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Autore: Piperilla    15/03/2018    2 recensioni
Le storie sono belle, ma la vita vera è un'altra cosa: si nasconde agli angoli delle strade, negli appartamenti anonimi, nelle periferie, e quando va in pezzi, ti dilania come le schegge di una granata.
Questo Vera lo sa bene: piena di ferite e di demoni con cui convivere, ha smesso di illudersi. La vita è crudele, meschina, e senza giustizia.
Anche Vittorio lo sa, ma non se ne cura: dopo vent'anni passati seguendo passione e vocazione, tutto quello che ha realizzato gli si sta sgretolando tra le mani. La vita è dura, irriconoscente, e ha un pessimo senso dell'umorismo.
La vita spesso fa schifo: è questo che pensa Vera mentre si domanda se le cose andranno mai meglio.
La vita a volte è proprio una stronza: è questo che si dice Vittorio mentre si chiede se valga la pena di ricostruire quelle macerie.
La risposta che entrambi si danno è no: ormai pieni solo di rabbia e amarezza, l'unica cosa che riescono a fare è usarle come spinta per alzarsi al mattino. Se lo tengono stretto, tutto quel veleno che gli scorre nelle vene.
Almeno finché qualcuno non glielo tirerà fuori a forza e gli ricorderà che esiste anche altro oltre la rabbia.
Genere: Angst, Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Vera aveva trascorso una settimana insolitamente tranquilla. Finalmente le sue giornate si era­no assestate su una piacevole routine: lavoro col professor Maesani al mattino, palestra tre pomeriggi a giorni alterni, e in quelli liberi lunghe passeggiate al parco con Hermes. Quel martedì sera aveva scelto di dedicarlo a Giulia e Tiziano: aveva cenato da loro, giocato con Ludovica, riso e scherzato con i suoi migliori amici come non succedeva da quasi un anno. Quando era rientrata a casa era mezzanotte passata, e sebbene in quel momento l'allegria l'avesse fatta sentire carica di energie, Vera aveva avuto il fondato sospetto che il giorno seguente sarebbe stata parecchio più stanca.
   Per sua fortuna, il mattino dopo ci pensò Eugenio a strapparla dall'intontimento.
   Erano le sette e venti; la ragazza era già al secondo caffè e seguiva distratta la rassegna stampa in televisione quando sentì suo padre incespicare giù per le scale e correre in salotto mentre parlava al telefono.
   «Sì... sì, l'ho trovato» annunciò trionfante la voce dell'uomo; pochi istanti più tardi, Eugenio sbucò in cucina. «Non lo so, sono in ritardo anch'io...»
   Vera rivolse uno sguardo interrogativo a suo padre. «Che è successo?» mimò, accompa­gnando il tutto con un eloquente gesto della mano.
   «Luciano e Anna sono stati a cena da noi ieri, e a Luciano è caduto il portafogli in sala» ri­spose in fretta Eugenio dopo aver scostato un po' il telefono, agitando il portafogli in que­stione. «Se n'è accorto solo adesso e gli serve, ma non fa in tempo a passare prima di andare in caserma e io sono in ritardo».
   «Be', glielo porto io, no?» disse semplicemente sua figlia. «Tanto sono in pari con il lavoro; devo aspettare che arrivi il professore per sapere cosa devo fare, e lui non arriva mai prima delle nove».
   Eugenio sospirò di sollievo e si premette di nuovo il cellulare sull'orecchio. «Lucià, tutto a posto: passa Vera in caserma a riportarti il portafogli, vai tranquillo. E di che, e di che... ci mancherebbe. Ciao». Diede il portafogli a Vera e le scoccò un bacio sulla guancia. «Grazie, tesoro».
   «Capirai pa', per così poco» rispose lei. «Ci vediamo stasera».
   «A stasera!» rispose frettolosamente Eugenio, già in corridoio.
   Vera scosse la testa tra sé e finì di bere il caffè; stava giusto mettendo la tazzina nella lava­stoviglie quando anche sua madre entrò in cucina.
   «Che era tutto quel casino, prima?» chiese Fabiola.
