Se non ci fosse stata la regina a
guidarli, si
sarebbero sicuramente persi nella foresta dopo nemmeno un centinaio di
metri.
Alberi alti quanto palazzine
talmente fitti da fare
ombra tutt’intorno, immensi tronchi nodosi con insenature
così profonde che ci si
poteva accomodare dentro in più persone, gigantesche radici
che spuntavano qua
e là dal suolo come vere e proprie braccia demoniache,
pronte a trascinare lo
sventurato di turno negli inferi dal quale parevano provenire.
E c’erano liane,
soprattutto liane.
Fottutissime liane muschiate che
pendevano ovunque, finendo per
attorcigliarsi
intorno agli arti, al corpo, addirittura al collo come tentacoli di una
piovra;
in più di un’occasione si erano ingarbugliate ai
capelli di un povero Phobos
che -puntualmente- iniziava a gridare come una ragazzina fra le risate
generali,
salvo poi ridere lui quando Emily Jane -che in quei momenti di scherno
certo
non si era contenuta- si prese un mezzo infarto a sentire “un
serpente su per
il culo”, reduce com’era dal vivido ricordo della
gita nei boschi del Galles
con papà.
La regina, invece, strisciava
sicura e decisa in mezzo
a quel suolo tanto ombroso quanto lussureggiante: si muoveva piano,
silenziosamente, quasi non volesse disturbare la foresta stessa con la
sua
presenza, trovando comunque il tempo di parlare con le sue serve.
Era un’abile
conversatrice, bisognava
riconoscerglielo: sempre con la risposta pronta, sempre disposta a
mettersi in
discussione e ascoltare le opinioni altrui con estremo interesse,
sempre con
quel suo tono così vispo e allegro che avrebbe reso
affascinante anche la
narrazione di “Guerra e Pace” a un sordo.
O a due loschi figuri che giravano
con abiti da
danzatrice del ventre, insomma.
«Airë
Tári Phentesilea, potrei farvi una domanda?»
prese parola Madre Natura mentre attraversavano un fiume, il ponte
formato dal
tronco di un enorme albero cresciuto quasi orizzontale al terreno.
«Certamente, carissima,
qualsiasi cosa».
«Non ho potuto fare a
meno di notare che il vostro
harem è composto anche da altre Ophidians, sebbene siano in
numero esiguo
rispetto a schiave di altre razze, e che anche loro indossano
questo» si toccò
il collare dorato «sono schiave, forse?»
Tornarono sulla terraferma, per la
gioia di una certa
schiava rossa dal dubbio sesso che si aggrappava agli scivolosi rami
coperti di
fiori per il terrore di cadere e fare “splash” come
un Magikarp.
«Lo sono,
infatti» rispose la naga a voce bassa «ed
è
la fine peggiore che una regina possa desiderare di fare, quella di
diventare
concubina di un’altra regina. Specie quando finisci per
diventarlo di una tua
intima conoscente, un’amica d’infanzia, una
parente».
«Addirittura?»
«Addirittura,
sì».
La serpentessa invitò
entrambi a sedersi con lei su un
masso piatto e largo.
«È una triste
realtà, lo riconosco, ma è la realtà
di
Quetzalli, della mia casa, della mia gente, ed è socialmente
accettata e
incoraggiata: quando un’Ophidians nasce, lo fa con
l’obiettivo di possedere più
schiave possibili, e la consapevolezza che finirà schiava a
sua volta, se non
riuscirà nel suo intento».
«È una
pressione psicologica non indifferente, per
delle bambine» osservò la figlia
dell’Uomo Nero, lei che pensava che i compiti
scolastici fossero già abbastanza oppressivi da soli
«come fanno a reggere una
situazione del genere?
«Non hanno scelta, devono
farlo. In caso contrario…» fece una
breve pausa «… finiscono come le sorelle
di Airë Tári Antiope. Chiedete a qualsiasi mia
concittadina, e vi racconteranno
come sono tutte quante finite a far parte dell’harem della
loro “sorella
alpha”, come ama definirsi lei stessa. E Antiope è
considerata alla pari di
mostro, dalle sue serve, per cui vi lascio immaginare come se la
passano quelle
poverette».
Colse da un albero un frutto simile
a una melagrana
azzurra e verdognola, aprendolo e passandolo agli altri.
«Se una regina sfida
un’altra regina con lo scopo di
appropriarsi del suo harem, non solo quella perdente e tutti i suoi
averi
diventano legittimamente proprietà della vincitrice, non
solo lo diventano le
sue concubine, ma -ahimè- alla sua consorte e alle sue
figlie tocca lo stesso
destino».
«Anche le
figlie?» ripeté il rosso, incredulo e col
cibo ancora in bocca «Come è possibile? Non hanno
colpe se le loro madri sono
delle incompetenti nel combattimento!»
«È
precisamente ciò che pensiamo io e mia moglie, Airë
Tári Hippolyta, e infatti nel nostro harem non sono presenti
i familiari delle
regine sconfitte, e mai ci saranno» convenne, accennando un
sorriso tanto dolce
quanto severo. Che svanì poco dopo, però
«Se la regina vincitrice lo ritiene
opportuno, ha la facoltà e la libertà di
concedere la grazia all’altra,
rinunciando al rendere schiava lei, o almeno la sua famiglia.
Fortunatamente,
la concessione di una grazia va per la maggiore, non tutte sono
assetate di
schiave».
«Ma alcune lo sono,
immagino».
«Mi duole confermarlo, ma
è così» sospirò rassegnata.
«Ci sono regine disposte
a tutto pur di superarne
altre, regine come Antiope, che -per questo- finiscono per attaccare
sovrane ancora
giovani sapendo bene di avere vittoria
facile, prendendosi loro e tutto il pacchetto al seguito
senza vergogna
alcuna». Strinse forte il frutto fra le dita diafane,
sporcandosele del succo
giallastro «Non c’è proprio nulla di cui
vantarsi in un gesto del genere, non è
una vittoria onorevole se una delle parti combatte con un bastone di
legno e l’altra
con una lancia di ferro, né tantomeno se sodomizzi una madre
davanti alla sua
stessa figlia “per insegnarle il suo futuro
mestiere”. Eppure succede, Phoebe,
succede eccome…» gli occhi le divennero
lucidi «e noi lo permettiamo. Lo sosteniamo, Lo
incoraggiamo».
Probabilmente emotivamente provata
da quei discorsi,
l’Ophidian si tirò la coda al petto e ci
poggiò la testa sopra, lasciando
cadere mollemente le braccia lungo i fianchi prima di cingersi la testa
con le
stesse.
Il tonfo della melagrana a terra
spezzò il silenzio
della foresta.
«State bene,
Airë Tári Phentesilea?» le
domandò
Phobos, mettendole una mano sulla spalla come se fosse realmente
preoccupato «Volete
tornare indietro? Devo chiamare qualcuno?»
«Sto bene, Phoebe, ti
ringrazio» si sforzò di
sorridergli, il volto stanco e gli occhi lucidi «stavo
solo… riflettendo».
«Su cosa, se posso
chiedere?»
«Sul fatto che sia una
società tremendamente
sbagliata, la nostra» mormorò.
Si alzò, strisciando
fino al ciglio del precipizio
appena attraversato.
«Che ci crediate o no,
non siamo sempre state così,
noi Ophidians. C’è stato un tempo dove vivevamo in
pace e armonia col il resto
della gente di Exodus, in cui eravamo guerriere il cui orgoglio e forza
erano
ammirati e applauditi da tutti, è esistito un passato che
dove le nostre
bambine giocavano serene e contente con i figli degli
“stranieri venuti di là
dalle montagne”, come definiamo oggi coloro che stanno al di
fuori di
Quetzalli. Pretendiamo di aver dimenticato tutto questo, fingiamo che
non sia
mai successo, ma non tutte riescono o vogliono farlo».
Guardò la propria
immagine riflessa nell’acqua,
contemplando con sguardo assente i lineamenti deformati dalla corrente.
«Abbiamo distrutta
l’entrata della città settecento
anni fa, ma l’isolamento è iniziato prima, molto
prima: è stato lento,
graduale, silenzioso, è passato inosservato tanto ai nostri
occhi quanto a
quelli altrui. Quando il ponte è crollato, nessuna di noi
era veramente pronta
ad abbandonare il mondo esterno».
«E per quale motivo lo
avete fatto comunque?» chiese
il rosso, incuriosito e confuso.
La regina, di tutta risposta, fece
spallucce.
«Non avevamo scelta.
Nessuno ci voleva, ma eravamo
troppo orgogliose per lasciarci chiudere fuori dal mondo,
così abbiamo chiuso
noi il mondo fuori per prime, convinte com’eravamo e come
siamo tutt’ora che
Quetzalli sia un paradiso dorato nel quale vivere…
ah!»
Con la coda, lanciò
sbadatamente un sasso nel fiume;
rimase ipnotizzata a lungo a osservare le onde concentriche create
dall’impatto
della pietra con la superfici dell’acqua.
«Quetzalli mi ha portato
via una figlia, sette secoli
or sono, l’unica e sola figlia che abbia mai avuto»
sussurrò dopo un po’, con
gli occhi lucidi.
«Nessuna mia simile ha
mai capito cosa io provassi e cosa
attualmente provi a vivere come una madre a metà, mutilata
della creatura che
ha messo al mondo, si sono sempre interessate di più al
numero delle mie
concubine che al dolore che mi stava dilaniando… che mi
dilania ancora oggi…» le
lacrime iniziarono a rigarle le guance pallide «persino mia
moglie non capiva,
all’inizio, tante volte mi sono chiesta se ci soffrisse anche
lei o se io fossi
l’unica a starci male. Ai tempi, mi consolava e mi diceva
“Se un’altra figlia
può farti stare meglio, allora possiamo farla, nemmeno stessimo parlando di
un giocattolo
rotto che si può sostituire. Ora si limita a non parlarne e
basta... ed è
meglio così: non voglio che viva anche il mio dolore, ha
già abbastanza cose di
cui occuparsi all’interno del
Calaciryandë».
Ci furono lunghissimi attimi di
silenzio che parvero
non finire mai, dopo quella frase, un silenzio talmente intimo che
né Phobos né
Emily Jane -dall’alto del loro essere lì solo per
puro interesse- si
azzardarono a profanare dicendo qualcosa.
A spezzarlo, solo i singhiozzi e la
lacrime di
Phentesilea.
«Devo vivere tentando di
convincere me stessa e chi mi
circonda di non aver mai messo al mondo una figlia, di non essere mai
diventata
madre. Devo dimenticare di avere una parte della mente costantemente
preoccupata per lei, anziché fingere che sia morta come fa
mia moglie, come fanno
tutte. Devo negare di immaginarmi la
mia piccola affacciata alla finestra a guardare la Luna là,
a Phantasia, mentre
lo sta facendo anche sua madre qui, a Quetzalli, ogni sera, quando
calano le
tenebre e resto sola coi miei pensieri, coi miei demoni. Allora, la mia
unica
consolazione è il sapere che la Luna che guardiamo
è la stessa, quindi non
possiamo essere poi così distanti».
