarebbe…» sussurrò allora, totalmente rassegnata, la gola in fiamme tanto dal pianto quando dal terrore «p-potresti a-ap-aprire… la stanza d-dove… do-dove… dove si trova lo scettro di… di Madre Natura?»

Non riusciva nemmeno a credere di averlo detto veramente.

E nemmeno Axechasti pareva crederci troppo, a giudicare da come la stava fissando a metà fra la semplice sorpresa e il puro sconcerto.

«… Cosa?­»

L’altra si limitò a deglutire sonoramente, incapace di fare altro.

«Lo scettro di… Madre Natura…» ripeté piano, tremando «… se p-puoi aprirmi la stanza e… e… e darmelo, sì, se puoi… da-darmelo. T-te ne sarei g-grata, p-profondamente… grata».

«Perché mi stai chiedendo quell’artefatto, Phentesilea? Cosa puoi mai fartene tu, di quel bastone marcio? Che interessi puoi avere verso i poteri che contiene?» continuò l’antenata, sospettosa, scrutando nel profondo di quegli occhi annegati nella paura. «Non hai mai fatto una richiesta simile, nessuno l’ha mai fatta da né ha motivo di farmela, nes-» si bloccò.

Quando alzò la testa, parve aver appena avuto un’illuminazione.

 «… Nessuno, tranne che Madre Natura stessa».

Quando lo sguardo della figlia di Quetzalcoatl e Medusa si posò sulle sue concubine, la naga dalle squame perlacee capì che le cose sarebbero degenerate da lì a poco: ormai aveva intuito qualcosa che non avrebbe dovuto intuire, la progenitrice della sua gente, e le sarebbe costato caro.

Carissimo.

E lei, delicata e deboluccia e spaventata a morte com’era, non poteva permetterlo.

 

«AXECHASTI! VATTENE! É TUTTA UNA TRAPPO-»

Mezzo secondo, e il corpo privo di sensi dell’Ophidin piumata cadde a terra con un tonfo sordo, i serpenti sul suo capo che -lentamente- smisero di sibilare e dimenarsi.

«… LA».

 

Era stata una pessima mossa.

Pessima, e inutile.

In quell’inquietante silenzio di tomba, la Pitchiner si fece tranquillamente strada fra le massicce spire della naga atterrata, incurante dello stare pestando ora una povera biscia, ora un’ala; si chinò sul suo bacino, strappandole un medaglione dorato -recante quello che pareva essere un calendario azteco mobile- dalla cintura di pelle.

Accovacciata, si mise a marchingegnare per qualche minuto con il meccanismo dell’oggetto, ruotando in senso orario e antiorario le strutture circolari di cui era composto un’infinità di volte, il “clic” dei cerchi che sfregavano gli uni sugli altri che riempiva quell’insolita quiete.

«Come fai a sapere se è la posizione giusta?» le chiese Phobos, dubbioso.

«Non lo so, infatti» replicò stizzita, continuando con i tentativi di trovare la combinazione corretta «se solo-»

Non fece in tempo a concludere la frase, che un rombo assordante le fece fischiare le orecchie.

La nube di detriti provocata da un’esplosione terrificante l’investì in pieno, costringendola ad accucciarsi sotto l’altare per non venire spazzata via; se le guardie non fossero state impegnate in città a organizzare la cerimonia, se il tempio non fosse stato isolato dal mondo, se non avessero appena avuto una botta di fortuna tremenda, probabilmente si sarebbero già trovati circondati da soldatesse pronte a tagliare loro la gola.

Tanto trambusto, però, fu utile a qualcosa.

Dissoltasi la nuvola di polvere, in mezzo ai resti distrutti delle immani statue dei divini amanti, si scorgeva una rampa di scale che portavano a quello che pareva un passaggio segreto sotterraneo.

«Prima le signore» si chinò il rosso, da vero gentiluomo qual era.

Fu un po’ meno gentiluomo, però, quando gettò la povera Ophidian a terra, incitandola a rimettersi in piedi e guardarlo in faccia; vedendo che lei non reagiva, le assestò un paio di brutali calci al ventre, alzandola di forza per i capelli fino ad altezza volto.

«E verrai anche tu».

Rivolse un ultimo sguardo alle statue distrutte, la regina, un’ultima preghiera a un dio che pareva morto o, comunque, totalmente disinteressato al destino di una delle sue innumerevoli nipoti.

Quando il buio l’avvolse, Phentesilea capì che quel luogo sarebbe stato la sua tomba.

 

 

Scesi per la scalinata, percorso un labirinto di corridoi e sfondato qualche muro per uscire dallo stesso, sbattuta un innumerevole numero di volte la testa contro muri su muri, finalmente arrivarono in una stanza piccola e angusta -dove difficilmente vi sarebbero entrare più di due o tre di Ophidians alla volta- senza più porte e cunicoli e tunnel fra le quali scegliere tramite “ambarabà-ciccì-coccò”.

Al centro della stessa, un altare.

Sopra di esso, in una teca, il bastone di Madre Natura, spezzato.

Emily Jane -che non condivideva con l’amico una certa passione per l’infilzarsi con schegge da sbronza- lasciò che Phobos rompesse il vetro magico per lei; vi poggiò sopra la mano, e quello s’infranse in mille pezzi sotto il calore delle fiammelle nere che gli ricoprivano le dita.

Si misero a guardare entrambi quei pezzi di legno, studiandolo; il rosso, poi, si mise a punzecchiarli con un dito, come a vedere se succedesse qualcosa.

«Serve una mano per incollare i pezzi, uh?»

«È il motivo per cui ti ho portato dietro».

«Non perché sono tremendamente affascinante?»

«Dal mio punto di vista molto poco eterosessuale, sei talmente affascinante che quando sei nato i tuoi genitori hanno preso a sprangate la cicogna e hanno chiesto il rimborso».

«Sei un’insopportabile lesbica mestruata».

«Almeno a me i sofficini sorridono».

Indispettito, si pose davanti all’altare, stringendo i resti dello scettro la le mani.

«Sia chiaro che lo faccio perché voglio farlo e perché senza poteri sei un’alleata utile quanto uno scolapasta senza buchi, non certo per farti un favore, eh!»

Il marchio sul suo avambraccio prese a brillare di un viola acceso, i segni sulla sua pelle che andarono diramandosi prima su tutto il braccio, poi sul lato sinistro del petto e, infine, su almeno tre quarti del volto.

Le nocche bluastre si serrarono con ancora più forza attorno all’artefatto, colorando il bianco immacolato di quest’ultimo di un malsano alone grigiastro; intanto, Phobos non smetteva di mormorare qualcosa in una lingua sconosciuta. Un alone scuro sembrò calare come un’ombra sui suoi occhi giallo-oro, le vene su fronte e collo talmente gonfie che parevano sul punto di scoppiare da un momento all’altro per lo sforzo.

Il bastone -ora completamente nero- ribolliva come pece bollente, l’aspetto identico alla sostanza densa e viscosa che prese a spillare dalle insenature sulla superficie legnosa, cadendo sul pavimento e liquefacendo la pietra, le rocce sottostanti, la terra stessa.

