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Autore: SOULVATORE    15/03/2018    2 recensioni
Elena Gilbert stava girando il sugo quando le squillò il telefono.
Sì, il sugo.
Ed era strano, curioso, perché lei non cucinava mai, aspettava sempre che fosse lui a farlo, con il suo grembiulino bordeaux e quel sorriso che sapeva di primavera.
Lei lo guardava, seduta su una sedia, dopo aver apparecchiato la tavola, e lui le parlava della sua giornata, di quanta gente era entrata nella sua piccola libreria, di tutte le storie che gli avevano raccontato, del sogno che aveva fatto la notte precedente o di quel film che dovevano obbligatoriamente andare a vedere.
Ed Elena lo ascoltava, sorridendo, dava ad ogni sua parola un peso enorme, perché non basta una vita intera per conoscere una persona, si diceva sempre, ma lei voleva imparare ad amare ogni piccola parte di Stefan.
Per questo si disse che forse era stato un segno del destino il fatto che avesse scelto, proprio quella sera, di cucinare, per fargli una sorpresa.
Perché nessuno avrebbe mai mangiato quell'orrenda lasagna.
Damon/Elena/Stefan
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caroline Forbes, Damon Salvatore, Elena Gilbert, Stefan Salvatore | Coppie: Damon/Elena, Damon/Katherine, Elena/Stefan, Katherine/Stefan
Note: AU | Avvertimenti: Triangolo
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“Mi dispiace. Sono stata stupida a credere che potesse essere una cosa carina.”
“Non fa niente, sinceramente, il giudizio delle persone che non conosco mi scivola addosso. E poi avevi ragione tu, non mi è importato della vita di Stefan per cinque anni, come posso pretendere che ora mi crediate?”
“Può importarti ora. Dimostralo.”
“Hai impegni per il weekend?”
Elena spostò lo sguardo su di lui, inclinando un po’ la testa. Con quella domanda aveva decisamente attirato la sua attenzione.
“Vorrei portarti in un posto. Era importante per mio fratello, e anche per me.” Proseguì Damon, continuando ad incrementare la sua curiosità.
“Devo lavorare, andare da Stefan, gestire la sua libreria e mia zia e mio fratello vorranno vedermi, insomma, la mia incasinata vita di quest’ultimo periodo. Sono questi i miei impegni.” Rispose, combattuta. Dove voleva portarla? Perché?
Lui fece ruotare gli occhi all’indietro. “Oh, andiamo, Elena. Prenditi una pausa. Fidati di me, i tuoi problemi saranno ancora qui quando tornerai a casa. Allontanati dalla tua vita per cinque minuti. Cinque minuti.”
“Cinque minuti.” Ripeté lei, cercando di pianificare mentalmente cosa fare con tutto il resto. “Va bene.”
Così, decisamente troppe poche ore dopo, i posti che stavano occupando erano esattamente gli stessi. Il proprietario della Camaro alla guida, e una stanca ed assonnata neo giornalista che sprofondava nel sedile del passeggero, struccata e con i capelli arruffati.
“Sono le 5:45 del mattino, Damon. Se potessi perlomeno essere più specifico sulla meta te ne sarei grata.” Lo stuzzicò Elena, guardandolo da sotto le palpebre pesanti. “Sai, tanto per dare un senso a tutto questo sonno perduto.”
Il torace di lui tremò, mentre quelle piccole rughette di espressione andavano a disegnarsi sul suo viso.
“Non ridere di me.” Gemette, capricciosa. “Sul serio, dove andiamo?”
“Georgia.” Disse solo, iniziando ad armeggiare con la radio.
“Georgia…?”
“Atlanta. Andiamo ad Atlanta.” Rivelò finalmente, mentre una qualche stazione sconosciuta al genere umano iniziò a riempire l’auto di musica anni 80.
“Atlanta? Perché?”
“Perché io e la mia famiglia vivevamo lì.”
“Ovviamente non ne avevo idea.” Sbuffò Elena, altre bugie che si accumulavano. Era sicura al 100% che lo Stefan che aveva conosciuto fosse vero, senza maschere. Ciò che non capiva era perché diavolo le avesse mentito così spudoratamente sul suo passato.
“Non ti ha mai detto di aver abitato ad Atlanta per tipo, quattordici anni della sua vita?”
Lei scosse la testa. “Richmond. Mi ha sempre parlato di Richmond, e anche tuo padre non sembrava avere nulla da ridire.”
“Stefan era il cocco di papà.” Gli uscì, ed Elena percepì quanto quella frase trasudasse di amarezza. “Perciò l’avrà spalleggiato senza fare un fiato.”
In quel momento sentì la lingua arricciarsi all’interno della sua bocca, e le fu tremendamente difficile tenerla a freno. Aveva così tante cose da chiedergli, ma non voleva risultare indiscreta o frettolosa, per paura che lui si chiudesse a riccio e smettesse di concederle anche quelle poche informazioni.