«A Phantasia?»
intervenne Madre Natura, piegando la
testa.
«È
lì che abita mia figlia, alla corte della regina
Harmonia» confermò la serpentessa, asciugandosi
intanto le lacrime «è la sua
partner, oltre che la prima dei suoi generali, per cui-»
«Voi siete la madre di Myricae?!!»
In quel preciso istante, i neuroni
della Pitchiner si
presero una pausa.
Quella era la madre di Myricae.
Quella.
Aveva davanti la stramaledetta
madre di quella
stramaledetta naga che voleva nella tomba tanto quanto ci volesse
l’altra
stramaledetta centauressa dal culo spanato che rispondeva al nome di
Harmonia.
Avrebbe potuto, voluto,
farle di tutto, l’occasione c’era ed era succulenta
come non mai!
A dirla tutta, si sarebbe chinata
volentieri ai suoi
intinti anche solo per colpire trasversalmente quelle dannata Ophidian
dalle
squame color smeraldo, più che per fare del male a una
creaturina fragile e
delicata com’era la sua mammina. Emotivamente distrutta e
indifesa com’era,
sicuramente Phentesilea non avrebbe opposto resistenza alcuna alla lama
di un
coltello che le affondava nella gola, occupata com’era a
compiangere la sua
figliola perduta sarebbe stato un lavoro di una semplicità
talmente disarmante
da sentirsi quasi in colpa, un po’ come rubare le caramelle a
un bambino senza
braccia.
Quasi, appunto, perché
certo non si sarebbe pentita.
Quando toccò il pugnale
che si teneva alla cintola,
però, Emily decise improvvisamente di scacciare quei
pensieri dalla sua mente:
doveva restare lucida, attenersi al piano e non dare
nell’occhio, ora.
Finché non avessero
avuto conferme della posizione
dello scettro, qualsiasi azione o gesto avventato sarebbe stata troppo
rischioso; doveva prendere fiato, calmarsi e, soprattutto, non fare
domande o
insinuazioni sospette che non fossero inerenti a ciò che
potevano sapere di
loro o aver ascoltato, così da mantenere la copertura fino
al momento propizio.
“Dovere”,
sempre quel verbo in mezzo: e doveva fare
questo, e doveva fare quell’altro, e doveva sottostare agli
ordini di un
disgraziato che pareva appena uscito da un centro per la riabilitazione
degli
alcolizzati cronici.
Doveva farlo lei, la regina di
Tandokka.
La regina.
Re-gi-na.
Regina che, adesso, pensava solo
una cosa: “che il
piano si fotta”.
«Sono la sua
Amìl, sì… ma voi come fate a sapere il
nome di mia figlia?» domandò sorpresa la naga,
alzandosi «La conoscete? L’avete
vista? Ci avete parlato, forse? Come-»
«No no no no no,
nieeeeeeeeente di tutto ciò! Ma va!
Si figuri!» si affrettò a chiarire Phobos,
agitando nervosamente le mani
davanti a sé. Esibì il sorriso più
falso che riuscì a racimolare in mezzo alle
gocce di sudore che gli imperlavano la fronte «Abbiamo
sentito parlare di lei,
ma non la conosciamo di
persona» si
girò verso la sua compagna, dandole un vigoroso colpo di
gomito sul braccio
«vero, Emilia Gianna? Vero, che non
conosciamo affatto la tenerissima figliola della regina? Vero?»
Lei, girata di spalle, si
limitò a ridacchiare.
«Airë
Tári Phentesilea?» la chiamò dopo un
po’, atona.
«Sì,
cara?»
«Lo scettro di Madre
Natura si trova al tempio di
Medusa, immagino».
A quelle parole,
l’Ophidian si paralizzò: gli occhi
sbarrati, il respiro ridottosi a un flebile soffio appena percettibile,
il
volto contratto in una smorfia di puro terrore.
«C-come lo
s-sai?» fu l’unica frase che, a stento,
riuscì a pronunciare mentre tremava
«Chi… chi t-te l’ha
d-de-detto?»
L’altra si
voltò, sorridendole.
«Voi. Proprio
ora».
«Cosa? I-io? Io
n-non… n-n-non…» balbettò la
regina
indietreggiando, le pupille che guizzavano da un alto
all’altro degli occhi a
studiare i volti di quelle che -fino ad ora- aveva creduto essere
semplici
schiave. Si fermò quando la sua schiena incontrò
il tronco di un albero.
Priva di vie d’uscita,
circondata su tutti i fronti,
senza la minima speranza di avere la meglio in uno scontro corpo a
corpo,
Phentesilea fece l’unica cosa che era nelle sue
possibilità: urlò.
O almeno, tentò di farlo.
Stava per aprire la bocca per
chiamare aiuto, quando
il fiato le morì in gola.
«Grida, e
ammazzerò tutte le bambine di questo buco
città» la minacciò il rosso,
stringendola a sé grazie all’avambraccio intorno
al collo. Mantenne la presa finché non vide la pelle bianca
diventare bluastra,
e nemmeno allora la liberò.
I tentativi della donna di
divincolarsi da quella
morsa furono inutili, considerata la scarsità di muscoli nel
suo esile corpo.
«Ho un branco di leoni
neri pronti a sbranarle, quelle
piccole e dolci Ophidians dalle squame ancora tenere. Aspettano solo un
mio
ordine per avventarsi sui loro corpicini inermi e usarle come gomitoli,
per
cui» estrasse un pugnale dalla tasca, facendoglielo scorrere
dal collo alle
labbra, un rivolo di sangue che le colò dalle stesse
«non ti conviene urlare o
anche solo pensare di poter avvertire chicchessia della nostra
presenza,
bellezza».
«Non le ba-bambine, non
l-loro» mormorò la regina, in
lacrime «fatemi ciò che volete, qualsiasi cosa vi
venga in mente, ma non
toccate le bambine: torturatemi, stupratemi, uccidetemi se volete, ma
non fate
loro del male, v-vi… vi p-prego, vi prego!»
«Uh-uh, che mammina
sentimentale e coraggiosa che
abbiamo qui, addirittura disposta a immolarsi e prostituirsi per delle
mocciose!»
Certo che lei non avrebbe fiatato,
le tolse il
coltello dalla bocca; con tocco lento ma inesorabile, lo fece scivolare
fino
alla sottile catenella argentata che reggeva la setosa stoffa che le
copriva il
décolleté.
Un rapido movimento
del polso, e quella si spezzò senza difficoltà,
lasciandola a seno scoperto.
«Quasi quasi, un
pensierino sulla tua seconda offerta
ce lo farei pure, ora che mi ci fai pensare» le
sussurrò all’orecchio, leccandoglielo,
incurante dei mugolii sommessi dell’altra «sono
proprio curioso di vedere come-»
Uno scappellotto sulla nuca da
parte di Madre Natura
lo interruppe.
«Non siamo venuti qui per
divertirci, idiota!»
Le lanciò
un’occhiataccia terribile «Ma tu-»
«Ma io ho scopato con lei
per avere informazioni utili
a entrambi, che è ben diverso dal farlo per sfogare i propri
ormoni» lo
anticipò, zittendolo.
Si avvicinò a
Phentesilea, in preda ai brividi. Tirò
una liana a sé, strappandone un filamento col quale
ricompose alla bene e
meglio l’agganciò lacerato dell’abito
della regina; non era un lavoro
particolarmente degno di nota, ma bastava perché non girasse
mezza nuda.
Non seppe precisamente
perché lo fece, avrebbe anzi
dovuto gioire al pensiero che venisse fatto del male alla madre di
Myricae, ma
-in quel momento- non se l’era sentita di infierire:
“i figli non dovrebbero
pagare le colpe dei genitori”, aveva detto
l’Ophidian poco prima, che potesse
valere anche al contrario?
Non l’avrebbe mai saputo,
e non voleva nemmeno
saperlo: aveva voluto farlo e l’aveva fatto, punto.
«Trattieniti i tuoi
ormoni, o -riacquistati i poteri-
lo scettro finirò per infilartelo su per il culo, e allora
voglio vedere se
avrai ancora voglia di violentare qualcuno»
fulminò l’uomo, che intanto
continuava a borbottare. Si girò verso di lui, prendendo il
pugnale che era
scivolato a terra e puntandoglielo all’inguine
«Immagina, Phobos: una Airë Tári
disperata, in lacrime, con qualche livido addosso e gli abiti
strappati. Al suo
fianco, due schiave che fischiettano indifferenti. Cosa credi, che
nessuno farà
domande?»
Lo premette sulla carne non con
forza, ma abbastanza
perché avvertisse la lama attraverso il tessuto e temesse
per la vita del suo
povero membro.
«E cosa gli risponderai,
genio? “Se l’è andata a
cercare, andava in giro vestita in modo provocante”? Non
siamo sulla Terra,
queste stronzate non funzionano» fece una breve pausa
«per fortuna» aggiunse.
Dall’altro non provenne
risposta.
Attestato che quel silenzio
indicasse che avesse
capito il concetto, Emily Jane si dedicò alla serpentessa.
«Ora ti spiego cosa
faremo: tu ci accompagnerai al
tempio, e noi prenderemo i resti del mio scettro. Non urlerai, non
cercherai di
scappare, non dirai nulla all’infuori di ciò che
concorderemo. Se incontreremo
Axechasti, e la incontreremo quasi certamente, allora manterrai la
calma e
fingerai che sia una visita come tante altre» le
spiegò. Piantò il coltello nel
tronco di un albero, facendola sobbalzare «Attieniti al
piano, e potresti pure
tornare a casa, questa sera. Tutto chiaro?».
Phentesilea, impossibilitata a fare
altro, annuì.
Per tutta la durata del tragitto,
in rigoroso
silenzio, pregò: che Quetzalcoatl gliela mandasse buona, o
che l’uccidesse
prima di farla parlare e condannare la sua gente.
Sapevano che il santuario si
trovava all’interno delle
mura di Quetzalli, ma -a vederlo- il dubbio di essersi persi o finiti
fuori
strada li assalì comunque.
Niente mura d’oro, niente
pavimento di gemme, niente
fontane che anziché acqua sputavano preziosi cristalli
arcobaleno, per
quell’immensa piramide in perfetto stile azteco: pietra,
semplice e comune
pietra scura resa viscida dal muschio e fissurata dalle intemperie.
Solo
salendo un pezzo della lunghissima scalinata costellata di statue
serpentine se
ne poteva vedere la sommità, una sorta d’imponente
tempio greco sorretto da
alte colonne scavate e intagliate ora a forma di serpente, ora a
sembrare
tronchi nodosi.
