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Autore: Frulli_    10/03/2018    3 recensioni
Inghilterra, 1911. L'Europa sta attraversando un periodo di serenità e ricchezza, la "Belle Epoque". E se Parigi è il fulcro della moda e del divertimento, Londra certo non è da meno! Lo sanno bene i membri della famiglia Norton e dei suoi servitori, che per la Stagione londinese vengono catapultati in un mondo di divertimenti e finzione, dove tutti sono un pò "sottosopra", e rischiano di perdere di vista le cose vere e reali della vita, come i sentimenti e l'amicizia...
Genere: Romantico, Slice of life, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento
Capitoli:
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6. Shall we dance?


 
Londra, 1 Marzo 1911
 
«Buongiorno!» esclamò allegra Charlotte, entrando in cucina. Era l'alba del primo giorno di Marzo, il suo mese preferito. Le cuoche avevano già acceso i fornelli ma l'ambiente non era caldo come a mezzogiorno, e istintivamente si strinse nello scialle che aveva sulle spalle. Si servì con latte e pane con burro, poi si sedette al tavolo insieme agli altri.
«Come siamo contente oggi» commentò Josephine, sorridendole.
«Che avrai da essere felice, Murphy, non lo so» rispose Mark, facendole un occhiolino.
«E' iniziato Marzo! E' il mese della primavera, del mio compleanno e...di San Patrizio» rispose Charlotte, bevendo poi il suo latte caldo.
«Il tuo compleanno?» chiese subito Mark, curioso.
«Lo sai che Miss Norton non ti farà festeggiare San Patrizio. Metà della servitù è irlandese, qua, se tutti voi ve ne andate rimaniamo in cinque» precisò secca la capo cuoca.
«Ma io devo rendere a Miss Herbert e Lady Maud, non certo a Miss Norton. Voglio solo andare a messa e vedere Londra in festa, non celebro San Patrizio da quando ho lasciato l'Irlanda...»
«Non è un mio problema» brontolò la cuoca, tornando ai fornelli.
Josephine le fece una smorfia dietro. «Comunicalo prima a Miss Rossi, anche se lei ti dirà sicuramente di chiedere a Miss Herbert. Vedrai che potrai uscire...che cos'è quell'aria riflessiva, Conti?»
«No niente...pensavo...» mormorò Mark, guardando il muro davanti a sé «comunque sia, quand'è che fai il compleanno?»
«Il diciassette marzo...» ammise in imbarazzo Charlotte. Risero gli altri, divertiti.
«Un'irlandese nata il giorno di San Patrizio, meglio di così si muore! E' come se io fossi nato il giorno di San Gennaro» esclamò divertito Mark.
Charlotte scrollò le spalle, divertita. «Speriamo che Miss Herbert sarà clemente»
«Se c'è una persona clemente, quella è sicuramente Miss Herbert...» rispose Josephine, alzandosi «Forza ora, tutti a lavoro e non battiamo la fiacca!» esclamò la capo cameriera, riportando la testa dei suoi sottoposti verso la lunga giornata che li attendeva.
Charlotte fece per uscire dalla cucina ma Mark la trattenne, tirandola appena indietro.
«Conti, dai...fammi andare a lavorare» mormorò lei, cercando di divincolarsi docilmente.
«Aspetta...che ne dici se venissi con te al San Patrizio?» le chiese lui, fissandola.
«Cosa? Vuoi venire alla festa? Lo sai che siamo tutti irlandesi, no?»
«Siete comunque cattolici. Tra me e te cambia solo la lingua in cui preghiamo»
Charlotte lo fissò, dubbiosa. Alla fine scrollò le spalle. «Come vuoi»
Mark sorrise raggiante e mollò la presa, lasciandola andare.


«Ethel, cara!» la voce mielosa di Candice irruppe nell'ingresso di Little Hall, portando una ventata di ricchezza. Era prima mattina, ed Ethel era già stufa della sua voce stridula e il suo sorriso falso.