Una stilettata gli attraversò le tempie e il braccio e le dita, mentre un rivolo di sangue scuro gli colava dal naso e dall’occhio sinistro: un lampo accecante, poi il nulla.

Sul tavolo davanti a sé, lo scettro ricomposto.

Pulitosi il volto, il rosso rimase a lungo a saggiare l’artefatto magico, ipnotizzato com’era dalle sottili venature color smeraldo che brillavano di luce propria sotto la coltre nera del legno: c’era così tanto potere là dentro, talmente tanto che sarebbe stato un peccato lasciarlo tutto nelle mani di una persona sola, specie se quella persona l’aveva già perso una volta.

Chissà che-

«Dovresti tenertelo. Sappiamo entrambi che finirà per farselo sottrarre per l’ennesima volta da sotto il naso. E sarà meglio che sia tu, a sottrarglielo».

Scosse la testa, confuso: aveva davvero pensato di tenersi lo scettro?

No, certo che no, non se ne sarebbe fatto proprio nulla! Eppure… eppure… gli era sembrato di aver sentito qualcuno… qualcuno che gli parlava nella sua… nah, sicuramente era stata solo una suggestione dettata dallo sforzo, nulla di più. Senza indugiare, dunque, consegnò il bastone alla legittima proprietaria.

Con le mani tremanti per l’emozione, Emily lo accolse ben volentieri, un’espressione d’incredula commozione sul volto.

«Dopo tutto questo tempo...»

«Sempre».

Lo fulminò con lo sguardo.

«… Mi è salito il Severus Piton, chiedo scusa» alzò le mani in segno di resa lui, ridacchiando.

La figlia dell’Uomo Nero si concesse ancora qualche minuto per assaporare quel potere, il suo potere, che scorreva in ogni venatura, in ogni nodo, in ogni stilla di magia che temeva di aver dimenticato come utilizzare: trent’anni di attesa, di lontananza, di miseria, trent’anni che -finalmente- erano finiti.

Finiti.

Sorrise come mai prima d’ora.

«Risaliamo. Porta anche lei» indicò la regina, che in tutto ciò se ne stava impaurita in un angolo con la coda stretta al petto «deve assistere».

«A cosa?»

«Alla rinascita di una dea».

 

 

Aprì le braccia, respirando a pieni polmoni l’aria fresca e fruttata che spirava nell’atrio semi distrutto del tempio: sì, era il posto perfetto dove testare i propri poteri ritrovati.

Si voltò verso Phentesilea «Prima mi hai chiesto chi sono, e io intendo risponderti».

Picchiò lo scettro a terra, chiudendo gli occhi.

Iniziò subito a soffiare una brezza leggera, estiva, debole, ma sufficiente per sollevare appena le foglioline a terra, muovendole in circolo; la brezza si fece sempre più intensa, sempre più pungente sulla pelle, fino a trasformarsi in un vento forte, impetuoso, che sferzava fastidiosamente il viso e muoveva le cime degli alberi. I cerchi concentrici mossi dalla corrente ora vortici di dimensioni man mano crescenti.

Non parve disturbata, quando suddetti vortici si aggregarono in un vero e proprio piccolo tornado di foglie dai bordi affilati; semplicemente, la figlia di Black se ne stava nell’occhio del ciclone, perfettamente a proprio agio e con un sorriso a trentadue denti che gli tagliava il volto da un orecchio all’altro.

«Sono Emily Jane Pitchiner».

Qualche altro istante a vorticare, e quell’immane colonna dalle mille sfumature della foresta esplose, dissolvendosi in una nuvola di lamine vegetali che, proprio come pioggia, caddero a terra.

«Sono la sovrana di Tandokka».

Una, due, tre, dieci, cento, mille foglie, si posarono sul corpo della donna, aderendo alla stessa come un vestito fatto su misura, rimpiazzando quelli da schiava che già portava, collare compreso.

«Sono Madre Natura».

Foglia dopo foglia, strato dopo strato, prese forma un vero e proprio abito di un intenso verde scuro che prevaleva sulle altre sfumature arboree, le sottili venature del fogliame che formavano intricati ricami sul corpetto -alto fino al collo- e sulle maniche, interrompendosi quando incontravano l’ombelico scoperto.

Trent’anni dopo, finalmente era tornata a indossare i panni coi quali era stata conosciuta, rispettata, temuta.

«E sono venuta a reclamare ciò che mi appartiene».

Seguì un rigoroso silenzio, interrotto solo dall’applauso e dai fischi entusiasti di un Phobos particolarmente sovraeccitato, non si sapeva se dall’entrata in scena o per la consapevolezza che ora pure quella benedetta ragazza avrebbe avuto un’utilità.

Per i suoi scopi, s’intende.

 

Soddisfatta della propria sceneggiata, Emily si voltò e fece per andarsene; subito, lui l’afferrò per il polso, bloccandola.

«Dove diavolo stai andando?»

«Abbiamo recuperato lo scettro, e -per precauzione- ho già intrappolato Axechasti in mezzo ai rovi perché nessuno possa trovarla o sentirla, pure se dovesse riprendersi. Non c’è più nulla che possa interessarci, qui, per cui leviamo le tende».

«Non volevi distruggere Quetzalli?»

«Voglio farlo ancora, ovviamente» sorrise «ma questa sera, durante la cerimonia, quando saremo certi che tutte le Ophidians -o almeno quelle più importanti- saranno fuori dalle loro tane d’oro e di diamanti. Se attaccassimo ora, rischieremmo sia di perderne qualcuna per strada, sia di farci scoprire da Harmonia: mettere a fuoco e fiamme la foresta alzerebbe una coltre di fumo immane, verrebbe sicuramente intercettata a chilometri di distanza, e quello io non posso proprio impedirlo».

«Quindi ora che si fa? Usciamo di soppiatto dalla città come siamo entrati, e attendiamo la notte, forse?»

«Precisamente quello».

Avanzò di qualche passo, scendendo sui gradini; col bastone, indicò un punto lontano all’orizzonte.

«Raggiungiamo la galleria, ce la fuggiamo e ci giochiamo a Risiko attendendo di conquistare la Kamchatka e che calino le tenebre. Poi, una volta fattosi buio» sfiorò la sommità dello scettro, accendendovi una fiamma verde scoppiettante «illumineremo questa notte senza Luna come se fosse il Tempio di Baelor ad Approdo del Re. Quando domattina la Regina di Phantasia si alzerà, allora vedrà sorgere un’alba di sangue».

«E lei?» con un cenno del capo, Phentesilea «Ha visto tutto, Emilia Gianna, è una testimone pericolosa: sa chi siamo, sa cos’abbiamo in mente, sa quando e come attaccheremo».

La Pitchiner squadrò la regina dalle squame bianche per secondi che parvero infiniti. Alla fine, pensierosa, si limitò a fare spallucce.