   «Soltanto papà che non vede mai le soluzioni che ha sotto il naso» sbuffò divertita Vera. «Senti, ma', hai bisogno di qualcosa? Perché devo uscire un po' prima e fare una cosa per papà, e se non ti serve una mano qua a casa, vado subito».
   «Tranquilla, tesoro, devo solo stendere i panni e fare le solite cose: non mi serve nulla» ri­spose Fabiola. L'abbracciò per un momento e le diede un bacio sulla guancia. «Mi raccoman­do, vai piano. Ci vediamo a pranzo».
   «Ci puoi scommettere: ho visto in frigo un avanzo di tiramisù col mio nome sopra» sogghi­gnò sua figlia. «Non osare toccarlo!»
   Fabiola alzò gli occhi al cielo. «Fossi matta! E adesso sbrigati, su».
   «Sissignora» ridacchiò Vera; mise al sicuro nella borsa il portafogli del maresciallo Testa, s'infilò la giacca e uscì.

******

Vittorio capì che qualcosa non andava prima ancora di aprire gli occhi.
   Con un grugnito, il carabiniere rotolò su un fianco e aprì gli occhi: la parete della sua vec­chia camera da letto lo accolse, ancora completa dei poster che aveva attaccato da adolescen­te. Nulla di strano, considerato che sua madre non aveva toccato né buttato nulla, dal giorno in cui lui aveva lasciato quella casa.
   Vittorio scalciò le coperte, si alzò e andò in cucina strofinandosi gli occhi.
   Agnese, sua madre, gli si avvicinò, e non appena fu seduto, gli diede un bacio sulla fronte e iniziò a lisciargli i capelli.
   «Buongiorno, amore di mamma» disse la donna. Vittorio mugugnò e provò a scostarsi, ma sua madre lo tenne fermo. «Sei ancora conciato così?» aggiunse mentre squadrava la vecchia tuta e la maglietta sformata con cui aveva dormito.
   «Mi hai costretto a venire qui alle dieci di sera per sistemarti quel dannato lavandino, hai insistito perché restassi a dormire da te e cerchi di farmi la predica appena sveglio?» bofon­chiò l'uomo. «Tu non mi vuoi per niente bene, ma'».
   Sua madre gli diede un buffetto tutt'altro che gentile sulla testa. «Lo dicevo per te: pensavo iniziassi il turno alle otto».
   «E allora?» sbadigliò Vittorio.
   In silenzio, Agnese indicò l'orologio appeso alla parete.
   «Le sette e un quarto!». Vittorio schizzò in piedi, ormai perfettamente sveglio, e si scara­ventò fuori dalla porta. «Cazzo, cazzo, cazzo!»
   «Modera il linguaggio, signorino!» gli urlò dietro sua madre.
   «Ma che modero» borbottò furioso Vittorio tra sé mentre s'infilava a tutta velocità i vestiti del giorno prima. «Me modera Luciano se faccio tardi, cazzo! N'artro richiamo no!»
   Agnese, che l'aveva seguito, lo guardò saltellare su un piede solo verso il corridoio e tentare contemporaneamente di allacciarsi l'altra scarpa.
   «Non fai colazione?» chiese candidamente la donna.
   «Ma che faccio, mààà» ruggì Vittorio. «Non c'ho tempo manco de lavamme la faccia e se­condo te me posso fermà a magnà? Me devo sbrigà!»
   Sua madre allargò le braccia. «Non c'è bisogno di scaldarsi: non ti trattengo mica».
   «E ce mancherebbe» grugnì lui; recuperò le ultime cose, spalancò la porta d'ingresso e cor­se giù per le scale saltando i gradini tre a tre, pregando tutti i santi che gli vennero in mente di arrivare in tempo al lavoro.

******

Alle otto meno un quarto, il comando di Tor Sapienza era pressoché deserto: quando Vera ar­rivò, c'era soltanto il carabiniere nella guardiola all'ingresso.
   «Buongiorno» salutò cordiale Vera, avvicinandosi al vetro. «Sono Vera Nicolini, avevo av­vertito il maresciallo Testa che sarei passata. È già arrivato?»