«Candice...» rispose con garbo, andandole incontro e baciandole le guance. La guardò, mentre salutava suo fratello e Lady Maud. Indossava un completo di gonna stretta e camicia di pizzo italiano, con un soprabito lungo bianco e blu, ed un maestoso cappello a visiera ampia e piume blu che svolazzavano ovunque. Rispetto a lei, che indossava un semplice abito bianco e una cinta rossa, sembrava la Regina d'Inghilterra.
«Ci vogliamo accomodare?» chiese Lady Maud, che per un attimo squadrò da capo a piedi Candice. Si diressero tutti nella sala da thè, e Daisy si accostò lentamente ad Ethel, sorridente.
«Non ho mai visto un abito del genere qui a Londra. Viene da Parigi, sai? E costa più di quello che tu potrai mai permetterti...»
«Lo immagino. Ma mi basta quello che ho, Daisy, grazie dell'interessamento»
«Quello che hai non ti appartiene comunque, Ethel. E dubito che non ti piaccia un abito del genere: potresti persino diventare più bella con indosso una cosa simile...» sussurrò Daisy, sorridendo malevola, prima di superarla ed entrare prima di lei nella sala.
Ethel sollevò gli occhi al cielo, paziente. Solo un paio d'ore, si promise, e poi mi levo dalle scatole con una scusa qualsiasi.
«Oh vi invidio così tanto, Miss Candice» annunciò Daisy, sospirando teatreale «vorrei avere la vostra bellezza e il vostro gusto nel vestire»
«Oh nulla a cui non possiamo rimediare, Miss Daisy! Perchè non usciamo oggi pomeriggio, per qualche atelier? Miss Ethel, anche voi ovviamente!»
«Vi ringrazio per l'invito, Miss Candice, ma questo pomeriggio ho impegni inderogabili in orfanotrofio. Sto preparando i bambini per una piccola performance in via della visita di Sua Maestà»
«Oh, mi spiace...ci sono novità sulla visita?»
«Non ancora, Miss, ma vi farò sapere quando le avrò» precisò Ethel, sorridendo appena.
Cadde il silenzio, carico di indifferenza avvolta da finto interesse. Nessuno aveva più nulla da dire, e per un po' si limitarono a bere thè e mangiare brioche. Ethel lanciò un'occhiata a George davanti a lei, impassibile, come se ogni pensiero della sorella gli stesse scivolando addosso. Lui era così, totalmente diverso da lei: riusciva quasi a isolarsi dal luogo in cui era. Un'abilità quanto mai utile in casi come quelli.
Candice, dal canto suo, si limitava a sorridere tra sé, masticando quel buon cibo ed ammirando la tappezzeria e la mobilia, memorizzando facilmente quello che un giorno le sarebbe piaciuto ereditare. Sorrise verso Alfred, al suo fianco: la sua piccola miniera di nobiltà.
Bussarono alla porta, la prima occasione per tutti di ritornare alla realtà e trovare l'occasione più adatta per parlare.
«Avanti» annunciò pacata Lady Maud, la quale sembrava crogiolarsi perfettamente in quel silenzio sordo.
Josephine entrò con la posta del giorno, sorridente.
«Grazie cara...» mormorò la padrona, cominciando a sfogliare le lettere non appena richiusa la porta. L'unica interessata alla posta sembrava solamente Candice, che avrebbe pagato oro per un collo più lungo di quel che possedeva già, solo per guardare quelle preziose carte da lettera. La Contessa, di tutta risposta, ne scartò molte sbuffando.
«Ma la gente non sa che fare del proprio tempo, per sfruttarlo in stupidi balli e thè del pomeriggio? Mai un invito per un incontro letterario o un dibattito politico. Ethel, per te» e porse alla giovane una lettera chiusa.
«Come sei liberale, mamma» commentò ironico Alfred, sorridendole.
«Sono semplicemente stufa della gente. Lo sarete anche voi un giorno, vecchi come me. La gente è noiosa, Alfred, seppur finge di non esserlo. Un dibattito politico è molto più avvincente delle chiacchiere da thè»
«Davvero dite?» chiese Candice curiosa.