«Rendila inoffensiva. Torturala, strappale la lingua, falla annegare nel suo stesso sangue, tagliale la testa come Medusa, giocaci a briscola insieme: purché non comprenda rapporti carnali dei quali io verrei a conoscenza in ogni caso, e non ti auguro che succeda, la tua scelta per riuscire ad ammansire quella biscia ermafrodita non m’interessa né tocca minimamente. Non raccontarmelo nemmeno, come l’hai resa incapace di nuocere ai nostri piani, fallo e basta».

Prima che la naga venisse trascinata via di peso dal rosso, Madre Natura le diede un bacio sulla fronte «Porterò i tuoi saluti a Myricae, quando l’impiccherò con gli stessi serpenti che ha per capelli».

 

 

Del brutale pestaggio che avvenne nelle segrete del tempio, Emily Jane non seppe nulla, e nulla volle sapere: non chiese a Phobos perché fosse zuppo di sangue, non s’interessò al motivo per cui stringesse fra le mani una manciata di candidi serpenti mozzati che ancora si dimenavano, non gli domandò se avesse ammazzato Phentesilea o se l’avesse invece lasciata in vita.

Fece semplicemente ciò che le riusciva meglio: se ne lavò le mani.

 

 

---

 

 

«Ce ripigliamm' tutt' chell che è 'o nuost'!»

Il loro era un piano assolutamente perfetto: uscire indisturbati da Quetzalli precisamente com’erano entrati, attendere pazientemente e, infine, darci giù pesante con l’offensiva proprio nel momento meno improbabile in cui avrebbero potuto farlo, sfruttando la distrazione delle Ophidians per colpirle quando più sarebbero state vulnerabili; con i poteri di Madre Natura disponibili, nulla avrebbe potuto andarle per il verso sbagliato!

Tranne trovare la galleria dalla quale erano spuntati collassata su se stessa.

«Siamo fottuti! FOTTUTI! Non abbiamo via d’uscita! Non ne abbiamo più neanche mezza! Non l’abbiamo mai avuta!» iniziò a urlare Phobos, crollando in ginocchio e battendo i pugni sull’erba «Ci troveranno! Ci cattureranno! Ci ingravideranno! PARTORIRÓ DEI FOTTUTI SERPENTI DAL CULO! NON SONO PRONTO A UN PARTO ANALE! E NEMMENO A DIVENTARE PADRE! NON-»

«Ah no? Credevo che -essendo tu nato dal culo di tua madre- ci fossi abituato, ai parti anali».

«NON SEI AFFATTO DIVERTENTE! E TANTO INGRAVIDERANNO PURE TE, SE NON SEI GIÁ INCINTA DI PHENTESILEA!»

«Oh beh, può tranquillamente darsi che tu abbia ragione» fece spallucce «niente preservativo e niente pillola, in effetti, e sai cosa? Penso pure che questi siano i miei giorni più fertili durante il mese. Riflettendoci bene, ricordo chiaramente di aver sentito pure lo sparo di partenza quando i suoi spermatozoi hanno iniziato la loro maratona verso il mio giovane e fertile utero, per cui-»

«LALALALALALALA NON TI SENTO LALALALALALALA!» si tappò le orecchie «LALALALALALALA NON STO ASCOLTANDO LALALA-»

«Per cui mettila di fare il cretino e dammi retta, pezzo d’idiota che non sei altro!» gli diede uno scappellotto sulla testa, facendolo scattare in piedi, si sperava rinsavito. Sollevò una manciata di terra dal tunnel chiuso, prendendo il palmo del rosso e posandocela sopra «Toccala, e dimmi come ti pare».

«Umida» asserì lui «un po’ come la tua vagina».

«Vuoi forse i dettagli di cosa Phentesilea ci abbia fatto la scorsa notte, con la mia vagina umida? Sì, credo sia un ottimo argomento di conversazione, ho proprio voglia di spiegarti come la lingua biforcuta delle Ophidians sia talmente lunga da sverginarti la vita, l’universo e-»

«BASTA BASTA BASTAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!!!»  gridò il rosso agitando le mani in segno di resa, il volto contratto in un’espressione che nulla aveva da invidiare a “L’urlo” di Munch «HO CAPITO! GIURO CHE HO CAPITO! MA SMETTILA DI DARMI DETTAGLI! SMETTILAH!»

«E dimmi un po’: cos’hai capito? Se sbagli, ti racconterò di quando a noi due si sono aggiunte un altro paio di donne munite di liane lunghe così» allargò le braccia «con le quali abbiamo dato luogo a una divertente sessione di soft bondage che-»

«Che è ancora fresca, quindi il tunnel non è crollato da molto tempo!» si affrettò a rispondere, temendo ulteriori delucidazioni sulle avventure sessuali della sua compagna. Sfregò il terreno fra le dita, saggiandolo «Considerando che oggi è una giornata soleggiata e qui non ci sono alberi a fare ombra, credo siano passati dieci o quindici minuti dal crollo, non di più».

«L’accendiamo?» fece comparire la fiamma verdognola di prima sul proprio indice.

«Ah! Vai a farti fottere!» le gettò la terra addosso Phobos di rimando, allontanandosi a grandi falcate a dir poco seccato.

Emily Jane non tentò nemmeno di fermarlo, impegnata a ridere com’era: sarebbe tornato in ogni caso, avrebbe dovuto farlo per forza di cose dal momento che tutte le altre vie d’uscita -che non dessero nell’occhio- erano sbarrate. Volente o nolente, avrebbe fatto dietro font.

Lei, intanto, si mise a ispezionare il tunnel crollato, sospettosa.

C’era qualcosa che non la convinceva, in quel terreno smosso ma non troppo, una bestia di centinaia di metri -ma pure di poche decine, come un cucciolo- così vicino alla superficie avrebbe sia fatto sentire la propria presenza con una serie di scosse d’intensità non indifferente, sia creato anche una voragine di rientro, oltre che d’uscita. Non poteva essere opera di un Diggerwurm.

E la cosa non gli piaceva proprio per niente.

Come pure non le piaceva quella curiosa sensazione di essere osservata, una sensazione che l’aveva accompagnata fin dal primissimo istante in cui si erano mossi da Phantasia, ancora prima di prendere la strada per la città delle Ophidians, e che l’aveva seguita persino sottoterra; forse allora era stata solo la soggezione causata dal rischio di schiattare e dalla claustrofobia, ma -se qualcuno gliel’avesse chiesto- sarebbe stata pronta a giurare di aver visto più e più volte degli occhi brillare laggiù, nelle tenebre, quando aveva gettato il proprio sguardo nel fondo buio dietro di loro.

Era stata un’impressione durata a lungo, quella che ci fosse qualcuno oltre a loro due, un sospetto che le aveva fatto accapponare la pelle finché non furono finalmente risaliti in superficie: allora, e solo allora, era totalmente scomparsa.

Fino a quel momento.

Sentiva, sapeva, che non erano soli, ma decise di optare per l’indifferenza: avrebbe fatto finta di niente, e allora le cose sarebbero venute da sé.

 

Improvvisamente, riapparve Phobos.

