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Autore: Happy_Pumpkin    15/03/2018    1 recensioni
1863, Missouri.
Il Mucchio Selvaggio, una pericolosa banda di tre criminali, assalta un treno in corsa. Alla Contea di Clay, nel frattempo, la vita scorre normalmente; almeno, così credeva lo Sceriffo Nara prima di vedere entrare dalle porte del Saloon un uomo interamente vestito di nero che sembrava cercare qualcosa o, meglio, qualcuno: il Mucchio Selvaggio.
Possibilmente vivi. Forse perché avrebbe voluto ammazzarli con la sua pistola.
[Western!Au | Accenni SasuSakuNaru; JiraTsu, SuiKa]
Genere: Avventura, Azione, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Madara Uchiha, Naruto Uzumaki, Sakura Haruno, Sasuke Uchiha, Shikamaru Nara | Coppie: Jiraya/Tsunade, Karin/Suigetsu
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Whyld





La locomotiva viaggiava a velocità sostenuta, sbuffando vapore dal fumaiolo nero collegato alla caldaia, capace di inghiottire carbone e alimentare l’imponente ma elegante struttura in ferro, mossa da pistoni uniti alle ruote d’acciaio che sferzavano sulle rotaie piegate nella terra.
Seduto sulle poltroncine odorose di legno e metallo, Teddy guardava fuori dal finestrino, agitando le gambe corte con gli stivaletti marroni ricoperti di polvere; quelle terre brulle di nessuno che caratterizzavano il Missouri sapevano donare appunto immense distese desertiche quando le estati erano calde e le piogge, o i due grandi fiumi che tagliavano la terra, non erano sufficienti a renderle fertili zolle gravide d’acqua.
Emozionato, osservò il paesaggio scorrere rapidissimo ai suoi occhi, in quel lungo viaggio intrapreso con la mamma per raggiungere suo papà grazie ai risparmi messi da parte, nonostante si trovassero nel pieno della Guerra di Secessione.
Appoggiò però la mano sul finestrino, sporgendosi di più, solo quando scorse tre uomini galoppare su bellissimi cavalli dal manto lucido, la criniera mossa dal vento e le nuvole di polvere che s’involavano oltre gli zoccoli, disperdendosi fino nel cielo terso.
“Mamma! Ci sono i cavalli che vanno velocissimi!”
La donna si girò dapprima senza interesse, ma sussultò nel momento in cui vide poco distante dalle rotaie tre uomini troppo vicini alla carrozza; si tenne il cappellino per non farlo cadere e portò la mano alla bocca. Fece in seguito il segno della croce, poi guardò il figlio per afferrargli la mano e dirgli con urgenza:
“Qualsiasi cosa accada, non fiatare.”
“Ma…”
“Non fiatare e basta, ti ho detto. Vanno veloci perché ci vogliono per assalire!”
Il bambino sgranò gli occhi. Qualcuno degli uomini tra i più facoltosi si alzò in piedi allarmato, con una pistola alla mano e la convinzione di poter fare affari persino in quel paese retrogrado, covo di sudisti. Ma non fecero in tempo ad avanzare lungo il corridoio che si sentirono dei tonfi, provenienti dall’inizio della carrozza. Qualche donna urlò, terrorizzata.
Non era purtroppo inconsueto che sporchi banditi assaltassero i treni a scopo di rapina, specie in luoghi come quelli, senza Legge e senza Dio, impero assoluto della Criminalità e del Caos.
Al fondo della carrozza, vicino alla locomotiva di testa con la caldaia e il capotreno, infatti, precisamente tre banditi erano saltati dai cavalli in corsa. Non tre banditi qualsiasi, come ben presto i passeggeri del treno avrebbero potuto scoprire, bensì i componenti di una delle più ricercate bande di criminali del Missouri e oltre: il Mucchio Selvaggio.
Noti per rapinare i ricchi e gli imprenditori, danneggiando a modo loro con rapine spregiudicate ma ben architettate gli Stati Nordisti, in quella disastrosa guerra di secessione che vedeva i soldati dell’Unione affrontare in lotte sanguinose i guerriglieri confederati.
Uno di quei tre membri era Harry Longabaugh, meglio conosciuto tra i suoi compagni come Naruto o, a volte, Sundance Kid. Fu anche il primo ad atterrare sul pavimento legnoso e in parte scheggiato del mezzo a vapore, per poi scrollarsi brevemente la polvere dal mantello in tessuto grezzo e, appena notato un uomo in procinto di tirare fuori la pistola, estrarre rapidamente la sua, sfiorando il grilletto con la mano:
“Fossi in te non lo farei – ribadì – la tua vita vale molto di più di quello che ti prenderò.”
Gli sorrise, divertito ma tagliente.
L’altro si bloccò, deglutendo vistosamente oltre i baffi e la barba curati, in seguito vide un secondo bandito mettersi al fianco di quello con il mantello e i capelli biondi: aveva uno sguardo decisamente più tagliente, gli occhi scuri dai tratti vagamente asiatici ma sporcati da qualcosa di occidentale, esattamente come la pelle chiara era stata sporcata dal sole e dalla terra.
“Non basta questo a convincere la gente stupida  – a sua volta, tirò fuori la pistola per puntarla contro l’uomo che sentì gocce di sudore corrergli lungo la schiena – lascia l’arma a terra. Ora.”
“E tu non fare scherzi.”
Una voce più cristallina ma decisa delle precedenti si elevò, proveniente dal terzo e ultimo componente del gruppo di assalitori. Non ci fu nemmeno tempo di dire altro, perché questi sparò, colpendo in un trionfo di polvere da sparo e zolfo la mano di un uomo situato poco più indietro; forse, il povero ingenuo aveva creduto di poter approfittare della situazione per sbaragliare i banditi.
Terrorizzato, il signore che per primo era intervenuto si decise ad abbassarsi in modo da lasciare l’arma a terra, per poi rialzarsi e sollevare le mani in segno di resa.
Fissò con la coda dell’occhio il criminale che aveva sparato, mentre nelle orecchie gli arrivavano le urla dell’uomo ferito che, sicuramente, si stava tenendo la mano perforata dal colpo di pistola, con la sua arma schiantata a terra.
