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Autore: ___Page    17/03/2018    3 recensioni
«Per un po’ siamo stati solo io e Marco-chan. Per un bel po’»
[Cloth Tattoo, capitolo 9]
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«Non dovresti» asserisco, severo.«So difendermi da solo, non dovresti esporti per me. Non ti conviene. Da queste parti chi non segue la corrente non ha vita facile»
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«E cosa ti fa pensare che io abbia alcun interesse a vedere il sedere di tuo fratello al vento?»
«A esser sinceri, la mia speranza è proprio che non ti interessi»
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Marco è una brava persona e ho deciso che posso conviverci e tollerarlo ma la faccenda si ferma qui.
Se mi chiederà di uscire di nuovo valuterò in base ai miei impegni e prenderò in considerazione la possibilità di diventare, tra molto tempo, amici.
Genere: Angst, Comico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Izou, Marco
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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"I'm down on my knees,
I'm begging you, please.
There's no place in Heaven
for someone like me"
[
No Place in Heaven - Mika ]
 



Io sono gay.
La prima volta che ho pronunciato queste parole avevo quattordici anni, durante la cena, un giovedì sera. Stavamo mangiando il ramen secondo la ricetta tradizionale di nonna.
Non c'erano mai stati grandi segreti tra me e i miei. Quando a sette anni li avevo sorpresi a "mettere il dolce in forno", come dicevano loro, anziché sbroccare come qualunque altro adulto, decisero di farmi una concisa e completa lezione di educazione sessuale, ragion per cui non fu più di tanto scioccante per me accorgermi che ero attratto da altri maschi. Ancora meno problematico risolvermi a confessarglielo. Non credo di averla mai veramente vista come una confessione in ogni caso. Più una constatazione, una presa di coscienza. Per loro una conferma forse.
Comunque, stavamo mangiando il ramen secondo la ricetta tradizionale di nonna e io decisi di informarli della mia neo-scoperta, così, come se avessi comunicato di aver preso sette in matematica.
La reazione non fu poi tanto più caotica della mia uscita. Solo un po' di emozione all'idea che avessi trovato qualcuno di speciale. Mio padre mi chiese: «Ti piace qualcuno?» e tornò a mangiare il ramen dopo il mio: «Forse» accompagnato da spallucce.
Mi piaceva qualcuno ma nessuno in particolare. Semplicemente mi ero accorto di come sbirciare da sopra la spalla alcuni miei compagni in spogliatoio non avesse nulla a che fare con la voglia color mirtillo sulla chiappa di Gillie ma con le chiappe di Gillie nella loro interezza.
Mi piacevano i miei compagni maschi. Ero gay.
Quella è stata la prima volta che ho pronunciato queste tre parole.
E così ero gay e i miei genitori erano perfettamente a proprio agio con la cosa.
Qualcuno potrebbe pensare che io sia stato fortunato e avrebbe ragione. Lo sono stato. Ma mai avrei immaginato che la loro accettazione avrebbe significato entrare nell'arena senza protezioni.  
Dicono che crescendo si cambia ma ho sempre pensato che non siano le persone a cambiare ma il loro modo di rapportarsi con il mondo, che dipende da come il mondo si rapporta con loro. Avevo degli amici, certo, ma fino a quel momento il mio mondo era la mia famiglia, perché a tredici anni nessuno si accorge di avere un amico gay.
Ma a quindici è tutto diverso. Al liceo è tutto diverso. Per tutti e lo è stato anche per me. Non sono certo il miglior rappresentante della teoria ma è proprio vero che le apparenze ingannano. Quello che per anni era stato il traguardo a cui arrivare in fretta divenne il mio peggiore incubo. Perché al liceo tutti si accorgono di avere un compagno gay. E se se ne accorgono stanno attenti a non trasformarlo in un amico. Stanno attenti a captare ogni tuo gesto un po' sopra le righe e non si fanno scappare una sola occasione per farti sentire diverso, indesiderato.
Il mondo aveva cambiato il suo modo di rapportarsi con me. E agli occhi di tutti io ero cambiato di conseguenza. Più contenuto, più reticente, sempre sulla difensiva, sempre pronto a ribattere con fastidio preventivo.
A scuola non ero più io. A casa ero l'Izou di sempre. Non mi sono mai illuso che i miei credessero davvero alla mia recita.
