Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: Koa__    13/03/2018    7 recensioni
Sherlock Holmes, eccentrico e severo professore di chimica a Oxford, vive la sua vita tra aule, laboratori e violino. Un'esistenza solitaria, senza amici, né amori. Un giorno, però, nella sua routine entra con prepotenza John Watson, un medico ex militare giunto da poco a Oxford in veste di professore.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mike Stamford, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Abel, Allegro per viola da gamba





Sua madre aveva ottimi gusti in fatto di musica. Non era un qualcosa a cui pensava spesso, tuttavia ebbe modo di ricordarsene nel preciso istante in cui varcò la soglia di casa dei suoi genitori, un piovoso pomeriggio di dicembre. Karl Friedrich Abel, Allegro per viola da gamba. Lo aveva riconosciuto subito, assieme al profumo che andò a stuzzicargli le narici riuscendo a placare i suoi nervi tesi. Nell’aria c’era l’aroma inconfondibile di biscotti al cioccolato, gli stessi dei suoi ricordi d’infanzia e il cui delizioso gusto teneva serbato in un angolo del palazzo mentale. Mamma adorava preparare dolci tanto quanto amava ascoltare musica barocca mentre impastava; Sherlock la riteneva stupidamente una delle costanti della propria esistenza. Sebbene andasse raramente a trovarli, sapeva che per interi pomeriggi non si sentiva altro che Bach o Vivaldi là, dove i felici coniugi Holmes vivevano. Si trattava di una piccola casetta immersa nel verde della campagna inglese, a pochi passi dal centro della deliziosa Littlewick Green. Cittadina minuscola nella quale Mr e Mrs Holmes si erano trasferiti già qualche anno addietro, appena dopo che il loro figlio prediletto aveva ottenuto la prestigiosa cattedra di professore in quel di Oxford. All’epoca abitavano a Chiswick e nonostante vivessero relativamente bene, si erano dichiarati più che sicuri nel voler andare a nord. Pertanto, dopo aver ignorato le vivaci proteste di Mycroft, il quale aveva sempre da ridere su tutto, avevano finito con lo scegliere la deliziosa Littlewick Green. Oltre a trovarsi ben lontana dal fastidioso caos di Londra, Littlewick era situata sapientemente a metà tra i due fratelli. In questo modo chiunque dei due avrebbe potuto andare a trovarli. Cosa che, per quanto riguardava il figlio minore, non avveniva poi tanto spesso. Era piuttosto raro che Sherlock si facesse vedere, di solito era Mycroft il più assennato in simili faccende. Quel grassone idiota andava da loro almeno una volta a settimana, portando con sé il resoconto completo di tutte le attività molto poco rispettabili, nonché pericolose, nelle quali un professore di chimica non avrebbe mai dovuto lanciarsi. Il che era sicuro che preoccupasse mamma e papà decisamente più del necessario. Sherlock era un uomo adulto, non aveva istinti suicidi e sapeva quel che faceva, sempre. O, meglio, quasi sempre. Si detto deciso di saperlo anche adesso, ma a esser sinceri non era più troppo sicuro di sé. Nell’attimo stesso in cui aveva superato la soglia della villetta dei suoi, aveva finito col chiedersi che cosa lo avesse realmente spinto fin lì. Le sue convinzioni pericolosamente a vacillare e ogni più piccola briciola di determinazione, morta nell’eco di quel piccolo atrio. Ne sarebbe uscito distrutto? Si domandò, mordendosi le labbra con tensione crescente. Affrontare quel mostro a due teste di coccole e gentilezze che erano i suoi genitori e farlo per una faccenda così stupida, ne valeva realmente la pena?

Sì, decisamente sì.