Vide quel terzo componente del gruppo sospirare appena e avanzare, vestito anche lui con un mantello, un cappello e una bandana a proteggergli il volto. Gli passò al fianco e, quando lo fece, si abbassò il tessuto dalla bocca, per poi calare il cappello fin dietro la schiena: liberò in quel modo una massa fluente di capelli di un colore simile al rosa slavato, schiariti forse dal sole e dalle intemperie. Il signore girò appena la testa, realizzando quasi in ritardo che chi gli era appena passato oltre, con i piedi calzati dentro stivali in pelle e speroni che tintinnavano, era una donna, non un uomo.
“Ehi.”
Si girò, sussultando. Aveva parlato il tizio dai capelli biondi. Assottigliò gli occhi, riconoscendo dai manifesti dei ricercati i tratti di Sundance Kid: ora era sicuro che fosse lui. Quest’ultimo proseguì:
“Rimettiti seduto; siamo rapidi, ma non così tanto.”
L’uomo dai folti baffi annuì, tornando al proprio posto mentre cercava di deglutire nonostante il cuore gli stesse per esplodere.
Osservò l’altro bandito dai capelli scuri che ribadì:
“Naruto, Sakura, qui pensateci voi. Vado dal capotreno per evitare sorprese, procediamo come pianificato.”
Sasuke, il soprannome con cui era noto Butch Cassidy. Ecco chi era. Non aveva dubbi: quei tre erano proprio il Mucchio Selvaggio, ricercati e pericolosi.
“Ci pensiamo noi, tu vedi di non farti ammazzare.” Scherzò Naruto, avanzando.
“Cerca di fare lo stesso, idiota, perché senza di me e Sakura saresti già crepato da un pezzo.” Replicò l’altro, prima di uscire vero la locomotiva di testa. Si guardarono un istante, per poi separarsi.
Sakura aveva raggiunto l’uomo da lei colpito; lo guardò un istante: si teneva la mano sanguinante e piangeva. Davvero patetico. Provò un certo dispiacere, ma non aveva tempo; a nessuno di loro era stato concesso quel famoso tempo quando i soldati nordisti avevano torturato e ucciso intere famiglie della Contea di Clay, in cerca di guerriglieri sudisti.
Notò l’arma caduta poco distante e la sospinse lontano con un piede, oltre Naruto.
“Il portafoglio, l’orologio e qualsiasi bene prezioso di cui tu disponga. Tirali fuori, poi vedremo di bendarti quella mano e fare in modo che non sia da amputare.”
Nonostante la durezza del tono ci fu una sfumatura gentile, parte probabilmente della natura altruista di Sakura.
L’uomo fece un’espressione di disprezzo. Umiliato e vessato da una stupida donna, com’era caduto in basso il mondo. Ma suo malgrado obbedì, con la mano sporca di sangue, il dolore lancinante e la paura di fondo di ritrovarsi con le cervella spappolate da quella suddetta stupida donna che gli stava puntando la pistola contro.
Teddy, seduto al fondo della carrozza, con la mano quasi torturata dalla presa salda e impaurita della madre, senza fiatare vide i due banditi avanzare di sedia in sedia. Pretendevano soldi dagli uomini più abbienti, svaligiandoli dei loro averi che venivano fatti precipitare in una cascata di argento, oro e monete simili a dobloni in sacche di tela legate al cinturone, il cui fodero normalmente conteneva la pistola.
Aveva scorto dal finestrino i cavalli continuare a correre selvaggi ma domati: galoppavano di fianco al treno lanciato a tutta velocità tra le praterie immense del Missouri, gli zoccoli che sollevavano zolle di terra e polvere schiaffeggiata dal vento. Sembrava che stessero aspettando i loro padroni per fuggire via, lontano, dove la Legge non avrebbe mai potuto seguirli, se mai fosse esistita una vera e propria legge in quei luoghi immensi, nei quali l’uomo altro non era che un minuscolo granello di sabbia.
Per un folle, infantile, attimo, Teddy li ritenne bellissimi.
Poi sollevò lo sguardo, sentendo sua madre stringere più forte. Vide davanti a sé il bandito dai capelli biondi, gli occhi chiari, più chiari dei suoi che erano verdi come le terre in cui vivevano quando pioveva, a detta di sua mamma.
Tacque, tenendo immobili le gambe corte che ancora non toccavano terra. Strinse a sua volta la mano della donna come per tranquillizzarla.
All’improvviso, Naruto gli chiese, mentre Sakura teneva d’occhio il resto della carrozza:
“Hai un papà?”
Teddy sentì sua madre deglutire, senza fiatare. Dopo un istante rispose, la voce di bambino che sembrò più acuta tra il rumore del treno e l’odore di polvere da sparo:
“Sì. Lo stiamo raggiungendo con i risparmi messi da parte.”
Replicò, con orgoglio e una certa rabbia.
La donna sgranò gli occhi, voltandosi terrorizzata verso il figlio come per ammonirlo e proteggerlo allo stesso tempo, perché stavano avendo a che fare con gente pericolosa, capace di uccidere.
Ma sorprendentemente Naruto replicò:
“Ne sono felice.”
Sakura, alle sue spalle, sorrise in maniera accennata, fissando quasi con aria di sfida gli uomini eleganti con le loro pipe, il tabacco e gli investimenti a portata di mano.
“Non vuoi i nostri soldi?” domandò dopo un istante il bambino, perplesso e spaventato ma, come tutti i bambini, dotato di sfrontato coraggio.
Sundance Kid rise e aggiunse, con la pistola al fianco e la borsa piena di orologi, averi, denaro:
“No. Noi non rapiniamo le donne e i bambini. Soltanto i gentlemen ricchi sfondati che pensano di venire a dettare legge, torturare e uccidere, nascosti dietro un esercito di vigliacchi.”
Con un movimento rapido, senza farsi vedere lanciò al bambino un gruzzolo di soldi contenuti in un sacchetto di pelle; gli fece l’occhiolino e disse in un bisbiglio complice:
“Servono più a voi che a loro, tanto si rifaranno in fretta.”
Il bambino tenne stretta tra le mani la scarsella in cuoio, guardando con occhi nuovi l’uomo che nel frattempo gli aveva dato le spalle, aggiustandosi il cappello sulla testa. Sua mamma riprese a respirare, interdetta e sollevata per la grazia di essere vivi entrambi.
Dall’altra parte, a metri di distanza, Sasuke aveva puntato la pistola contro il capotreno:
“Non rallentare o fermarti. A breve ce ne andremo.”