Salirono gradino dopo gradino
quella scala che pareva
infinita, gli occhi combattuti fra il dover stare appiccicati a
Phentesilea
perché non facesse scherzi, alle maestose statue
precolombiane di ofidi che li
accompagnavano nella salita o, invece, al paesaggio che -da
lassù- offriva una prospettiva
diversa di ciò che li circondava: una sconfinata distesa
verde e oro, ecco
cos’era la El Dorado delle naga ermafrodite, un fazzoletto di
terra posato sul
volto di un pianeta che entrambi avrebbe voluto radere al suolo, se mai
non
fossero riusciti a salire al trono.
Non fecero nemmeno in tempo a
decidersi, che i gradini
finirono.
Prima di entrare, la figlia
dell’Uomo Nero afferrò il
polso all’altra donna.
«Ricordi ciò
che ci siamo detti, vero?» la interrogò,
ricevendo di risposta il debole sussurro di un
“sì” ben poco convinto
«Dì solo
e soltanto ciò che abbiamo accordato, e allora nessuno si
farà male: tornerai a
casa e farai finta che non sia successo nulla, una volta finito qui,
contenta?»
«Pure se non lo fossi,
immagino che non sarebbe
importante».
«E brava la mia Ophidian!
Hai già capito tutto della
vita!» le diede una pacca sulla schiena, poi fece lo stesso
con Phobos «Signori
e signore, si entra in scena!»
E in scena c’erano pure
entrati, salvo trovarsi
Axechasti a una cinquantina di metri.
In realtà, lei non parve
nemmeno notarli, impegnata com’era
a sistemare dei fiori in alcune anfore bianche poste ai piedi
dell’altare; dietro
di esso, i giganteschi monumenti raffiguranti i suoi genitori avvolti
l’uno
intorno all’altra, adornati con gioielli e ghirlande
floreali, probabilmente
doni per qualche grazia ricevuta.
Concorde alle loro peggiori
previsioni, l’antenata
comune delle Ophidians era più grande e robusta di queste
ultime. Già solo la
massiccia coda -coperta nella parte superiore fino alla punta di un
soffice
piumaggio, i cui colori variavano dall’acquamarina al
turchese, fino al verde e
al giallo- avrebbe potuto costituire un problema, a giudicare dagli
spuntoni
che la percorrevano superiormente nella sua interezza!
Per non parlare delle ali
variopinte, sicura eredità
di suo padre: non erano particolarmente grandi, probabilmente non erano
nemmeno
adatte al volo, ma -in uno scontro diretto- i muscoli che le muovevano
non
sarebbero certo stati delicati come le piume che le ricoprivano.
Sebbene sperassero e fossero ormai
convinti di non
essere stati notati, la naga si voltò appena
avvertì i loro passi addentrarsi
nel tempio.
Immediatamente, la regina che li
accompagnava si
affrettò ad esibirsi in un lungo inchino di riverenza.
«Valië
Axechasti, buona giornata a voi».
«Oh, Airë
Tári Phentesilea! È un piacere vederti»
ricambiò il saluto l’altra, inchinandosi a sua
volta. Rise «Ti ho detto mille
volte che puoi darmi del tu, non è necessaria tutta questa
formalità nei miei
confronti, davvero».
«Eh? Oh…
sì… sì, me lo sono…
scordato, chiedo s-scusa»
si corresse nervosamente, guardando le “serve”:
stupida, stupida, stupida! Non
poteva permettersi di sbagliare e insospettire qualcuno, ne andava
della vita
di tante, troppe, sue simili!
«Anche oggi sei qui a
pregare per tua figlia» ruppe il
silenzio la serpentessa piumata, vedendola in evidente imbarazzo
«vero?»
Ricompostasi, la sovrana
tirò un profondo respiro:
doveva stare calma, calmissima.
«È
l’unica persona che necessita delle mie preghiere,
Valië»
rispose dopo un po’, sospirando stanca
«… ed è anche la sola la cui sorte non
pare essere favorita in modo alcuno dai tuoi venerabili genitori, se
posso
permettermi».
«Mio padre agisce per vie
misteriose, devo
riconoscerlo» convenne, terminando di sistemare la
composizione «ma sa
distinguere bene fra le preghiere degne di essere ascoltate e quelle da
ignorare. L’esilio è una scelta, Phentesilea, e tu
stai soffrendo inutilmente
per qualcuno che ha fatto la scelta sbagliata». Le
afferrò dolcemente il mento
«Non smetterò mai di ripetertelo, ma te lo
dirò di nuovo comunque, perché
vederti mentre ti fai del male mi spezza il cuore: mettiti
l’anima in pace e
dimenticala, cancella Myricae dalla tua vita una volta per tutte,
perdonati e
volta pagina» le mise le mani sulle spalle,
fraternamente «Hippolyta c’è
riuscita, provaci anche tu. Di figlie potete sempre averne altre, non
sprecare
il tuo amore di madre dietro a un fantasma».
«Potrei pure averle,
altre figlie, ma guardando le
foto di famiglia una voce che mi ricorderà sempre che ne
manca una» controbatté
la naga dalle squame bianche con tono deciso, un misto fra rabbia e
disperazione.
Gentilmente, scostò la
mano dalla propria spalla.
«Mi hanno privato della
mia bambina, ma non permetterò
a nessuno di privarmi del suo ricordo. Nessuno…
ne-nessuno… nessu-» venne
interrotta dai singhiozzi.
«Phentesilea…».
Axechasti rimase interdetta qualche
secondo. Le
asciugò le lacrime con la mano.
«Mi dispiace, non avrei
mai voluto farti piangere, non
era assolutamente mia intenzione causarti tanto dolore. Ti chiedo
scusa» fece
ammenda «c’è qualcosa che posso fare
perché tu stia meglio? Ti prego, chiedimi
pure qualsiasi cosa senza problemi, è il minimo».
«I-io… io
non-»
«Qualsiasi cosa,
Phentesilea. Ne hai diritto».
La sovrana, tremendamente
combattuta, si girò verso
Emily e Phobos, come a pregarli silenziosamente di non costringerla a
fare ciò
che avrebbe dovuto, a non farle pronunciare ciò che avevano
concordato.
Da parte loro, però,
arrivarono solo sorrisi
compiaciuti: non aveva scelta, non ne aveva mai avuta.
Perché Quetzalcoatl non
aveva ascoltato le sue
preghiere? Perché la stava costringendo a sottoporsi a quel
supplizio? Perché
voleva che si macchiasse del tradimento, anziché ucciderla
come lei l’aveva scongiurato
di fare?
«U-una cosa ci
sarebbe…» sussurrò allora, totalmente
rassegnata, la gola in fiamme tanto dal pianto quando dal terrore
«p-potresti
a-ap-aprire… la stanza d-dove…
do-dove… dove si trova lo scettro di… di Madre
Natura?»
Non riusciva nemmeno a credere di
averlo detto veramente.
E nemmeno Axechasti pareva crederci
troppo, a giudicare
da come la stava fissando a metà fra la semplice sorpresa e
il puro sconcerto.
«… Cosa?»
L’altra si
limitò a deglutire sonoramente, incapace di
fare altro.
«Lo scettro
di… Madre Natura…» ripeté
piano, tremando
«… se p-puoi aprirmi la stanza e…
e… e darmelo, sì, se puoi… da-darmelo.
T-te
ne sarei g-grata, p-profondamente… grata».
«Perché mi
stai chiedendo quell’artefatto,
Phentesilea? Cosa puoi mai fartene tu, di quel bastone marcio? Che
interessi
puoi avere verso i poteri che contiene?» continuò
l’antenata, sospettosa,
scrutando nel profondo di quegli occhi annegati nella paura.
«Non hai mai fatto
una richiesta simile, nessuno l’ha mai fatta da né
ha motivo di farmela, nes-»
si bloccò.
Quando alzò la testa,
parve aver appena avuto
un’illuminazione.
«…
Nessuno, tranne
che Madre Natura stessa».
Quando lo sguardo della figlia di
Quetzalcoatl e
Medusa si posò sulle sue concubine, la naga dalle squame
perlacee capì che le
cose sarebbero degenerate da lì a poco: ormai aveva intuito
qualcosa che non
avrebbe dovuto intuire, la progenitrice della sua gente, e le sarebbe
costato
caro.
Carissimo.
E lei, delicata e deboluccia e
spaventata a morte
com’era, non poteva permetterlo.
«AXECHASTI! VATTENE!
É TUTTA UNA TRAPPO-»
Mezzo secondo, e il corpo privo di
sensi dell’Ophidin
piumata cadde a terra con un tonfo sordo, i serpenti sul suo capo che
-lentamente- smisero di sibilare e dimenarsi.
«…
LA».
Era stata una pessima mossa.
Pessima, e inutile.
In quell’inquietante
silenzio di tomba, la Pitchiner si
fece tranquillamente strada fra le massicce spire della naga atterrata,
incurante dello stare pestando ora una povera biscia, ora
un’ala; si chinò sul
suo bacino, strappandole un medaglione dorato -recante quello che
pareva essere
un calendario azteco mobile- dalla cintura di pelle.
Accovacciata, si mise a
marchingegnare per qualche
minuto con il meccanismo dell’oggetto, ruotando in senso
orario e antiorario le
strutture circolari di cui era composto
un’infinità di volte, il
“clic” dei
cerchi che sfregavano gli uni sugli altri che riempiva
quell’insolita quiete.
«Come fai a sapere se
è la posizione giusta?» le
chiese Phobos, dubbioso.
«Non lo so,
infatti» replicò stizzita, continuando con
i tentativi di trovare la combinazione corretta «se
solo-»
Non fece in tempo a concludere la
frase, che un rombo
assordante le fece fischiare le orecchie.
La nube di detriti provocata da
un’esplosione
terrificante l’investì in pieno, costringendola ad
accucciarsi sotto l’altare
per non venire spazzata via; se le guardie non fossero state impegnate
in città
a organizzare la cerimonia, se il tempio non fosse stato isolato dal
mondo, se
non avessero appena avuto una botta di fortuna tremenda, probabilmente
si
sarebbero già trovati circondati da soldatesse pronte a
tagliare loro la gola.
Tanto trambusto, però,
fu utile a qualcosa.
Dissoltasi la nuvola di polvere, in
mezzo ai resti
distrutti delle immani statue dei divini amanti, si scorgeva una rampa
di scale
che portavano a quello che pareva un passaggio segreto sotterraneo.
«Prima le
signore» si chinò il rosso, da vero gentiluomo
qual era.
Fu un po’ meno
gentiluomo, però, quando gettò la
povera Ophidian a terra, incitandola a rimettersi in piedi e guardarlo
in
faccia; vedendo che lei non reagiva, le assestò un paio di
brutali calci al
ventre, alzandola di forza per i capelli fino ad altezza volto.
«E verrai anche
tu».
Rivolse un ultimo sguardo alle
statue distrutte, la
regina, un’ultima preghiera a un dio che pareva morto o,
comunque, totalmente
disinteressato al destino di una delle sue innumerevoli nipoti.
