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Autore: Laix    10/03/2018    4 recensioni
Shiho non ricorda quasi nulla dei momenti passati con la sua famiglia.
Non ricorda che suo padre era un uomo freddo e silenzioso, ma così legato a lei da non parlare più per giorni quando la sapeva sequestrata dall'Organizzazione. Non ricorda che sua sorella Akemi, malgrado le prese in giro e le dimostrazioni di superiorità, piangeva disperata nel suo letto quando non la vedeva a fianco a lei in cameretta. E non ricorda che sua madre si era guadagnata il suo diabolico soprannome perché, quando ciò che più amava veniva minacciato, sapeva commettere atti orribili.
Non ricorda quasi niente. Ma c'è stato. E Rei Furuya, che ha ritrovato qualcosa che può riportare tutto questo alla memoria, è pronto a starle accanto in questa tremenda, difficilissima scoperta.
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Come sono scomparsi i coniugi Miyano? Quali erano le loro personalità e come si relazionavano con le figlie? In quali vicende l'Organizzazione ha coinvolto tutti loro nella sua spirale nera?
Della famiglia Miyano non si sa molto, perciò questa FF verrà trattata come una storia quasi del tutto inventata.
[Pairing: ElenaAtsushi, ShihoRei]
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Akemi Miyano, Elena Miyano, Tooru Amuro, Vermouth
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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«Non mi interessa ciò che mi lasceranno fare o meno. Io vado a riprenderla, Elena.» Atsushi prese la giacca e uscì di casa, in piena notte. 

Elena si rannicchiò in solitudine sul divano, guardandolo sparire oltre la porta.
"Sbaglia tutti i test, bambina mia... sbagliali tutti." 

***





4. The devil in details 


«Da brava, piccola. Fammi toccare il tuo braccio.»

Shiho si raggomitolò a terra, chiudendosi su se stessa a guscio.

«Dammi... il braccio, piccola, così finiamo e tu vai a fare la nanna. Hai visto anche ieri com'è veloce. Forza, piccola, il braccio. Piccola.»

La bambina scosse velocemente la testa e si piegò ancora di più verso terra, nascondendosi le braccia. L'uomo molto alto nel camice bianco, uno dei tanti visti in quei giorni, era scuro in viso e il suo sorriso era brutto e sporco.

«E' solo una punturina. Poi finisce tutto, non sentirai male. I bambini forti non hanno paura delle punture, no? I bambini deboli invece piangono. E tu non sei debole. Dai, piccola!»

Lacrime sul viso minuto, il ricordo del dolore causato dall'ago. Il ricordo del liquido che entrava e gonfiava.

«Non ti ha fatto male ieri, no? Ti ricordi quant'è veloce? Eh, piccola!»

Strattone, braccio tirato e strattonato. Guscio rotto, guscio scoperto.

Ago in arrivo.

«NO!»

«DAMMI IL BRACCIO, PICCOLA MERDA!»


***

 