Non avevo amici, solo compagni che mi tolleravano e me li facevo bastare. Me li sono fatti bastare fino al diploma e, dopo, per perderli di vista, è bastato non cercarli. L'università non mi aveva mai attirato. I miei non avrebbero comunque avuto i soldi per pagarmela ma non mi importava.
Cominciai subito a mettere via i soldi, dal mio primissimo lavoro come stagista alla tipografia vicino casa. Volevo andarmene, non perché mi trovassi male a casa ma perché, lentamente, senza neanche accorgermene, l'Izou finto era diventato quello che si entusiasmava per le stronzate come la coppia che finalmente si bacia dopo settordici episodi o l'oroscopo a favore. E di recitare con le uniche persone che mi avevano sempre voluto bene senza se e senza ma non ne avevo più le forze.
Avevo ventidue anni quando me ne sono andato di casa, ed ero al mio quarto lavoro.
Dopo lo stage non avevano potuto tenermi. Dal secondo mi avevano licenziato per incompatibilità. Il terzo lo avevo lasciato io.
Non mi sarei fatto scappare l'occasione di lavorare per Emporio Ivankov. Non che ci sia chissà che prestigio a lavorare al reparto stampanti ma è un bel lavoro e mi piace e da qui nessuno mi licenzia perché sono gay. Non con uno dei più grandi okama dei nostri tempi a capo dell'azienda. È stato rischioso mollare per qualcosa di incerto ma alla fine ho avuto ragione e ora, due anni dopo, eccomi qui.
Il più giovane impiegato con contratto a tempo indeterminato di tutta la Ivankov&Co. Qualcuno dice che Iva mi ha preso in simpatia solo perché sono della sua stessa "razza" ma non mi interessa. Se anche fosse sarebbe solo un po' di sano karma che riequilibra le cose.
Che poi, non è che qui la vita mi vada meglio.
Non mi lamento quando Jabura mi urta con la spalla nell'incrociarmi. Io non mi lamento.
«Jabura» chiama Paulie due stampanti più in là.
Paulie è un tipo a posto. È uno di quelli che non vogliono avere problemi né vogliono crearne. Se tu lasci stare lui, lui lascia stare te e ha un rigetto patologico per le ingiustizie in generale. Da qui certo si capisce che il solo motivo per cui interviene non è perché io sia nessuno per lui ma è più forte di lui intervenire. E, infatti, appurato che Jabura non ha intenzione di continuare a fare il bullo con dieci anni di ritardo, torna alle sue cose e io alle mie.
«Ehi, psss, Lady Gaga» mi richiama Jabura e io mi volto solo per non lasciarmi sfuggire l'occasione di dedicargli una bella occhiata disgustata. È il mio obbiettivo giornaliero, almeno sette occhiate disgustate a Jabura. «Nessuno di questi caffè è per te»
«Ma pensa! È esattamente la stessa cosa che ha detto a te Madre Natura quando è arrivato il tuo turno per il cervello» ribatto, facendo roteare in aria la mia chiavetta, diretto alla macchinetta per prendermi, come ogni mattina, da solo il mio caffè.
Mica mi serve che qualcuno me lo porti.
Per quando raggiungo la porta, Jabura sta ancora cercando di capire se il mio era un insulto o un complimento e intanto Kaku, Lucci e Fukuro hanno già sfilato dal vassoio di carta i loro bicchieri usa e getta e quell'imbecille manco se ne accorge. Sghignazzo, con il preciso intento di innervosirlo e, per farmi vedere, continuo a camminare in retromarcia finché l'istinto e l'abitudine non mi dicono che ci sono quasi.
Mi giro. E mi schianto contro qualcosa che so con certezza non essere la porta.
Lo so perché non cigola, come sempre fa la porta quando la apri, la chiudi, la sfiori o sbatti anche solo gli occhi mentre le stai guardando addosso. A livello di solidità sarebbe stato molto più facile confondersi.
Vengo sbalzato leggermente indietro dal rinculo dell'impatto e non è certo per grazia divina che non rovino vergognosamente culo a terra. Anni di sgambetti e spintoni mi hanno reso agile. Non abbastanza da riafferrare la chiavetta al volo ma quella è l'ultimo dei miei pensieri. Sono più interessato a scoprire chi mi ha quasi fratturato il setto nasale.
A quanto pare si tratta di un ragazzo più grande di me, più alto di me di tutta la testa, più imponente di me ma il giusto. Lo squadro dai piedi, calzati in un paio di scarpe da ginnastica comode ma di livello, su per le lunghe gambe fasciate nei pantaloni scuri, passando per il torace contro cui mi sono schiantato coperto da una maglietta bordeaux, fino al viso.