A ricordarglielo, una vocina, che da un attimo all’altro aveva iniziato a riecheggiare nella sua testa. Serpeggiava tra corridoi ben illuminati, strisciava sotto porte apparentemente chiuse. Entrava dove nessuno sarebbe mai dovuto anche solo andare a guardare. Aveva assunto i toni di John Watson e gli parlava atteggiandosi come se fosse lui di persona. Ed era inutile provare a scacciarla, di recente il suo palazzo mentale non sembrava più volergli dar retta. Nonostante nutrisse delle speranze che ogni cosa tornasse come lo era stata un tempo, sapeva che soltanto la fortuna avrebbe potuto aiutarlo per davvero. Lui che non si affidava mai a un potere superiore e che riteneva simili discorsi delle mere stupidaggini da superstiziosi. Lui che erano giorni che pregava un implacabile se stesso. Perché stava peggiorando, ecco qual era la verità. Qualsiasi cosa facesse o dicesse, si ritrovava a pensare a John e a quanto straordinariamente bello fosse. A John e alla maniera che aveva di sorridere o sgridarlo per non aver avvisato d’aver finito il latte. John che la sera si sedeva in poltrona con un bicchierino stretto tra le dita e lo osservava di sbieco, chiedendogli se gli andava di raccontare una delle sue tante avventure. John che ormai risolveva casi con lui. Che era in ogni singolo ricordo e aveva occupato memorie che non erano le proprie. Come sarebbe stata la sua esistenza se lo avesse conosciuto da ragazzo? Se lo chiedeva di tanto in tanto, ben sapendo che si trattava di un pensiero sciocco: non avrebbe mai potuto saperlo con esattezza, nessuno sarebbe stato in grado di rispondere a un dubbio del genere ed era proprio inutile tormentarsi nella speranza di trovare una risposta soddisfacente. Anche se ci aveva provato. Aveva tentato di concentrasi su dati di fatto meramente oggettivi, ma l’unica cosa che riusciva a ripetersi era che lui e John si erano avvicinati moltissimo nelle ultime settimane. Troppo e al punto che non sapeva più distinguere i propri desideri da quelle che avrebbero dovuto essere semplici deduzioni logiche. C’erano istanti in cui era convinto di piacergli e in cui credeva di aver scorto dell’interesse da parte sua, altri in cui lo sconforto gli offuscava la ragione. Non sapeva più distinguere l’oggettivo dal soggettivo. Ciò che il proprio cuore desiderava, da quella che invece era la realtà dei fatti. Se avesse creduto in certe sciocchezze, avrebbe senz’altro sostenuto che l’universo gli stava giocando un brutto tiro. Ma Sherlock Holmes era troppo razionale per affidarsi al destino o alla mano del Signore, neanche adesso che si sentiva così scombussolato riusciva a crederci. Per assurdo sarebbe stato più semplice da gestire; si era detto sicuro che l’inspiegabile e il divino fossero facili da capire e proprio perché privi di alcun fondamento scientifico. Mrs Hudson era certa che fosse semplice questione di fede. Ovviamente tutto ciò non lo aiutava per niente col suo problema. Nei fatti, quel che gli stava succedendo era un disastro di proporzioni epiche. John non era un esperimento scientifico, questa era la verità. Sherlock aveva stupidamente sperato di poterlo affrontare alla stessa maniera di come risolveva un caso, ma era stato obbligato a ricredersi. Una notte, dopo esser stato sbalzato fuori per l’ennesima volta dal proprio palazzo mentale in subbuglio, si era costretto ad ammettere che chimica e sentimenti c’entravano ben poco uno con l’altro. Mrs MacGill aveva ragione, alla fine. Un esperimento scientifico o un omicidio sarebbero stati facilmente conclusi anche grazie a un’attenta opera di osservazione compiuta da vicino. Più si studiava come risolvere un ipotetico problema, prima il problema si risolveva. Questa era la logica. Questa era la scienza. John non era fatto di scienza. Ma nemmeno di logica a dire il vero. E Sherlock Holmes, dall’alto del suo razionale sapere, aveva drasticamente sbagliato. Andare fino a casa dei suoi e chiedere aiuto per un qualcosa che non sarebbe riuscito a risolvere da solo, era quanto di più umiliante esisteva. Lo rendeva patetico e ancora più incapace di quanto il mondo non lo facesse sentire. Eppure lo aveva fatto. No, non importava quanto imbarazzante sarebbe stato, doveva avere una risposta.