Né l’uomo, né il suo assistente, con le mani sporche di carbone e la pala troppo lontana, si mossero, mentre il treno proseguiva il suo viaggio, sbuffando vapore con il metallo oliato che procedeva senza un lamento.
“Chi siete voi?” domandò il capotreno che non era nemmeno riuscito a voltarsi, la canna dell’arma piantata direttamente dietro l’encefalo.
Sasuke non amava i soprannomi; trovava ridicolo che Naruto avesse persino pensato a un nome per loro tre che, sostanzialmente, si limitavano a portare la loro idea di giustizia e vendetta in un posto dove la prima cosa non esisteva e l’ultima, la vendetta, era spesso meditata da codardi che preferivano sparare alle spalle, piuttosto che cercare una forma d’onore o una resa dei conti.
Però, allo stesso modo, Sasuke odiava il suo di nome, quello vero. E in quell’anno di fughe, assalti e sporadici rientri a casa, aveva imparato a chiamare se stesso e i propri compagni con identità che davvero li rispecchiavano, non quella di sopravvissuti a un massacro.
“Chi siamo noi? – reclinò appena la testa – il Mucchio Selvaggio. E difenderemo ciò che è nostro.”
Il capotreno non parlò per qualche istante.
Capiva, sì, capiva chi fossero. Aveva visto nelle città al confine con gli altri Stati i manifesti dei giovani ricercati ma sapeva, tramite i passeggeri che salivano e scendevano dai treni, che alcuni cominciavano a considerarli degli eroi, perché durante le loro peregrinazioni tra un assalto e l’altro si fermavano ad aiutare i bisognosi, elargendo parte degli averi rubati, incoraggiandoli a non abbassare mai la testa.
“C’è gente che comincia a idolatrare dei selvaggi. Forse il prossimo presidente di quello che rimarrà di questi fottutissimi Stati Uniti d’America sarà pellerossa.”
Ironizzò il capotreno, con un mezzo sorriso.
Sasuke non rideva, ma spinse di meno la pistola contro la testa: “Forse saranno Stati, ma di sicuro non sono uniti.”
“E noi capitiamo proprio nel mezzo – sospirò, mentre il treno continuava ad andare lungo le immense linee rette che attraversavano il Missouri – non ho granché, figliolo. Giusto questo vecchio orologio.”
Ci fu orgoglio in quelle parole, enfatizzato forse dalle mani sollevate ma piene di dignità, sporche di carbone e olio esattamente come quelle del ragazzo di fianco a lui.
“Tienilo. Non derubiamo gli onesti lavoratori.”
Replicò asciutto Sasuke, per poi ritrarre la pistola. Lanciò un’occhiata all’assistente che, dopo qualche istante, fece un cenno e si affrettò ad aggiungere carbone alla caldaia, in un’ondata di calore.
Sasuke rientrò nella carrozza. Correndo, stavano venendo verso di lui sia Naruto che Sakura, rispettivamente con le fusciacche piene. Istintivamente fu contento di vedere che stavano bene: qualche uomo si lamentava, nessuno però sembrava più disposto a cercare di opporsi; come già altre volte, dovevano aver visto chiaramente le pistole e i cinturoni volare fuori dal treno in corsa. L’essere disarmati trasformava in conigli persino gli uomini più coraggiosi.
Tutti e tre si guardarono, scambiandosi un cenno d’intesa; corsero fino al ponte di collegamento con la testa del treno, dove i cavalli li avevano raggiunti. Una volta arrivati, nonostante il peso della refurtiva saltarono agili sulle cavalcature per allontanarsi il prima possibile da lì.
L’assistente dopo qualche istante domandò, un po’ incerto:
“Dovremmo mandare un segnale di soccorso?”
Il capotreno si prese diversi secondi per riflettere, infine replicò:
“Non serve. Arriviamo alla stazione come da tragitto.”
Il ragazzo guardò la nuvola di polvere trasportata dai cavalli in fuga scomparire, allora annuì con un mezzo sorriso, per poi riprendere ad alimentare la caldaia con nuovo carbone.
Quando andò a controllare i passeggeri, scoprì che l’unico ferito era stato medicato e aveva ricevuto una boccetta di whiskey. Che fosse per stordire il dolore con l’alcol o per evitare la setticemia, non era dato saperlo. Entrambe le opzioni erano comunque ugualmente valide.


*


L’interno dell’unico saloon presente nella Contea di Clay era avvolto della penombra grazie alle imposte semichiuse per cercare di arginare la calura del sole di mezzogiorno, orario segnato quasi puntualmente dal campanile della chiesa frequentata solo da vecchie in cerca di ristoro o… di perdono, per i figli che erano andati a far fortuna verso l’ovest, dimenticandosi di loro.

Jiraiya, in piedi dietro al bancone, lanciava qualche occhiata alla moglie intenta a perdere l’ennesima scommessa fatta di nulla, perché gli alcolici erano l’unica cosa di valore che possedevano e non erano mai messi in gioco, consentendo loro di mandar avanti quella catapecchia. Era stata sua madre a sopranominare Belle con l’appellativo eccentrico di Tsunade e, da allora, era rimasto tale.
Fino al momento della morte, la vecchia aveva sempre trovato affascinanti i primi asiatici approdati nelle terre americane e considerati dai più come fenomeni da baraccone; uno di questi le aveva ragalato un libro di racconti: aveva finito per piacerle talmente tanto da portarla a soprannominare il figlio come il protagonista. Fu felice quando lui trovò la sua Tsunade, sposandola.
La sua vecchia era morta, ma i soprannomi, le identità lasciate, erano rimasti.
Jiraiya finì di pulire il bicchiere e si scolò un whiskey, contraddicendo la sua regola del ‘non consumare ciò che vendi’; Karin, la ragazza che da un annetto a quella parte lavorava al saloon come cameriera, gli portò un nuovo vassoio di bicchieri svuotati dagli avventori.
Le lanciò un’occhiata che sperò fosse complice, ma la giovane ribatté, appoggiando il gomito sul bancone per portarsi i capelli rossi dietro le spalle:
“Ah no, l’altra volta ho pensato io a farli smettere. Soltanto chi è ubriaco alla pari di Tsunade può mettersi a scommettere contro di lei. E io ho già a che fare con ubriaconi puzzolenti tutto il giorno, almeno tua moglie la lascio a te.”