Le strade di Tokyo, nere e deserte a quell'ora di notte, scorrevano velocemente sotto le ruote della sua auto. Con sguardo fermo e determinato, Atsushi guidava verso la sede in cui sapeva si stessero svolgendo i test non solo su Shiho, ma su una serie di persone potenzialmente molto abili. Da far entrare, un giorno, in quel covo di dannati.
Beh, non era il destino che aveva pianificato per sua figlia.
Pigiò più a fondo il pedale dell'acceleratore e in pochi minuti si trovò finalmente sul posto, nei pressi dell'Edificio 4. La sala era la K, questo era riuscito a estorcere al giovane perverso chiamato Gin. Il parcheggio era semi-vuoto, vi sostò l'auto e poi, prendendo un bel respiro, si avviò verso l'ingresso del complesso di edifici in cemento armato. Brutto, grigio, insospettabilmente anonimo. Insospettabilmente colmo di orrore.
Non gli fu difficile, una volta dentro, trovare nel mezzo di quel reticolo labirintico il giusto corridoio che conduceva alla sala d'analisi. In teoria, essendo notte, Shiho doveva trovarsi dormiente in una delle stanzette; ma la teoria poche volte andava adottata come certa, nell'Organizzazione.
Infatti la trovò ancora sveglia. E la trovò chiusa in una stanza di un bianco accecante, a cui a nessuno era consentito l'accesso: anche lui poteva vederla solo attraverso uno spesso vetro.
La sala in cui entrò lui era buia, all'interno vi trovò alcuni scienziati e Pisco a fare da supervisore. Non c'era traccia del pazzo maniaco biondo. Pisco, quando udì la porta aprirsi di scatto per fare entrare un Atsushi privo di qualsivoglia permesso, sgranò gli occhi e si agitò.
«Atsushi? Che ci fai qui? Non è permesso entrare durante i test in cors...»
«Questi test li state facendo a mia figlia. Mi è permesso tutto.»
Pisco si ammutolì. Sapeva che quando Atsushi si metteva un'idea in testa era davvero un processo lungo e complicato fargliela cambiare.
«Bene. Allora accostati a me, in assoluto silenzio, e guarda tu stesso.»
Atsushi eseguì, di malavoglia. E il suo petto fu attraversato da una scossa di fitte lancinanti quando focalizzò meglio lo sguardo su sua figlia: seduta su una sedia imbottita, con dei lacci a tenerle stretti polsi e caviglie, ed uno più spesso a serrarle il collo, aveva la fronte tappezzata di piccoli elettrodi collegati a loro volta ad una macchina che raccoglieva dati. Gli elettrodi erano poi disseminati anche sul suo petto, sulle piccole gambe. Indossava solo una camicia da notte più larga della sua misura, lasciando intravedere diverse parti del suo esile corpo, che pareva pelle e ossa. Ma ciò che più lo colpì fu lo sguardo di Shiho: aveva la bocca serrata e gli occhi spalancati, rossi e acquosi. Costantemente aperti, non batteva quasi le palpebre.
Aveva molta paura.
Ce l'aveva da giorni. E i genitori non le erano stati affianco.
Atsushi aprì la bocca per protestare qualcosa, ma gli uscì solo un rantolo d'aria soffocato. Sentì il proprio stomaco accartocciarsi, il sangue lasciargli il cervello.
Piccola. Piccola mia, santo cielo.
«Tua figlia è straordinaria. Un vero portento. Ci ho visto giusto negli ultimi tempi che sono venuto da voi. In questi giorni ha risposto positivamente a quasi tutti i test, seppur con alti e bassi – ma le vanno concessi, non ha nemmeno 6 anni...» ridacchiò Pisco, sinceramente ammirato. «E la cosa migliore è che non lo faceva nemmeno apposta. Sembrava quasi non si volesse applicare, era molto refrattaria nei nostri confronti. Eppure il suo cervello ha lavorato da solo, messo sotto pressione e stress. Ti confesso anche sotto qualche velata minaccia e timori molto semplici da innescare nei bambini, ma Atsushi, avessi visto il risultato! Ha tirato fuori il meglio...»
Atsushi lo lasciò finire di parlare, poi senza dire una parola uscì velocemente da quella sala, sotto gli occhi perplessi di Pisco. Altrettanto velocemente si avviò fuori dall'edificio e, una volta scesi i gradini di cemento, si piegò in avanti sull'asfalto e vomitò di getto. Una, due, tre volte. Respirando affannosamente, quando capì di aver finito si asciugò bocca e sudore dalla fronte con un fazzoletto. Rimase fermo dov'era ancora per qualche attimo, ascoltando i propri respiri e alzando gli occhi al cielo, sentendo l'acido in bocca, fissando quel manto nero privo di stelle.
Doveva mantenere la calma. Doveva risultare abbastanza inamovibile e sicuro da poterla portare via da quella trappola.
Si avviò prima in bagno, per bere un sorso d'acqua e sciacquarsi il viso. Si guardò allo specchio e modellò la sua espressione nel modo più duro e autoritario che gli riusciva, pronto a rientrare in sala analisi.
Quando rientrò, Pisco gli chiese se andava tutto bene e lui affermò un “sì” secco. Poi, senza preoccuparsi delle conseguenze, Atsushi picchiettò le nocche sull'ampio vetro che lo separava dalla sua bambina e dalla stanza bianco accecante.
«Shiho! Guarda chi c'è? Sono il tuo papà!» disse ad alta voce, convinto che lei lo avrebbe udito.
Infatti Shiho voltò di scatto lo sguardo, per quanto le fosse possibile, verso la fonte della voce. La riconobbe e lo riuscì a distinguere dietro il vetro, nonostante l'altissima differenza di luminosità. I suoi occhi a quel punto cambiarono forma e si rilassarono, un sorriso spontaneo e colmo di speranza le catturò tutto il viso e anche il suo corpo entrò in uno stato di esaltazione, muovendosi nervosamente sul posto.