Serio e impassibile, le labbra sottili e dritte a negare persino l'ombra di un sorriso, gli occhi di un colore indefinito tra il blu e il verde, severi e penetranti, i capelli biondi rasati ai lati e selvaggi in cima, liberi di piegarsi in tutte le direzioni, come le foglie di un ananas.
Ma chi è questo?
«Si è perso o sta cercando qualcuno?» domando, già scocciato. Se ne sta lì a ostruire il passaggio e io voglio il mio caffè!
Sobbalzo interiormente quando mi accorgo del tono della mia voce mentale. Troppo acuto e assertivo. Che fai Izou, regredisci?
Dal canto suo, lo sconosciuto non mi degna di una risposta. Si limita a fissarmi, con mio sommo fastidio, per qualche istante. E non importa se io l'ho fatto con lui poco fa. Perché la differenza è che quando lui avrà finito di squadrarmi gli importerà solo che sono strano e gay e che è meglio starmi alla larga.
Il che è perfetto per me, è il mio preciso obbiettivo.
«Senta, scusi...» ricomincio ma lo sconosciuto si piega in avanti e raccoglie la chiavetta rossa che giace nello spazio vuoto tra i nostri piedi. Senza darlo troppo a vedere, lo osservo incredulo raccoglierla e porgermela.
«Ecco»
Sposto lo sguardo dalla chiavetta al suo volto ancora serio, di nuovo alla chiavetta. Con un gesto brusco gliela strappo di mano.
«Grazie. Ero capace di prendermela anche da solo»
«Sono sicuro di sì» commenta ancora serissimo. Non sembra offeso dalla mia risposta. E finalmente si leva dalla porta.
Peccato che non faccio in tempo a fare un passo verso il corridoio che Inazuma, appena arrivato, entra dietro di lui. «Izou, giusto? Potresti restare ancora un momento, devo presentarvi il vostro nuovo collega»
Inazuma non lo indica, non lo nomina, non cerca di darmi alcun indizio referenziale ma so che è lui. Trattengo uno sbuffo.
Sto tizio è appena arrivato e già rompe le scatole.
Inazuma mi supera e si porta al suo fianco e io rimango in prossimità della porta, in fervente attesa. Su, scopriamo chi è questo, così vado a prendermi il caffè.
«Ragazzi!» Inazuma batte le mani, con innata classe. «Vi presento il vostro nuovo responsabile, Marco Newgate»
Corrugo le sopracciglia, sorpreso. Sapevamo che doveva arrivare un sostituto di Tom ma credevo ci avrebbero preavvertiti. «Non c'è stato modo di informarvi prima, essendo stata un'assunzione lampo. Vi farà piacere sapere che il caro Tom ha partecipato al colloquio e si è detto molto felice di lasciare il proprio reparto in mani tanto capaci. Dice, cito testualmente, che ora potrà davvero godersi la pensione»
Qualcuno ridacchia, un paio rimangono impassibili, io punto gli occhi a terra.
Non importa quanto bravo sia questo tizio, non è Tom. Tom mi aveva accettato, Tom mi trattava da essere umano, Tom mi considerava.
Questo Marco invece, è solo l'ennesimo maschio alfa che nel giro di poco, se tutto va bene, si comporterà nei miei confronti né più né meno come Paulie. Se dovesse andare male, sarà come essere sottoposto a Robb.
Non mi interessa. Mi interessa molto di più andare a prendermi il caffè.
Quando risollevo gli occhi mi accorgo che Marco mi guarda con discrezione da sopra la propria spalla. Il contatto visivo mi fa ribollire il sangue nelle vene. Tanto lo sapevo che era come tutti gli altri, l'ho visto subito.
Mi volto ed esco finalmente in corridoio.
Voglio solo il mio caffè.
 

 
§

 
CVD.
Come Volevasi Dimostrare.
Marco è qui da dieci giorni ma nulla è cambiato. Voglio dire, a livello di organizzazione del lavoro sicuramente qualcosa sarà cambiato, perché è questo il senso di un responsabile, ma per quanto riguarda il sottoscritto, tutto è tale e quale a prima. Come sempre, gli incarichi più interessanti, poiché richiedono la collaborazione di almeno due colleghi, vengono ripartiti tra i membri dell'allegra combriccola di drughi mancati. Come sempre, Paulie fa da jolly per chi ha bisogno. Come sempre, io mi prendo quel che resta. Così va più che bene per me. È la mia routine, mi ci sono abituato ormai.