«Bambino mio!» Mamma Holmes si presentò con quelle esatte parole, spuntando dalla cucina qualche attimo dopo che la porta si fu chiusa con un lieve fruscio. A malapena aveva fatto in tempo a levarsi sciarpa e cappotto, che lei gli era corsa incontro e lo aveva stretto in un abbraccio. Era uno di quelli soffocanti, pensò. Una stretta così traboccante d’amore, che si finiva col non far caso più a nulla, nemmeno alle mani sporche di farina o ai capelli in disordine. Poche parole, dette a gran voce e quel fare così materno, che gli pareva d’avere ancora cinque anni e di piangere per delle ginocchia sbucciate. Lei però lo stringeva, ignorando i mugugni lamentosi di uno Sherlock troppo adulto per poter apprezzare davvero. Lo abbracciò a quel modo, fino a quando non fu proprio mamma ad allontanarsi appena. Ora gli aveva circondato il viso con entrambe le mani e con quel suo modo di atteggiarsi da dottore mancato, prese a guadarlo attentamente negli occhi.
«Sei troppo magro» sentenziò, prima di lasciarlo andare. «Devi mangiare di più, ne parlerò con Mrs Hudson e Mrs MacGill. Caro, è arrivato» aggiunse mentre anche papà li raggiungeva, uscendo dal soggiorno. Lui, decisamente meno espansivo e ben più riservato (e per questa ragione tanto simile a Mycroft), si limitò a regalargli un gran sorriso gentile e una stretta di mano.
«La tua telefonata l’ha messa in allarme, sai che si preoccupa sempre.»  
«Ho fatto i biscotti» precisò quindi lei, ignorando le timide proteste di Sherlock che le chiedeva di non strattonarlo tanto. Lamentele che puntualmente finivano nel vuoto, del tutto ignorate.
«Quando li fa è sempre perché sta in ansia per qualcosa» aggiunse suo padre, con fare saggio. «Ha preparato anche l’arrosto per cena. È tutto il giorno che è di là in cucina.»
«Vieni, tesoro, accomodati in salotto» gli disse invece mamma, spingendolo leggermente verso il soggiorno adiacente dove lo invitò senza troppe cerimonie a prender posto sul divano. Neanche un minuto più tardi, Sherlock Holmes sedeva ritto e rigido con un cuscino ricamato a uncinetto posato sulle ginocchia e un gran piatto di biscotti in bilico su una mano. Abel ancora suonava quell’Allegro. Era a casa, pensò perdendo lo sguardo tra le fiamme vive che bruciavano nel camino. Era a casa.

«Adesso ti porta subito del tè.»
«A stomaco pieno si ragiona meglio, vero caro?»

«Certamente, cara.»

Per quanto determinato fosse nell’esporre con accuratezza tutti i tormenti che lo attanagliavano, una volta che ebbe terminato di sorseggiare quell’ormai famosa tazza di tè e spolverato gran parte degli ottimi biscotti di sua madre, Sherlock si ritrovò a fissare il vuoto. I pensieri spenti da un mutismo che non aveva ragione d’esistere, se non in quell’imbarazzante difficoltà che aveva nel parlare di sé. Sapeva di aver molto da confessare e di dover intessere un discorso alquanto complesso, ma per quanto la sua mente fosse oberata di mezze frasi e fili di parole andate perdute, ora in lui non c’erano che pallide tracce di ragionamenti insensati. Come si affrontava un discorso sui sentimenti? In quale maniera avrebbe mai potuto spiegarsi a dovere, e facendosi capire adeguatamente? Come doveva fare per non annegare in una vergogna palpabile che gli arrossava già le guance? Esistevano forse dei trucchi? Dei metodi? Aveva sempre avuto un buon rapporto con i suoi genitori. Non c’erano stati screzi o discussioni serie, di sicuro nulla che valesse la pena ricordare e assolutamente niente per cui portar rancore. Il grande difetto che avevano, e che li rendeva quasi insopportabili, era il loro essere più espansivi di quanto fosse umanamente accettabile. Non mancavano mai di coccolarlo o di abbracciarlo, ma soprattutto lo stressavano con domande sulla sua vita amorosa, come se l’intera esistenza di una persona girasse attorno alla gente da frequentare. Aveva tentato di far capire loro che non era il caso di preoccuparsi tanto, eppure non era servito a niente. Mamma e papà erano da sempre in ansia per il suo futuro, avevano paura che la sua vecchia sarebbe stata triste e solitaria. Nel corso degli anni, la sua era diventata pura insofferenza, un’intolleranza palpabile verso qualsiasi cosa riguardasse le relazioni. Perciò la sua presenza lì era del tutto assurda, oltre che stupefacente. Non stentava a credere che sua madre non avesse fatto altro che cucinar biscotti per tutto il santo giorno. Anche perché lei doveva aver intuito qualcosa circa il suo stato emotivo, anche se taceva. Non lo aveva assalito di domande, né si era lanciata in un accorato monologo sull’importanza delle amicizie. Semplicemente lo stava lasciando libero. Quella era la prima volta che rispettava appieno la sua vita di uomo adulto, che gli lasciava i suoi tempi senza mettergli fretta. Era già capitato che lo avessero sorpreso, in passato si erano mostrati aperti verso le sue preferenze sessuali e la stessa cosa era valsa per Mycroft. Infatti non era preoccupato da una loro possibile reazione negativa, più che altro si vergognava d’esser stato costretto a tanto. Aveva sempre risolto da sé le proprie questioni. Dopo aver scoperto il sesso, dopo che al liceo si era invaghito del professore di letteratura inglese. Dopo che era rimasto deluso dal primo drastico rifiuto di un’amicizia intima. Aveva fatto da sé e senza mai dover confessare niente a nessuno. Poco gli era importato che mamma e papà sarebbero stati comunque ad ascoltarlo e che non l’avrebbero giudicato per alcuna ragione al mondo, tenersi tutto quanto dentro era stata la soluzione migliore e questo era quanto. Sherlock era una persona mentalmente indipendente, lo era sempre stata. Era solitario nella maniera che aveva di concepire la vita e i pensieri quotidiani, e la situazione peggiorava quando c’entravano casi e lavoro. Aveva faticato ad adattarsi all’esistenza di Mrs Hudson e di sua sorella in giro per l’appartamento e per giorni si era detto sicuro che sarebbe successa la stessa cosa con John Watson. Sebbene fosse stato lui il primo a proporre una convivenza, si era aspettato molta più insofferenza da se stesso. Stranamente non c’era stato nessun periodo di adattamento. Ed era anche per questo che ora si trovava lì. Il suo essersi perfettamente abituato alla presenza di John sotto il suo medesimo tetto e l’invasione lenta che aveva perpetrato nel suo palazzo mentale, erano prive di spiegazioni razionali. L’effetto che quel dottore gli faceva era il più grande mistero che gli fosse mai capitato di dover svelare. John Watson che senza neanche saperlo lo aveva obbligato a spingersi fin lì, oltre l’impossibile. John, l’unico.