Si aggiustò gli occhiali dalla bordatura estrosa. Jiraiya sapeva che nel tempo libero Karin, nonostante le apparenze vanitose, si dilettava a sperimentare con ciò che aveva per renderlo più funzionale; in quel caso, per esempio, aveva aggiunto delle stanghette alle lenti che altrimenti avrebbe dovuto tenere con una stecca.
Alcuni la consideravano un po’ pazza, ma l’uomo sapeva che era una brava ragazza, altruista nonostante i modi certe volte bruschi.
“E perché mai non dovrebbero voler scommettere con lei? Tanto perde sempre.”
“Ti ho sentito!” giunse la voce un po’ biascicata di Tsunade, proveniente da oltre il tavolo.
Karin inarcò un sopracciglio, fissò il suo capo, infine ammise come da rituale:
“Perché tutti si ricordano di come l’hai difesa l’ultima volta che qualcuno ha provato a spillarle dei soldi in quello stato.”
Come da prassi, infatti, il barista non poté fare a meno di sorridere, compiaciuto e in fondo felice; perché anche se Jiraiya era un po’ un farfallone con tutte le belle avventrici che di tanto in tanto animavano il locale, amava profondamente sua moglie e lei lo sapeva, persino quando lo rimbrottava per essere spudorato solo perché quelle donnette respiravano.
Ma quel momento di gioia durò poco per il padrone del locale, anche se, tutto sommato, doveva dire che la vita alla Contea di Clay non era mai stata così intensa come da quando tre dei loro onorevoli concittadini avevano preso a... movimentare un po’ le acque. E a distribuire averi, ridare terre, cibo e acqua.
Coloro che però entrarono attraverso le porte in legno del saloon, immergendosi in una nuvola di alcool, di stufato e tabacco, erano tutt’altro genere di persone. Jiariya preparò un doppio whiskey  e uno scotch, mentre sentiva Karin già sul piede di guerra: normale amministrazione, fosse andata diversamente avrebbe avuto di che preoccuparsi.
Stupidarin! Pensi di farcela a portarmi da bere senza rovesciare nulla o hai bisogno di qualcuno che lo faccia al posto tuo?”
Karin guardò lo stronzo appena entrato e che aveva pensato bene di comportarsi, appunto, da stronzo, per quanto lei lo conoscesse molto bene, per sua dannatissima sfortuna, visto che lo stronzo sopracitato era il vicesceriffo della Contea di Clay.
Sucagetsu – sbatté uno dei bicchieri vuoti sul bancone, qualcuno degli avventori un po’ brilli sussultò – che sgraditissima sorpresa. Cos’è, i garanti della legge devono rimpinguare le scorte d’alcool? Sta’ comunque certo che sarò ben lieta di rovesciarti personalmente addosso tutto il rum e darti fuoco nel mentre; questo posso farlo benissimo da sola.”
Suigetsu fece un mezzo sorriso e appoggiò il gomito al bancone, apparentemente imperturbabile di fronte alla maniera in cui si era scaldata Karin, strepitando offese rivolte alla sua persona:
“Ehi, vacci piano, minaccia ancora di darmi fuoco e finirai per eccitarmi.”
Lo sceriffo della Contea di Clay, Shikamaru, roteò gli occhi ma non disse nulla, reputando ormai persino prevedibili i teatrini di quei due: un giorno sembravano quasi in procinto di uccidersi, mentre quello dopo lui si ritrovava il sottoposto coperto di morsi, con la faccia soddisfatta di chi aveva avuto una notte di sesso appagante assieme a una donna, donna da cui sarebbe voluto tornare ogni singola notte a venire.
“Vaffanculo.” Replicò Karin assottigliando gli occhi, il volto tinto da un certo rossore, per poi sbattergli di fianco il bicchiere riempito prima da Jiraiya.
Suigetsu radacchiò, guardandola allontanarsi per portare altre ordinazioni.
“Pensi di sposartela un giorno?” domandò Shikamaru, prendendo il proprio doppio whiskey che fece ondeggiare. Jiraiya, nel frattempo, era andato a riscuotere un tizio addormentato sul bancone, se non altro prima che si sbavasse addosso.
Suigetsu afferrò la tabacchiera dalla tasca e la lasciò a fianco del bicchiere, infine scrollò le spalle:
“Chi lo sa. Può darsi che ci caschi pure io. Anche se il posto è una merda e il periodo fa ancora più schifo: potrebbe non essere felice qui.”
Shikamaru trovò divertente, ma al tempo stesso... bello, il fatto che Suigetsu non avesse minimamente dubitato dell’interesse di Karin, mettendo al primo posto però la sua felicità, il futuro e la vita assieme. Nonostante le apparenze, il vicesceriffo non era esattamente un coglione; aveva avuto un passato criminale, si era fatto limare i denti per incutere timore, ma le esperienze di vita lo avevano reso molto più maturo di quanto sembrasse. I capelli erano talmente bianchi, quasi argentati, al punto che alla luce del sole sembravano possedere qualche sfumatura azzurra. D’altronde, se a sei anni d’età si vedono i propri genitori e le sorelle appesi con le viscere di fuori, era normale rigettare in qualche modo il trauma subito, similmente a una ferita da spurgare.
Lo sceriffo scacciò ogni pensiero, concentrandosi sulla sua meritata bevuta assieme al collega in quel locale che sapeva di gente sudata, di polvere, alcool e fumo, immerso nel chiacchiericcio delicato della gente, tra tintinnii di bicchieri e mani che sbattevano sul legno. Qualcuno suonò delle note allegre sul pianoforte sommariamente accordato privo di alcuni tasti, altri cantarono delle canzoni popolari.
Tutto questo finché un uomo non oltrepassò le porte in legno dell’ingresso che cigolarono, ondeggiando fino ad arrestarsi lentamente.
Calò il silenzio, con solo il ronzio di qualche mosca intenta a posarsi sugli avanzi di cibo, mentre il sudore gocciolava lento sulle schiene accaldate e il suono delle ultime note riverberava teso tra le pareti in legno del saloon.