   Il carabiniere la squadrò, un po' sospettoso. «Un momento». Alzò la cornetta del telefono e compose un numero interno. «Maresciallo? C'è qui una ragazza che dice di doverla vedere...». Guardò Vera. «Come ha detto che si chiama?»
   «Vera Nicolini» ripeté paziente lei.
   «Vera Nicolini» ripeté il carabiniere nel microfono. «Subito, maresciallo». Mise giù la cor­netta e indicò un battente a vetri poco distante. «Oltre la porta vada a destra, l'ufficio del ma­resciallo è la terza stanza sempre sulla destra».
   «Grazie mille». Vera seguì le indicazioni del carabiniere e imboccò il corridoio: sentì le voci soffocate di alcune persone provenire dalla direzione opposta alla sua mentre cammina­va – probabilmente agenti che si preparavano a iniziare il turno – ma non si fermò fino a quando non arrivò alla porta in questione. Bussò forte e la porta si aprì; Luciano l'accolse con un gran sorriso, sebbene fosse chiaramente di fretta: era ancora in abiti civili e torturava l'oro­logio da polso.
   «Ciao, Vera!» la salutò il maresciallo.
   «Ciao, Luciano» rispose lei. Si frugò nella borsa e ne estrasse il portafogli. «Ecco qua».
   L'uomo prese l'oggetto e lo appoggiò alla scrivania dopo avergli lanciato un'occhiataccia, neanche fosse stata colpa del portafogli l'essergli caduto di tasca. «Grazie per esserti scomo­data a venire fin qui, Vera, sul serio».
   «Non c'è bisogno di ringraziarmi, dai: tanto il tempo ce l'avevo» rispose Vera. «Tu invece mi sembri di fretta, quindi non ti trattengo oltre».
   Luciano allargò le braccia in un gesto eloquente, come a darle ragione. «Lo ammetto, sono veramente in ritardo. Scusami...»
   «Ma va', scusa di che» lo liquidò Vera con un sorriso. Gli tese la mano, e lui la strinse. «Passa una buona giornata».
   «Anche tu, e salutami tuo nonno!» replicò Luciano.
   Vera lasciò l'ufficio e ripercorse il corridoio, poi si fermò un istante per rivolgere un cenno di saluto al carabiniere all'ingresso: era appena uscita dal comando quando Vittorio quasi la travolse.
   «Ehi, Valenti, già isterico di prima mattina?» sbuffò, aggrappandosi alla porta per non cade­re.
   «Sono in ritardo». L’uomo ringhiò a nessuno in particolare. «Non ho neanche fatto colazio­ne. Io non posso iniziare la giornata senza caffè, e non sono riuscito a berne nemmeno un goccio. E poi ho fame!»
   La ragazza arricciò il naso. «Lascia perdere la colazione, Valenti, e vatti a preparare, sennò il maresciallo ti prende a calci» lo ammonì, glissando sul fatto che Luciano stesso era in ritar­do.
   «Grazie del consiglio inutile» grugnì lui: girò sui tacchi e corse a prepararsi, maledicendo d’aver assecondato sua madre restando a dormire da lei.
   Vera lo guardò sparire nell'edificio e scosse la testa, sorridendo tra sé; poi se ne tornò alla propria auto e ripartì alla volta dell'università.
   Vittorio, al contrario di Vera, non le dedicò un secondo pensiero: si precipitò nella propria stanza e indossò la divisa in due minuti netti, poi si unì agli altri carabinieri già intenti a espletare le procedure obbligatorie prima di entrare in servizio.
   Nel momento in cui riemerse insieme ai colleghi del suo turno, nell’ingresso c’era soltanto un barista dall’aria scocciata.
   «Chi di voi è l’agente Valenti?» chiese. Quando Vittorio si fece avanti, gli ficcò un bicchie­rino di plastica e un sacchetto di carta tra le mani. «Caffè doppio, cornetto alla crema e sac­cottino al cioccolato» elencò.
   «Io non ho ordinato niente» replicò Vittorio, cercando di restituirgli il tutto.