«Oh non ascoltate mia madre, Miss Candice. Si sta appassionando alla causa delle suffragette, con uno slancio romantico che poco si addice ad una nobildonna»
«Cara Daisy, quando io avevo la tua età non avevo diritto nemmeno a ballare con chi diavolo volevo, figuriamoci a parlare in questa maniera a mia madre. Il movimento suffragette non è un movimento politico, ma sociale: vuole rendere libertà e diritti a tutte le donne, non ad una nello specifico»
Daisy si zittì, come capitava spesso quando argomentava un discorso con sua madre: perdeva sempre, Lady Maud era troppo intelligente per farsi mettere i piedi in testa.
«Un discorso da vero Primo Ministro» commentò ironico Alfred, affatto offensivo. Lady Maud sorrise appena, prima di sbiancare appena in viso dopo aver letto il mittente di un'ennesima lettera.
«Che c'è, madre?» chiese Alfred quasi preoccupato.
«Zia Adel...» mormorò l'altra, sollevando appena la busta.
«Oh Dio, ma è ancora viva?» chiese il figlio, sconvolto.
«A quanto pare...»
«Chi è zia Adel?» chiese ingenuamente Candice.
«La sorella settantenne del mio compiato marito, Miss. Una Duchessa, di vecchio stampo oserei dire, ancorata a costumi antichi e impolverati, che ostenta con un orgoglio maniacale. In poche parole, viene in casa mia per comandare e la cosa non mi piace affatto. Ma siccome è una parente non posso cacciarla, non trovate?»
«Immagino di no...» commentò Candice, non sapendo di preciso come rispondere.
«La donna più odiosa sulla faccia della terra» precisò Alfred «una strega, che vuole comandare come se questa fosse casa sua, e noi la sua servitù, solo perchè Duchessa. Quando arriverà?»
«I primi giorni di Aprile, in tempo per Pasqua» rispose Lady Maud, richiudendo la lettera appena analizzata «e questa volta non sarà sola, con sé verrà sua nipote, la Duchessa Agatha Howard. Dovrebbe avere la tua età Daisy, se non erro, quindi mi raccomando di essere gentile con lei. E' la prima volta che visita Londra»
Daisy per poco non si strozzò con la brioche «A vent'anni è la prima volta che viene a Londra??»
«Se sei la nipote di zia Adel è già tanto. Sii gentile, te ne prego»
«Va bene, va bene..» si limitò a dire Daisy, sospirando scocciata.
«Non vedo l'ora di conoscerli!» commentò entusiasta Candice, sorridente.
«Buon per te, Candice. Anche Ethel non vede l'ora, vero?» chiese Daisy, sorridendo divertita.
«Vi è simpatica?» chiese curiosa e ingenua Candice.
«Da morire! Zia Adel tratta Ethel come io tratterei la peggiore delle sguattere»
«Daisy, può bastare...» mormorò George, aprendo bocca per la prima volta da quando erano seduti.
«Che c'è! Ho detto solo la verità, no? Vero, Ethel?»
«Perchè vi tratta come una sguattera, Miss? Siete una nobile come lei» commentò ingenua Candice. Ethel si sentiva il viso andare a fuoco: gli occhi si inchiodarono sul toast ancora immacolato nel piatto, e lo stomaco sottosopra le faceva solo venire solo la nausea.
«Beh, nobile...» commentò ironica Daisy.
«Daisy, taci» fu Alfred questa volta a parlare, rimbeccando la sorella minore insieme ad un'occhiataccia.
«Che noiosi che siete. Ethel non si è mica offesa, no?» chiese Daisy, sbuffando.
«Affatto...» mormorò Ethel, la voce roca per essere stata in silenzio tutto quel tempo. Non riuscì a guardare negli occhi Daisy, ma sollevò gli occhi davanti a sé, verso George. Così facendo incluse nel suo raggio visivo anche Alfred, che la guardava mortificato. Si limitò a sorridergli appena, riabbassando lo sguardo sul tavolo e, di conseguenza, sulla busta chiusa che Lady Maud le aveva dato. Felice di potersi distrarre dal pensiero di zia Adel, andò finalmente ad aprirla: lesse velocemente prima di sorridere raggiante.