«Ottimo tè, cara. Come sempre.»
«Grazie, caro.»


Sì, Sherlock Holmes aveva impiegato un tempo indefinito prima di decidersi a parlare. Quell’Allegro di Abel aveva ormai smesso di suonare da più di una mezzora, e ora un tenue silenzio accompagnava il loro guardarsi di sfuggita. Papà, sprofondato nella poltrona, sorseggiava un tè fruttato il cui profumo serpeggiava per l’intero salotto. Mamma, al contrario, sedeva sul suo stesso divano. A separarla da Sherlock non c’era nulla, soltanto un piccolo cuscino ricamato e pochi fiati di distanza. Le era tanto vicino che non riusciva a non notare quel suo trattenersi a fatica, il mutismo forzato tenuto a bada da un picchiettare di unghie laccate, che tamburellavano impazienti. Quasi frenetiche. Spettava a lui rompere il ghiaccio, ma pur sapendolo faticava a formulare pensieri sensati. E più taceva, più quel loro star zitti si tendeva di preoccupazione. Da un lato suo padre, pacificamente arreso all’attesa e dall’altra c’era lei che non faceva che guadarlo, occhieggiandolo di sbieco e stirando un sorriso o due. Sorrideva, mamma Holmes. Chissà per quale motivo, però era sempre lì a sogghignare. In uno stirarsi di labbra che nasceva d’improvviso e poi moriva, finendo in niente. Anche John lo faceva spesso, ricordò Sherlock accostando i due fatti in maniera insensata. Gli capitava fin troppo spesso di recente e tanto che ormai aveva smesso di andar in cerca di motivazioni, però era così. Tutto gli faceva pensare a John. John che aveva un bel sorriso, uno per ogni stato d’animo od occasione. John che sorrideva anche quando era arrabbiato e che gli regalava le espressioni più affascinanti che avesse mai visto. Ecco, era finito nuovamente a pensare a lui, si rese conto stringendo i pugni. Dannazione! Fu solamente allora che prese la propria decisone, dopo aver divagato con la mente per un’ennesima volta. A quel punto, semplicemente smise di badare alle conseguenze e si lasciò andare. Nessuno lo avrebbe giudicato. Era a casa, d’altronde.