   «Lo so» rispose sbrigativo il barista. «Ah, la ragazza che le ha pagato la colazione mi ha chiesto di darle anche questo» aggiunse, porgendogli un bigliettino.
   «Una ragazza? Valenti, che ti sei trovato un’ammiratrice?» lo presero in giro i colleghi.
   Lui non li ascoltò e aprì il foglietto. «“Una colazione sostanziosa tutta per te, così non ap­pesterai le orecchie del tuo collega lamentandoti per la fame. Vera”» lesse sottovoce. Sorrise suo malgrado: Emanuela non si era mai sognata di mandargli la colazione prima o dopo un turno, e non si era preoccupata di fargli trovare qualcosa di pronto da mangiare se non nei pri­missimi mesi di matrimonio. «Ehi!» urlò, richiamando il barista che già si allontanava. Alzò il caffè. «E lo zucchero?»
   Quello sbuffò. «La ragazza ha detto che era inutile metterlo, perché non basterebbe tutto lo zucchero del mondo ad addolcirla».
   Stavolta i suoi colleghi scoppiarono tutti a ridere di gusto.
   «Hai proprio un’ammiratrice… e che ammiratrice! Deve essere una tosta!» commentarono.
   Vittorio addentò il saccottino. «Oh, lo è».

******

Quel pomeriggio, Vera aveva il turno nella palestra di Giovanna; in tuta e con le mani sui fianchi, stava dirigendo già da venti minuti una ragazzina impegnata con gli esercizi sulla tra­ve quando Giovanna l'affiancò.
   «Vè, hai visite» annunciò la cinquantenne.
   «Chiunque sia, aspetterà» replicò l'altra prima di rivolgersi alla dodicenne che si allenava. «Diana, tesa la gamba avanzata, quando prepari la rondata: non piegare il ginocchio». Diana annuì ed eseguì l'esercizio, atterrando in piedi sul tappetino all'estremità della trave; anche Vera annuì. «Bravissima. Lo vedi che quando vuoi, ti riesce? Adesso torna su e rifallo».
   «Vera, ci penso io a seguire Diana. Tu vai all'ingresso» la richiamò Giovanna.
   La venticinquenne sbuffò irritata. «Giovà, mi dà fastidio che vengano a scocciarmi mentre sto lavorando: non lo devono fare a meno che non sia una questione di vita o di morte, e se fosse questo il caso, non saresti così tranquilla».
   Giovanna incrociò le braccia sul petto. «Vera, io apprezzo la tua etica sul lavoro, non sai quanto: quando sei qui non ti lasci distrarre da niente e nessuno per dedicarti completamente ai ragazzi, e non potrei chiederti di più. Quindi, se per una volta sono io stessa a dirti di farti distrarre per cinque minuti, dammi retta, va bene?» replicò. «Ah, il “va bene” finale è solo re­torico: vai all'ingresso e spicciati!»
   Vera alzò per metà le braccia, esasperata, poi si allontanò, consapevole che per nessun moti­vo Giovanna avrebbe ceduto. Percorso tutta la strada bofonchiando tra sé, e quando oltrepas­sò le porte che separavano l'ingresso dalla palestra vera e propria, si trovò davanti Vittorio.
   «Valenti» disse tra i denti la ragazza: se c'era qualcosa in grado di irritarla più di aver inter­rotto il proprio lavoro, era l'averlo fatto per quell'uomo. «Che ci fai qui?»
   «Sono venuto a ringraziarti per la colazione» rispose lui, le mani infilate in tasca e l'aria ri­lassata.
   «Figurati» commentò Vera con una scrollata di spalle. «Non c'era bisogno di venire fin qui solo per questo».
   «Mi andava». Vittorio colse l'espressione sbalordita di Vera e soffocò una risata. «Ti vorrei offrire una birra. Hai da fare, stasera?»
   «N-no» balbettò lei, ancora incredula. «Però non ce n'è bisogno, sai».
   Vittorio sospirò con aria da martire. «Perché stamattina mi hai pagato la colazione e me l'hai fatta portare in caserma?»