Quando il buio l’avvolse,
Phentesilea capì che quel
luogo sarebbe stato la sua tomba.
Scesi per la scalinata, percorso un
labirinto di
corridoi e sfondato qualche muro per uscire dallo stesso, sbattuta un
innumerevole numero di volte la testa contro muri su muri, finalmente
arrivarono in una stanza piccola e angusta -dove difficilmente vi
sarebbero
entrare più di due o tre di Ophidians alla volta- senza
più porte e cunicoli e
tunnel fra le quali scegliere tramite
“ambarabà-ciccì-coccò”.
Al centro della stessa, un altare.
Sopra di esso, in una teca, il
bastone di Madre
Natura, spezzato.
Emily Jane -che non condivideva con
l’amico una certa passione
per l’infilzarsi con schegge da sbronza- lasciò
che Phobos rompesse il vetro
magico per lei; vi poggiò sopra la mano, e quello
s’infranse in mille pezzi
sotto il calore delle fiammelle nere che gli ricoprivano le dita.
Si misero a
guardare entrambi quei pezzi di legno, studiandolo; il rosso, poi, si
mise a punzecchiarli
con un dito, come a vedere se succedesse qualcosa.
«Serve una
mano per incollare i pezzi, uh?»
«È il
motivo per cui ti ho portato dietro».
«Non perché
sono tremendamente affascinante?»
«Dal mio
punto di vista molto poco eterosessuale, sei talmente affascinante che
quando
sei nato i tuoi genitori hanno preso a sprangate la cicogna e hanno
chiesto il
rimborso».
«Sei
un’insopportabile lesbica mestruata».
«Almeno a
me i sofficini sorridono».
Indispettito,
si pose davanti all’altare, stringendo i resti dello scettro
la le mani.
«Sia chiaro
che lo faccio perché voglio farlo e perché senza
poteri sei un’alleata utile
quanto uno scolapasta senza buchi, non certo per farti un favore,
eh!»
Il marchio
sul suo avambraccio prese a brillare di un viola acceso, i segni sulla
sua
pelle che andarono diramandosi prima su tutto il braccio, poi sul lato
sinistro
del petto e, infine, su almeno tre quarti del volto.
Le nocche
bluastre si serrarono con ancora più forza attorno
all’artefatto, colorando il
bianco immacolato di quest’ultimo di un malsano alone
grigiastro; intanto, Phobos
non smetteva di mormorare qualcosa in una lingua sconosciuta. Un alone
scuro sembrò
calare come un’ombra sui suoi occhi giallo-oro, le vene su
fronte e collo
talmente gonfie che parevano sul punto di scoppiare da un momento
all’altro per
lo sforzo.
Il bastone
-ora completamente nero- ribolliva come pece bollente,
l’aspetto identico alla sostanza
densa e viscosa che prese a spillare dalle insenature sulla superficie
legnosa,
cadendo sul pavimento e liquefacendo la pietra, le rocce sottostanti,
la terra
stessa.
Una
stilettata gli attraversò le tempie e il braccio e le dita,
mentre un rivolo di
sangue scuro gli colava dal naso e dall’occhio sinistro: un
lampo accecante,
poi il nulla.
Sul tavolo
davanti a sé, lo scettro ricomposto.
Pulitosi il
volto, il rosso rimase a lungo a saggiare l’artefatto magico,
ipnotizzato
com’era dalle sottili venature color smeraldo che brillavano
di luce propria
sotto la coltre nera del legno: c’era così tanto
potere là dentro, talmente
tanto che sarebbe stato un peccato lasciarlo tutto nelle mani di una
persona
sola, specie se quella persona l’aveva già perso
una volta.
Chissà che-
«Dovresti
tenertelo. Sappiamo entrambi che finirà per
farselo sottrarre per l’ennesima volta da sotto il naso. E
sarà meglio che sia
tu, a sottrarglielo».
Scosse la
testa, confuso: aveva davvero pensato di tenersi lo scettro?
No, certo
che no, non se ne sarebbe fatto proprio nulla! Eppure…
eppure… gli era sembrato
di aver sentito qualcuno… qualcuno che gli parlava nella
sua… nah, sicuramente
era stata solo una suggestione dettata dallo sforzo, nulla di
più. Senza
indugiare, dunque, consegnò il bastone alla legittima
proprietaria.
Con le mani tremanti
per l’emozione, Emily lo accolse ben volentieri,
un’espressione d’incredula
commozione sul volto.
«Dopo tutto
questo tempo...»
«Sempre».
Lo fulminò
con lo sguardo.
«… Mi
è
salito il Severus Piton, chiedo scusa» alzò le
mani in segno di resa lui,
ridacchiando.
La figlia
dell’Uomo Nero si concesse ancora qualche minuto per
assaporare quel potere, il
suo potere, che scorreva in ogni
venatura, in ogni nodo, in ogni stilla di magia che temeva di aver
dimenticato
come utilizzare: trent’anni di attesa, di lontananza, di
miseria, trent’anni
che -finalmente- erano finiti.
Finiti.
Sorrise
come mai prima d’ora.
«Risaliamo.
Porta anche lei» indicò la regina, che in tutto
ciò se ne stava impaurita in un
angolo con la coda stretta al petto «deve
assistere».
«A cosa?»
«Alla rinascita
di una dea».
Aprì le
braccia, respirando a pieni polmoni l’aria fresca e fruttata
che spirava
nell’atrio semi distrutto del tempio: sì, era il
posto perfetto dove testare i
propri poteri ritrovati.
Si voltò verso
Phentesilea «Prima mi hai chiesto chi sono, e io intendo
risponderti».
Picchiò lo
scettro a terra, chiudendo gli occhi.
Iniziò
subito a soffiare una brezza leggera, estiva, debole, ma sufficiente
per
sollevare appena le foglioline a terra, muovendole in circolo; la
brezza si
fece sempre più intensa, sempre più pungente
sulla pelle, fino a trasformarsi
in un vento forte, impetuoso, che sferzava fastidiosamente il viso e
muoveva le
cime degli alberi. I cerchi concentrici mossi dalla corrente ora
vortici di
dimensioni man mano crescenti.
Non parve
disturbata, quando suddetti vortici si aggregarono in un vero e proprio
piccolo
tornado di foglie dai bordi affilati; semplicemente, la figlia di Black
se ne
stava nell’occhio del ciclone, perfettamente a proprio agio e
con un sorriso a
trentadue denti che gli tagliava il volto da un orecchio
all’altro.
«Sono Emily
Jane Pitchiner».
Qualche
altro istante a vorticare, e quell’immane colonna dalle mille
sfumature della
foresta esplose, dissolvendosi in una nuvola di lamine vegetali che,
proprio
come pioggia, caddero a terra.
«Sono la
sovrana di Tandokka».
Una, due,
tre, dieci, cento, mille foglie, si posarono sul corpo della donna,
aderendo
alla stessa come un vestito fatto su misura, rimpiazzando quelli da
schiava che
già portava, collare compreso.
«Sono Madre
Natura».
Foglia dopo
foglia, strato dopo strato, prese forma un vero e proprio abito di un
intenso verde
scuro che prevaleva sulle altre sfumature arboree, le sottili venature
del
fogliame che formavano intricati ricami sul corpetto -alto fino al
collo- e
sulle maniche, interrompendosi quando incontravano l’ombelico
scoperto.
Trent’anni
dopo, finalmente era tornata a indossare i panni coi quali era stata
conosciuta, rispettata, temuta.
«E sono
venuta a reclamare ciò che mi appartiene».
Seguì un rigoroso
silenzio, interrotto solo dall’applauso e dai fischi
entusiasti di un Phobos
particolarmente sovraeccitato, non si sapeva se dall’entrata
in scena o per la
consapevolezza che ora pure quella benedetta ragazza avrebbe avuto
un’utilità.
Per i suoi
scopi, s’intende.
Soddisfatta
della propria sceneggiata, Emily si voltò e fece per
andarsene; subito, lui
l’afferrò per il polso, bloccandola.
«Dove
diavolo stai andando?»
«Abbiamo
recuperato lo scettro, e -per precauzione- ho già
intrappolato Axechasti in mezzo
ai rovi perché nessuno possa trovarla o sentirla, pure se
dovesse riprendersi. Non
c’è più nulla che possa interessarci,
qui, per cui leviamo le tende».
«Non volevi
distruggere Quetzalli?»
«Voglio
farlo ancora, ovviamente»
sorrise «ma
questa sera, durante la cerimonia, quando saremo certi che tutte le
Ophidians
-o almeno quelle più importanti- saranno fuori dalle loro
tane d’oro e di
diamanti. Se attaccassimo ora, rischieremmo sia di perderne qualcuna
per
strada, sia di farci scoprire da Harmonia: mettere a fuoco e fiamme la
foresta
alzerebbe una coltre di fumo immane, verrebbe sicuramente intercettata
a chilometri
di distanza, e quello io non posso proprio impedirlo».
«Quindi ora
che si fa? Usciamo di soppiatto dalla città come siamo
entrati, e attendiamo la
notte, forse?»
«Precisamente
quello».
Avanzò di
qualche passo, scendendo sui gradini; col bastone, indicò un
punto lontano
all’orizzonte.
«Raggiungiamo
la galleria, ce la fuggiamo e ci giochiamo a Risiko attendendo di
conquistare
la Kamchatka e che calino le tenebre. Poi, una volta fattosi
buio» sfiorò la
sommità dello scettro, accendendovi una fiamma verde
scoppiettante
«illumineremo questa notte senza Luna come se fosse il Tempio
di Baelor ad
Approdo del Re. Quando domattina la Regina di Phantasia si
alzerà, allora vedrà
sorgere un’alba di sangue».
«E lei?»
con un cenno del capo, Phentesilea «Ha visto tutto, Emilia
Gianna, è una
testimone pericolosa: sa chi siamo, sa cos’abbiamo in mente,
sa quando e come
attaccheremo».
La
Pitchiner squadrò la regina dalle squame bianche per secondi
che parvero
infiniti. Alla fine, pensierosa, si limitò a fare spallucce.
«Rendila
inoffensiva. Torturala, strappale la lingua, falla annegare nel suo
stesso
sangue, tagliale la testa come Medusa, giocaci a briscola insieme:
purché non
comprenda rapporti carnali dei quali io
verrei a conoscenza in ogni caso, e non ti auguro che succeda,
la tua
scelta per riuscire ad ammansire
quella biscia ermafrodita non m’interessa né tocca
minimamente. Non raccontarmelo
nemmeno, come l’hai resa incapace di nuocere ai nostri piani,
fallo e basta».
Prima che
la naga venisse trascinata via di peso dal rosso, Madre Natura le diede
un
bacio sulla fronte «Porterò i tuoi saluti a
Myricae, quando l’impiccherò con
gli stessi serpenti che ha per capelli».