“E tu il cocco di mamma?” Decise di provare a domandare. La gola di Damon si inspessì e il suo sguardo non si spostò neanche per un secondo dalla strada, dove all’orizzonte iniziavano ad intravedersi le prime luci dell’alba, mentre rispondeva.
“Sì, qualcosa del genere. Non perché mi viziasse o altro, ma-voglio dire, sono chiaramente sempre stato un testa di cazzo, però lei andava oltre questo, in qualche assurdo modo, riusciva a vedere di più in me, al contrario di tutto il resto del mondo.”
“Una testa di cazzo.” Gli fece eco Elena, mentre la testa le ciondolava sul finestrino. “Perché?”
“Dormi un po’.” Fu tutto ciò che le disse. “Risponderò più tardi, abbiamo tempo.”
“Prometti?”
“Prometto.”

Damon spense il motore in quello che fino a pochi anni prima era il suo parcheggio preferito, e sospirò. Chissà se, dopotutto, era stata una buona idea. Era cosciente del fatto che sarebbero stati giorni difficili, durante i quali i ricordi gli avrebbero bruciato il petto, eppure aveva deciso di intraprendere quel viaggio comunque. Per la ragazza che stava respirando pesantemente accanto a lui, mentre le lunghe ciglia le solleticavano le guance. Se lo meritava, dopo che lui era entrato nella sua vita mandando tutte le sue sicurezze in pezzi. Glielo doveva.
“Dormigliona, svegliati.” La chiamò, sfiorandole un braccio. Lei emise un suono incomprensibile, che lo fece sorridere. Sembrava così piccola in quel momento, senza quell’espressione perennemente preoccupata e l’aria da persona che era dovuta crescere troppo in fretta.
“Andiamo.” Insistette. “Lo so che vuoi mangiare. È quasi l’una e non abbiamo neanche fatto colazione, inoltre, questo posto fa i migliori hamburger della Georgia.”
“Della Georgia, hai detto?” Elena si stropicciò un occhio, la voce ancora impastata. “Significa che siamo arrivati? Ho dormito così tanto?”
“Suppongo che quel sedile sia davvero comodo. Ah, e hai anche sbavato per la maggior parte del tempo. So che mi stavi sognando.” Le rispose, mentre lei era intenta a stiracchiarsi e lanciargli un’occhiata di fuoco.
“Davvero divertente.” Commentò, portandosi una mano ad asciugarsi la bocca. Poi si guardò fuori, strizzando gli occhi per abituarsi alla luce del sole e leggere l’insegna.
“Bree. Che posto è?”
“La miglior tavola calda di sempre. Entriamo?”
Damon aveva messo in conto che sarebbe potuto essere, insomma, strano, tornare dopo tanto tempo, e senza preavviso. Solo non così tanto, perché di certo non si sarebbe aspettato che la proprietaria del bar scavalcasse il bancone e corresse ad abbracciarlo.
“Non ci posso credere, sembra passata una vita!” Starnazzò Bree, stritolandolo, per poi allontanarsi e rivelare un sorriso a trentadue denti. Quella riccissima donna di colore, durante la sua permanenza ad Atlanta era sempre stata la sua confidente. Damon beveva troppo un tempo, per poi ritrovarsi su di uno sgabello in un mucchietto di sincerità e risate, rivelando a Bree qualsiasi cose gli passasse per la testa: la scuola, gli amici, le ragazze, tutto.
“Dov’è stato il mio Salvatore preferito per tutto questo tempo?”
“Oh, lo sai, a farsi arrestare un paio di volte, spezzare cuori qua e là, scippare le vecchiette.” Rise lui, voltandosi successivamente verso Elena, che non aveva smesso un secondo di guardarli, totalmente spaesata.
“Sono seria.” Richiamò l’attenzione la sua vecchia amica. “Che fai adesso?”
“Ho appreso da te più di quanto immagini, gestisco un locale tutto mio. Ora, vuoi darci da mangiare oppure dobbiamo starcene qui in piedi tutto il tempo? A proposito, lei è Elena.”
“Piacere di conoscerti, Elena.”
“Oh, io-il piacere è tutto mio.” Strinse la mano di Bree, in evidente imbarazzo.
“Venite vicino a me al bancone, vi faccio preparare due hamburger e la birra la offre la casa come ai vecchi tempi.”
“Sembra grandioso.” Sorrise Damon.
Nel mentre, iniziò a squillargli il cellulare.
Alaric lesse sul display.
“Scusatemi un secondo, è il mio socio.”

Era uscito per rispondere al telefono, lasciandola lì da sola. Non sapeva che diavolo fare, era in evidente difficoltà, e dopo qualche minuto, purtroppo o per fortuna, quella che aveva compreso essere la proprietaria, la trascinò con lei, facendola accomodare.