   Vera si strinse nelle spalle, improvvisamente insicura: quel mattino aveva solo seguito un moto dettato dall'istinto, facendo portare la colazione a Vittorio, e non si era voluta fermare a pensarci. «Non so... mi faceva piacere, ecco» pigolò.
   «E a me farebbe piacere offrirti qualcosa da bere» disse Vittorio. «Non rendere tutto più complicato come fai sempre: di' di sì e basta».
   «Io... va bene» cedette Vera. «Certo, però, che sei proprio un prevaricatore».
   «Sei tu che fai storie anche per le cose semplici» ribatté lui. «Va bene se ti passo a prendere alle nove?»
   «Guarda che ho sia la patente che la macchina» gli ricordò Vera.
   «Dio, perché devi sempre protestare?» esalò Vittorio, chiudendo gli occhi; si strinse la radi­ce del naso tra pollice e indice per un momento prima di guardare di nuovo la ragazza. «Quando invito una donna a uscire, che sia per amicizia o per altro, sono abituato ad andarla a prendere e riaccompagnarla: mio padre mi ha insegnato così. Quindi, per favore, puoi asse­condarmi e basta?»
   Vera alzò gli occhi al cielo e sospirò. «Va bene, Valenti, come ti pare».
   Vittorio allargò le mani e guardò al cielo a sua volta in un muto gesto di sollievo, poi rubò un pezzo di carta e una penna dal banco della segretaria e ci scribacchiò sopra prima di darlo a Vera. «Questo è il mio numero: più tardi mandami un messaggio con l'indirizzo di casa tua. E non fingere di dimenticartene solo per darmi buca» l'ammonì con le sopracciglia inarcate.
   «Non oserei mai» rispose ironica Vera.
   «Non sei credibile» gli ritorse contro Vittorio, agitandole l'indice davanti al naso. «A stase­ra, Gamba Bionica» salutò mentre usciva.
   «Ancora? Non farmi pentire di averti detto di sì!» strillò furiosa Vera, ma l'uomo se n'era già andato. Incerta se essere esasperata con lui per quell'abitudine di farle saltare i nervi o con se stessa per aver accettato il suo invito, Vera si mise le mani nei capelli e borbottò oscenità per un intero minuto prima di decidersi a tornare da Giovanna, chiedendosi vagamente se la sua ex allenatrice, sua madre e la sua migliore amica non avessero fondato un fan club segre­to di Vittorio Valenti.

******

Vera non era certa di quale follia l'avesse posseduta quando aveva accettato l'invito di Vitto­rio; non l'aveva capito sul momento, e ancora meno riusciva a comprenderlo ore dopo. Erano ormai le nove meno un quarto; aveva mandato il messaggio come intimato dal carabiniere e in quel momento, con il cappotto in una mano e la borsa nell'altra, si chiese per la prima volta cosa avrebbe raccontato ai suoi genitori per spiegare il fatto che stava per uscire con un uomo a cui avrebbe volentieri staccato la testa.
   Sospirando tra sé, Vera uscì dalla propria stanza, sistemò cappotto e borsa perché non la intralciassero troppo e scese a fatica le scale; giunta nell'ingresso, appese tutto all'attaccapanni e seguì le voci dei suoi genitori fino al salotto.
   Eugenio fu il primo a notare la sua presenza.
   «Vè? Che ci fai vestita così?» chiese: in casa sua figlia era solita indossare tute e vecchie felpe, e non jeans e magliette scollate come in quel momento.
   «Esco» replicò lei. «Sono venuta ad avvisarvi».
   Suo padre le rivolse uno sguardo indagatore. «Esci» ripeté. «E con chi?»
   Vera alzò gli occhi al cielo. «Con chi vuoi che esca, pa'? Non è che io sia una grande aman­te del genere umano. Non più, almeno» rispose con un pizzico d'amarezza, nel tentativo di sviare la domanda. «Non ho voglia di mettermi a fare nuove amicizie, credevo te ne fossi ac­corto».
   Eugenio la scrutò con attenzione per alcuni lunghi istanti, poi scrollò le spalle, apparente­mente convinto.