«Qualche mese fa, prima che iniziassero le lezioni, il professor McDougall ebbe un grave malore e fu ricoverato in ospedale.» Aveva iniziato in quel modo la propria confessione. Lo aveva fatto a voce bassa e capo chino, con gli occhi pigiati sulla tazza ormai vuota. Disegnando i fregi dorati con le punte delle dita e osservando, con quello che a tutti gli effetti poteva sembrare un estremo interesse, dei rimasugli di miele mescolarsi alle foglie di tè rimaste sul fondo. Aveva parlato sussurrando, dopo aver finalmente deciso come affrontare un discorso tanto spinoso. Era inutile cominciare dalla fine e sbandierare quei pensieri che per il momento erano incomprensibili per chiunque, trovava invece molto più saggio il suddividere i ragionamenti in compartimenti stagni. Prima avrebbe spiegato come stavano le cose a livello pratico, successivamente avrebbe parlato di quelli che erano i suoi sentimenti. Una cosa alla volta, con metodo. Un pezzo dopo l’altro avrebbe ricostruito il quadro di quella che era stata la sua vita negli ultimi mesi. Gli sembrava un buon piano, stava affrontando le cose con rigore e scienza. Andava alla grande.
«La sua cattedra fu affidata a un sostituto, un certo John Watson. Lo conobbi un giorno, ai primi d’ottobre. Entrò in aula e rimase ad ascoltare due ore di una mia lezione e in un primo momento me ne domandai il motivo. Non dovetti aspettare molto per saperlo perché fu proprio lui a dirmelo, e naturalmente c’entrava Mycroft» mormorò con, adesso, un accenno di stizza che sputò fuori senza nascondere d’essere infastidito. Non aveva mai negato di mal sopportare la tendenza di suo fratello a organizzare dei sotterfugi, oltre alla sua pomposità che lo spingeva a mostrarsi come il più intelligente dei due. Durante l’adolescenza era arrivato persino a detestarlo, salvo poi capire che erano semplicemente i suoi modi di fare a irritarlo da morire. Non valeva la pena sprecare dell’odio per Mycroft Holmes, farlo gli avrebbe conferito un’importanza che invece non aveva e non avrebbe mai avuto. Ora il sentimento non era dissimile da quando avevano quindici anni e suo fratello macchinava in segreto col preside per tenerlo al sicuro. Sapeva badare benissimo a se stesso, diceva con queste esatte parole.
«Aveva reclutato un ex soldato in congedo per via di una ferita alla spalla» riprese, non senza fatica. «Un medico militare che aveva già insegnato in passato, prima di andare in missione in Afghanistan. Voleva che questo tizio mi tenesse d’occhio, avrebbe dovuto avvicinarmi con discrezione e fingersi mio amico. Tutto in cambio di soldi e di una cattedra in una prestigiosa università. Devo ammettere che ha fatto le cose per bene, l’idiota. John però teneva a farmi sapere d’aver rifiutato il denaro e l’incarico, limitandosi a prendere la cattedra. Inaspettatamente, però, quel pomposo idiota non ha fatto alcuna insistenza. Il che mi porta ancora adesso a pensare che abbia considerato la presenza di Watson a Oxford come una sorta di vittoria.»
«Noi lo sappiamo» intervenne suo padre, annuendo con fare severo «tuo fratello ce l’ha detto. Eravamo contrari nel non dirti niente, ma i suoi fini parevano nobili e abbiamo ritenuto saggio avallare il suo piano.»
«Oh, ma certo! Lui è così nobile» gli fece eco, esprimendosi in una smorfia e corrucciando lo sguardo. «Mycroft mi vuole proteggere perché lui è buono e io sono il ragazzino idiota che non sa allacciarsi le scarpe da solo, certo, perdoniamogli tutto.»