Jiraiya si erse di più con la schiena, lanciò un’occhiata a Tsunade che sembrò riaquisire magicamente lucidità, e osservò l’uomo farsi strada nel locale. Vestiva interamente di nero, con un gilet scuro sopra una camicia slargata, il cappello dello stesso identico colore e gli occhi altrettanto macchiati d’ombra. Gli speroni degli stivali di pelle, esattamente come di pelle erano i guanti che gli fasciavano le mani, tintinnavano a ogni passo sul pavimento usurato, mentre ogni tanto la bocca si muoveva in un leggero movimento di masticazione.
Appoggiò una mano sul bancone, afferrò uno dei bicchieri vuoti appena lavati e ci sputò dentro.
Tabacco.
Jiraiya lo fissò, lo straniero sostenne il suo sguardo, gli occhi infossati in borse pesanti, neri, attenti, un mezzo sorriso che sembrava più una smorfia incassata negli zigomi alti.
“Chi sei?” gli chiese il barista, porgendogli come d’usanza un bicchiere di whiskey.
L’uomo lo prese, lo annusò facendolo ondeggiare appena, infine lo bevve per poi poggiarlo nuovamente sul bancone.
Anziché rispondere, però, si girò verso i due rappresentanti della legge e domandò:
“Chi è lo sceriffo in questo posto merdoso che puzza di piscio e fumo come se aveste tutti mangiato una fottutissima miniera di carbone?”
“Ehi...” fece per dire Suigetsu, ma Shikamaru lo interruppe, appoggiandogli una mano sulla spalla.
Si alzò a sedere dal trespolo e con un gesto apparentemente ponderato si mise al fianco del sottoposto, domandando al nuovo arrivato:
“A chi interessa saperlo?”
L’altro roteò gli occhi, chiaramente infastidito: “Mi prendi per il culo? A me. Il mio nome è irrilevante  – guardò il distintivo, lucido in quel mare di sudiciume – sceriffo.”
Shikamaru si mise le mani in tasca, il pollice destro che in realtà sfiorava la pistola al fianco, infilata nel cinturone; non era mai stato tipo da risolvere le questioni con colpi d’arma da fuoco, preferendo far ragionare le persone con le parole, ma come spesso convenuto anche con lo sceriffo prima di lui, nonché suo mentore, a volte un proiettile in testa poteva risparmiare tanti altri problemi. E morti.
“Il tuo nome diventa molto rilevante, dal momento che non me lo vuoi dire.”
Improvvisamente, l’uomo scoppiò a ridere. Una risata intasata dal tabacco e dal fumo che diceva di disprezzare, i capelli folti, lunghi oltre le spalle, scossi dal leggero movimento del petto. Infilò una mano nel gilet ed estrasse dei fogli ingialliti che posò sul bancone, replicando:
“Noioso e insistente come tutti gli uomini di legge. Va bene, ti dirò ciò che vuoi, sceriffo: mi chiamo Madara. Ma come ti ho detto del mio nome non ti deve importare; quello per cui farai bene a preoccuparti è cosa sono.”
“E cosa sei?” domandò Shikamaru, occhieggiando i fogli girati. In realtà aveva già capito, ma doveva guadagnare tempo.
“Un cacciatore di taglie – girò i fogli, di scatto, rivelando dei volti – e troverò tutti i componenti del Mucchio Selvaggio, mi auguro… vivi.”
I pezzi di carta ritraevano rispettivamente le facce disegnate di Sakura, Sasuke e Naruto, con una taglia elevata sulle teste di ognuno. Erano ricercati, nulla di nuovo in questo, ma quel tipo... quel tipo sembrava decisamente sapere il fatto suo.
Lanciò un’occhiata a Suigetsu che sembrò rassegnato all’idea che da lì a breve la situazione sarebbe andata davvero, davvero di merda.


*


Naruto aveva sempre amato la Contea di Clay. Non che il villaggio fosse particolarmente degno di nota: gli unici intrattenimenti presenti, infatti, erano le chiacchiere e la musica al pianoforte perennemente scordato, accompagnati da qualche bicchiere di whiskey un po’ dozzinale. Però si trattava del luogo in cui era cresciuto e dove finiva, in un modo o nell’altro, per tornare nonostante le scorribande tra i turbolenti stati di un’America in piena secessione.

Né, a lui, né a Sasuke o a Sakura in realtà importava chi avrebbe vinto tra unionisti e confederati; in questo riflettevano forse lo spirito del Missouri, stato centrale che non apparteneva realmente a una fazione piuttosto che all’altra. Si era solo trovato nel mezzo, vittima delle continue rappresaglie tra nordisiti e sudisti.
Ma… da quando avevano massacrato più di un anno fa donne, anziani e bambini solo per divertimento e per estrapolare informazioni che chiaramente nessuno di loro possedeva, per i tre era stato automatico non solo difendere il villaggio, ma anche garantire un minimo di prosperità ai suoi abitanti togliendo tale prosperità dalle tasche di chi, a conti fatti, ne aveva anche troppa e non sapeva come sfruttarla per fare qualcosa di buono.
Con il tempo, avevano cominciato a espandere il raggio delle loro azioni, tra attacchi ai treni spesso mercantili e alle carovane, ridistribuendo i beni a loro discrezione, facendoli finire nelle case di famiglie con minatori, stallieri e agricoltori, i dimenticati della società. Non che i tre si ritenessero realmente esemplari, o non conservassero parte della refurtiva da spendere in cibo, vestiti, armi e divertimenti migliori di quelli offerti dalla Contea di Clay, ma provavano a modo loro a riequilibrare le sorti del mondo.
Girando tra le città avevano trovato beni esotici, strani, provenienti da posti di cui non avevano mai sentito, dall’Europa o dall’Asia, prendevano anche libri, manoscritti, mappe. E stavano imparando a leggere e a scrivere, al punto che Sakura aveva pensato di adibire una stanza del saloon a scuola, per aiutare anche altri adulti della Contea a leggere, scrivere e far di conto.
Tutto questo, però, nei tempi concessi dalla guerra, dalle continue fughe e dai lunghi tragitti che caratterizzavano un’America immensa, persa tra deserti polverosi, paludi, fiumi e montagne simili a vecchie zolle di terra tagliate da un coltello poco affilato.
Quel giorno, dopo aver speso parte della fortuna e averne elargita altrettanta, con la rimanenza del bottino guadagnato dall’ultimo assalto al treno, il Mucchio Selvaggio era finalmente riuscito a rientrare alla Contea.