«Atsushi! Che stai facendo?! Così comprometti gli ultimi test, non devi distrarla!» sbraitò Pisco, seguito dagli sguardi torvi degli altri scienziati in sala.
«Il papà è venuto a prenderti, piccola!» continuò lui, ignorando completamente ciò che gli accadeva attorno. «Resisti ancora solo per qualche minuto!»
Vide Shiho annuire con forza, ripetutamente, guardando contenta il punto in cui credeva di aver distinto suo padre. Quel sorriso diede una forza enorme al cuore di Atsushi.
«Non se ne parla, Atsushi.» disse lapidario Pisco, guardandolo cupo.
«Fai uscire immediatamente mia figlia da quella stanza.» sibilò Atsushi voltandosi di scatto verso di lui e guardandolo dall'alto in basso con sguardo da rettile disturbato nel suo sonnellino: infatti era più alto di Pisco, e per la precisione pure più muscoloso e robusto.
«Non sei tu a dare gli ordini.»
«Chi ha dato l'ordine forse non ha capito che questa è una bambina di cinque anni che alle 4,30 del mattino dovrebbe essere a letto. Le avete già fatto molti test, giusto? Ti sei sbilanciato prima, e ho capito a che risultato siete arrivati. Sono uno scienziato anche io, non serve tutta questa banda di pagliacci che ti porti incollati al culo per capirlo. Non è più necessario continuare con lei, quello che volevi l'hai ottenuto: e adesso, prima che io mi arrabbi sul serio e faccia un po' di caos come si deve ai piani alti, e ai tuoi danni, è meglio che inizi a levare gli elettrodi dalla pelle di mia figlia. Vi do 120 secondi di tempo.»
«Ma chi vuoi minacciare, Atsushi?» rise sommessamente Pisco, alzando un sopracciglio. «Credi che il boss non sia dalla nostra parte? Anche lui è interessato ai progressi di tua figlia, il “caos ai piani alti” rischi di procurartelo da solo. Dai retta a me, stai buono e zitto. E poi vattene a casa.»
«Il boss è dalla tua parte anche quando gli parli delle percentuali che trattieni sul traffico d'armi all'estero, all'insaputa di tutti?» chiese Atsushi canzonandolo, con tono falsamente innocuo e scatenando un lampo d'incertezza negli occhi di Pisco. «Oh, aspetta... non mi vorrai dire che il boss non lo sa?» continuò, estraendo dalla tasca del cappotto il suo telefono cellulare.
«Di che parli, Atsushi?»
«Dei gran soldi che ti stai facendo alle sue spalle. Del fatto che quando mi affidi in amicizia il controllo della tua contabilità, io ci vedo un po' più lungo degli altri.» proseguì imperterrito Atsushi, digitando già sulla tastiera un numero poco gradito a Pisco.
«Okay, okay... aspetta. Fermo!» sussurrò Pisco agitato, afferrandogli il polso con forza e guardandolo torvo negli occhi. «Va bene. Ho capito» e si voltò verso gli altri scienziati in sala. «Entrate e liberate la bambina. Raccogliete i dati rimasti e poi spegnete tutto. Forza!»
Gli scienziati perplessi annuirono ed eseguirono l'ordine. Atsushi si liberò con uno strattone dalla presa di quel verme, gli scoccò un'ultima e terribile occhiata e poi corse nella sala bianca senza mai guardarsi indietro.
«Papà!» esalò la bambina, con un tono tanto vitale che forse non le aveva mai udito prima e con gli occhi che brillavano.
«Eccomi, tesoro! Eccomi qua! Adesso papà ti toglie questi brutti cosi di dosso»
“Si chiamano elettrodi”, avrebbe potuto sentirla mormorare in altre situazioni in cui la sua saccenza prendeva il sopravvento. Ma non in quel momento, dove erano la paura e la gioia, in totale parità, a fare da padroni.
Atsushi iniziò a staccarle di dosso gli elettrodi e a slacciarle nervosamente i lacci che la tenevano legata a quella sedia, e poi, non contento, diede un calcio violento al carrello che sorreggeva tutti i macchinari: questi caddero rovinosamente a terra, alcuni rompendosi e schizzando fuori delle scintille, nel rumoroso disappunto generale degli scienziati.
Prese Shiho in braccio, le protesse la testa e lasciò quella stanza come se stesse andando a fuoco, tenendola stretta e quasi correndo verso l'esterno.
La piccola gli teneva stretto il collo e il viso nascosto nella sua grande spalla. Avrebbe tanto voluto fermarsi un minuto, là fuori, per godersi finalmente la rinnovata vicinanza della figlia, per poterla consolare e farle sentire la sua protezione, la sua presenza mancata negli ultimi e scuri giorni. Ma preferiva correre verso la sua macchina, salirci e schizzare a casa, metterla a letto e stare appiccicato a lei per le restanti ore della notte.
Tuttavia, quando sentì Shiho piangere sommessamente contro la sua spalla, non resse più neanche lui. Durante la corsa esplose in un pianto sommesso come il suo, tenendola stretta a sé come se volesse inglobarla nel suo corpo e con la piena volontà di placare i suoi sussulti e le sue paure di bambina intrappolata.
«Bambina mia, ora papà è qui. Quei brutti ceffi non ci sono più, non ti toccheranno più» biascicò lui in mezzo ai singhiozzi, mentre Shiho aumentava la presa al suo collo e mormorava la parola “papà” a ripetizione. Lui voltò la testa e le baciò la guancia, la testa, la fronte, il naso, con gesti frenetici e ansiosi, come se temesse di vederla scomparire dalle sue braccia. Lei si fece fare tutto questo e in più spostò il viso dalla spalla alla guancia di lui, rimanendovi ancorata e bagnandola di lacrime, unendo le loro lacrime.

