Quasi
nello stesso istante in cui
Demelza si precipitava alla porta per uscire a caricare la sua valigia
sul
calesse diretto a Killewarren, Ross nascondeva nella tasca della sua
giacca l’eredità
di Geoffrey Charles. Così, quando si ritrovò di
fronte a sua moglie, ringraziò
il cielo per avergli fatto compiere quell’azione con tanta
celerità, pur non
avendo nessuna idea di cosa potesse contenere quel misero pezzo di
carta.
Evitarono di scontrarsi per un soffio.
“Oh,
sei già tornato!”
Ross
prese la valigia dalle sue
mani per evitare che si sforzasse inutilmente, cercando di apparire
rilassato,
“Andiamo da qualche parte, stasera?”
“Dwight
e Caroline ci hanno
invitati a cena, in effetti. Ma se non sei dell’umore adatto
possiamo rimandare
a un’altra volta…” Possibile che a
Demelza non sfuggisse mai nulla? Le fece
segno di rientrare in casa, poi la seguì e si richiuse la
porta alle spalle.
“No,
non è necessario. E’ andata
meglio di quanto mi aspettassi a Trenwith.”
“Davvero?”
Chiese lei in tono
scettico.
Ross
annuì, desiderando con tutto
se stesso che si accontentasse di quella vaga rassicurazione, senza
pretendere
ulteriori dettagli che lo avrebbero potuto portare a raccontarle
dell’incontro
con Geoffrey Charles e, di conseguenza, all’ammissione di
aver ricevuto dalle
sue mani una lettera di Elizabeth.
“Mi
chiedo se Valentine starà bene…”
“Dal
mio punto di vista, molto
meglio di sua sorella. Almeno lui non corre il rischio di ritrovarsi
addosso la
bava di George ogni volta che lo vede!”
“Ah
si? Perché per te
vuol dire stare bene vivere all’ombra di un
affetto più grande? Rendersi conto della preferenza che
George ha nei confronti
di sua sorella e non avere nessuno che si prenda realmente cura di
lui?”
Gli
sbalzi d’umore, causati dagli
ormoni della gravidanza, iniziavano a farsi sentire. Meglio cambiare
argomento,
pensò Ross. La prese per mano e la condusse in camera da
letto, con un
luccichio particolarmente eccitato negli occhi.
Demelza
percepì il cuore batterle
all’impazzata, mentre la mano di Ross le sfiorava gentilmente
il polso. Eppure
sentiva che quel muro invalicabile, che tante volte si era alzato tra
di loro, aveva
preso a crescere di nuovo.
“Devo
darti una cosa che ho
comprato un po’ di tempo fa a Londra. Speravo di
consegnartela una volta tornato
dal viaggio, ma viste le circostanze ho preferito rimandare.”
Si sedette sul
letto e mise una mano nella tasca interna della giacca, alla ricerca di
una
scatolina di velluto blu. Gliela offrì e aspettò
di vedere la sua reazione.
Quando
Demelza aprì lo scrigno,
la luce dei suoi occhi si diffuse nelle sfaccettature di una pietra
purissima
incastonata in un anello d’oro: era un’acquamarina,
proprio del colore delle
sue iridi, circondata da piccoli zaffiri bianchi.
“Beh,
non posso certo lamentarmi…”
scelse di procedere
con cautela, contenendo
l’emozione suscitata non tanto dall’oggetto in
sé quanto dal valore romantico
che si celava in esso. A volte, infatti, pensava di essere troppo
frettolosa nel giudicare suo marito, come se le venisse naturale
giungere
subito a delle conclusioni non proprio felici sul suo conto, ma mai
come in
quel momento avrebbe desiderato essere smentita clamorosamente. La
delusione sarebbe stata comunque difficile da mandare giù,
perciò preferì moderare la
sua felicità e abbassare le aspettative. Si
appoggiò ad una delle traverse di
legno del letto a baldacchino e tese la scatolina a Ross, invitandolo a
infilarle
l’anello al dito.
“Devi ammettere, però, che il mio regalo
per te è stato decisamente più
originale…” gli disse. Lui le prese una mano
candida e, senza alcuna difficoltà, inserì quel
cerchio dorato nel suo anulare,
poi spinse con una leggera pressione le labbra sulla sua pelle fresca e
le
massaggiò l’addome.
“Non
avresti potuto scegliere di
meglio, lo sai vero?”
In
quel momento, Demelza avvertì un
moto di grande affetto nei suoi confronti, infatti, proprio quando la mano di
Ross iniziava ad allontanarsi per abbandonare la sua vita, una lacrima
tradì la sua
commozione brillando sul suo viso di porcellana. Gli prese di nuovo la
mano e
la rimise sulla sua pancia, abbassandosi per
trovare le sue labbra e baciarlo con tenerezza,
“Scusami, è solo che mi mancava tutto questo...Da
quando sei tornato non ti
riconosco più.”
“Perché dici così?”
Demelza
aprì gli occhi, “Non
fingere di non saperlo, Ross. E se hai paura che, ascoltando la
verità, io
possa rimanere ferita in qualche modo, allora sottovaluti la mia soglia
del
dolore.”
Ross
si allontanò da lei,
passandosi una mano tra i capelli, mentre con l’altra
stringeva la lettera che custodiva
in tasca, ancora sigillata e in attesa di essere letta. Prima o poi
avrebbe dovuto
farlo, se ne rendeva conto. Rimandare quel momento
all’infinito sarebbe stato
controproducente, perché lo avrebbe fatto sentire non
soltanto colpevole nei
confronti di Demelza ma anche ingiusto verso la memoria di Elizabeth.