   «Mandami un messaggio quando arrivi e uno quando riparti» ordinò prima di tornare a guardare la televisione.
   «Sì» rispose Vera, alzando di nuovo gli occhi al cielo mentre andava verso la porta.
   «E non fare tardi» le urlò dietro Fabiola.
   «Sì-ì» cantilenò sua figlia; recuperò il cappotto e se lo infilò.
   «E divertiti!» gridò ancora Fabiola.
   «Sì, ma', sì!» urlò in risposta Vera: prese la borsa e zoppicò fuori dalla porta d'ingresso pri­ma che ai suoi genitori venisse in mente di dirle o chiederle qualcos'altro. In giardino accarezzò Hermes, che era corso da lei non appena l'aveva vista aprire la porta, e soppesò la macchina con lo sguardo prima di mettere il broncio e uscire dal cancello.
   La ragazza si guardò intorno: un paio di metri più avanti, sulla destra, c'era un'Alfa gt grigio scuro, ferma ma col motore e i fari accesi. Il guidatore mise il braccio fuori dal finestrino e lo agitò un paio di volte, e Vera raggiunse la macchina per poi buttarsi a peso morto sul sedile del passeggero.
   Vittorio inarcò le sopracciglia. «Comoda?»
   «Abbastanza» rispose Vera, ironica; tirò un po' indietro il sedile e osservò attentamente gli interni dell'auto. «Bella macchina» disse sincera.
   L'uomo batté una mano sul cruscotto con fare affettuoso. «Lo so». Ingranò la prima e si av­viò lungo la strada deserta. «Hai preferenze su dove andare, o ti fidi di me?»
   Vera sbuffò piano. «Visto che si tratta solo di andare a bere qualcosa, farò uno sforzo e pro­verò a fidarmi di te» disse. «Ma se mi porti in un qualche locale equivoco, giuro che ti am­mazzo» aggiunse minacciosa.
   «Pensi davvero che potrei portarti in uno strip club, o magari in un locale di scambisti? Non ci sono mai andato neanche quando ero ragazzo, di sicuro non inizierò adesso e con te» repli­cò Vittorio, alzando gli occhi al cielo per un brevissimo istante.
   «Tieni gli occhi sulla strada, va bene?» scattò Vera. «Quando avrai parcheggiato potrai pure camminare a occhi chiusi, ma fino a quel momento, guarda dove vai».
   Vittorio si morse la lingua per frenare la risposta aspra che gli era spontaneamente salita alle labbra. In una qualsiasi altra situazione, con un'altra persona, niente l'avrebbe fermato dal mandarla al diavolo; ma con Vera, ormai sapeva che si trattava solo di una reazione istintiva dettata dalla paura.
   «Posso parlare o devo anche stare zitto?» chiese calmo dopo aver preso un bel respiro.
   Lei ci pensò su per un po'.
   «Puoi parlare» concesse infine. «Ma solo se non mi fai infuriare».
   Vittorio sbuffò. «La serata promette bene» bofonchiò a mezza voce. Decise di tacere e acce­se la radio: entrambi ascoltarono la musica senza dire una parola, e dopo circa venti minuti arrivarono a destinazione.
   «Eccoci» annunciò Vittorio; parcheggiò vicino all'ingresso e corse ad aprire la portiera per far uscire Vera, che lo guardò con le sopracciglia inarcate e l'espressione beffarda. «Non guar­darmi così, non è un trattamento speciale riservato a te» mugugnò.
   «Non avevo dubbi».
   Chiusa la macchina, i due entrarono nel locale: un posto simile a molti altri, con tavoli di varie misure completati da sedie di legno e in alcuni casi delle panche, un lungo bancone ad angolo e un palco addossato alla parete opposta alla porta. Era caldo e, per essere mercoledì sera, piuttosto affollato.
   Vittorio fece un cenno di saluto all'uomo alla cassa, che ricambiò prima di indicargli un ta­volino seminascosto in un angolo; il carabiniere annuì e guidò Vera fin lì, poi le spostò la se­dia perché potesse accomodarsi. Quando lei gli rivolse l'ennesimo sguardo sardonico, lui s'in­cupì.