Reduce dal suo lunghissimo viaggio solitario della durata di sette minuti netti per trecento metri di allontanamento, le si avvicinò mogio mogio, a testa bassa, lo sguardo fisso a terra a causa dell’imbarazzo di doversi già arrendere.

«Già di ritorno dalla tua avventura?» gli chiese lei, senza girarsi e continuando a cercare indizi a terra.

«Eh già» rispose a metà fra il seccato e il dispiaciuto, ferito nell’orgoglio com’era «credevo di poter trovare un’altra strada per andarmene, ma a quanto pare avevi… per gli dei, non riesco a credere di stare dicendolo veramente…» emise un lungo sospiro «… avevi ragione tu, ecco: è tutto chiuso, sbarrato, sorvegliato, siamo letteralmente isolati dal mondo esterno. Inoltre temo che… che…» si bloccò.

«Che…?»

«Che ci abbiano scoperti, Emily».

Un silenzio di tomba calò sopra i loro volti sbiancati.

Persino Madre Natura -nonostante avesse ormai riavuto indietro i propri poteri e non dovesse quindi teoricamente temere niente e nessuno- non reagì diversamente.

«Ho visto una manciata di Ophidians, quando sono salito sul promontorio, e -a giudicare da com’erano agghindate con armature e artiglieria appresso- mi parevano un tantiiiiiiiino sul piede di guerra. Parlottavano fra loro di-»

«Di cosa? Cosa?»

«Di un’intrusa nella città. La chiamavano “gweriadir”, se non ricordo male» si fece pensieroso, inclinando la testa «non so cosa significhi, ma la naga a capo del gruppo -una con le squame nere e blu, ben più grossa di Phentesilea- che ho visto pareva molto ma molto incazzata, nel pronunciare quella parola o quel nome che sia, e-»

«Un’intrusa? Una sola?» lo interruppe.

Lui la guardò qualche istante, facendo spallucce «Una sola, sì. Perché?»

La donna, però, non rispose, impegnata com’era a riflettere e interrogarsi e fare strani collegamenti nella sua mente.

Una singola intrusa, ecco cosa cercavano le Ophidians, ecco cosa cercava lei: un’intrusa che non li aveva persi di vista nemmeno un istante, che li stava seguendo da quando avevano imboccato il tunnel il giorno precedente, che immaginava già quali sarebbero stati i loro piani e che, per questo, li aveva volontariamente rovinati.

Facendo crollare suddetto tunnel, magari.

Istintivamente, ritrasse il bastone; bastò che picchiettasse con le dita su di esso, e immediatamente lo scettro si dissolse in una pioggia di minuscole e brillanti foglioline nere dalle venature verdastre, assumendo la forma di un semplice anello al suo anulare destro.

Fortunatamente, Phobos era troppo impanicato per farle domande sul suo gesto.

«Tu credi che… che sappiano dove ci troviamo?­» le chiese con un velo di paura nella voce «Nel senso, io credo che non possano saperlo, pensano tutti che ci troviamo al tempio a pregare insieme alla nostra padrona, e abbiamo tutte le schiave come alibi! Le uniche testimoni dei nostri piani sono state neutralizzate, per cui-»

«Abbassa la testa!»

«Cos-»

 

Il tempo che Emily Jane lo spingesse a terra, e una freccia si conficcò nel tronco dell’albero dietro di loro, trapassandolo.

Un po’ come avrebbe dovuto fare col suo cranio.

 

«Chiedo scusa, devo averti scambiato la tua chioma rossa per una mela da colpire».

Quando nel suo campo visivo apparve una cascata di squame color smeraldo che si srotolavano lente dai rami di una grossa quercia nodosa, Madre Natura sorrise: trent’anni dopo, era arrivata la resa dei conti anche per loro due, dunque.

Si esibì in un lungo inchino, sollevando i lembi del proprio abito di foglie.

«Sono passati tre decenni dal nostro ultimo incontro faccia a faccia, Myricae, è un piacere incontrarti di nuovo».

«E avrei voluto che ne passassero almeno cento volte tanto, di anni, prima di costringere i miei poveri occhi a rivedere il tuo brutto muso anemico» ricambiò la riverenza l’Ophidian «ritrovarti qui è un piacere tutto mio, Emily».

Con la coda, le indicò l’albero trafitto.

«Sarei di fretta, io, per cui sentiti libera di infilzarti da sola con quella e facciamola finita subito: non ho nessuna voglia di sporcarmi le mani col tuo sangue, tantomeno col suo» additò Phobos, a terra raggomitolato su se stesso. Sbuffò «Anche tu, però, almeno potevi startene zitta e lasciarmelo ammazzare!»

«Ti assicuro che l’avrei fatto volentieri, ma purtroppo lui è il mio lasciapassare per andarmene da questo pianeta, per cui temo di doverti deludere».

Senza difficoltà alcuna, strappò la freccia dalla corteccia, ferendosi nel mentre con la punta; alla vista del sangue, però, la Pitchiner rimase totalmente indifferente: sapeva che il veleno di Myricae non era mortale, al massimo avrebbe potuto paralizzarle la mano per due o quattro d’ore.

Sprezzante, gliela gettò vicino «Ma questo già lo immaginavi già, o mi sbaglio?»

Iniziò ad avvicinarsi a lei lentamente, a piccoli passi.

«Hai intuito le nostre intenzioni fin dal principio, fin da quando -durante il solito giro di guardia- ci hai visto borbottare nei pressi dell’entrata dal tunnel sotterraneo» iniziò a spiegare mentre camminava «sapevi dove portava, sapevi che saremmo usciti a Quetzalli, sapevi anche che stavamo andando a recuperare il mio scettro. Hai cercato di fermarci prima che riuscissimo a risalire, dirottando quei diggerwurm nella galleria nella quale ci trovavamo, ma non ci sei riuscita e hai deciso di occupartene di persona».

Smise di camminare.

Puntata al petto, la spada dalla forma serpentina della naga.

Emily Jane, tuttavia, non parve per nulla disturbata o preoccupata. Sorrise.

«Volevi occuparti di noi personalmente, sì, ma -quando le Ophidians ci hanno portato dalla nostra padrona- sei rimasta fuori ad attendere che fossimo noi a venire allo scoperto per primi» osservò pensierosa «è un comportamento che m’incuriosisce, il tuo».

«La curiosità non è un lusso concesso ai cadaveri, donna» controbatté l’altra sbilanciando impercettibilmente il corpo, abbastanza perché la pressione del metallo facesse scivolare un rivolo di sangue che tinse di rosso le venature delle foglie del suo abito «specie se questi respirano e blaterano ancora».

«Harmonia me la concederà, secondo te?»

«Se vuoi chiederglielo, allora dovrai attendere che ti porti da lei, saprà sicuramente darti tutte le delucidazioni del caso. E conta sul fatto che ti farò entrare nel castello a piedi in avanti».

A quelle parole, la figlia dell’Uomo Nero mascherò sapientemente la propria sorpresa.