“Allora” esordì stappando due birre. “Da quanto tempo state insieme tu e Damon?”
“Uh, no no.” Elena scosse vigorosamente il capo. “Io sono la ragazza di suo fratello.”
Bree sospirò, rimanendo per un secondo con le bottiglie tra le mani. “È proprio vero. Il lupo perde il pelo ma non il vizio.”
“Scusatemi, signore. Ho risolto.”
Damon riapparse, sedendosi proprio lì accanto, ma lei non ci fece molto caso. La sua mente non riusciva a smettere di focalizzarsi sulla frase che quella donna aveva pronunciato qualche istante prima. Perché l’aveva detto? Che significava?
“Ei, stai bene?” La richiamò. Lei annuì, afferrando la sua Becks. Glielo avrebbe chiesto il prima possibile, senza più aspettare, perché la sua mente stava a dir poco esplodendo.

“Pronti?”
“Ah ah”
“Via!”
Elena afferrò lo shottino e lo buttò giù tutto d’un fiato, per poi esultare contenta.
“E fanno tre” ricordò al ragazzo al suo fianco, intento ad asciugarsi i residui dell’alcol dal mento. “Oh, vuoi un bavaglino?” Lo prese in giro, sporgendo il labbro inferiore.
“Scusa, io non mi scardino la mandibola come un serpente per consumare alcolici.” Ribatté Damon, facendola sorridere.
“Come vuoi, ma sto vincendo io.”
“Oh, puoi scommetterci.” La assecondò una delle ragazze che stavano bevendo con loro. “Tesoro, dovresti essere sul pavimento!”
“Non sono neanche ubriaca.” Alzò le spalle “la mia tolleranza arriva fino a....qui!” Rise, saltando per indicare un punto che fosse al di là della sua altezza.
“Facciamo anche un po’ meno, ragazzina: sei brilla.” La sgridò Damon, mentre lei sollevava gli occhi verso il soffitto. “Perciò, io credo proprio che ora ce ne andremo. Ho bisogno che tu sia totalmente sobria quando arriveremo a casa. Sai, nessuno compra aspirine da anni, non ce ne sono.”
“È colpa tua.” Elena lo indicò con l’indice. “Mi hai detto di prendermi cinque minuti, di staccare il cervello. Ci sto provando.”
“Mh, no, io non credo.” Protestò Damon. “Tu stai facendo fare all’ alcol tutto il lavoro sporco, ma sotto sotto non sei per niente rilassata.”
Era la verità, si disse lei. Ma lui come poteva saperlo? Non si conoscevano poi da tanto tempo.
“Esperienza.” Rispose alla sua tacita domanda. “Usavo questo stesso metodo qualche tempo fa.”
“E perché?”
Lui non disse niente, si limitò a scuotere la testa, salutare Bree promettendole che sarebbe tornato, ed infine sollevarla di peso. Elena rise, facendo ciondolare i piedi per aria mentre blaterava qualcosa riguardo all’ultima scena di Ufficiale e Gentiluomo. Posò la testa nell’incavo del suo collo e decise che avrebbe dovuto memorizzare quel profumo. Era buono. E forse, un po’ brilla lo era davvero.
“Damon” Lo chiamò, mentre la appoggiava in macchina. “È stato per una ragazza?”
“Che cosa?”
“Tu e Stefan. Avete litigato per una ragazza?”
“Non si riduce sempre tutto all’amore per una donna?”

“Potrò avere dell’alcool in corpo, ma questo posto è gigantesco. Tipo, gigantesco.”
“A papino piaceva fare le cose in grande.” Damon alzò le spalle. “Benvenuta a Villa Salvatore. È più piccola della Pensione, ha solo tre stanze da letto, ognuna con il suo bagno, ma come hai sottolineato tu, è comunque gigantesca.”
Elena fece scorrere lo sguardo da una parte all’altra della villetta, quasi con fatica, tanto era estesa. Tutta fatta di mattoni, con più finestre di quante se ne potessero contare, un patio, un giardino meraviglioso. Era perfetta, il posto in cui chiunque avrebbe sognato di abitare.
“Vieni.”
All’interno la situazione non cambiò. Lo spazio che prendeva quel salotto era immenso, praticamente grande quanto un intero appartamento standard. Mobili di legno scuro, antichi, e in perfetto stile Salvatore, non mancavano di certo. Al centro della stanza, ricoperti da un telo di plastica, c’erano due divano beige, di fronte ad essi un televisore, e accanto una parete fatta completamente di vetro, che in un qualche punto doveva probabilmente aprirsi e portare fuori. Un enorme varco senza porta conduceva alla cucina, moderna, quasi completamente bianca, con il tavolo e le sedie alte.