«Abbiamo una data per la visita di Sua Maestà. Il ventitrè Aprile»
«Il giorno di San Giorgio, che scelta azzeccata» commentò Alfred sorridendo.
«Oh che gioia, Miss! Allora potrò venire?» chiese Candice entusiasta.
«Certamente, si...suppongo che possiate venire tutti, ovviamente» precisò Ethel sorridendo appena e guardandoli. Daisy si limitò a scrollare le spalle, come se la cosa non la interessasse, e cadde di nuovo un silenzio assordante finchè il pendolo non battè l'ora. Ethel si pulì la bocca e si alzò, quasi in concomitanza con George, come se si fossero letti nel pensiero.
«Già andate via?» chiese subito Candice, dispiaciuta.
«Mi dispiace Miss, devo andare in orfanotrofio»
«E io ho degli affari da svolgere in centro» precisò George, sorridendo appena.
«Mi spiace! Spero di poterci rivedere presto» annunciò Candice, sorridente.
George ed Ethel uscirono dalla sala, andando a recuperare i soprabiti all'ingresso.
«Visto Candice come ti sorrideva? Secondo me ti sta facendo la corte» mormorò Ethel a George, ironica.
«Ma smettila...» brontolò George, sistemandosi il cappello.
«Ethel!» Alfred la richiamò con garbo, avvicinandosi a loro a passo svelto.
«Si?»
«Volevo...chiederti scusa, per Daisy. E' stata maleducata e ingiusta con te»
«Non ti preoccupare, Alfie, davvero» commentò Ethel, sorridendo, mentre si sistemava il cappellino in testa.
«Insisto, invece. E per farmi perdonare vorrei invitarvi per una cena che terrò nel mio appartamento, fra due venerdì. Ci saranno altri amici. Verrete?»
«Non credo che Daisy sarà molto contenta di dividerti tra noi e lei» osservò ironico George.
«Daisy non sa della cena e non deve saperlo. E' troppo piccola e superficiale per stare sempre in nostra compagnia» precisò Alfred «Verrete, allora?»
«Va bene, certo...» mormorò Ethel, sorridendo appena.
«Bene, ottimo...ci divertiremo, vedrete» rispose Alfred, fissando i due qualche secondo prima di tornare nella sala della colazione.
«Vuole farsi perdonare per tutti gli anni in cui ha fatto finta di non conoscerci» mormorò George uscendo di casa.
«Non è sempre stato così...» rispose nostalgica Ethel, seguendo il fratello.
L'aria gelida in quel primo giorno di Marzo la colse quasi di sorpresa. Si alzò il bavero del cappotto e infilò le mani dentro le tasche, incassando la testa nelle spalle. Socchiuse gli occhi per il vento freddo che le tagliava la faccia e fece per entrare in macchina dopo che George le avesse aperto la portiera.
«Miss Herbert!» Charlotte la richiamò dietro di sé, sul ciglio di Little Hall. Si volse di scatto, osservando la giovane irlandese sulla porta, stringendo le braccia al petto.
«Non stare fuori al freddo!» esclamò Ethel, preoccupata. Tornò indietro, facendo segno a George di attenderla.
«Volevo chiedervi una cosa, Miss. Un permesso...per il 17 marzo, se possibile»
Ethel si accigliò qualche istante. Poi collegò la data familiare alla rispettiva festività. «San Patrizio...»
Charlotte annuì, con aria colpevole.
Ethel le sorrise, scrollando le spalle. «Nessun problema per me, Ethel. E' la vostra festa, ve lo meritate!» esclamò, facendole poi segno di tornare dentro casa e tornò di corsa verso la macchina, salendo.
«Tutto bene?» chiese George, accendendo la macchina mentre la sorella si sedeva al suo fianco.