   «Togliti quell'espressione dalla faccia, ragazzina: faccio così con tutte le donne, a comincia­re da mia madre. Non sei speciale» ribadì.
   Vera intrecciò le dita e vi appoggiò il mento, guardandolo malandrina. «Anche con tua mo­glie?»
   «Per i primi otto anni» rispose Vittorio, sedendo a sua volta. «Poi una sottospecie di femmi­nismo deviato ha preso possesso del suo cervello e mi ha intimato di smettere di tenerle aper­ta la porta, o spostarle la sedia, e tutte queste cose, perché non è una bambolina delicata inca­pace di farlo da sola: come se il mio essere galante la rendesse meno indipendente».
   La venticinquenne scoppiò a ridere. «E poi dici a me che sono acida? Anche facendo del mio meglio, confronto a tua moglie resto uno zuccherino!»
   «Vero» convenne Vittorio. «Ma visto l'impegno che ci metti, mi sembra giusto premiare i tuoi sforzi».
   Vera rise ancora; era talmente intenta a sghignazzare che sulle prime non notò la cameriera che si era avvicinata al loro tavolo.
   «Buonasera» disse la ragazza. Aveva all'incirca l'età di Vera, e l'ex ginnasta la guardò con invidia: la sua pelle chiara sembrava liscia come seta e contrastava in modo netto con i capelli neri, e i lineamenti delicati facevano pensare a una bambola di porcellana finissima. In più, notò Vera con amarezza, non solo aveva entrambe le gambe, ma sembravano anche lunghe e affusolate, fasciate dai jeans aderenti che indossava. Più la guardava, più Vera si sentiva insi­gnificante: sapeva di essere carina, ma dall'incidente aveva iniziato a curare molto meno il suo aspetto e il suo abbigliamento, e quella ragazza così bella la faceva sentire sciatta e tra­scurata.
   Immersa in quei pensieri cupi, Vera non si accorse che Vittorio le stava parlando fino a quando non le schioccò le dita davanti al naso.
   «Ci sei?» chiese il carabiniere quando la vide battere le palpebre.
   «Sì, ci sono» mugugnò Vera. «Che mi sono persa?»
   «Ti ho chiesto se hai voglia di mangiare qualcosa» disse paziente l'uomo. Vera scosse la te­sta, e lui tornò a rivolgersi alla cameriera. «Non ci serve il menù, prendiamo solo da bere. Per me una...»
   Vittorio s'interruppe: Vera lo stava fissando con aria truce, quasi gli avesse letto nel pensie­ro l'intenzione di ordinare una birra. Sospirò.
   «Prendo una Coca-Cola» annunciò, rassegnato. «Per lei, invece, una birra media chiara» decise. Lanciò a Vera uno sguardo penetrante, quasi sfidandola a rifiutare.
   Vera arricciò il naso. Non amava bere sin da prima dell'incidente, e nell'ultimo anno aveva evitato con cura l'alcool... ma visto che quella sera non avrebbe guidato, poteva concedersi il lusso di gustare una birra e contemporaneamente fare l'esatto contrario di quello che il carabi­niere si aspettava.
   «La birra è perfetta» convenne, con un sorriso talmente finto che la cameriera fece fatica a ricambiarlo prima di andarsene. Vittorio scosse lentamente la testa; Vera, invece, si guardò in­torno, curiosa.
   «È carino questo posto» disse di punto in bianco. «Ci vieni spesso?»
   «Qualche volta, con alcuni colleghi» rispose Vittorio; si sfilò la giacca di pelle e si appog­giò allo schienale della sedia. «Mi annoio a stare sempre in caserma, e lì non è che ci sia granché da fare, soprattutto la sera».
   «A meno che tu non sia di turno, impegnato ad attirare su di te le ire degli automobilisti» lo punzecchiò la ragazza.
   «Oh, quello è senza dubbio il mio passatempo preferito» replicò ironico lui.
   «L'ho notato» commentò Vera sullo stesso tono. «Che poi non capisco perché quel giorno hai deciso di fermare proprio me».