Del brutale
pestaggio che avvenne nelle segrete del tempio, Emily Jane non seppe
nulla, e
nulla volle sapere: non chiese a Phobos perché fosse zuppo
di sangue, non
s’interessò al motivo per cui stringesse fra le
mani una manciata di candidi serpenti
mozzati che ancora si dimenavano, non gli domandò se avesse
ammazzato
Phentesilea o se l’avesse invece lasciata in vita.
Fece
semplicemente ciò che le riusciva meglio: se ne
lavò le mani.
---
«Ce ripigliamm'
tutt' chell
che è 'o nuost'!»
Il loro era un piano assolutamente
perfetto: uscire
indisturbati da Quetzalli precisamente com’erano entrati,
attendere
pazientemente e, infine, darci giù pesante con
l’offensiva proprio nel momento
meno improbabile in cui avrebbero potuto farlo, sfruttando la
distrazione delle
Ophidians per colpirle quando più sarebbero state
vulnerabili; con i poteri di
Madre Natura disponibili, nulla avrebbe potuto andarle per il verso
sbagliato!
Tranne trovare la galleria dalla
quale erano spuntati
collassata su se stessa.
«Siamo fottuti! FOTTUTI!
Non abbiamo via d’uscita! Non
ne abbiamo più neanche mezza! Non l’abbiamo mai
avuta!» iniziò a urlare Phobos,
crollando in ginocchio e battendo i pugni sull’erba
«Ci troveranno! Ci cattureranno!
Ci ingravideranno! PARTORIRÓ DEI FOTTUTI SERPENTI DAL CULO!
NON SONO PRONTO A
UN PARTO ANALE! E NEMMENO A DIVENTARE PADRE! NON-»
«Ah no? Credevo che
-essendo tu nato dal culo di tua
madre- ci fossi abituato, ai parti anali».
«NON SEI AFFATTO
DIVERTENTE! E TANTO INGRAVIDERANNO
PURE TE, SE NON SEI GIÁ INCINTA DI PHENTESILEA!»
«Oh beh, può
tranquillamente darsi che tu abbia
ragione» fece spallucce «niente preservativo e
niente pillola, in effetti, e
sai cosa? Penso pure che questi siano i miei giorni più
fertili durante il
mese. Riflettendoci bene, ricordo chiaramente di aver sentito pure lo
sparo di
partenza quando i suoi spermatozoi hanno iniziato la loro maratona
verso il mio
giovane e fertile utero, per cui-»
«LALALALALALALA NON TI
SENTO LALALALALALALA!» si tappò
le orecchie «LALALALALALALA NON STO ASCOLTANDO
LALALA-»
«Per cui mettila di fare
il cretino e dammi retta, pezzo
d’idiota che non sei altro!» gli diede uno
scappellotto sulla testa, facendolo
scattare in piedi, si sperava rinsavito. Sollevò una
manciata di terra dal
tunnel chiuso, prendendo il palmo del rosso e posandocela sopra
«Toccala, e
dimmi come ti pare».
«Umida»
asserì lui «un po’ come la tua
vagina».
«Vuoi forse i dettagli di
cosa Phentesilea ci abbia
fatto la scorsa notte, con la mia vagina umida? Sì, credo
sia un ottimo
argomento di conversazione, ho proprio voglia di spiegarti come la
lingua
biforcuta delle Ophidians sia talmente lunga da sverginarti la vita,
l’universo
e-»
«BASTA BASTA
BASTAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!!!» gridò
il rosso agitando le mani in segno di
resa, il volto contratto in un’espressione che nulla aveva da
invidiare a
“L’urlo” di Munch «HO CAPITO!
GIURO CHE HO CAPITO! MA SMETTILA DI DARMI
DETTAGLI! SMETTILAH!»
«E dimmi un
po’: cos’hai capito? Se sbagli, ti
racconterò di quando a noi due si sono aggiunte un altro
paio di donne munite
di liane lunghe così» allargò le
braccia «con le quali abbiamo dato luogo a una
divertente sessione di soft bondage che-»
«Che è ancora
fresca, quindi il tunnel non è crollato da molto tempo!»
si affrettò a
rispondere, temendo ulteriori delucidazioni sulle avventure sessuali
della sua
compagna. Sfregò il terreno fra le dita, saggiandolo
«Considerando che oggi è
una giornata soleggiata e qui non ci sono alberi a fare ombra, credo
siano
passati dieci o quindici minuti dal crollo, non di
più».
«L’accendiamo?»
fece comparire la fiamma verdognola di
prima sul proprio indice.
«Ah! Vai a farti
fottere!» le gettò la terra addosso
Phobos di rimando, allontanandosi a grandi falcate a dir poco seccato.
Emily Jane non tentò
nemmeno di fermarlo, impegnata a
ridere com’era: sarebbe tornato in ogni caso, avrebbe dovuto
farlo per forza di
cose dal momento che tutte le altre vie d’uscita -che non
dessero nell’occhio-
erano sbarrate. Volente o nolente, avrebbe fatto dietro font.
Lei, intanto, si mise a ispezionare
il tunnel crollato,
sospettosa.
C’era qualcosa che non la
convinceva, in quel terreno
smosso ma non troppo, una bestia di
centinaia di metri -ma pure di poche decine, come un cucciolo-
così vicino alla
superficie avrebbe sia fatto sentire la propria presenza con una serie
di
scosse d’intensità non indifferente, sia creato
anche una voragine di rientro,
oltre che d’uscita. Non poteva essere opera di un Diggerwurm.
E la cosa non gli piaceva proprio
per niente.
Come pure non le piaceva quella
curiosa sensazione di essere
osservata, una sensazione che l’aveva accompagnata fin dal
primissimo istante in
cui si erano mossi da Phantasia, ancora prima di prendere la strada per
la
città delle Ophidians, e che l’aveva seguita
persino sottoterra; forse allora
era stata solo la soggezione causata dal rischio di schiattare e dalla
claustrofobia, ma -se qualcuno gliel’avesse chiesto- sarebbe
stata pronta a
giurare di aver visto più e più volte degli occhi
brillare laggiù, nelle
tenebre, quando aveva gettato il proprio sguardo nel fondo buio dietro
di loro.
Era stata un’impressione
durata a lungo, quella che ci
fosse qualcuno oltre a loro due, un
sospetto che le aveva fatto accapponare la pelle finché non
furono finalmente
risaliti in superficie: allora, e solo allora, era totalmente scomparsa.
Fino a quel momento.
Sentiva, sapeva,
che non erano soli, ma decise di optare per l’indifferenza:
avrebbe fatto finta
di niente, e allora le cose sarebbero venute da sé.
Improvvisamente, riapparve Phobos.
Reduce dal suo lunghissimo viaggio
solitario della
durata di sette minuti netti per trecento metri di allontanamento, le
si
avvicinò mogio mogio, a testa bassa, lo sguardo fisso a
terra a causa dell’imbarazzo
di doversi già arrendere.
«Già di
ritorno dalla tua avventura?» gli chiese lei,
senza girarsi e continuando a cercare indizi a terra.
«Eh
già» rispose a metà fra il seccato e il
dispiaciuto, ferito nell’orgoglio com’era
«credevo di poter trovare un’altra
strada per andarmene, ma a quanto pare avevi… per gli dei,
non riesco a credere
di stare dicendolo veramente…» emise un lungo
sospiro «… avevi ragione tu,
ecco: è tutto chiuso, sbarrato, sorvegliato, siamo
letteralmente isolati dal
mondo esterno. Inoltre temo che… che…»
si bloccò.
«Che…?»
«Che ci abbiano scoperti,
Emily».
Un silenzio di tomba
calò sopra i loro volti
sbiancati.
Persino Madre Natura -nonostante
avesse ormai riavuto
indietro i propri poteri e non dovesse quindi teoricamente temere
niente e
nessuno- non reagì diversamente.
«Ho visto una manciata di
Ophidians, quando sono
salito sul promontorio, e -a giudicare da com’erano
agghindate con armature e
artiglieria appresso- mi parevano un tantiiiiiiiino sul piede di
guerra. Parlottavano
fra loro di-»
«Di cosa? Cosa?»
«Di un’intrusa
nella città. La chiamavano “gweriadir”,
se non ricordo male» si fece pensieroso, inclinando la testa
«non so cosa
significhi, ma la naga a capo del gruppo -una con le squame nere e blu,
ben più
grossa di Phentesilea- che ho visto pareva molto ma
molto incazzata, nel pronunciare quella parola o quel nome
che
sia, e-»
«Un’intrusa?
Una sola?» lo interruppe.
Lui la guardò qualche
istante, facendo spallucce «Una
sola, sì. Perché?»
La donna, però, non
rispose, impegnata com’era a
riflettere e interrogarsi e fare strani collegamenti nella sua mente.
Una singola intrusa, ecco cosa
cercavano le Ophidians,
ecco cosa cercava lei: un’intrusa che non li aveva persi di
vista nemmeno un
istante, che li stava seguendo da quando avevano imboccato il tunnel il
giorno precedente,
che immaginava già quali sarebbero stati i loro piani e che,
per questo, li
aveva volontariamente rovinati.
Facendo crollare suddetto tunnel,
magari.
Istintivamente, ritrasse il
bastone; bastò che
picchiettasse con le dita su di esso, e immediatamente lo scettro si
dissolse in
una pioggia di minuscole e brillanti foglioline nere dalle venature
verdastre,
assumendo la forma di un semplice anello al suo anulare destro.
Fortunatamente, Phobos era troppo
impanicato per farle
domande sul suo gesto.
«Tu credi che…
che sappiano dove ci troviamo?» le
chiese con un velo di paura nella voce «Nel senso, io credo
che non possano
saperlo, pensano tutti che ci troviamo al tempio a pregare insieme alla
nostra
padrona, e abbiamo tutte le schiave come alibi! Le uniche testimoni dei
nostri
piani sono state neutralizzate, per cui-»
«Abbassa la
testa!»
«Cos-»
Il tempo che Emily Jane lo
spingesse a terra, e una
freccia si conficcò nel tronco dell’albero dietro
di loro, trapassandolo.
Un po’ come avrebbe
dovuto fare col suo cranio.
«Chiedo scusa, devo
averti scambiato la tua chioma
rossa per una mela da colpire».
Quando nel suo campo visivo apparve
una cascata di
squame color smeraldo che si srotolavano lente dai rami di una grossa
quercia
nodosa, Madre Natura sorrise: trent’anni dopo, era arrivata
la resa dei conti
anche per loro due, dunque.
Si esibì in un lungo
inchino, sollevando i lembi del
proprio abito di foglie.
«Sono passati tre decenni
dal nostro ultimo incontro faccia
a faccia, Myricae, è un piacere incontrarti di
nuovo».
«E avrei voluto che ne
passassero almeno cento volte
tanto, di anni, prima di costringere i miei poveri occhi a rivedere il
tuo
brutto muso anemico» ricambiò la riverenza
l’Ophidian «ritrovarti qui è un
piacere tutto mio, Emily».