«Sì, mi ha chiesto un permesso per il 17 marzo, per San Patrizio...»
«E che le hai detto?»
«Di sì, ovviamente. Chi sono io per non farla festeggiare?» chiese retorica.
«Ethel...lo sai che è lo stesso giorno che abbiamo la cena a casa di Alfred, vero?» mormorò George, immettendosi in strada.
Ethel tacque, socchiudendo gli occhi. Ovvio che non lo sapeva.
«Certo che lo so» brontolò scrollando le spalle «Sono ancora in grado di prepararmi da sola, le braccia le ho. E se proprio ho problemi, mi aiuterà Miss Rossi»


 
Londra, 17 Marzo 1911

La cena a casa di Alfred si rivelò tutto fuorchè “una cosa tra amici”. C'erano almeno venti invitati, tutti in frac e abiti da sera, ed Ethel aveva dovuto trascorrere tutto il tempo della cena tra suo fratello e un tal Mr Mallard, l'amico americano di Candice. Persino il “piccolo appartamento” di Alfred -come lui stesso l'avevo definito- era tutto fuorchè piccolo: un salone, un salotto, una sala pranzo, una cucina, cinque camere da letto con relativi bagni e persino una piccola sala da ballo. Per i popolo, quello, era un castello.
«Miss Herbert, perchè non ci suonate qualcosa al pianoforte?» chiese Candice, superando il vociare di sala e riportandola alla realtà.
«Oh, suonate, Miss Herbert?» chiese subito Mr Mallard, che non l'aveva mollata un secondo.
«Ci provo, signore...»
«Oh non badate alla modestia di Miss Herbert, Mr Mallard. E' un talento eccezionale!» esclamò Candice «vi prego, suonate per noi»
«Se proprio volete...» mormorò Ethel. All'alzarsi delle donne seguì all'unisono quello degli uomini, diretti nel salone principale.
«Permettete?» chiese Mr Mallard a George, porgendo il braccio a Ethel.
«Si certo, Mr Mallard, prego» rispose George, senza nessun accenno a sorridere. Si era limtato a farlo solo se strettamente necessario: Ethel sapeva che voleva solo fuggire. Ed anche lei, ma temeva che avrebbe dovuto sorbirsi ancora per un po' Mr Mallard. Mentre entravano nel salone, studiò ancora una volta Candice, davanti a lei. Indossava un abito di seta grigio e turchese, con una fascia nera alla vita strettissima; i ricami sul petto e sul bordo della gonna, fatti completamente a mano, riproducevano la coda aperta di un pavone. Un animale alquanto azzeccato per lei. I capelli biondi raccolti alla Gibson dietro la nuca ed un grosso zaffiro appeso al collo completavano il suo aspetto opulente, radioso, il simbolo di una ricchezza ostentata. Si sedette su un divano al centro del salone, circondata da almeno sei persone. Il pavone era decisamente azzeccato per lei.
Mr Mallard la scortò fino al pianoforte a coda, quindi la fece accomodare sullo sgabello.
«Suonateci Debussy, volete Miss?» chiese Candice, guardando Alfred che si limitò a sorridere.
Non poteva che scegliere Debussy, pensò Ethel sconfitta. Melodie melense, vellutate, che scivolano via. Se c'era un compositore che amava meno degli altri, quello era proprio Debussy. Ma era ospite a casa di Alfred, non voleva dargli un simile dispiacere.
«Certamente» annunciò.

Dopo la sua esecuzione, applausi e qualche vago complimento, aveva chiesto il permesso di allontanarsi un attimo per prendere una boccata d'aria. Con un calice di champagne e le mani poggiate sulla balaustra del balcone che si affacciava su Londra, si allontanò con i pensieri lontano da lì, da quella cena di false amicizie, false apparenze, false conversazioni. La musica del grammofono distraeva tutti, e dal vetro delle finestre vedeva solo sagome danzanti e allegre. Chissà George, povero caro...