***

«Me lo ricordo.» sussurrò Shiho col fiato corto, come se avesse fatto una maratona invece che leggere un diario. Era stanchissima e non aveva staccato gli occhi da quelle pagine nemmeno per sbattere le palpebre. «Cazzo, me lo ricordo adesso.»
«Ti ricordi del periodo in cui ti hanno tenuto lì?»
«No, quello per fortuna no. Ma grazie a queste pagine inizio a ricordare quella notte precisa, in cui mio padre fece irruzione in laboratorio. Ricordo che buttava giù i macchinari a calci e mi staccava tutti i cavi di dosso» mormorò lei, ridendo e scuotendo la testa. «Me lo ricordo, Rei!»
Disse tutto con entusiasmo misto a stupore misto a tristezza. Un miscuglio contraddittorio di emozioni che, con non molta sorpresa di entrambi, formò un paio di grosse lacrime negli occhi della ragazza.
«Mio padre... aveva infranto ogni singola regola imposta dall'Organizzazione... mi salvò contro tutto e tutti...» mormorò lei, tirando su col naso e con le spalle che tremavano leggermente. Rei cercò in tasca un pacchetto di fazzoletti e glielo porse.
«Ricordo così bene la luminosità di quella stanza. E ricordo di essere riuscita comunque a scorgere la figura di mio papà nel buio della loro sala. Non vedevo nessun altro che lui.» strinse le labbra, sentendo come quelle due lacrime sfuggivano al controllo scorrendole sulle guance. Se le asciugò con calma, respirando lentamente e abbassando la voce. «Ricordo che mi parlava dal vetro, mi diceva di stare tranquilla. Mi riportava a casa mentre gli altri gli urlavano addosso.»
Ricordava meno tutto il resto, la fuga da quel posto e l'abbraccio così intimo e caldo del padre. Peccato, perché sembrava essere stata la parte più bella.
«Credo che quella sera...» iniziò Rei, fissando le pagine del diario, «non ti avrebbe lasciato lì per nessuna ragione al mondo.»
«Lo credo anche io. Rei...» biascicò lei, con una inusuale voglia di confidenze; stava entrando in uno stato alterato, simile a quello dell'ubriachezza ma tutto impostato dalle emozioni. «...sta diventando difficile.»
«Cosa? Leggere il diario? Possiamo smettere quando vuoi.»
«No. Rendersi conto di essere stati così amati ma non averlo mai saputo prima con certezza, e non ricordarselo nemmeno.»
Rei le sorrise in modo amabile, un sorriso tanto dolce e sereno da imbarazzare la luce lunare che lo illuminava. Shiho incontrò i suoi occhi senza titubanza. «Avresti forse preferito il contrario?»
«No. Meglio saperlo adesso, piuttosto che il contrario.»
Lui annuì, sollevato. In cuor suo temeva che, se Shiho andando avanti fosse stata troppo male, avrebbe giustamente scagliato le colpe su di lui. Ma in ogni caso, comunque fosse andata a finire, era convinto di aver fatto la scelta giusta consegnandole il diario. In fondo si poteva dire fosse di sua proprietà, sua e della famiglia Miyano.
Shiho non riusciva a smettere di pensare ad Atsushi. A tutta la sana corrente sentimentale che lui aveva instaurato con lei, agli ostacoli che lui doveva quotidianamente superare per assicurarsi la felicità della sua piccola secondogenita, vista dall'Organizzazione come potenziale tassello di un diabolico progetto.
Non riuscì a bloccare il singhiozzo di pianto che la scosse senza preavviso; stava disperatamente cercando di ricordare la sensazione di calore che il padre doveva averle dato durante la fuga, durante l'abbraccio. La voleva nella sua memoria e nel suo corpo, tutta per sé, al più presto. Se era stato così intenso perché non lo ricordava? Forse sua madre aveva esagerato a riportare l'evento, visto che non era stata presente e aveva dedotto tutto dai racconti di Atsushi? No, si era fatta un'immagine di lei molto pignola e sistematica, non incline alle esagerazioni immaginarie. Semplicemente, Shiho doveva accettare il fatto che ricordava poco di un momento che doveva essere stato bellissimo e insostituibile.
«Stai bene?» le chiese Rei esitante e sì, anche preoccupato.
«Sono un po' sconvolta. Ma sono anche tanto, tanto euforica. Vado alle prossime pagine» disse lei di fretta, asciugandosi le lacrime e costringendosi a non lasciarsi andare.
«Sicura di non voler fare una pausa?» le chiese Rei con disinvoltura, ma lei non poté fare a meno di trovarci un secondo fine.
«No, ormai sono dentro a questo vortice. Perché me lo chiedi? Ti sembro stanca?»
«Mi sembri provata.»
«Lo sono, ma non nel senso negativo che forse stai pensando tu. Allora, ti va se continuo?»
Rei sospirò e poi, senza alcun preavviso, allungò una mano per afferrare quella di lei. Percepì subito la sua pelle morbida e lo spessore più esile della sua mano. Shiho, nel tentativo di rispondere qualcosa a quel gesto improvviso, riuscì solo a boccheggiare perplessa.
E poi tirò via la mano. 
«Scusa» si affrettò a dire Rei, nascondendo al meglio l'amarezza che sentiva montargli dentro. «Scusami, ho... agito d'impulso.»
«No, ecco... io...»