«Sherlock.» La voce di sua madre gli arrivò in un moto deciso, colpendolo al pari di uno schiaffo. Non aveva urlato, né alzato i toni. Aveva semplicemente detto il suo nome, a voce chiara. Con la determinazione di chi sa che cos’è sufficiente a farsi obbedire. Non aveva aggiunto altro, eppure il suo rimprovero era palese. Quell’occhiataccia avrebbe fatto tremare un generale dell’esercito, pensò lasciandosi scappare una risatina. Infatti era stata sufficiente a sedare ogni suo inveire o possibile lamentela.
«Non ho detto nulla finora per rispetto alla tua intimità, anche se sei venuto fin quaggiù non ti forzerò a parlare se non ti va di farlo. Però non usare questo argomento per tergiversare. Mycroft ha sbagliato, come purtroppo fa spesso, ma le sue intenzioni erano giuste. Che male può farti una persona che ti guarda le spalle durante le tue indagini? Sappiamo tutto di questo Watson e siamo convinti sia una brava persona perché per quanto tu ti ostini a negarlo, tuo fratello ti vuole bene e sceglie sempre il meglio per te. E ora prosegui pure il tuo racconto, per favore.» No, a quello non rispose. Non subito. Probabilmente spinto da quel briciolo di orgoglio che ancora gli era rimasto, preferì affondare tra i cuscini del divano. A braccia conserte e con un broncio leggero che, via via, lasciava spazio a un piccolo sorriso che tentava maldestramente di nascondere. Aveva dimenticato quanto sua madre potesse essere acuta. E anche adesso, la maniera in cui riusciva a guardarlo, non faceva che confermare tutti i suoi sospetti. Lei gli sondava l’animo come nessuno, lo capiva ma allo stesso tempo non ci riusciva. Sua madre gli somigliava, per certi versi era così. Aveva una mente scientifica, una passione per la musica ed era estremamente intelligente. Fin troppo, in effetti e tanto che da bambino aveva faticato non poco a imbrogliarla. Tuttavia avevano caratteri troppo diversi, e poi lei si addolcita dopo il matrimonio. Per sua stessa ammissione, l’amore l’aveva cambiata pur lasciandola se stessa. Gli aveva giurato di sapere che cosa significasse esser soli e non avere nessuno al proprio fianco, ma poteva realmente comprendere il tormento? Il dubbio atroce e la paura di esser rifiutati? In quel momento, Sherlock si chiese cosa ne sarebbe stato di lui se un giorno avesse avuto un rapporto come quello di mamma e papà; in che l’avrebbe potuto trasformare l’amore? Un’unione felice avrebbe influenzato la sua capacità di analisi? Questo era assai probabile dato che il suo cervello era già un disastro e ancora non era successo niente. In quel momento comprese di trovarsi un bivio. Avrebbe anche potuto formulare altre ipotesi sul futuro oppure perdersi tra i propri pensieri, lungo corridoi e stanze da mettere in ordine, ma al contrario cacciò via tutto. Lei gli stava dando un’opportunità, ma non lo avrebbe obbligato a nulla. Era Sherlock a dover compiere il primo passo. Aprirsi ai sentimenti era un qualcosa che nessuno avrebbe dovuto permettersi di forzare, era un muoversi in avanti e lui lo stava facendo. A minuscoli spiragli. Era la speranza di poter andare verso la libertà d’esprimersi come voleva, ad averlo condotto a Littlewick Green. Questo, mamma lo aveva capito. Cosa fare, quindi? Come andare avanti? Stava quasi per alzarsi e andarsene, fuggire via in un estremo tentativo di dimenticarsi di tutto. Eppure non lo fece. Anzi rimase e, dopo aver chiuso gli occhi, prese a parlare.