Con la coda, le indicò
l’albero trafitto.
«Sarei di fretta, io, per
cui sentiti libera di
infilzarti da sola con quella e facciamola finita subito: non ho
nessuna voglia
di sporcarmi le mani col tuo sangue, tantomeno col suo»
additò Phobos, a terra
raggomitolato su se stesso. Sbuffò «Anche tu,
però, almeno potevi startene
zitta e lasciarmelo ammazzare!»
«Ti assicuro che
l’avrei fatto volentieri, ma
purtroppo lui è il mio lasciapassare per andarmene da questo
pianeta, per cui
temo di doverti deludere».
Senza difficoltà alcuna,
strappò la freccia dalla
corteccia, ferendosi nel mentre con la punta; alla vista del sangue,
però, la
Pitchiner rimase totalmente indifferente: sapeva che il veleno di
Myricae non
era mortale, al massimo avrebbe potuto paralizzarle la mano per due o
quattro
d’ore.
Sprezzante, gliela gettò
vicino «Ma questo già lo
immaginavi già, o mi sbaglio?»
Iniziò ad avvicinarsi a
lei lentamente, a piccoli
passi.
«Hai intuito le nostre
intenzioni fin dal principio,
fin da quando -durante il solito giro di guardia- ci hai visto
borbottare nei
pressi dell’entrata dal tunnel sotterraneo»
iniziò a spiegare mentre camminava
«sapevi dove portava, sapevi che saremmo usciti a Quetzalli,
sapevi anche che
stavamo andando a recuperare il mio scettro. Hai cercato di fermarci
prima che
riuscissimo a risalire, dirottando quei diggerwurm nella galleria nella
quale ci
trovavamo, ma non ci sei riuscita e hai deciso di occupartene di
persona».
Smise di camminare.
Puntata al petto, la spada dalla
forma serpentina
della naga.
Emily Jane, tuttavia, non parve per
nulla disturbata o
preoccupata. Sorrise.
«Volevi occuparti di noi
personalmente, sì, ma -quando
le Ophidians ci hanno portato dalla nostra padrona- sei rimasta fuori
ad
attendere che fossimo noi a venire allo scoperto per primi»
osservò pensierosa «è
un comportamento che m’incuriosisce, il tuo».
«La curiosità
non è un lusso concesso ai cadaveri,
donna» controbatté l’altra sbilanciando
impercettibilmente il corpo, abbastanza
perché la pressione del metallo facesse scivolare un rivolo
di sangue che tinse
di rosso le venature delle foglie del suo abito «specie se
questi respirano e
blaterano ancora».
«Harmonia me la
concederà, secondo te?»
«Se vuoi chiederglielo,
allora dovrai attendere che ti
porti da lei, saprà sicuramente darti tutte le delucidazioni
del caso. E conta
sul fatto che ti farò entrare nel castello a piedi in
avanti».
A quelle parole, la figlia
dell’Uomo Nero mascherò
sapientemente la propria sorpresa.
Si sarebbe aspettata di tutto, del
resto gli
imprevisti li aveva pure messi in conto, ma sapere che Harmonia non
aveva accompagnato
Myricae fu una notizia tanto inattesa quanto gradita. Era impossibile
che
l’avesse lasciata agire da sola in un’impresa di
quel tipo, del resto comprendeva
sempre la cattura di due pericolosi individui dei quali -per un motivo
o per un
altro- la
centauressa avrebbe certamente
voluto occuparsi con le proprie mani.
Per quanto ne potesse sapere lei,
la remota possibilità
che la Regina di Phantasia nemmeno fosse a conoscenza della missione
intrapresa
dal suo generale non pareva più così remota, ora.
E non pareva remota nemmeno
l’occasione di farsi una
bella borsetta di pelle di serpente.
Strisciò un dito sul
sangue che le colava sui vestiti,
leccandolo maliziosamente.
«Vedo che non ti sei
portata la fidanzatina dietro,
oggi! Cos’è successo fra di voi, avete litigato
perché gliel’hai infilato nel
buco sbagliato o perché le sei venuta dentro, eh? Sono cose
che possono
capitare a chiunque, dovrebbe capirti!»
«Sicuramente non
è dispiaciuto a te, che
qualcuno sbagliasse buco» scoppiò a ridere la naga.
«Non torno a casa da un
pezzo, ma ricordo bene cosa accade
a una schiava durante
la sua prima notte dentro l’harem, e tu hai proprio la faccia
e la camminata di
chi si è fatta felicemente spanare gli orifizi come se
fossero gallerie di
diggerwurm».
«Confermo! Ha pur
partecipato a un’orgia con-»
Un’occhiataccia da parte
di Madre Natura, e il rosso
si zittì.
«Avrò pure gli
orifizi talmente larghi che quando
cammino applaudono, ma almeno io ho la decenza di non tradire la mia
causa».
«Il tuo vocabolario
linguistico comprende la parola
“decenza”? È una barzelletta,
forse?»
«Tanto quanto lo
è il chiedersi cosa penserà la tua
cara fidanzatina quando si sveglierà e non ti
troverà nel suo letto a darle la
consueta dose di minchia mattutina nel culo, Myricae, chissà
che non vada a
scoparsi Nae-»
Una violenta frustata con la coda,
ed Emily Jane e il
suo senso dell’umorismo vennero scaraventati contro il tronco
di un grosso
albero.
L’Ophidian
strisciò fino a raggiungerla; una volta
fatto, le mise la spada al collo e la sollevò di peso
così, lasciandole un
solco rosso poco sotto la mandibola, mettendola con la schiena contro
la corteccia
ruvida.
«Penserà che
può farne tranquillamente a meno, per una
volta. Fortunatamente, la nostra relazione ha basi ben più
solide della semplice
-ma intensa e sempre gradita- attività sessuale, ma non
pretendo che tu capisca»
rispose tranquilla «e aggiungo che penserà pure
che ho fatto bene, a occuparmi
di voi intanto che ero già qui: come dite voi terrestri, ho
preso “due piccioni
con una fava”».
«Di nascosto»
aggiunse la figlia dell’Uomo Nero,
ridendo di gusto nonostante la sua posizione scomoda. In tutti i sensi.
«Affatto,
invece» la contraddisse.
Premette il piatto della spada sul
suo collo con una
certa forza, facendole morire il fiato in gola e, si sperava, facendola
smettere di cianciare.
«Le mie occasionali
capatine a Quetzalli non sono un
mistero per nessuno, come non è nemmeno un mistero che tu
sia stata esiliata da
Exodus con la promessa di essere condannata alla pena capitale, se mai
ti fossi
nuovamente ripresentata qui con intenzioni belligeranti. Per colpa di
quel
decerebrato» indicò Phobos «la mia
regina ha già abbastanza grane a cui
pensare, occuparmi di voi due da sola e dargliene una in meno
è un mio dovere e
piacere tanto come generale quanto come partner».
«Come partner che agisce
per conto proprio senza prima
averla consultata» obiettò la Pitchiner con voce
gutturale, quasi inquietante,
a causa della costrizione alla quale era sottoposta.
Myricae sospirò,
rassegnata: non capiva proprio,
quella benedetta donna, non voleva capire!
«Esiste una cosa chiamata
“indipendenza”, se non lo
sai, e -solitamente- nelle relazioni sane ognuna delle due persone
coinvolte è
libera di avere una propria opinione, di ritagliarsi un proprio spazio
personale e di agire anche in mancanza di un’autorizzazione
scritta dalla
propria compagna senza temere che si scatenino strane
gelosie».
Elevandosi poco sopra di lei,
iniziò ad avvolgere la
coda intorno al tronco e al corpo della giovane Pitchiner serrandola in
una
presa soffocante, sperando che così imparasse una lezione
che si rifiutava di
comprendere da settecento anni a quella parte.
«Harmonia sa che ogni
tanto faccio un salto qui per
vedere come vanno le cose, sa che se c’è un
pericolo che posso affrontare da
sola lo faccio, e sa che mai, mai,
agirei alle sue spalle. Nell’amore esiste una cosa chiamata
“fiducia”, Emily, mi
capisci?»
La risposta fu una pernacchia degna
dell’asilo nido,
seguita da una fragorosa risata di scherno.
“Ora
l’ammazzo”, si disse la naga.
Ricordando che ciò non
sarebbe stato quello ciò che
avrebbe fatto la sua compagna al posto suo, però,
riuscì a trattenere -con non
poca fatica- l’istinto di sbranarla seduta stante;
semplicemente, si limitò a
fissare la figlia dell’Uomo Nero con un misto fra disgusto e
pena per il suo comportamento
alquanto infantile.
Ruotò leggermente la
spada così che iniziasse a
lambire la pelle, disegnando sottili ma profondi segni rossastri dai
quali, da
lì a poco, sarebbe sgorgato il sangue arterioso
dell’altra.
«Prima che tu passi a
miglior vita, voglio e pretendo
che ricordi una cosa, e voglio che la ricordi anche il tuo amico
laggiù» gettò
velocemente il proprio sguardo verso il rosso, rintanatosi sotto la
cappella di
un fungo gigante «se mai dovesse avere la malsana idea di
seguire le tue orme:
insinuare il seme del dubbio fra me e la mia Harmonia è
quanto di più
impossibile la tua mente corrotta dall’egocentrismo e dalla
megalomania possa
concepire. Falla finita e taci, ti fa molto più
onore» fece una breve pausa,
ridendo «se mai ti ricordi cosa sia l’onore,
s’intende».
Controvoglia, Madre Natura dovette
darle ragione.
Sperava di poter far leva in
qualche modo su
un’eventuale spaccatura che si sarebbe creata fra la
centauressa e la
serpentessa, ma -a conti fatti- era un piano inattuabile per davvero:
troppo
legate l’uno all’altra, Harmonia e Myricae, troppo
affiatate e pronte a
sostenersi a vicenda anche nel buio più totale, e
-soprattutto- con troppi
pochi segreti nella loro relazione, per non dire che non ce
n’erano proprio.
E va beh, per sua fortuna aveva
ancora una carta da
giocarsi.
Con tutta la calma del mondo, Emily
Jane poggiò le
mani sulla lama e la strinse con forza e decisione, totalmente
incurante del
sangue che colava sul metallo che rifletteva la sua immagine; sul
volto, un
sorriso che definire “da sociopatica” sarebbe stato
limitativo.
«Quindi hai pensato che
bastasse il tuo intervento,
per mettere fuori gioco me e Phobos» mormorò.
Lei rise «Mi
sbagliavo?»
Un sibilo strozzato, poi le sue
spire smisero di
stringere.
Entrato nell’addome e
uscito fra il muscolo trapezio e
l’articolazione della spalla destra, lo scettro nero di Madre
Natura, grondante
sangue e frammenti ossei e carne fresca appena strappata, dilaniata,
tranciata
di netto.