«Sei migliorata ancora dall'ultima volta che ti ho sentito suonare» il commento di Alfred la fece quasi sobbalzare. Raddrizzò la schiena, sbuffando una risatina.
«Per favore, dai...Debussy. Più semplice di lui ci sono le ninna-nanne per i bambini» commentò di getto, non calcolando il fatto che la richiedente di Debussy era stata proprio la fidanzata del ragazzo.
Alfred tuttavia non se la prese, anzi: rise. La prima volta da quando era cominciata quella serata.
«Non hai tutti i torti. Ma che vuoi che ti dica...piace»
«Oh lo so bene, ed è davvero piacevole. Ma se devo misurare la mia bravura tecnica su qualcuno, certo non lo faccio su Debussy. Avrei compreso Listz, o Beethoven, ma...»
«Il tuo eterno amore» la interruppe lui, divertito. Si ricordava della sua passione per Ludwig?
«Sì, lui...» precisò Ethel, finendo il suo champagne e stringendo le braccia al petto. Aveva freddo ma non sarebbe rientrata lì dentro per nulla al mondo, se non per salutare ed andarsene via. La sua pazienza con i ricchi era finita.
«Hai freddo?» le chiese Alfred, leggendole nella mente. Si tolse prontamente la sua giacca, poggiandola sulle spalle dell'amica. Le sorrise, divertito.
«Che c'è, che ridi?» chiese lei, divertita a sua volta.
«E' che...mi sembri diversa, cambiata. Più insofferente, più...»
«Vecchia?»
«Avrei detto “matura”, ma vecchia andrà benissimo» rispose lui, prendendola in giro.
Ethel sospirò, teatrale. «Sono insofferente, si. Ho quasi trent'anni, e perdo facilmente la pazienza. Non dovrei, lo so, ma è così»
«Succede anche a me. Anche quando non dovrei...tipo in Parlamento» precisò Alfred, scoppiando a ridere insieme all'amica.
«E' grave!» commentò Ethel, divertita. Sospirarono e rimasero entrambi in silenzio.
«Mi sarebbe piaciuto rimenere ragazzino per sempre...» ammise Alfred, serio, affiancandola «a vivere con voi, con mamma...con papà. Persino con Daisy, se le fossi stato più vicino forse ora non sarebbe così»
«Non puoi dirlo. E purtroppo cresciamo tutti, invecchiamo tutti. Tutti dobbiamo prenderci le nostre responsabilità. I tempi dei divertimenti finiscono sempre» commentò Ethel, sorridendo.
«Ti ricordi come eravamo?»
«Abbastanza. Tu sei molto cambiato» rispose secca lei.
«Dici?» chiese sincero Alfred, confuso.
Ethel annuì, senza tuttavia spiegarsi. Indicò solo la sala alle loro spalle, con un cenno del mento. «Quella gente, Alfie...non ti appartiene, non è lontanamente come te. Tu...eri diverso, un tempo. Non so cosa sei diventato, ma a volte fai paura devo ammetterlo»
«Ma no dai, non sono così cambiato. Sono ancora un folle» precisò lui, quasi a difendersi.
«Ah su questo non ci sono dubbi!» precisò lei, ironizzando. Ridacchiaro insieme, fissando il panorama londinese.
«Ti va di ballare?» propose poi dal nulla Alfred, annoiato.
«Non ci rimetto piede lì dentro, Alfie, lo sai»
«Ma io intendevo qua» precisò il ragazzo, sorridendo divertito.
«Vuoi...ballare qui sul balcone?» chiese Ethel, divertita. Sentiva perfettamente la musica provenire da dentro la sala, seppur gli invitati fossero lontani e troppo occupati per preoccuparsi di loro. «Ok...» si limitò a rispondere, scrollando le spalle. S'infilò per bene la giacca del ragazzo e presero a danzare il valzer sul balcone, in estrema comodità, parlando e chiacchierando tra loro.