Si sarebbe aspettata di tutto, del resto gli imprevisti li aveva pure messi in conto, ma sapere che Harmonia non aveva accompagnato Myricae fu una notizia tanto inattesa quanto gradita. Era impossibile che l’avesse lasciata agire da sola in un’impresa di quel tipo, del resto comprendeva sempre la cattura di due pericolosi individui dei quali -per un motivo o per un altro-  la centauressa avrebbe certamente voluto occuparsi con le proprie mani.

Per quanto ne potesse sapere lei, la remota possibilità che la Regina di Phantasia nemmeno fosse a conoscenza della missione intrapresa dal suo generale non pareva più così remota, ora.

E non pareva remota nemmeno l’occasione di farsi una bella borsetta di pelle di serpente.

Strisciò un dito sul sangue che le colava sui vestiti, leccandolo maliziosamente.

«Vedo che non ti sei portata la fidanzatina dietro, oggi! Cos’è successo fra di voi, avete litigato perché gliel’hai infilato nel buco sbagliato o perché le sei venuta dentro, eh? Sono cose che possono capitare a chiunque, dovrebbe capirti!»

«Sicuramente non è dispiaciuto a te, che qualcuno sbagliasse buco» scoppiò a ridere la naga.

«Non torno a casa da un pezzo, ma ricordo bene cosa accade a una schiava durante la sua prima notte dentro l’harem, e tu hai proprio la faccia e la camminata di chi si è fatta felicemente spanare gli orifizi come se fossero gallerie di diggerwurm».

«Confermo! Ha pur partecipato a un’orgia con-»

Un’occhiataccia da parte di Madre Natura, e il rosso si zittì.

«Avrò pure gli orifizi talmente larghi che quando cammino applaudono, ma almeno io ho la decenza di non tradire la mia causa».

«Il tuo vocabolario linguistico comprende la parola “decenza”? È una barzelletta, forse?»

«Tanto quanto lo è il chiedersi cosa penserà la tua cara fidanzatina quando si sveglierà e non ti troverà nel suo letto a darle la consueta dose di minchia mattutina nel culo, Myricae, chissà che non vada a scoparsi Nae-»

Una violenta frustata con la coda, ed Emily Jane e il suo senso dell’umorismo vennero scaraventati contro il tronco di un grosso albero.

L’Ophidian strisciò fino a raggiungerla; una volta fatto, le mise la spada al collo e la sollevò di peso così, lasciandole un solco rosso poco sotto la mandibola, mettendola con la schiena contro la corteccia ruvida.

«Penserà che può farne tranquillamente a meno, per una volta. Fortunatamente, la nostra relazione ha basi ben più solide della semplice -ma intensa e sempre gradita- attività sessuale, ma non pretendo che tu capisca» rispose tranquilla «e aggiungo che penserà pure che ho fatto bene, a occuparmi di voi intanto che ero già qui: come dite voi terrestri, ho preso “due piccioni con una fava”».

«Di nascosto» aggiunse la figlia dell’Uomo Nero, ridendo di gusto nonostante la sua posizione scomoda. In tutti i sensi.

«Affatto, invece» la contraddisse.

Premette il piatto della spada sul suo collo con una certa forza, facendole morire il fiato in gola e, si sperava, facendola smettere di cianciare.

«Le mie occasionali capatine a Quetzalli non sono un mistero per nessuno, come non è nemmeno un mistero che tu sia stata esiliata da Exodus con la promessa di essere condannata alla pena capitale, se mai ti fossi nuovamente ripresentata qui con intenzioni belligeranti. Per colpa di quel decerebrato» indicò Phobos «la mia regina ha già abbastanza grane a cui pensare, occuparmi di voi due da sola e dargliene una in meno è un mio dovere e piacere tanto come generale quanto come partner».

«Come partner che agisce per conto proprio senza prima averla consultata» obiettò la Pitchiner con voce gutturale, quasi inquietante, a causa della costrizione alla quale era sottoposta.

Myricae sospirò, rassegnata: non capiva proprio, quella benedetta donna, non voleva capire!

«Esiste una cosa chiamata “indipendenza”, se non lo sai, e -solitamente- nelle relazioni sane ognuna delle due persone coinvolte è libera di avere una propria opinione, di ritagliarsi un proprio spazio personale e di agire anche in mancanza di un’autorizzazione scritta dalla propria compagna senza temere che si scatenino strane gelosie».

Elevandosi poco sopra di lei, iniziò ad avvolgere la coda intorno al tronco e al corpo della giovane Pitchiner serrandola in una presa soffocante, sperando che così imparasse una lezione che si rifiutava di comprendere da settecento anni a quella parte.

«Harmonia sa che ogni tanto faccio un salto qui per vedere come vanno le cose, sa che se c’è un pericolo che posso affrontare da sola lo faccio, e sa che mai, mai, agirei alle sue spalle. Nell’amore esiste una cosa chiamata “fiducia”, Emily, mi capisci?»

La risposta fu una pernacchia degna dell’asilo nido, seguita da una fragorosa risata di scherno.

“Ora l’ammazzo”, si disse la naga.

Ricordando che ciò non sarebbe stato quello ciò che avrebbe fatto la sua compagna al posto suo, però, riuscì a trattenere -con non poca fatica- l’istinto di sbranarla seduta stante; semplicemente, si limitò a fissare la figlia dell’Uomo Nero con un misto fra disgusto e pena per il suo comportamento alquanto infantile.

Ruotò leggermente la spada così che iniziasse a lambire la pelle, disegnando sottili ma profondi segni rossastri dai quali, da lì a poco, sarebbe sgorgato il sangue arterioso dell’altra.

«Prima che tu passi a miglior vita, voglio e pretendo che ricordi una cosa, e voglio che la ricordi anche il tuo amico laggiù» gettò velocemente il proprio sguardo verso il rosso, rintanatosi sotto la cappella di un fungo gigante «se mai dovesse avere la malsana idea di seguire le tue orme: insinuare il seme del dubbio fra me e la mia Harmonia è quanto di più impossibile la tua mente corrotta dall’egocentrismo e dalla megalomania possa concepire. Falla finita e taci, ti fa molto più onore» fece una breve pausa, ridendo «se mai ti ricordi cosa sia l’onore, s’intende».

 

Controvoglia, Madre Natura dovette darle ragione.

Sperava di poter far leva in qualche modo su un’eventuale spaccatura che si sarebbe creata fra la centauressa e la serpentessa, ma -a conti fatti- era un piano inattuabile per davvero: troppo legate l’uno all’altra, Harmonia e Myricae, troppo affiatate e pronte a sostenersi a vicenda anche nel buio più totale, e -soprattutto- con troppi pochi segreti nella loro relazione, per non dire che non ce n’erano proprio.

E va beh, per sua fortuna aveva ancora una carta da giocarsi.

 

Con tutta la calma del mondo, Emily Jane poggiò le mani sulla lama e la strinse con forza e decisione, totalmente incurante del sangue che colava sul metallo che rifletteva la sua immagine; sul volto, un sorriso che definire “da sociopatica” sarebbe stato limitativo.

«Quindi hai pensato che bastasse il tuo intervento, per mettere fuori gioco me e Phobos» mormorò.

Lei rise «Mi sbagliavo?»