Issata sul cavallo che trotterellava placido, accompagnata dal rumore quasi rassicurante degli zoccoli sul terreno asciutto, Sakura contemplò Clay, le sue case di legno dalle imposte usurate dal tempo, dalle piogge e mangiate dal sole, ma si arrestò quando notò che le strade sterrate erano più deserte del solito, forse troppo.
“Naruto, Sasuke.”
Quest’ultimo si era già fermato al suo fianco, una mano scivolata vicino alla pistola; Naruto sospirò, gonfiando le guance come ogni tanto si concedeva ancora di fare.
I cavalli sbuffarono, agitando la criniera annodata. Qualcuno nel silenzio improvvisamente surreale si affacciò dalle finestre, mentre un leggero vento sollevava nuvole di polvere che andavano ad accarezzare le erbacce cresciute vicine ai porticati.
Shikamaru, i pollici infilati nel cinturone, in bocca uno stecchino e in testa il cappello che un tempo era appartenuto al precedente sceriffo, scese in strada, di fronte ai cavalli, con al fianco un uomo che nessuno del Mucchio Selvaggio aveva mai visto prima. Però sembrava pericoloso, quindi non fu per loro decisamente un incontro gradito.
Suigetsu giocherellava con in bocca un filo d’erba, i gomiti appoggiati alla staccionata, il cappello storto calato su di un lato, ma gli occhi attenti; poco distante, Tsunade aveva ordinato di serrare le imposte: già troppe volte dei proiettili vaganti le avevano spaccato i vetri e… il vetro costava.
“Ragazzi.”
Li salutò Shikamaru. Avrebbe dovuto essere il tutore della legge e sbattere in prigione i tre banditi più famigerati del Missouri, in attesa dell’esecuzione. Ma era proprio per la Legge in cui credeva, come ci aveva creduto Asuma prima di lui, che non l’avrebbe mai fatto.
Sasuke fissò l’uomo accanto allo sceriffo. Aveva in bocca un sigaro, vestiva di nero e lo fissava a sua volta, senza battere ciglio, nonostante il leggero vento e il caldo.
Nel momento in cui Shikamaru gettò a terra lo stuzzicadenti e il vento sembrò alleggerirsi del peso della terra, ci fu solo un movimento rapido, persino improvviso: un colpo di pistola spezzò il silenzio della città di legno, i respiri degli astanti che avevano avuto tempo solo di battere le ciglia, mentre il cielo inghiottiva ogni suono.
Sasuke non chiuse occhio. Sentì involarsi sopra la sua testa un odore di qualcosa di bruciato e, pochi istanti dopo, avvertì il cappello cadergli sulle spalle, la corda usurata agganciata al collo dal pomo di Adamo che saettò in una deglutizione forzata.
Contemporaneamente, il cappello nero di Madara era volato dietro di lui, per poi atterrare sul terreno polveroso: un foro trionfava al centro, decorato da volute di fumo che si disperdevano mosse dal leggero vento.
Nessuno fiatò.
Sasuke aveva ancora la pistola fumante e una mano sul grilletto che aveva fatto scattare, mentre Madara aveva avvicinato la canna alle narici, commentando:
“Ci sai fare, Butch, te lo concedo – inspirò il fumo, poi lo soffiò via, disperdendolo assieme a quello del cappello forato – era un bel cappello, il mio. Ci tenevo.”
Lo raccolse, incurante di dare le spalle ai tre, infine se lo mise in testa, sfiorando il foro con un dito.
Si fissarono. Naruto scese dal cavallo che non si mosse, infine domandò:
“Cosa vuoi?”
“Sapete quanti dollari ci sono sopra le vostre teste, eroi del Missouri? Migliaia e migliaia.”
Gli altri non tolsero mano dalla pistola, nemmeno Madara si separò dalla propria. Shikamaru fissava entrambi, ma non parlò.
“Sei un cacciatore di taglie?” inquisì Naruto, serio eppure con un accenno di sorriso, conoscendo già la risposta.
Madara schiacciò il sigaro, calpestando gli ultimi singhiozzi di fumo con il tacco dello stivale:
“Siete tutti così perspicaci da queste parti?”
“Avresti potuto ucciderci. Non l’hai fatto. Ti concedo che sei il primo ad aver avuto fiducia di  aspettarci e trovarci alla Contea di Clay.” Commentò ancora Naruto.
Sasuke si scambiò un’occhiata con Sakura ed entrambi scesero dai rispettivi cavalli, portandosi al fianco del compagno.
“Fiducia? La fiducia la lascio ai preti e ai sudisti che ancora sperano di tenersi i loro schiavi, le piantagioni e i possedimenti. Io vi ho studiati, bambini, e vi sono venuto a prendere esattamente dove sapevo che sareste arrivati.” Replicò Madara.
“Quindi? Perché non apri di nuovo il fuoco e provi a centrare il cuore, anziché un cappello?”
Domandò Sakura, con la mano appoggiata alla pistola, il peso spostato su di una gamba e il copricapo che ora le lasciava più scoperto il volto dai luminosi occhi chiari.
Il cacciatore di taglie spostò lo sguardo verso di lei, inarcando un sopracciglio:
“Perché non è così che lavoro, ragazzina. Se foste dei cani qualunque vi avrei già sgozzato nel sonno. Ma voi… voi non siete cani qualunque  – si sfilò il guanto di pelle e lo lanciò ai piedi dei tre Selvaggi – di fronte al vostro sceriffo qui presente sfido uno di voi a duello. Se volete, una volta che avrò vinto, fronteggerò a seguire tutti gli altri. Dopodiché farete come voglio io, visto che queste taglie fanno davvero, davvero, gola.”
Tutti e tre guardarono il guanto gettato nella polvere, mentre Shikamaru sospirò. Pensava che sarebbe stato bello, quel pomeriggio, potersi mettere il cappello sulla fronte, sedersi sulla sedia del porticato e dormire. Ma era da giorni che non ci riusciva, in testa il pensiero fisso di uno dei cacciatori di taglie tra i più efficienti e spietati appostato in attesa nei pressi del villaggio che, comunque, aveva cercato di proseguire normalmente il proprio corso.
Naruto fece per muoversi in avanti, disposto come sempre a gettarsi a capofitto in ogni cosa, persino se si trattava di mettere in gioco la propria vita; perché Madara, quella volta, non avrebbe mirato al cappello.