A terra, la lama ridotta in
frammenti.
«Non
immagini
quanto».
Senza far caso a Phobos impegnato a
rimettere il
pranzo di seimila anni prima, Emily sollevò appena il
bastone con una forza in
corpo che sapeva non appartenergli; con la stessa facilità
con la quale il
burro viene spalmato da un coltello su una fetta di pane tostato, anche
il
corpo -vittima della gravità dell’Ophidian-
scivolò lentamente verso il basso,
lo scettro che emergeva sempre più dalla sua schiena.
A nulla valsero i tentativi di
Myricae di far presa
con le mani per fermare quell’impalamento alla quale era
sottoposta, complice
il braccio destro completamente paralizzato e insensibile
-probabilmente a
causa della recisione di qualche tendine o nervo- e il sinistro
attraversato da
violenti spasmi di dolore.
Quando si trovarono a pochi
centimetri l’una
all’altra, faccia a faccia, fu la figlia dell’Uomo
Nero a fermarla, arrestando
quell’agonia.
Le afferrò il volto con
decisione, tirandola forzatamente
a sé, e allora la baciò.
Presa totalmente alla sprovvista,
la naga tentò più e
volte di girare la testa per sottrarsi a quel maledetto bacio, ma tutti
i
tentativi furono inutili: bastò che provasse a dimenarsi una
volta, e lunghi di
rami di rovi le si avvolsero intorno al corpo, immobilizzandola e
costringendola a dover subire quella tortura che andava ben oltre il
dolore
fisico.
Non era stupida, Myricae, sapeva
fin troppo bene che
Emily Jane non la stava baciando con così tanta passione per
un mero e semplice
desiderio di trarre piacere dal gesto, né pretendeva di
ottenere nulla da ciò:
voleva umiliarla, nulla di più, apporre il sigillo della
propria vittoria e assicurarsi
che rimanesse ben impresso tanto nella sua mente quanto sulle sue
labbra. Voleva
farla sentire in colpa verso Harmonia, farle credere che la stesse
tradendo,
convincerla che non fosse veramente la vittima, quanto la complice, dal
momento
che le stava lasciando fare i suoi porci comodi.
E ci stava riuscendo.
Mai in vita sua si era sentita
così insicura, così sporca,
così violata: la stava
solo baciando,
nulla di più, ma il modo in cui le mordeva le labbra,
l’ardore col quale avvinghiava
la sua lingua alla propria spingendogliela sempre più a
fondo, la brutalità con
la quale la stringeva a sé appena lei cercava disperatamente
di retrocedere,
tutto ciò la faceva sentire tremendamente piccola e indifesa.
Ah! Se solo non avesse fatto di
testa propria e fosse
andata a riferire a palazzo ciò che aveva scoperto e i
propri sospetti!
Al montare di quella consapevolezza
dentro, una
lacrima solitaria si fece largo fra la piccole squame color smeraldo
delle sue guance,
scivolando fra di esse come aveva fatto lo scettro dell’altra
fra le sue
membra.
Che piangesse doveva proprio essere
l’obiettivo di Madre
Natura, dal momento che fu proprio allora che si stacco dalla
serpentessa,
leccandosi le labbra compiaciuta.
«Sei convinta che
Harmonia ti amerà ancora, dopo
questo?» le chiese soddisfatta, accarezzandole il volto
«Che vorrà ancora
baciarti, quando saprà che-»
Myricae le sputò in
faccia.
«C-che una puttana
s-senza… onore mi ha… co-costretta
a… a… limonarci in-insieme?»
riuscì a balbettare appena, ridendo, un misto di
sangue e saliva che ancora gli colava dalle labbra «D-direi
di sì, e… e ti
d-dirò di p-più: ti… ti
o-offri-offriremo anche de-delle mentine: hai… ha un
alito da-davvero pessimo».
Emily strabuzzò gli
occhi: la stava… perculando?
Quel bacio avrebbe dovuto
distruggerla fisicamente e
psicologicamente, annientarla nel profondo dell’anima fino a
insinuare il seme
nel dubbio nella sua mente, farla sentire umiliata oltre ogni
immaginazione, e invece
quella fottuta naga ninfomane cosa faceva? Rideva.
Rideva di
lei.
«Come
osi!»
ringhiò iraconda, imbestialita, fuori di sé,
sfilando lo scettro dal corpo
dell’altra e utilizzandolo per sbatterla contro il tronco,
invertendo quindi le
loro rispettive posizioni «Come osi, prenderti gioco di me! DI ME! TU NON SAI CHI SONO IO!»
«U-una
po-povera… d-di-disgraziata con manie di… di
g-grandezza?»
«IO SONO MADRE
NATURA!» tuonò spingendogli il bastone
nero al collo per soffocarla «MADRE NATURA! MICA BRUSCOLINI!
TU DOVRESTI
INCHINARTI AI MIEI PIEDI! IMPLORARMI DI-»
«Ti pu-puzzano i piedi,
c-comunque».
Basta.
Improvvisamente, la giovane
Pitchiner ritrovò la
calma.
Mentre con una mano teneva lo
scettro nero in
posizione per assicurarsi che la sua preda non andasse da nessuna
parte, con
l’altra richiamò a sé dei rami sottili
ma affilati dall’albero dietro le spalle
della serpentessa. Puntò il dito sulla sua fronte, in mezzo
agli occhi, pronta
a dare il comando di trapassargliela.
«Ultime dichiarazioni da
fare prima di morire?»
«Solo che da qui a poco
avrete l’intera Quetzalli alle
calcagna, e non vorrei proprio essere qui quando
accadrà» fece spallucce «però
se mi ammazzi magari ti perdonano, c’è una taglia
mica indifferente sulla mia
testa!»
«Vedrò di
ricordarmelo».
Un rapido movimento del dito, e
quelle punte legnose che
parevano coltelli scattar-
“Marigold?”
Sbatté le palpebre una,
due, tre, cinque, dieci volte,
Emily Jane, ma la guardiana era sempre lì a fissarla, il
volto privo di una
qualsiasi espressione, con quei suoi occhi che parevano due smeraldi
appena
estratti dalla fredda pietra che le scavavano nel profondo delle iridi
dorate.
Incredula, lasciò cadere
il bastone a terra.
Allungò una mano per
sfiorarle le guance morbide che
avevano sostituito le dure squame dell’Ophidian, ma
l’altra le afferrò il polso,
sorridendole. Guidandola con la propria, di mano, gliela
poggiò sul ventre,
invitando a toccarglielo.
Quando Madre Natura
abbassò lo sguardo, per poco non
si prese un infarto: era gravida.
Fremente di risposte,
cercò un qualsiasi segno di
conferma o smentita da Goldie, ma lei non rispose a nessuna delle sue
domande,
continuando invece a sorride; semplicemente, scostò il
pesante maglione che
aveva addosso, tirando fuori sotto da esso una specie di voluminosa
sfera
appuntita. Tirò un sospiro di sollievo.
Finché non vide il
“bambino”, almeno.
Un grosso bocciolo di un bianco
candido con venature
argentee, circondato da foglie di un tenue verde pastello che lo
racchiudevano
e lo proteggevano similmente al guscio di un uovo.
Il Seme.
Il Seme di Tandokka.
Ciò che avrebbe potuto
far rinascere la città devastata
da Apophis in quattro e quattr’otto, ma che Marigold si era
trascinata con sé fra
le fiamme, condannando la sua regina a doversi fare il culo per -non-
riportare
all’antico splendore il suo stesso regno.
“Lo faccio per il tuo
bene, min kjærlighet, un giorno lo
capirai”, le parve di sentirle dire, le stesse identiche
nonché ultime parole
che le aveva sentito pronunciare settecento anni prima.
Non avrebbe permesso che le cose
finissero allo stesso
modo di allora.
Si protese verso il prezioso
artefatto, intenzionata a
farlo tornare nelle mani della sua legittima proprietaria;
improvvisamente,
però, il Seme iniziò a marcire: da bianco che
era, diventò prima marroncino,
poi marrone scuso e giallastro e grigiastro e, infine, nero. Allora,
delle
fiamme dello stesso colore iniziarono a fuoriuscire dai petali,
avvolgendoli
insieme a Marigold.
“No! No! Non di nuovo!
Non un’altra volta! NO!”, tentò
di gridare, ma nessuna parola uscì dalla sua bocca.
Disperata, si gettò in
quello che era ormai un vero e
proprio incendio, incurante del fuoco che le scioglieva la pelle e la
faceva
soffocare riempiendole i polmoni e le liquefaceva gli occhi prima che
potesse
vedere il Seme bruciare come già in passato era accaduto.
In quella scoppiettante frenesia
rossa e arancione e
gialla, le parve di udire delle parole uscire dalla sua bocca, ma
quella era
immobile. Anche perché era ormai cenere.
«Ridammi
il
Seme! Ridammelo! Non fare stronzate!»
«Non
posso.
Devi imparare, devi migliorare, devi crescere: se te lo ridessi
indietro, nulla
cambierebbe. Ti amo, Emily, ti perdono».
«Del
tuo
perdono non me ne faccio un cazzo! Voglio il Seme! Voglio il-»
«Ue’
guagliuncella! Bell ‘sto piezzu ‘e lignu!»
A svegliarla dalla sua
allucinazione, un esemplare di Phobos
in atteggiamenti napoletaneschi che la punzecchiava col suo scettro.
La Pitchiner scosse la testa,
confusa e con il
crepitio delle ossa bruciacchiate nelle orecchie: era… viva?
«Cos… cosa
vuoi?» biascicò, ancora frastornata.
«Voglio che parevi una
statua di marmo, per gli dei,
ti eri letteralmente paralizzata!» gli urlò contro
il rosso. «Non ti muovevi,
non rispondevi, non respiravi nemmeno, hai persino lasciato cadere il
tuo
scettro e per poco quella» indicò Myricae,
stramazzata a terra in una pozza di
sangue «non trovava la forza di reagire, rifilandoti una
codata in faccia.
Fortunatamente, il tuo prode cavaliere l’ha neutralizzata
prima che lo facesse
e ora è incosciente, ma a un certo punto ho pensato -e
ammetto, anche sperato-
che fossi schioppata. Parevi un’allucinata in trip da
LSD».
Un’allucinata? Oh, certo.
Avrebbe dovuto aspettarselo.
Nascondendo quanto fosse ancora
scossa dopo aver
rivisto nuovamente Marigold -rivivendo i suoi ultimi momenti di vita,
gli
ultimi minuti e parole che aveva scambiato con lei- nelle sue
allucinazioni, si
avvicinò a Myricae. Da brava donna di poca fede qual era, le
diede un colpetto per
vedere se reagiva in qualche modo o se invece fosse veramente svenuta;
ottenuta
una risposta negativa, si chinò su di lei e
afferrò uno dei serpenti tramortiti
che aveva per chioma.