«Sarai pure brava al pianoforte, ma come ballerina fai pietà» ammise Alfred sincero, ricevendo come risposta un pestone sul piede. Risero entrambi, felici e spensierati come lo erano un tempo, da giovani. Continuarono a danzare, a scherzare e ridere uno dell'altra. Poi la musica finì ed Alfred le fece fare una giravolta, prima di porgerle un teatrale inchino.
«Alfred?» la voce interrogativa e melensa di Candice li raggiunse come una doccia d'acqua gelata. I sorrisi si spensero ed Alfred si raddrizzò di colpo, come se fosse stato colto in flagrante.
«I tuoi ospiti ti stanno aspettando, caro...»
«Arrivo subito, perdonami cara. Ethel, ci raggiungi?» il viso di Alfred era teso e duro, il sorriso scomparo.
«Si, certo...arrivo...» mormorò Ethel, sfilandosi la giacca e porgendola ad Alfred. Deglutì a fatica, incrociando lo sguardo di Candice. Per un istante, le sembrò di vedere un lampo di astio nei suoi confronti. Poteva darle torto? Alfred era fidanzato, non avrebbero dovuto ballare lì, come due bambini. Non lo erano più.

 
 
La sera stessa, sempre a Londra...
 
Mark doveva ammetterlo. C'era qualche altra piccola differenza tra irlandesi e italiani, oltre alla lingua. Il chiasso, tanto per dirne una: gli italiani erano chiassosi, ma Dio se lo erano gli irlandesi.
Erano in quel locale da circa tre ore e le orecchie fischiavano per la troppa musica, per i fischi, le grida, le risate...e le birre, sicuramente anche per quello. Aveva dovuto cedere, arrendersi e ammettere davanti a Charlotte che gli irlandesi erano più chiassosi degli italiani, aveva dovuto pagare da bere a quattro energumeni coi capelli rossi e poi si era accomodato su una sedia, a bordo pista. Le maniche della camicia arrotolate, le bretelle cadenti dalla vita, i capelli scompigliati, ed un forte odore di birra e malto che lo tormentava. Ma era felice, forse dopo anni.
Era nella tana di Murphy, era tra i suoi simili...e non erano poi così male gli irlandesi, doveva ammetterlo. Sollevò gli occhi lacrimanti per il caldo e l'alcool e incrociò la figura di Charlotte. Era estasiato, non aveva mai visto una ragazza così bella in vita sua. E di italiane belle ce n'erano, ma Charlotte...era raggiante.
Vuoi per l'alcool che anche lei aveva bevuto -seppur meno degli altri- o vuoi per la gioia di essere “tra i suoi simili”, Charlotte girava e saltellava come un folletto, ballando. Rideva e parlava con le altre ragazze...Mark si promise che da quel giorno avrebbe voluto vederla sorridere in quella maniera almeno una volta al giorno.
La canzone del momento terminò e salirono gli applausi fin sopra il soffitto, tra grida e risate. Era San Patrizio, nessun poliziotto avrebbe mai interrotto quel baccano. Senza contare che metà dei poliziotti londinesi erano irlandesi. Qualcuno poteva persino trovarsi lì, fra di loro.
Quando riprese la danza successiva, Mark vide Charlotte sgranare gli occhi e corrergli incontro, tendendogli le mani.
«Ti va di ballare?» era una domanda, ma lui sapeva benissimo che non poteva esserci risposta negativa.
«Murphy, davvero, ho i piedi che mi vanno a fuoco!» si ribellò mollemente Mark, alzandosi comunque dalla sedia.
«Bene, perchè è proprio così che si chiama questa canzone! Balla!» gridò lei, trascinandolo in mezzo alla pista. Presero a saltare e girare intorno alla pista, stretti l'un l'altro. Seppur la presa iniziale era stata timida, presto Mark aveva capito che per danzare in quella maniera doveva stringerla a sé, e con decisione.
Mica scemi questi irlandesi, pensò divertito mentre volteggiava per la sala, insieme ad altre coppie, con Charlotte che lo guidava verso quella folle danza. Danzavano così veloci che non riusciva quasi a vedersi i piedi, capendo così perchè avessero chiamato quella musica “piedi di fuoco”...