Rei guardò altrove, sentendo nelle orecchie il rumore dell'aria. Era solo brezza notturna, ma a lui pareva un frastuono in piena regola.  
Shiho tenne lo sguardo basso, fissandosi la mano che lui aveva afferrato pochi secondi prima. Secondo un "impulso", dichiarava lui. Con la coda dell'occhio lo vide grattarsi la nuca, forse preda dell'imbarazzo, forse alla ricerca di una soluzione. 
Parve trovarla dopo quasi un minuto di silenzio. 
«Speravo riuscissi già a fidarti un po' di me. Ma va bene così, in fondo io non ti conosco ancora bene e sei di certo una ragazza imprevedibile.
»  
«Stare mano nella mano dopo solo qualche ora tu lo chiami "fidarsi"?» provò lei scettica, evitando tuttavia di guardarlo negli occhi. «Perché sai, a casa mia si chiama diversamente.»
«Ah sì? E come, sentiamo?»
«"Flirt".»   
Rei scosse la testa emettendo una risata lugubre. «Si chiama così anche se, durante quelle ore, scavi nel passato assieme a qualcuno, ti lasci andare all'inebrianza dei tuoi ricordi e ti fai un giro in altalena con quel qualcuno per un quarto d'ora senza aver bisogno di parlare?» 
Shiho deglutì, decisa a rispondergli a tono. Alzò la testa per farlo, ma poi la riabbassò sulla mano.  
«Ho ascoltato i tuoi silenzi, Shiho. Li ho ascoltati tutti e tu sai che l'ho fatto, perché mi hai parlato con quelli. Non volevo approfittarmi di te e mai lo farò...
»  
«Non capisco perché tu voglia per forza farlo» sussurrò lei, a un volume così basso da costringere Rei ad aguzzare l'udito.  
Era così fastidiosamente trasparente, quel ragazzo. Così diretto in profondità. Si morse il labbro inferiore. 

«Senza starti a spiegare nulla, preferisco restare così mentre leggi i prossimi eventi. Avere un contatto con te. Vuoi provare a credermi?»
Lei lo fissò senza fiatare. Lui, sentendosi osservato, non si tirò indietro e la guardò allo stesso modo. Mantenendo il contatto lui provò di nuovo, non senza titubanza, ad allungare la mano verso la sua. Lentamente la afferrò, lentamente la avvolse. E stavolta non sentì il rifiuto né la fuga. 
"Ho ascoltato i tuoi silenzi, Shiho, li ho ascoltati tutti."
Lei distolse lo sguardo ma tenne la mano intrecciata alla sua, più grande e robusta, e molto calda. Se lui aveva optato per quel gesto, per starle vicino con un contatto a tutti i costi, significava forse che le prossime pagine sarebbero state poco piacevoli?
Prese un bel fiato, stringendo in modo impercettibile la mano di Rei e dandosi forza. Cercando di credergli. Riabbassò lo sguardo sul diario.


 

  
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