Finisco di pulire una matrice, le cuffiette nelle orecchie per non dover sentire i discorsi imbarazzanti dei miei colleghi – imbarazzanti per il genere umano intendo e per il quoziente intellettivo altrui –, la musica a palla.
Dopo devo cambiare il toner alla stampante 4 e preparare l'inchiostratura che serve a Kaku e Lucci. Ho già lanciato tre occhiate disgustate a Jabura e bevuto il mio caffè senza intoppi. Si prospetta una splendida giornata.
Potrei mettermi a cantare ad alta voce, nel senso che sto per farlo se non che un auricolare viene strappato via con violenza dal mio padiglione. Okay, viene sfilato con gentilezza ma il mio corpo, ormai adagiatosi nel dolce conforto della musica, lo percepisce come una brutale barbarie e reagisce di conseguenza.
«Ehi!!!» sono già pronto ad aggredire chiunque degli imbecilli sia stato, perché va bene che Izou è quello strano e non bisogna dargli confidenza ma se io non rompo l'anima a loro, perché loro dovrebbero romperla a me?!
Ma qualsiasi mia velleità combattiva si spegne quando mi accorgo che a privarmi del mio più grande conforto è stato Marco. E non è che non vorrei insultarlo. Però è pur sempre il mio superiore e l'istinto mi fa la grazia di salvarmi da una sicura lettera di richiamo, facendomi ammutolire.
Marco mi osserva una manciata di secondi, intensamente, troppo intensamente, sembra voglia guardarmi attraverso o, peggio, perforare la mia preziosa corazza. E proprio quando la cosa comincia a mettermi troppo a disagio, ecco che, finalmente, si gira verso tutti, portandosi al mio fianco.
«Scusate, ho bisogno di sapere chi ha stampato questo cartellone» annuncia, cortese ma autoritario, l'espressione severa. Mentre parla solleva un cartellone in rilievo, che sfuma dall'arancio pergamena nell'angolo in alto a destra fino al blu notte in quello basso a sinistra. Un log pose leggermente scentrato, ottenuto con un sapiente e curato lavoro di rilievografia, e l'effetto spuma sulle onde nell'angolo è stata fatto con l'aerografo. È uno dei lavori esterni che Iva prende ogni tanto, il cartellone che ci ha commissionato la nuova libreria in centro e io non dovrei nemmeno sapere di cosa si tratta.
Solo che l'altra sera non avevo nulla da fare e non mi andava di tornare a casa per passare l'ennesima serata da solo, né disturbare i miei all'ultimo minuto autoinvitandomi a cena. Così sono rimasto di soppiatto in reparto dopo l'ora di chiusura e ho preparato il cartellone che per altro è ineccepibile. Non capisco perché Marco dovrebbe essere contrariato da un così ottimo lavoro ma siccome lo è e nessuno sa, facciamo che me ne sto zitto.
«È stato Kaku» interviene Jabura, che deve sempre dimostrare di sapere tutto, essere il migliore in tutto, sapere fare tutto. E non lo dice a caso, questo lavoro doveva essere davvero di Kaku, come tutti i lavori di rilievografia che arrivano quaggiù. Il problema del cercare di fregare Kaku – cosa che non era certo mia intenzione ma è successa solo indirettamente – è che non è così facile uscirne indenni perché chi prova a fregare Kaku si trova sempre, puntualmente con Lucci di traverso. E non nel senso che mi piacerebbe, ahimè.
«Kaku non lo ha fatto» interviene infatti all'istante, laconico e lapidario.
Inutile discutere con lui. Noi tutti lo sappiamo, Marco evidentemente lo intuisce. Jabura ovviamente se lo è dimenticato o forse non lo ha mai capito.
«Robb ma cosa dici? Stai forse insinuando che non so cosa dico?»
«Non insinuo niente, ma quello non lo ha fatto Kaku» ripete senza nemmeno alzare lo sguardo su di noi. Cafone maleducato.
«È vero» si stringe Kaku nella spalle, appoggiato di terga al tavolo e con le braccia incrociate in una posa annoiata. «Era tra i lavori da fare, ma non avevo ancora avuto tempo, non so chi sia stato»
Inspiro a pieni polmoni. D'accordo, stavolta me la sono cercata. E so che non se lo meritano ma per quanto possano essere dei pezzenti nella vita di tutti i giorni, sul lavoro sono sempre stati impeccabili. Quindi suppongo sia arrivato il momento di prendermi le mie responsabilità.