Un sibilo strozzato, poi le sue spire smisero di stringere.

Entrato nell’addome e uscito fra il muscolo trapezio e l’articolazione della spalla destra, lo scettro nero di Madre Natura, grondante sangue e frammenti ossei e carne fresca appena strappata, dilaniata, tranciata di netto.

A terra, la lama ridotta in frammenti.

«Non immagini quanto».

Senza far caso a Phobos impegnato a rimettere il pranzo di seimila anni prima, Emily sollevò appena il bastone con una forza in corpo che sapeva non appartenergli; con la stessa facilità con la quale il burro viene spalmato da un coltello su una fetta di pane tostato, anche il corpo -vittima della gravità dell’Ophidian- scivolò lentamente verso il basso, lo scettro che emergeva sempre più dalla sua schiena.

A nulla valsero i tentativi di Myricae di far presa con le mani per fermare quell’impalamento alla quale era sottoposta, complice il braccio destro completamente paralizzato e insensibile -probabilmente a causa della recisione di qualche tendine o nervo- e il sinistro attraversato da violenti spasmi di dolore.

Quando si trovarono a pochi centimetri l’una all’altra, faccia a faccia, fu la figlia dell’Uomo Nero a fermarla, arrestando quell’agonia.

Le afferrò il volto con decisione, tirandola forzatamente a sé, e allora la baciò.

Presa totalmente alla sprovvista, la naga tentò più e volte di girare la testa per sottrarsi a quel maledetto bacio, ma tutti i tentativi furono inutili: bastò che provasse a dimenarsi una volta, e lunghi di rami di rovi le si avvolsero intorno al corpo, immobilizzandola e costringendola a dover subire quella tortura che andava ben oltre il dolore fisico.

Non era stupida, Myricae, sapeva fin troppo bene che Emily Jane non la stava baciando con così tanta passione per un mero e semplice desiderio di trarre piacere dal gesto, né pretendeva di ottenere nulla da ciò: voleva umiliarla, nulla di più, apporre il sigillo della propria vittoria e assicurarsi che rimanesse ben impresso tanto nella sua mente quanto sulle sue labbra. Voleva farla sentire in colpa verso Harmonia, farle credere che la stesse tradendo, convincerla che non fosse veramente la vittima, quanto la complice, dal momento che le stava lasciando fare i suoi porci comodi.

E ci stava riuscendo.

Mai in vita sua si era sentita così insicura, così sporca, così violata: la stava solo baciando, nulla di più, ma il modo in cui le mordeva le labbra, l’ardore col quale avvinghiava la sua lingua alla propria spingendogliela sempre più a fondo, la brutalità con la quale la stringeva a sé appena lei cercava disperatamente di retrocedere, tutto ciò la faceva sentire tremendamente piccola e indifesa.

Ah! Se solo non avesse fatto di testa propria e fosse andata a riferire a palazzo ciò che aveva scoperto e i propri sospetti!

Al montare di quella consapevolezza dentro, una lacrima solitaria si fece largo fra la piccole squame color smeraldo delle sue guance, scivolando fra di esse come aveva fatto lo scettro dell’altra fra le sue membra.

Che piangesse doveva proprio essere l’obiettivo di Madre Natura, dal momento che fu proprio allora che si stacco dalla serpentessa, leccandosi le labbra compiaciuta.

«Sei convinta che Harmonia ti amerà ancora, dopo questo?» le chiese soddisfatta, accarezzandole il volto «Che vorrà ancora baciarti, quando saprà che-»

Myricae le sputò in faccia.

«C-che una puttana s-senza… onore mi ha… co-costretta a… a… limonarci in-insieme?» riuscì a balbettare appena, ridendo, un misto di sangue e saliva che ancora gli colava dalle labbra «D-direi di sì, e… e ti d-dirò di p-più: ti… ti o-offri-offriremo anche de-delle mentine: hai… ha un alito da-davvero pessimo».

Emily strabuzzò gli occhi: la stava… perculando?

Quel bacio avrebbe dovuto distruggerla fisicamente e psicologicamente, annientarla nel profondo dell’anima fino a insinuare il seme nel dubbio nella sua mente, farla sentire umiliata oltre ogni immaginazione, e invece quella fottuta naga ninfomane cosa faceva? Rideva.

Rideva di lei.

«Come osi!» ringhiò iraconda, imbestialita, fuori di sé, sfilando lo scettro dal corpo dell’altra e utilizzandolo per sbatterla contro il tronco, invertendo quindi le loro rispettive posizioni «Come osi, prenderti gioco di me! DI ME! TU NON SAI CHI SONO IO!»

«U-una po-povera… d-di-disgraziata con manie di… di g-grandezza?»

«IO SONO MADRE NATURA!» tuonò spingendogli il bastone nero al collo per soffocarla «MADRE NATURA! MICA BRUSCOLINI! TU DOVRESTI INCHINARTI AI MIEI PIEDI! IMPLORARMI DI-»

«Ti pu-puzzano i piedi, c-comunque».

Basta.

Improvvisamente, la giovane Pitchiner ritrovò la calma.

Mentre con una mano teneva lo scettro nero in posizione per assicurarsi che la sua preda non andasse da nessuna parte, con l’altra richiamò a sé dei rami sottili ma affilati dall’albero dietro le spalle della serpentessa. Puntò il dito sulla sua fronte, in mezzo agli occhi, pronta a dare il comando di trapassargliela.

«Ultime dichiarazioni da fare prima di morire?»

«Solo che da qui a poco avrete l’intera Quetzalli alle calcagna, e non vorrei proprio essere qui quando accadrà» fece spallucce «però se mi ammazzi magari ti perdonano, c’è una taglia mica indifferente sulla mia testa!»

«Vedrò di ricordarmelo».

Un rapido movimento del dito, e quelle punte legnose che parevano coltelli scattar-

 

 

“Marigold?”

Sbatté le palpebre una, due, tre, cinque, dieci volte, Emily Jane, ma la guardiana era sempre lì a fissarla, il volto privo di una qualsiasi espressione, con quei suoi occhi che parevano due smeraldi appena estratti dalla fredda pietra che le scavavano nel profondo delle iridi dorate.

Incredula, lasciò cadere il bastone a terra.

Allungò una mano per sfiorarle le guance morbide che avevano sostituito le dure squame dell’Ophidian, ma l’altra le afferrò il polso, sorridendole. Guidandola con la propria, di mano, gliela poggiò sul ventre, invitando a toccarglielo.

Quando Madre Natura abbassò lo sguardo, per poco non si prese un infarto: era gravida.

Fremente di risposte, cercò un qualsiasi segno di conferma o smentita da Goldie, ma lei non rispose a nessuna delle sue domande, continuando invece a sorride; semplicemente, scostò il pesante maglione che aveva addosso, tirando fuori sotto da esso una specie di voluminosa sfera appuntita. Tirò un sospiro di sollievo.

Finché non vide il “bambino”, almeno.

Un grosso bocciolo di un bianco candido con venature argentee, circondato da foglie di un tenue verde pastello che lo racchiudevano e lo proteggevano similmente al guscio di un uovo.