Il tempo che una lama di plasma
-una delle tante forme
con le quali incanalava il proprio ritrovato controllo sui fulmini- le
apparisse fra le dita esili, e lo tagliò di netto. Se lo
legò attorno alla vita
come una cintura.
Phobos, che la fissava stranito,
decise di non farsi
domande su certi feticismi: vai a sapere cosa passava per la mente di
quella
pazza normalmente, figurati adesso che era pure -molto probabilmente-
strafatta
di allucinogeni!
Una domanda, tuttavia, si decise a
farla.
«Senti un po’,
ma chi è Marigold?»
Emily Jane si girò di
scatto, allarmata «Dove hai
sentito quel nome?»
«Lo ripetevi
continuamente, prima, e-»
«E occupati di nascondere
quel sacco di carne da
qualche parte, prima che ci trovino per davvero perché
attirate dall’odore del
sangue» cambiò discorso in fretta e furia. Gli
strappò lo scettro dalle mani, guardandolo
come se fosse un ladro «Bruciala, mangiala, nascondila: non
m’interessa come te
ne liberi, basta che ti sbarazzi di lei. Magari mettila insieme a
Phentesilea, viva
o morta che sia, così fanno una bella riunione mamma e
figlia».
«Credevo che volessi
ammazzarla, Myricae».
«E voglio ancora
farlo» confermò «ma solo quando ci
sarà anche Harmonia ad assistere. Voglio che mi veda
uccidere la sua fidanzata,
voglio che la senta implorare la mia pietà e poi sia lei, a pregarmi di risparmiarla, voglio
portarle via ciò che di più
caro ha al mondo: allora, e solo allora, strapperò il cuore
dal petto della
Regina di Phantasia e lo darò in pasto ai maiali, o ai leoni
insomma. Sarebbe
tremendamente egoista tenerci solo per noi lo spettacolo di impiccarla
e
tagliarle la gola, non credi?» ridacchiò.
Il rosso, caricandosi spalla il
corpo esamine
dell’Ophidian, fece spallucce «Se ne sei
convinta»
Lui convinto non lo era nemmeno un
po’, a dirla tutta.
Liberarsi subito della naga avrebbe
costituito un
problema in meno del quale preoccuparsi poi, ma non aveva importanza:
aveva appena
avuto l’ennesima dimostrazione che quella benedetta donna
fosse guidata dalla
vendetta e dall’impulsività, più che
dal buonsenso e dalla tattica, di quel
passo si sarebbe scavata la fossa da sola.
E lui l’avrebbe coperta
di terra.
---
«Elgara vallas, da'len,
melava somniar. Mala taren
aravas, ara ma'desen melar».
“Sono morta?”
Crollata in uno stato che la teneva
sospesa fra il
mondo terreno e quello dell’aldilà, quel pensiero
fu il primo che si palesò
nella mente di Myricae, appena le sue orecchie udirono quelle parole:
lingua
Ophidians, non aveva dubbi.
Come pure non aveva dubbi di essere
passata a miglior
vita, ormai, considerando che sentiva pure le voci.
«Iras ma
ghilas, da'len, ara ma ne'dan ashir?
Dirthara lothlenan'as, bal emma mala dir».
Sapeva che non c’era
nulla di reale, che suddetta voce
era solo un qualche rimasuglio di coscienza riversatosi nel calderone
di quei
frammenti di vita che un cervello morente era solito riportare a galla,
ma
l’idea di essere in punto di morte -se non già
morta da un pezzo- e di provare,
vedere, sentire, certe cose, non la disturbava affatto,
tutt’altro.
Sorrise: aveva bei ricordi, legati
a quelle parole, i
migliori della sua infanzia.
Ricordi dove la sua Amìl
-e occasionalmente anche la
sua Ammë, che però ammetteva divertita di avere
altri talenti che il canto- la prendeva
dolcemente fra le braccia e iniziava a cullarla, cantandole quella
ninna nanna
finché non vedeva gli occhi della sua creaturina squamata
chiudersi e cedere al
sonno, rigorosamente raggomitolata su se stessa come un armadillo. Non
aveva
mai saltato neanche una notte, a cantare per lei, persino le poche
volte in cui
si era sentita poco bene aveva sempre e comunque trovato il modo di far
sì che
quelle parole la accompagnassero fino alla mattina seguente.
C’era sempre stata, per
lei, sempre.
«Tel'enfenim,
da'len, irassal ma ghilas. Ma garas
mir renan…»
Sebbene fosse consapevole che si
tratta di un mero e
semplici scherzo della sua mente che si stava spegnendo, decise di
goderselo
fino in fondo, abbandonandosi alla stessa sensazione di accoglienza
materna che
-ora come allora- stava pervadendo il suo corpo martoriato.
Voleva solo dormire, adesso, tutto
il resto poteva
aspettare: aveva sonno, tremendamente sonno, e la voce di sua madre
come
colonna sonora della sua dipartita era quanto di meglio potesse
chiedere.
Così come
l’aveva accompagnata fin dai primissimi
istanti di vita, lo avrebbe fatto anche durante gli ultimissimi prima
della
morte.
«…
Ara ma'athlan vhenas… »
O presunta tale, insomma.
A riportarla alla cruda
realtà, una fitta lancinante
che le percorse il torso dall’addome al collo, dove ricordava
che fosse
penetrato lo scettro di Madre
Natura. Non riusciva ancora a muovere la testa per alzarla quel tanto
che
sarebbe bastato per vedersi il ventre, motivo per cui non
notò
come le sue ferite stessero iniziando almeno
superficialmente a richiudersi, segno che la naturale rigenerazione dei
suoi
tessuti stava -seppur lentamente- facendo effetto, chiudendogli il buco
che
l’attraversava da una parte all’altra.
Dopo un numero indefinito di
tentativi, riuscì appena
ad abbassare lo sguardo, ma non vide altro che sangue, e sangue, e ancora sangue,
una distesa rosso scuro -ora
fresca, ora già rappresa- che gli riempiva il campo visivo,
forse anche a causa
di quello che le colava dal serpente mozzato fin sul viso.
Tentò di
alzare un braccio per toccare la zona dolente, ma una mano dalle squame
bianche
la fermò, posandoglielo di nuovo delicatamente sul petto
come a dirle “non è il
momento”.
«…
Ara ma'athlan vhenas…
yeldë‘nin».
… Yeldë?
Improvvisamente,
l’ultima occasione in cui aveva sentito qualcuno rivolgersi a
lei con
quell’appellativo, quello di “figlia”, le
rimbombò prepotente nella testa, le
parole di Valië Axechasti in persona che si facevano strada
fra mille altri
pensieri: “Miulë Myricae, yeldë di
Airë Tári Hippolyta e Airë Tári
Phentesilea.
Per il reato di gweriad, il Calaciryandë ti condanna a
morte”.
Da allora, non era più
stata yeldë di
nessuno, tantomeno Miulë di qualsivoglia harem, solo Myricae:
non Myricae “la
figlia”, “la principessa”, “la
traditrice”, semplicemente Myricae e basta.
L’aveva chiamata
yeldë, ma la serpentessa
che la stava tenendo fra le braccia, che le accarezzava il volto, che
le
cantava quella nenia tirata fuori dai meandri della sua infanzia, non
era sua
madre, non poteva esserlo.
Erano passati sette secoli
dall’ultima
volta in cui l’aveva vista, ma -pure dopo tanto tempo-
sarebbe ancora stata perfettamente
in grado di riconoscerla, e non era quello il caso.
Airë Tári
Phentesilea era bella,
bellissima, nulla a che vedere con ciò che aveva davanti.
La sua coda bianco perlacea non era
costellata di chiazze sanguinanti, dove le squame mancanti lasciavano
intravedere
i muscoli sottostanti e, occasionalmente, qualche osso.
La sua pelle candida non era
sfregiata da
squarci talmente profondi da lasciare la carne gocciolante liquido
rosso a
penzoloni, ridotta a brandelli come se fosse stata azzannata da una
bestia inferocita.
Il suo volto non aveva mai
conosciuto i
segni dei lividi gialli e viola e neri derivati da chissà
quale brutale
pestaggio, lo stesso che -a quella- aveva spaccato il naso, il
sopracciglio, il
labbro, che le aveva fatto scoppiare i capillari dei bulbi oculari
iniettandoli
di sangue.
E, soprattutto, la sua cascata di
serpenti
bianchi dalla testa rossa non era mai stata recisa alla base come a
quella
povera naga; sua madre, la regina, mai e poi mai avrebbe fatto una cosa
del
genere ai suoi piccoli ofidi sibilanti, che le si avvolgevano ora
intorno alle
braccia a chiederle coccole, ora sulla schiena ad acconciarsi in mille
modi
differenti.
Non era la sua Amìl, non
poteva esserlo,
non doveva.
Se lo fosse stato, allora non si
sarebbe
mai perdonata di aver permesso che l’avessero ridotta in
quello stato. Mai.
Mai.
Non seppe se l’altra
l’avesse fatto
intuendo il suo conflitto interiore o semplicemente perché
volesse farlo, se le
dita le tremassero per l’emozione o per un qualche trauma
fisico alle stesse,
se stesse sorridendo o se invece avesse la bocca paralizzata come il
viso
gonfio per le botte; ora come ora, sapeva solo che, adesso, quella
sconosciuta
le teneva teneramente il viso fra le mani, guardandola con dolcezza
infinita.
In quegli occhi verde lime acceso
identici ai suoi, Myricae trovò tutte le risposte che stava
cercando.
«…
Mamma…?»
Phentesilea le sorrise: settecento
anni dopo,
Quetzalcoatl aveva risposto alle sue preghiere.
____________________________________________________________
Angolino dell’autrice
HELLO MY BRUDDA!
Entrata alla Ugandan Knuckles a
parte, eccovi la traduzione
della ninna nanna, la canzone è “Mir
Da’len Somniar - Dalish Lullaby” dal gioco
di Dragon Age, qui
trovate il link se voleste ascoltarla :)
“Sun
sets,
little one, time to dream. Your mind journeys, but I will hold you here
Where
will you
go, little one, lost to me in sleep? Seek truth in a forgotten land,
deep
within your heart
Never
fear,
little one, wherever you shall go. Follow my voice
I will
call
you home
I will call
you home, my daughter.”
Questo capitolo è uscito
un po’ più lunghetto di
quanto avessi previsto, spero che non sia particolarmente pesante per
la
moltitudine di cose che succedono… sempre meno di quelle che
accadranno poi, MA
DETTAGLIH :D
Non ho altro da dire, se non che
ringrazio come sempre
chi legge e chi recensisce, a questo punto della storia avere anche le
vostre
opinioni è una cosa che mi riempie di gggioia <3 e
che mi fa capire come il
disagio da faciola abbia contagiato altre menti oltre alla mia,
ammettete che
Phobos è sempre nei vostri pensieri! :’D
Alla prossima!