«John Watson è un uomo sorprendente» disse a voce ferma, seppur tenuta bassa tanto quanto un sussurro. Nell’aria c’era ancora profumo di biscotti e tè d’arancia, il crepitare del camino e il ticchettio insistente dell’orologio. A inframmezzare quel tenue silenzio, certi sospiri non trattenuti a cui Sherlock si lasciava andare di tanto in tanto. «Non è mai noioso, non è banale e sembra sinceramente interessato alla mia compagnia. Lui ascolta quando gli parlo e mi risponde, addirittura. Tiene in considerazione le mie parole e gli piace quando suono il violino. Pensa che io sia fantastico, riesci a crederci, mamma? Perché io davvero no.» A quel punto rise appena, caricando le espressioni dello stesso sincero stupore che aveva provato la prima volta che John gli aveva fatto un complimento. Ricordarlo anche adesso, provocava uno sfarfallio dello stomaco e un battito sfrenato.
«John ha un “fantastico” e un “meraviglioso” per ogni cosa che faccio. Mi piace stare con lui, anche se mi costringe a guardare film idioti e mi racconta la trama di romanzi che dovrebbero ritirare dal mercato, da quanto sono banali. Mi piace addirittura litigarci con John, mi piace da matti vedere come si arrabbia per delle idiozie. È divertente. Anche se… Beh, credo di essere uno stupido, perché per giorni ho stentato a credere che tutto questo fosse reale. Mi sono creduto impazzito e avevo paura che fosse una mia fantasia. Eppure era vero. Tutto vero. Anche lui è vero, ed è straordinario. Avevo avuto modo di capirlo fin dal nostro primo incontro, ma è solo dopo che si è trasferito che l’ho compreso realmente. Sai che sono stato io a fare il primo passo? L’ho messo di fronte alla possibilità di traslocare, senza preoccuparmi di chiedergli se gli andava di cambiar casa. Ero felice che avesse accettato, però anche su questo mi sono tormentato.»
«Tormentato?»
«Già» annuì vigorosamente, pur tenendo ancora lo sguardo basso e rivolto alle proprie mani lievemente tremanti. «Quando gli ho chiesto di dividere l’appartamento non avevo secondi fini, giuro che è così. Desideravo aiutarlo e spingerlo ad avere maggior fiducia in se stesso, dato che stava faticando ad adattarsi a una vita civile.»
«Non è poi così insolito tra i militari, occorre del tempo prima che tornino a una routine più tranquilla e non dettata dal rigore del campo e poi Watson è stato in battaglia, Dio solo sa cos’ha visto o perduto» confermò suo padre, con l’aria di chi sa perfettamente di cosa sta parlando. Probabilmente era così, d’altronde anche lui era stato sotto le armi (sebbene alla propria epoca), però volle evitare di pensarci. Non era il momento giusto.
«Avevo pensato potesse essere questo il problema, ma credo che il suo caso sia diverso. John non ha nessuno se non una sorella con la quale non parla, la solitudine nella quale è caduto dopo il congedo lo ha portato a credere che la sua vita non valesse più nulla, ha finito col detestare l’insegnamento oltre che se stesso. Quando l’ho capito, mi son detto che gli serviva avere accanto qualcuno che avesse bisogno di lui nelle faccende pratiche di tutti i giorni. Non soltanto un’esistenza più movimentata e piena di misteri e avventure (come lo è il vivere con me), ma anche l’offrire me stesso e la mia pigrizia, la mia svogliatezza e apatia quotidiana perché se ne prendesse cura. John deve occuparsi di qualcuno, è ciò che lo convincere di essere una brava persona. Che lo motiva ad andare avanti nei momenti più bui. Sapevo di non aver molto da dargli da un punto di vista umano, se non stramberie. Eppure a lui pareva non importare.»
«Hai voluto aiutarlo» annuì papà, posando la tazzina ormai vuota sopra al tavolino. A differenza di poco prima, adesso sentendolo parlare aveva distintamente percepito una nota atipica nascosta tra le parole. Perciò si concesse di guardarlo, per un singolo istante si era detto sicuro d’averla vista, una punta d’orgoglio dipingersi sul suo volto. Chissà che cos’avrebbe pensato una volta scoperta la verità, sarebbe stato ancora tanto fiero del proprio figlio? Sicuramente no.
«Davvero ne sei certo? Perché io non ne sono più tanto convinto» ammise, con vergogna. «Anzi, più ci penso e più mi dico che sono stato terribilmente egoista o magari non lo sono... Cavolo, non lo so! Ho una gran confusione in testa, non so più chi sono e mi contraddico di continuo. Quando sono con lui mi sento così me stesso e allo stesso tempo estraneo a chi credevo d’esser diventato.» Concluse a quel modo, sprofondando il volto tra le mani tremanti. Finendo parole e concetti da esprimere perché era più difficile di quel che credeva, tanto che temeva che l’ansia avrebbe finito col divorarlo. A peggiorare le cose c’era lo stomaco che si torceva tanto da far male. E intanto che i denti martoriavano le labbra e la gola si stringeva, un pugno di lacrime gli pungeva gli occhi e minacciava di voler uscire. E intanto la paura non la smetteva di montare mentre i tremiti gli agitavano le dita delle mani, ora strette a pugno. Il cuore batteva frenetico nel petto. Il terrore del non capirsi più gli attanagliava le rughe del viso.
«Io» aveva provato a mormorare poco più tardi, ma inutilmente. Non serviva a nulla. Era andato fin lì e neanche riusciva a dire ciò che avrebbe dovuto essere naturale e semplice. Era un fallito, uno stupidissimo idiota.
Fu mamma a salvarlo. Lei che sembrava saper sempre che cosa fare o dire, era in grado di esprimersi pur scegliendo il silenzio. Riuscì a tirarlo fuori dall’abisso dentro al quale era sprofondato e lo fece così, senza dir nulla. Solo afferrandoli una mano e intrecciando le dita alle sue. Quindi prese a guardarlo con quei due grandi occhi azzurri, aveva uno sguardo dolce e carico d’infinito amore. No, Sherlock non sapeva se sarebbe mai riuscita a capirlo sino in fondo, ma in quel momento non sembrava così importante.
«Ci ho provato» sussurrò qualche istante più tardi «ho cercato di trattare la cosa come se fosse un esperimento, ma non è servito. Ho negato e razionalizzato, ho provato a essere freddo e distaccato. A cancellare tutto, anche lui. Neanche questo è bastato. Non so cosa pensare.»
«Io credo che invece che tu lo sappia» annuì lei, con fare delicato e tono mormorato. Sempre stringendogli le dita, quasi stesse cercando di tenerlo fuori dall’abisso nel quale temeva sprofondasse. «Bambino mio… Sherlock» si corresse «aiutare quell’uomo come hai fatto, pensare al suo bene e accettarlo nella tua vita, è una manna dal cielo per te. E sia io che tuo padre siamo fieri di quello che hai fatto, oltre che felici naturalmente.»
«Ha ragione» annuì papà, con fare sereno e sempre sorridendo com’era solito fare.
«Non è egoismo. Volere vicino qualcuno che si ama non è egoismo e se anche lo fosse, beh, non ci sarebbe niente di male perché le persone che amiamo ci fanno sentire bene. Perché è questo il punto, vero? Ciò che ti tormenta tanto? Tu sei innamorato di lui.»