   «Per via del colore della macchina: praticamente si vedeva solo la tua» rispose Vittorio. «Toglimi una curiosità: perché proprio rossa?»
   Vera s’incupì. «Perché è di un colore talmente acceso che non puoi non vederla» rispose piano.
   Lui non aggiunse nulla: sapeva che Vera stava pensando all’incidente. Cercò qualcosa da dire per distoglierla da quei ricordi, ma la fatica gli fu risparmiata dal ritorno della cameriera.
   «Ecco qua: la birra per la signorina» annunciò, mettendo il bicchiere davanti a Vera, «e la Coca-Cola per te» proseguì; appoggiò il secondo bicchiere sul tavolo e rivolse un sorriso lu­minoso a Vittorio. «Posso portarti qualcos'altro?»
   Vera digrignò i denti e lanciò uno sguardo malevolo all'altra donna. «Siamo a posto, grazie» rispose bruscamente prima che Vittorio potesse aprire bocca.
   La cameriera decise che era più saggio battere in ritirata: annuì una sola volta e si allontanò.
   Vittorio guardò con un misto di perplessità e fastidio la faccia scura di Vera.
   «Non trattare male quella poveretta» la redarguì.
   «Non ho fatto niente: ho solo risposto alla sua domanda» reagì lei all'istante. «E comunque, la prossima volta che vuoi andare a rimorchiare, portati dietro un tuo collega».
   Il carabiniere le lanciò uno sguardo sospettoso, mentre un pensiero improvviso gli attraver­sava il cervello: un'idea a dir poco impossibile, ma Vittorio decise di darle voce ugualmente.
   «Ragazzina» esordì cauto, «non è che sei gelosa di me?».
   Vera sbuffò come un toro inferocito di fronte a un drappo rosso.
   «Ti piacerebbe» replicò in tono asciutto.
   «Sicura?» insisté lui. «Perché mi sembri un po' troppo infastidita...»
   Lei lo guardò con qualcosa di molto simile a un pietoso disprezzo.
   «Valenti, a me non piace fare da spalla agli uomini quando vogliono sedurre una donna: l'u­nico che abbia mai aiutato è Tiziano, ma lui è mio amico ed era cotto di Giulia, quindi la si­tuazione meritava un'eccezione».
   Vittorio s'incupì al modo in cui Vera mise l'accento sul fatto che Tiziano fosse suo amico: ai suoi occhi era lampante come lei avesse voluto, in realtà, ribadire che loro due invece non lo erano. Le rivolse un'occhiata torva mentre lei, indifferente, si portava il bicchiere alle labbra e mandava giù un gran sorso di birra. Lui la imitò; rimasero in silenzio per quasi dieci minuti, ben decisi a ignorarsi a vicenda.
   Il primo a cedere fu Vittorio.
   «Sei sempre così... dura» commentò all'improvviso, calamitando gli occhi di Vera su di sé. «Sembra che non ci sia limite alla tua perfidia».
   «Infatti non c'è: ne ho una scorta extra nello scomparto segreto» replicò Vera, battendosi le nocche sulla gamba arti­ficiale prima di ridacchiare debolmente.
   Anche Vittorio, dopo un attimo di stupore, rise.
   «Questa era buona, lo ammetto» disse. D'istinto diede a sua volta una pacca leggera sul gi­nocchio sinistro di Vera, ed entrambi s’immobilizzarono: Vittorio le aveva toccato la protesi, e quello per Vera era un tabù assoluto.
   La ragazza si alzò di scatto, aggrappandosi al tavolo per non ricadere seduta.
   «Devo andare» disse con voce tremante; con dita incerte ripescò una banconota da dieci euro dalla borsa e la lanciò sul tavolo.
   Anche Vittorio si alzò, e provò a fermarla. «Aspetta, Vera, ti riaccompagno!»
   «Non c’è bisogno» rispose subito lei, sgusciandogli tra le dita. «Prendo un taxi. Ciao, Vitto­rio».
   Vera uscì dal locale alla massima velocità consentitale dalla gamba artificiale e l’uomo si lasciò ricadere sulla panca, sentendosi stranamente deluso.
   
 
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