Ma, prima ancora di Sasuke, fu Sakura a mettergli una mano sul petto e portare un piede avanti:
“Sarò io la tua sfidante.”
Naruto fece per ribattere, però vide gli occhi fieri, determinati, con cui la donna guardava il cacciatore di taglie. La sua mano avvinghiata alla mantella per bloccarlo non concedeva opposizioni.
Madara la fissò un istante. Aveva un’espressione forse persino sorpresa, quasi divertita, ma non sprezzante.
“Sei sicura di essere all’altezza, donna dei ciliegi?”
“Tu sei sicuro di essere alla mia, di altezza?”
Quest’ultimo storse di più il sorriso, ma non disse nulla.
Si fissarono ancora un istante, mentre il vento leggero scuoteva appena i capelli ora sciolti di Sakura, accarezzando la camicia color panna più larga delle sue spalle; una camicia da uomo, esattamente come erano da uomo i pantaloni dentro i quali erano infilati gli stivali coi quali aveva camminato, cavalcato e corso tutti quegli anni.
Suigetsu lanciò a terra la spiga dal gambo ormai mangiucchiato e ridacchiò, nonostante la tensione del momento, pensando che probabilmente le donne della Contea di Clay avevano più coglioni di tutti loro messi assieme. Scorse sulla soglia del locale Karin, il corpetto che le fasciava la vita, il vestito semplice ma ben tenuto e i capelli che, lo sapeva perché l’aveva vista tante volte prima di allora, al sole sembravano rubini di terre oltreoceano. Si guardarono, poi lui si rimise in posizione eretta, muovendo i soliti passi un po’ strascicati per raggiungere il suo capo che, dopo un breve sospiro, tirò fuori dal taschino l’orologio e annunciò:
“E sia. Volete sfidarvi adesso o decr…”
Adesso.” Risposero gli sfidanti all’unisono, fissandosi, senza nemmeno dargli tempo di concludere.
Lo sceriffo annuì, si passò una mano dietro la nuca e infine allargò le braccia, per invitare i contendenti a separarsi.
“Preparate le pistole, se s’inceppano siete morti. Ma questo – li guardò un istante – lo sapete già.”
Suigetsu lo fissò e domandò, con una mano in tasca: “E’ tempo di fumare?”
“E’ tempo di fumare.” Confermò l’altro.
Madara caricò l’arma con un nuovo proiettile, fece girare il tamburo e lo rimise nel corpo della pistola, ammirando in un’occhiata fugace il riflesso del metallo sotto il sole di mezzogiorno. Sapeva che la Contea di Clay aveva un’opinione un po’ personale della legge, era anche per quello che aveva scelto un luogo simile per incontrare il Mucchio Selvaggio.
D’altronde lui stesso non era esattamente un accanito sostenitore delle regole, scritte e non dette, dunque poteva quasi sentirsi in forte accordo con la mentalità di quel paese, un tempo dilaniato da eserciti che Madara stesso avrebbe voluto sterminare. Uno per uno.
Nord, Sud… non gliene fotteva nulla. Ma li voleva morti, tutti, solo che nel mentre avrebbe potuto vivere con i loro soldi, prenderglieli per eliminare gente che, tanto, sarebbe morta comunque: di sifilide con le puttane a buon mercato in qualche città sporca di polvere, merda e terra; in una sparatoria; oppure impiccati, come conigli stupidi finiti in trappole annunciate. Un giorno quei soldi li avrebbe bruciati, assieme ai corpi flaccidi di chi, quei soldi, glieli aveva dati.
Sasuke e Naruto non parlarono.
Guardarono, vicini, la loro compagna conosciuta fin dall’infanzia preparare l’arma, senza parlare. Aveva un accenno di sorriso morbido, come se avesse dovuto ancora rassicurarli e, in un certo senso, proteggerli. In fondo lo aveva sempre fatto: medicando le loro ferite nella maniera in cui aveva imparato a fare durante le scorribande, implementando le proprie conoscenze grazie ai libri, allo studio, alla volontà di uscire dall’ignoranza nella quale era stata condannata.
Si scambiarono un’occhiata, Sundance Kid e Butch, nella quale rifletterono il loro strano rapporto che, in un modo o nell’altro, aveva legato tutti e tre in una maniera che nessun altro al di fuori poteva comprendere.
Smisero di fissarsi, per tornare a guardare Sakura, la quale nel frattempo si era messa in attesa, la pistola rinfoderata e la mano così vicina da poter quasi accarezzare il calcio.
Shikamaru inspirò una boccata di fumo dal sigaro, il fiammifero caduto a terra, scheletro nero e contorto bruciato. Guardò l’orologio che ticchettava scandendo i secondi: la lancetta scivolava sul quadrante, simile a granelli di terra rossa in una clessidra.
Afferrò il sigaro in un movimento rapido ma fluido, espirò un’ultima volta e lo lanciò sul terreno riarso, facendolo rotolare tra la polvere.
Un click altrettanto rapido della rivoltella, il dito premuto sul grilletto, poi… lo sparo.
Altro fumo, l’odore di zolfo, nel cielo lo squarcio del proiettile che strusciava contro la canna per esplodere. All’improvviso, infine, il silenzio.
Sakura vide i propri capelli passare davanti agli occhi, una sola volta. Vide la nuvola dello sparo disperdersi, la polvere, le nubi passeggere che ogni tanto proteggevano gli stupidi umani dai raggi del sole.
Abbassò lo sguardo. L’arma aveva tintinnato, un rumore quasi spezzato, ma l’aveva sentito chiaramente poco dopo il rinculo del colpo appena partito. Ora la pistola era a terra, la mano ancora immobile come se avesse potuto nuovamente sparare, il respiro mozzato e gli occhi incapaci di chiudersi.
Anche Madara abbassò lo sguardo, a terra, proprio nel centro, tra le sue gambe appena divaricate: la terra brulla era stata marchiata da un foro, esattamente come il suo cappello.
Si fissarono, immobili.
Shikamaru avanzò in mezzo a loro, schiacciò il sigaro che smise di fumare e dichiarò la parità. Si mise il cappello in testa, aggiustandolo in modo da farsi ombra agli occhi.
“Se ti danno una nuova pistola, Sakura, proseguiamo il duello fino a che uno di voi due non colpisce l’altro.”