Gli aveva chiesto se era per questo quello per cui si dannava e Sherlock avrebbe voluto rispondere che sì, era proprio così. Che non faceva che domandarsi se fosse giusto sentirsi tanto bene mentre stava con John, se era lecito volerlo sempre accanto ed esser gelosi di chiunque. Ne aveva il diritto? Domandò a se stesso. Ma, soprattutto, era davvero innamorato come sosteneva sua madre? Ci pensò e lo fece a lungo per i minuti che seguirono. Aveva evitato sempre di risponderle, fino a quando un timido “sì” aveva lasciato le sue labbra. L’annuire lieve del capo e con le parole che non gli uscivano più, ma la verità chiara e limpida davanti agli occhi. Era l’amore che aveva rifiutato e combattuto, quello che ora lo faceva annuire in maniera frenetica. Ciò che lo spaventava a morte era lì, davanti ai suoi occhi e faceva una paura del diavolo. Sherlock non si era mai innamorato prima di allora, se non contava cotte e infatuazioni durante l’adolescenza ma ai tempi era stata principalmente colpa degli ormoni. Adesso invece, il sesso non c’entrava un bel nulla. Trovava John un bell’uomo, ma la sua non era soltanto mera attrazione carnale. Al contrario era l’affinità mentale ad averlo fatto precipitare in quell’abisso di incertezza, l’intimità spaventosa condivisa fin da subito. Il capirsi con un’occhiata. La mente di John pericolosamente già nella sua. Era terrificante. Decisamente terrificante.
«Tesoro, non lo so come andrà a finire tra te e John. Non ho la sfera e non prevedo il futuro, ma una cosa te la posso dire e spero potrà servirti. Non dannarti troppo, l’amore è una cosa stupenda. Sì, potresti anche soffrire o non essere ricambiato, ma goditi il tuo sentimento perché essere innamorati è la cosa più meravigliosa che ti potesse capitare. Dovresti solo lasciarti andare.» Sua madre terminò con quelle parole il breve monologo, gli regalò una leggera carezza al viso arrossato e dopodiché si levò da dove stava. Qualche attimo più tardi uscì dal salotto con una pila di stoviglie rette da un vassoio. Sherlock non smise di pensare neanche per un momento, quelle parole lo tormentarono a lungo e tanto che avrebbe continuato a ripetersele per tutto il viaggio di ritorno. Ciò di cui soltanto dopo si rese conto, era che il suo cuore adesso era molto più leggero.




Continua
 
 


 
*Littlewick Green, villaggio situato praticamente a metà strada tra Londra e Oxford.

Note: Karl Friedrich Abel, Allegro per Viola da Gamba in re maggiore. Meno conosciuto rispetto ad altri compositori barocchi, Abel viene comunque considerato il più grande gambista del settecento.

Questo capitolo è stato difficile da concludere, perché la scorsa settimana non sono stata molto bene e quando domenica ho perso in mano la bozza per correggerla, mi sono resa conto che era una vera schifezza. Credevo di non farcela a sistemare tutto entro oggi... Ringrazio tutti per il sostegno, è sempre divertente vedere come formulate teorie anche quando la trama è quasi del tutto inesistente come lo è in questa storia. Se avete domande sulla mia scelta di usare i coniugi Holmes, sono a disposizione per dei chiarimenti.
Koa
 
   
 
Leggi le 7 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Koa__