“Wow, io…la adoro.” Disse Elena, senza smettere di voltarsi da una parte all’altra. Damon rimosse i teli, invitandola ad accomodarsi su uno dei sofà, richiesta che venne accolta di buon grado. Comodissimo, ovviamente.
“Stefan nacque a Mystic Falls nel 1995. Durante l’estate del ’98, quando aveva quasi tre anni, ci trasferimmo.” Iniziò lui, lo sguardo celeste carico di emozioni alle quali Elena non avrebbe saputo dare un nome. Decise di non interromperlo.
“Ti ha raccontato di Richmond, perché è dove papà lavorava prima, ma in seguito è qui che siamo venuti. Lui ha frequentato tutte le scuole in questo posto, e proprio là fuori.” Indicò il giardino. “Io gli ho insegnato a giocare a Football. Non sono sorpreso che ora abbia un negozio di libri, entrambi abbiamo sempre letto come due dannati, grazie a mia madre, anche se a me non piaceva dirlo in giro. Ma a lui non importava.” Si alzò, andando a cercare qualcosa nell’enorme libreria che stava dietro di loro. Recuperò un portafoto, che porse ad Elena. Un bambino biondissimo, con il grembiulino nero da scuola e uno zainetto sulle spalle sorrideva, e quel sorriso lei avrebbe potuto dipingerlo ad occhi bendati.
“Stefan.” Sussurrò, passando il dito sulla cornice impolverata.
“Già. Proprio Stefan. Il genio della famiglia, studente da dieci fin dalla prima elementare. Mentre io, be’, non proprio. Ti ho detto che fin da piccolo sono sempre stato un terremoto, ho rotto i vetri di questa casa decine di volte, i miei genitori almeno una volta al mese venivano chiamati a scuola perché 'Damon fa pipì nel cestino' oppure 'Vostro figlio si arrampica sui lavandini del bagno.’”
“Sui…lavandini del bagno?” Rise la ragazza, guardandolo da sotto in su.
“Ei, mi piacevano le Tartarughe Ninja.” Si giustificò. “Comunque andando avanti la situazione non migliorò, e mio padre iniziò a non sopportarmi più, poiché portavo solo danni. Venni bocciato e sospeso più di una volta al liceo. Non giudicarmi.”
“Un intelligente che non si applica?” Provò Elena, lui annuì.
“Qualcosa del genere. Comunque, in quel periodo conobbi una ragazza di qualche anno più piccola.” Prese fiato. “Katherine.”
“E ti innamorasti di lei.” Elena non lo chiese, semplicemente fece una constatazione.
“L’amore è doloroso, sopravvalutato e senza senso.” Rispose lui, brusco e freddo. Ferito. “Così come lo era lei. Egoista, eccentrica, ti avrebbe convinto a spostare il mondo, solo per un suo capriccio. Eppure io, per qualche motivo, persi la testa. E lei rimase incinta.”
Elena sgranò gli occhi, e per un momento ebbe paura che la sua mascella sarebbe caduta a terra. Damon aveva avuto un figlio a vent’anni?
“Non c’è bisogno di fare quella faccia. Il bambino non è mai venuto alla luce. Mio padre pagò Katherine per abortire, lei accettò, ed io me ne andai di casa.”
“Oddio, Damon, non devi raccontarlo per forza, io… mi dispiace di aver insistito.” Si alzò, andandogli in contro e sentendosi uno schifo per averlo forzato così tanto. “Scusa, scusami, non saremmo dovuti venire qui.”
Lui la guardò, Elena percepì tutto il suo dolore, e non riuscì a resistere all’impulso di abbracciarlo. Si aggrappò forte al suo famoso giacchetto di pelle, provando a trasmettergli conforto. Damon, però, non la strinse.
“È tutto okay, non preoccuparti.” Mentì, allontanandola gentilmente. “Non hai ancora sentito la parte migliore.”
Cosa mai poteva essere successo di peggiore? No, non voleva saperlo. Non voleva farlo soffrire ulteriormente, e glielo disse, ma lui continuò lo stesso.
“Mi trasferii a New York, e per quei quattro anni lavoricchiai un po’ qui e un po’ là, guadagnandomi lo stretto necessario per vivere. Poi, un giorno, Stefan mi chiamò in lacrime. Devi tornare, disse, mamma è malata.”
“Damon, basta.” Provò di nuovo. “Non devi farlo, non voglio che tu lo faccia.”
Ma era come se lui non la sentisse. “E allora io lo feci, perché non avrei mai potuto lasciarla andare via così, e perché pensavo che il mio fratellino di soli sedici anni avesse bisogno di me. Ciò che non sapevo era che durante la mia assenza, Stefan aveva pensato bene di farsi sverginare da Katherine.”
   
 
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