Il Seme.

Il Seme di Tandokka.

Ciò che avrebbe potuto far rinascere la città devastata da Apophis in quattro e quattr’otto, ma che Marigold si era trascinata con sé fra le fiamme, condannando la sua regina a doversi fare il culo per -non- riportare all’antico splendore il suo stesso regno.

“Lo faccio per il tuo bene, min kjærlighet, un giorno lo capirai”, le parve di sentirle dire, le stesse identiche nonché ultime parole che le aveva sentito pronunciare settecento anni prima.

Non avrebbe permesso che le cose finissero allo stesso modo di allora.

Si protese verso il prezioso artefatto, intenzionata a farlo tornare nelle mani della sua legittima proprietaria; improvvisamente, però, il Seme iniziò a marcire: da bianco che era, diventò prima marroncino, poi marrone scuso e giallastro e grigiastro e, infine, nero. Allora, delle fiamme dello stesso colore iniziarono a fuoriuscire dai petali, avvolgendoli insieme a Marigold.

“No! No! Non di nuovo! Non un’altra volta! NO!”, tentò di gridare, ma nessuna parola uscì dalla sua bocca.

Disperata, si gettò in quello che era ormai un vero e proprio incendio, incurante del fuoco che le scioglieva la pelle e la faceva soffocare riempiendole i polmoni e le liquefaceva gli occhi prima che potesse vedere il Seme bruciare come già in passato era accaduto.

In quella scoppiettante frenesia rossa e arancione e gialla, le parve di udire delle parole uscire dalla sua bocca, ma quella era immobile. Anche perché era ormai cenere.

«Ridammi il Seme! Ridammelo! Non fare stronzate!»

«Non posso. Devi imparare, devi migliorare, devi crescere: se te lo ridessi indietro, nulla cambierebbe. Ti amo, Emily, ti perdono».

«Del tuo perdono non me ne faccio un cazzo! Voglio il Seme! Voglio il-»

 

 

«Ue’ guagliuncella! Bell ‘sto piezzu ‘e lignu!»

A svegliarla dalla sua allucinazione, un esemplare di Phobos in atteggiamenti napoletaneschi che la punzecchiava col suo scettro.

La Pitchiner scosse la testa, confusa e con il crepitio delle ossa bruciacchiate nelle orecchie: era… viva?

«Cos… cosa vuoi?» biascicò, ancora frastornata.

«Voglio che parevi una statua di marmo, per gli dei, ti eri letteralmente paralizzata!» gli urlò contro il rosso. «Non ti muovevi, non rispondevi, non respiravi nemmeno, hai persino lasciato cadere il tuo scettro e per poco quella» indicò Myricae, stramazzata a terra in una pozza di sangue «non trovava la forza di reagire, rifilandoti una codata in faccia. Fortunatamente, il tuo prode cavaliere l’ha neutralizzata prima che lo facesse e ora è incosciente, ma a un certo punto ho pensato -e ammetto, anche sperato- che fossi schioppata. Parevi un’allucinata in trip da LSD».

Un’allucinata? Oh, certo.

Avrebbe dovuto aspettarselo.

Nascondendo quanto fosse ancora scossa dopo aver rivisto nuovamente Marigold -rivivendo i suoi ultimi momenti di vita, gli ultimi minuti e parole che aveva scambiato con lei- nelle sue allucinazioni, si avvicinò a Myricae. Da brava donna di poca fede qual era, le diede un colpetto per vedere se reagiva in qualche modo o se invece fosse veramente svenuta; ottenuta una risposta negativa, si chinò su di lei e afferrò uno dei serpenti tramortiti che aveva per chioma.

Il tempo che una lama di plasma -una delle tante forme con le quali incanalava il proprio ritrovato controllo sui fulmini- le apparisse fra le dita esili, e lo tagliò di netto. Se lo legò attorno alla vita come una cintura.

Phobos, che la fissava stranito, decise di non farsi domande su certi feticismi: vai a sapere cosa passava per la mente di quella pazza normalmente, figurati adesso che era pure -molto probabilmente- strafatta di allucinogeni!

Una domanda, tuttavia, si decise a farla.

«Senti un po’, ma chi è Marigold?»

Emily Jane si girò di scatto, allarmata «Dove hai sentito quel nome?»

«Lo ripetevi continuamente, prima, e-»

«E occupati di nascondere quel sacco di carne da qualche parte, prima che ci trovino per davvero perché attirate dall’odore del sangue» cambiò discorso in fretta e furia. Gli strappò lo scettro dalle mani, guardandolo come se fosse un ladro «Bruciala, mangiala, nascondila: non m’interessa come te ne liberi, basta che ti sbarazzi di lei. Magari mettila insieme a Phentesilea, viva o morta che sia, così fanno una bella riunione mamma e figlia».

«Credevo che volessi ammazzarla, Myricae».

«E voglio ancora farlo» confermò «ma solo quando ci sarà anche Harmonia ad assistere. Voglio che mi veda uccidere la sua fidanzata, voglio che la senta implorare la mia pietà e poi sia lei, a pregarmi di risparmiarla, voglio portarle via ciò che di più caro ha al mondo: allora, e solo allora, strapperò il cuore dal petto della Regina di Phantasia e lo darò in pasto ai maiali, o ai leoni insomma. Sarebbe tremendamente egoista tenerci solo per noi lo spettacolo di impiccarla e tagliarle la gola, non credi?» ridacchiò.

Il rosso, caricandosi spalla il corpo esamine dell’Ophidian, fece spallucce «Se ne sei convinta»

Lui convinto non lo era nemmeno un po’, a dirla tutta.

Liberarsi subito della naga avrebbe costituito un problema in meno del quale preoccuparsi poi, ma non aveva importanza: aveva appena avuto l’ennesima dimostrazione che quella benedetta donna fosse guidata dalla vendetta e dall’impulsività, più che dal buonsenso e dalla tattica, di quel passo si sarebbe scavata la fossa da sola.

E lui l’avrebbe coperta di terra.

 

 

---

 

 

«Elgara vallas, da'len, melava somniar. Mala taren aravas, ara ma'desen melar».

 

“Sono morta?”

Crollata in uno stato che la teneva sospesa fra il mondo terreno e quello dell’aldilà, quel pensiero fu il primo che si palesò nella mente di Myricae, appena le sue orecchie udirono quelle parole: lingua Ophidians, non aveva dubbi.

Come pure non aveva dubbi di essere passata a miglior vita, ormai, considerando che sentiva pure le voci.

 

«Iras ma ghilas, da'len, ara ma ne'dan ashir? Dirthara lothlenan'as, bal emma mala dir».

 

Sapeva che non c’era nulla di reale, che suddetta voce era solo un qualche rimasuglio di coscienza riversatosi nel calderone di quei frammenti di vita che un cervello morente era solito riportare a galla, ma l’idea di essere in punto di morte -se non già morta da un pezzo- e di provare, vedere, sentire, certe cose, non la disturbava affatto, tutt’altro.