«Bravi!» gridò Charlotte verso i musicisti una volta finita la musica. Applaudirono in molti, e sembrò quasi che la serata virasse verso la fine. Molti andarono a rifocillarsi con la birra, l'ideale per il caldo infernale che si respirava nella sala. Charlotte, così come molte ragazze, si era tolta vari strati dell'abito rimanendo solo con la gonna ed una camicia bianca, le maniche ripiegate fin sopra i gomiti, e solamente le calze ai piedi.
«Allora? Ti stai divertendo?» gli chiese Charlotte, porgendogli una pinta di birra. Seppur non avesse bevuto quanto lui, Charlotte era assolutamente lucida. Strabiliante.
«Sì Murphy ma se continuo a bere in questo modo mi devi trascinare a casa, sappilo» precisò lui, confuso.
«Ma dai smettila, hai anche mangiato lo stufato! Tranquillo, questa birra è fatta bene...non ti sentirai male, te l'assicuro» commentò lei, prima di abbracciarlo «sono felice che sei venuto» mormorò nel suo orecchio, sorridendo e staccandosi da lui.
Mark la fiprese al volo, circondandole la vita. «Anche io Murphy, davvero...» rispose, cercando di avvicinarsi per baciarla. Ma si bloccò, o lo costrinsero a farlo, quando una signora prese Charlotte e la trascinò verso il centro della pista.
«Canta!» esclamò. L'invito fu seguito da tutti che dopo qualche secondo presero a incoraggiarla.
«Canta, canta Murphy!» gridava anche Mark dopo un po', vedendo la reticenza della ragazza. Alla fine accettò e salì sopra uno sgabello, ben vista e sentita da tutti. Cadde il silenzio, così intenso che sembrava quasi assordante.
Nessuno dovette dirle cosa cantare, la ragazza chiuse gli occhi e cominciò a intonare una ballata irlandese1. Aveva una voce vellutata e bassa, calma, come la voce rassicurante di una madre. Mark chiuse gli occhi, poco prima di vedere molti vicino a lui asciugarsi qualche lacrima di troppo, certo non provocata dall'alcool.
Le ballate irlandesi erano come quelle italiane: parlavano tutte di un amore perduto, che spesso e volentieri era la propria patria. Che fosse Irlanda o Italia aveva poca importanza: era casa, ed era lontana. Tutta quella gente lì intorno a lui era dovuta andare via da casa per povertà, per fame, per mancanza di lavoro, per i prepotenti che li aveva sopraffatti...proprio come aveva fatto la sua famiglia dall'Italia. Ma il fatto di vivere via di casa non significa non pensarci. Anzi, ci si pensava ogni dannato giorno di ogni dannato anno. Pochi potevano tornare a trovare le famiglie, ancor meno potevano tornare a vivere nella propria patria. Erano per sempre esuli, per sempre stranieri...
Quando Charlotte smise di cantare, gli applausi non arrivarono subito. Rimasero tutti in silenzio, interrotto solo da qualcuno che tirava su il naso o qualche sospiro pesante. Poi, lentamente, presero ad applaudire. Charlotte scese dallo sgabello, abbracciando chiunque incontrasse. Si scambiavano parole di affetto e incoraggiamento, come una grande famiglia allargata. Mark fissò la ragazza, sola e lontana da casa sua. Si sentì fortunato ad avere la sua famiglia vicina, a Londra, seppur non avesse molto modo di visitarla.
Abbracciò Charlotte con affetto prima di baciarle la fronte, accarezzandole poi le guance.
«Sei stata brava...»
«Si?»
«Si...» rispose lui, commosso, abbracciandola di nuovo lì in mezzo a tutti quei chiassosi ed emozionati irlandesi.



 
1 La ballata in questione si chiama “Black Velvet Band”, resa famosa dal gruppo The Dubliners, ma il testo è originario di una canzone del '700 circa, quando molti irlandesi, ritenuti “criminali”, venivano deportati in Australia.
  
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