“Per
quanto assurdo ti possa sembrare, ti chiedo ancora una volta di
avere pazienza con me. Sappi soltanto che i miei sentimenti per te
non sono affatto cambiati, anzi
credo di amarti ancora di più se possibile…
Adesso però faremmo bene a
prepararci, oppure renderemo Caroline ansiosa di poterci sostituire a tavola
con Horace.”
A
quel punto iniziò a togliersi
la giacca e a sbottonarsi il panciotto per cambiarsi d’abito
e indossare
qualcosa di più appropriato per la cena. Demelza, invece,
avvilita da quell’ennesimo
rifiuto, rimase a osservarlo in silenzio e dopo qualche istante
uscì dalla
stanza, portandosi via gli indumenti che si era appena tolto di dosso e
la
speranza che quelle poche parole che le aveva rivolto potessero, almeno
in
parte, contenere una traccia di verità. Dalla sua Demelza
aveva ancora una
carta da giocare nel caso in cui ce ne fosse stato bisogno: la carta della gelosia di
Ross per Hugh
Armitage, il giovane poeta che un tempo era riuscito con le sue parole
a distrarla
dalla solitudine, facendola sentire per la prima volta dopo tanti anni
una persona
importante e degna dell’ammirazione altrui. Anche se le
circostanze che l'avevano spinta a cercare un rifugio temporaneo tra le
braccia di Armitage, agli occhi di Ross, non avrebbero mai potuto
competere con la complessità dei motivi che invece avevano
portato lui a tradirla con Elizabeth, Demelza sapeva che una parte di lui non avrebbe mai perdonato se stesso per aver contribuito a rendere quella sintonia una vera e propria infatuazione.
A
Killawarren i preparativi per
la festa erano appena giunti a termine, quando Dwight udì
una mano bussare
freneticamente alla porta. Il
suo primo
pensiero fu che gli ospiti avessero anticipato
l’appuntamento, ma presto si ricordò
che Demelza, nella sua risposta all’invito, lo aveva avvisato
che sarebbero
arrivati con almeno un’ora di ritardo, specificando che Ross
avrebbe potuto
essere trattenuto più a lungo del previsto a causa di George
Warleggan. Iniziò, allora,
a temere che potesse trattarsi di qualcuno in cerca del suo aiuto ma,
una volta
aperto il portone, chi si ritrovò davanti non fu un
paziente, né tantomeno
qualcuno incaricato di cercare un medico per conto di altri, quanto
piuttosto
un affascinante adolescente giunto sin lì per salutare un
vecchio amico di
famiglia.
Geoffrey Charles
Poldark si tolse il cappello in segno di riverenza e, dopo
un breve
inchino, fece il suo ingresso nella sala da ricevimento che era stata
allestita
per la serata, con un gusto così ricercato e alla moda che
nessuno avrebbe mai
potuto non riconoscere dietro il tocco inconfondibile di un’
esperta come
Caroline.
“Fa
un freddo assurdo lì fuori!
Vi garantisco che non ho calcato sulla porta con tanta foga
senza una ragione.
In verità, non sono più abituato alle temperature
rigide della Cornovaglia. Per
voi è un bene o un male, dottore?”
Dwight
gli sorrise, lieto che
Geoffrey Charles avesse recuperato il suo spirito allegro, ricordandosi
fin
troppo bene l’espressione distrutta con cui lo aveva salutato
il giorno del
funerale di sua madre.
“Beh,
io credo che non ci si
possa dimenticare delle proprie origini. La pelle è un
organo vivo che ricorda
qualsiasi cosa, anche quelle che noi pensiamo di aver rimosso per
sempre...”
“Grazie,
avevo davvero bisogno di
sentirmelo dire.”
Dwight
lo invitò ad unirsi a loro
per la cena, spiegandogli il motivo per cui avevano deciso di
festeggiare
quella sera insieme ai loro amici di Nampara. Il giovane
accettò senza riserve,
ben felice di poter scambiare una cena deprimente in compagnia di
George con un
invito a passare la serata insieme al suo zio preferito, ma
informò Dwight che non
avrebbe potuto trattenersi a lungo. Così, per ingannare
l’attesa, non gli
rimase altro che discutere ancora per un po’.
“E’
una vera noia il collegio!
Per fortuna non manca molto alla fine dei mie studi, perché
mi sono proprio
stufato della vita accademica.”
“E
quali sono i tuoi progetti per
il futuro?”
Geoffrey
Charles si sistemò il
fazzoletto che aveva intorno al collo, "Beh, non mi dispiacerebbe
viaggiare in
giro per il mondo, almeno fino a quando potrò ingannare lo
zio George…” si trattenne
dal ridere.
“Già,
è lui che finanzia i tuoi
studi. Credevo che una volta raggiunta la maggiore età non
fosse più tenuto a
farlo, o sbaglio?”
“E’
per via di un debito d’onore che
aveva con mia madre, credo.”
Seguì
il silenzio, interrotto
soltanto dal piacevole scoppiettare del fuoco che riscaldava la stanza.
Di
colpo un rumore di passi li portò istintivamente a girarsi
dalla parte
dell’ampia gradinata principale, lasciando entrambi senza
parole di fronte ad una
splendida aristocratica in dolce attesa che, quella sera, aveva scelto
di
manifestarsi sotto forma di un’autentica principessa.