Sorrise: aveva bei ricordi, legati a quelle parole, i migliori della sua infanzia.

Ricordi dove la sua Amìl -e occasionalmente anche la sua Ammë, che però ammetteva divertita di avere altri talenti che il canto- la prendeva dolcemente fra le braccia e iniziava a cullarla, cantandole quella ninna nanna finché non vedeva gli occhi della sua creaturina squamata chiudersi e cedere al sonno, rigorosamente raggomitolata su se stessa come un armadillo. Non aveva mai saltato neanche una notte, a cantare per lei, persino le poche volte in cui si era sentita poco bene aveva sempre e comunque trovato il modo di far sì che quelle parole la accompagnassero fino alla mattina seguente.

C’era sempre stata, per lei, sempre.

 

«Tel'enfenim, da'len, irassal ma ghilas. Ma garas mir renan…»

 

Sebbene fosse consapevole che si tratta di un mero e semplici scherzo della sua mente che si stava spegnendo, decise di goderselo fino in fondo, abbandonandosi alla stessa sensazione di accoglienza materna che -ora come allora- stava pervadendo il suo corpo martoriato.

Voleva solo dormire, adesso, tutto il resto poteva aspettare: aveva sonno, tremendamente sonno, e la voce di sua madre come colonna sonora della sua dipartita era quanto di meglio potesse chiedere.

Così come l’aveva accompagnata fin dai primissimi istanti di vita, lo avrebbe fatto anche durante gli ultimissimi prima della morte.

 

«… Ara ma'athlan vhenas… »

 

O presunta tale, insomma.

A riportarla alla cruda realtà, una fitta lancinante che le percorse il torso dall’addome al collo, dove ricordava che fosse penetrato lo scettro di Madre Natura. Non riusciva ancora a muovere la testa per alzarla quel tanto che sarebbe bastato per vedersi il ventre, motivo per cui non notò come le sue ferite stessero iniziando almeno superficialmente a richiudersi, segno che la naturale rigenerazione dei suoi tessuti stava -seppur lentamente- facendo effetto, chiudendogli il buco che l’attraversava da una parte all’altra.

Dopo un numero indefinito di tentativi, riuscì appena ad abbassare lo sguardo, ma non vide altro che sangue, e sangue, e ancora sangue, una distesa rosso scuro -ora fresca, ora già rappresa- che gli riempiva il campo visivo, forse anche a causa di quello che le colava dal serpente mozzato fin sul viso.

Tentò di alzare un braccio per toccare la zona dolente, ma una mano dalle squame bianche la fermò, posandoglielo di nuovo delicatamente sul petto come a dirle “non è il momento”.

 

«… Ara ma'athlan vhenas… yeldë‘nin».

 

 … Yeldë?

Improvvisamente, l’ultima occasione in cui aveva sentito qualcuno rivolgersi a lei con quell’appellativo, quello di “figlia”, le rimbombò prepotente nella testa, le parole di Valië Axechasti in persona che si facevano strada fra mille altri pensieri: “Miulë Myricae, yeldë di Airë Tári Hippolyta e Airë Tári Phentesilea. Per il reato di gweriad, il Calaciryandë ti condanna a morte”.

Da allora, non era più stata yeldë di nessuno, tantomeno Miulë di qualsivoglia harem, solo Myricae: non Myricae “la figlia”, “la principessa”, “la traditrice”, semplicemente Myricae e basta.

L’aveva chiamata yeldë, ma la serpentessa che la stava tenendo fra le braccia, che le accarezzava il volto, che le cantava quella nenia tirata fuori dai meandri della sua infanzia, non era sua madre, non poteva esserlo.

Erano passati sette secoli dall’ultima volta in cui l’aveva vista, ma -pure dopo tanto tempo- sarebbe ancora stata perfettamente in grado di riconoscerla, e non era quello il caso.

Airë Tári Phentesilea era bella, bellissima, nulla a che vedere con ciò che aveva davanti.

 

La sua coda bianco perlacea non era costellata di chiazze sanguinanti, dove le squame mancanti lasciavano intravedere i muscoli sottostanti e, occasionalmente, qualche osso.

La sua pelle candida non era sfregiata da squarci talmente profondi da lasciare la carne gocciolante liquido rosso a penzoloni, ridotta a brandelli come se fosse stata azzannata da una bestia inferocita.

Il suo volto non aveva mai conosciuto i segni dei lividi gialli e viola e neri derivati da chissà quale brutale pestaggio, lo stesso che -a quella- aveva spaccato il naso, il sopracciglio, il labbro, che le aveva fatto scoppiare i capillari dei bulbi oculari iniettandoli di sangue.

E, soprattutto, la sua cascata di serpenti bianchi dalla testa rossa non era mai stata recisa alla base come a quella povera naga; sua madre, la regina, mai e poi mai avrebbe fatto una cosa del genere ai suoi piccoli ofidi sibilanti, che le si avvolgevano ora intorno alle braccia a chiederle coccole, ora sulla schiena ad acconciarsi in mille modi differenti.

Non era la sua Amìl, non poteva esserlo, non doveva.

Se lo fosse stato, allora non si sarebbe mai perdonata di aver permesso che l’avessero ridotta in quello stato. Mai.

Mai.

 

Non seppe se l’altra l’avesse fatto intuendo il suo conflitto interiore o semplicemente perché volesse farlo, se le dita le tremassero per l’emozione o per un qualche trauma fisico alle stesse, se stesse sorridendo o se invece avesse la bocca paralizzata come il viso gonfio per le botte; ora come ora, sapeva solo che, adesso, quella sconosciuta le teneva teneramente il viso fra le mani, guardandola con dolcezza infinita.

In quegli occhi verde lime acceso identici ai suoi, Myricae trovò tutte le risposte che stava cercando.

«… Mamma…?»

Phentesilea le sorrise: settecento anni dopo, Quetzalcoatl aveva risposto alle sue preghiere.

 



 

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Angolino dell’autrice

HELLO MY BRUDDA!

Entrata alla Ugandan Knuckles a parte, eccovi la traduzione della ninna nanna, la canzone è “Mir Da’len Somniar - Dalish Lullaby” dal gioco di Dragon Age, qui trovate il link se voleste ascoltarla :)

 

“Sun sets, little one, time to dream. Your mind journeys, but I will hold you here

Where will you go, little one, lost to me in sleep? Seek truth in a forgotten land, deep within your heart

Never fear, little one, wherever you shall go. Follow my voice

I will call you home

I will call you home, my daughter.”

 

Questo capitolo è uscito un po’ più lunghetto di quanto avessi previsto, spero che non sia particolarmente pesante per la moltitudine di cose che succedono… sempre meno di quelle che accadranno poi, MA DETTAGLIH :D

Non ho altro da dire, se non che ringrazio come sempre chi legge e chi recensisce, a questo punto della storia avere anche le vostre opinioni è una cosa che mi riempie di gggioia <3 e che mi fa capire come il disagio da faciola abbia contagiato altre menti oltre alla mia, ammettete che Phobos è sempre nei vostri pensieri! :’D

Alla prossima!

   
 
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