Ma prima che gli astanti potessero muoversi, Madara rinfoderò l’arma, decretando:
“No, non serve. La parità è quello che volevo.”
Il Mucchio Selvaggio, gli abitanti, gli sceriffi lo fissarono.
“Quello che volevi?” domandò Sakura. Notò che sarebbe bastato poco, un istante o un millimetro più avanti e l’arma le sarebbe esplosa tra le mani: Madara non la voleva colpire, ma allo stesso modo logicamente non voleva decisamente finire ucciso in uno scontro a fuoco, quello era l’unico modo per evitarlo. Doveva essere bravo, dannatamente bravo.
Il cacciatore di taglie vestito di nero avanzò verso di loro, le mani ora in tasca, il gilet che gli fasciava il torace, il cappello con il buco in fronte portato con orgoglio e i capelli ribelli che sfuggivano oltre le spalle.
“Siete capaci. Avete le palle – guardò Sakura negli occhi e lei restituì lo sguardo – ci sapete fare: con le armi, con le rapine, ma soprattutto… volete proteggere il vostro fottutissimo paese, a modo vostro.”
“Ci vuoi perché hai bisogno di proteggere qualcosa?” domandò Naruto, non senza una traccia d’ironia. Sasuke scrutò l’uomo che accennò una risata, graffiante, come cartavetro sulle corde vocali.
“Io non voglio proteggere. Non lo so fare. Io uccido, proprio perché non ho più nulla da proteggere, eccetto una persona. Ma un giorno… verrò ancora a trovarvi e vi chiederò di aiutarmi a uccidere; in nome di ciò che non sono più riuscito a tenere in vita ma che voi, ancora, vi ostinate a preservare.”
Si fissarono, coi cavalli che nitrirono e i volti sporchi, stanchi, sudati, accarezzati dal vento.
Il Mucchio Selvaggio non ebbe bisogno di guardarsi. Capivano quel discorso senza bisogno di libri, di parole o di occhiate. L’avevano compreso tempo fa, quando avevano creduto di aver perso tutto. L’unica cosa che lessero davvero, quel giorno, fu lo sguardo di Madara, il volto dal sorriso un po’ folle indurito dal tempo, dalla morte e dalla vita: ricordava il loro. Forse, per certi versi, era persino uguale.
“Ci rivedremo, cacciatore di taglie. Per allora avremo una mira migliore o, magari, sarà il mondo a capire che tutte le terre sono così: selvagge. La vita lo è, non ha redini o binari. Noi… ci siamo solo adeguati.”
Replicò Sasuke, alle sue spalle il copricapo forato, come il terreno ai piedi del cacciatore di taglie, come il suo cappello, come il cuore di persone che entrambi avevano ucciso per sopravvivere, nonostante tutto.
La vita.
“Selvaggia.”
Ripeté l’uomo. Si mise del tabacco in bocca.
“Già. Ci chiediamo il perché di ogni cosa ma… non sempre si può imbrigliare il caos in una risposta.”
Replicò Sundance Kid, i capelli biondi che rilucevano sotto i raggi di mezzogiorno. Sakura guardò il cacciatore di taglie e gli sorrise, altrettanto luminosa.
Il Sole, in fondo, restituiva altro Sole.



Sproloqui di una zucca

Non so da dove sia uscita questa one shot, visto che ho trilioni di roba da scrivere plottata da mesi; fatto sta che ho passato una settimana davvero de fuego a lavoro, robe proprio da trovarsi lo stomaco con ulcera: ringrazio di non essere una persona ansiosa e di non stressarmi, ma dovevo in qualche modo sfogare tutta la tensione. E come lo faccio? Scrivendo. Avevo un'immagine molto flash di Naruto, Sasuke e Sakura pistoleri che cavalcavano nelle terre desertiche dell'America, da qui è uscita questa roba.
Potrebbe essere la base per una serie di racconti, perché i personaggi sono tanti, ciascuno con un suo preciso background, chi lo sa.
Qualche parola riguardo il contesto: è formalmente un western, ma ambientato in Missouri. Il Missouri è uno stato centrale, considerato cuscinetto all'epoca della guerra di secessione americana. Jesse James fu un famosissimo bandito del Missouri che, in un certo senso, venne idolatrato dai sudisti in quanto si vendicò per la sua famiglia massacrata da soldati nordisti che cercavano di scovare i guerriglieri sudisti. Sakura, Sasuke e Naruto agiscono molto similmente, quasi alla stregua di Robin Hood, anche se non sono poi così buonisti e si tengono parte della refurtiva per loro (spendendola comunque pure per oggetti 'nobili' come libri e chincaglierie).
Loro tre mi sono stati ispirati da personaggi che sono veramente esistiti, parte della reale banda The Wyld Bunch (appunto, il Mucchio Selvaggio): Butch Cassidy, Harry Longabaugh, detto anche Sundance Kid (perfetto per Naruto, sebbene Sundance sia in realtà la cittadina americana che probabilmente ha datto i natali al bandito) ed Etta Place, fidanzata prima con l'uno poi con l'altro.
Immagino per loro quasi un rapporto a tre, avevo voglia di ipotizzare una threesome XD E anche Madara, con Sakura... chissà ahahah. Sakura mi esce sempre cazzuta, puh a tutti i detrattori della fanciulla. E, oltretutto, molte donne fuorilegge vestivano anche da uomo, sparavano e fumavano - basti pensare a Pearl Hart.
Amo molto il rapporto tra Karin e Suigetsu (Stupidarin e Sucagetsu sono un mio personale headcanon lol), ma anche tra Jiraiya e Tsunade (a proposito, parlando di loro mi sono rifatta al racconto Jiraiya goketsu monogatari). Mi spiace se ci sono dei nomi un po' giappi, ho fatto il possibile per contestualizzare quanto potevo.
Concludo sperando che vi siate divertiti, immaginando un po' di sole, di polvere e di crudezza ma anche calore di questo mondo ormai passato.

Ps: inutile dire che Whyld non è scritto male, ma è un mix tra Why - il perché - e Wyld. Simbolo del tentativo umano di chiedersi e dare una risposta per ogni cosa, anche quando c'è solo caos e, appunto, vita selvaggia.

Grazie per aver letto fino a qui! Giuro che non mi drogo pensando a storie come queste ahahah!



   
 
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