«Sono stato io» ammetto, a testa alta. Molte paia di occhi si focalizzano su di me.
«Ma non sei tu che ti occupi dei lavori di rilievografia» fa notare Jabura, già indignato, servendomi la scusa perfetta per la quarta occhiata disgustata.
«Non c'è nemmeno scritto da nessuna parte che può farli solo Kaku»
«Come ti sei permesso? Moccioso insolente, io ti...»
«Basta così» lo interrompe Marco. Ha usato un tono di voce normale, niente avvertimenti nascosti o voce grossa, eppure l'effetto è immediato. Lottando con l'unico neurone che ha, Jabura riesce non senza fatica a sopire i suoi istinti omicidi verso di me ma questo non significa certo che sono in salvo.
«Izou» Marco si volta verso di me e io faccio lo stesso. Qualunque cosa abbia da dirmi, voglio sentirmela dire in faccia. «È un ottimo lavoro. Voglio che ti occupi dei cartelloni per il nuovo shampoo al Frutto del Diavolo oggi»
Tutto ciò che sento per venti secondi è un fischio lungo e prolungato che probabilmente riecheggia solo nel mio cranio.
Che... Che ha detto?!
«Marco ma...»
Oh Jabura fai silenzio una volta nella vita!
«...quello è un lavoro che richiede almeno quattro mani. Non può farlo da solo!»
«Vorrà dire che qualcuno di voi gli darà una mano»
«Cos...» Jabura scoppia a ridere, dapprima incredulo e poi divertito. Mi ci vuole tutto il mio autocontrollo per non lasciare la stanza, perché so cosa sta per succedere. «Non credo ci sia nessuno disponibile. Lascia che ti spieghi una cosa importante di questo reparto. Noi in coppia con quello non ci lavoriamo» asserisce, il tono a metà tra il confidenziale e l'autoritario.
Contro ogni spirito di conservazione azzardo un'occhiata di striscio verso i miei colleghi e non è facile descrivere come mi stanno guardando ora. I loro sguardi sono truci, schifati e soddisfatti al contempo, in ciascuno prevale un tratto piuttosto che l'altro. Ma da parte di tutti il messaggio è chiaro. “Nessuno ti vuole qui”
Paulie è sceso in magazzino e non è ancora tornato e per la prima volta sento distintamente la sua mancanza.
Esattamente come sento quella di Tom. Soprattutto quando, con mio sommo orrore, Marco si avvicina a Jabura l'espressione indecifrabile. Chiudo gli occhi, pronto alla bomba.
«Lascia che ti spieghi io una cosa, Jabura. Nel mio reparto si fa come dico io»
Riapro gli occhi di scatto.
«E oggi faremo così. Io aiuto Izou con i cartelloni che gli ho chiesto e tu cambi il toner alla stampante 4 e finisci di pulire quella matrice. L'inchiostratura voi due ve la sapete preparare anche da soli, giusto?»
Non conosco un aggettivo adatto a descrivere le occhiate che Kaku e Lucci lanciano a Marco mentre lo informano che, sì, ovviamente sanno preparare un'inchiostratura.
Tutto quello che so è che per un breve attimo mi sento più combattivo che mai. Per un attimo li sto trucidando a mia volta con gli occhi anziché rivolgergli il mio ghigno sarcastico. Per un attimo ho voglia di lottare.
E l'attimo passa quando una mano si posa sulla mia spalla. Una mano ferma. Una mano che mi fa sobbalzare.
«Andiamo, con tutti quelli che dobbiamo stampare entro fine settimana siamo già in ritardo» afferma Marco con autorità.
Ci metto ancora qualche istante a riprendere il pieno controllo e distogliere lo sguardo infuocato da quei deficienti che mi ritrovo come colleghi. Con passo rigido, seguo Marco a una postazione distante da tutti gli altri e, per quando lo raggiungo, la stampante sta già vibrando, in attesa di eseguire il proprio lavoro.
«Puoi collegare la tavoletta al computer?» mi domanda con tono abbastanza piatto.
Devo ammetterlo, è questo che mi piace di lui. Il fatto che nonostante sia un responsabile non si aspetta niente a priori e si sporca le mani come tutti noi.
Mi irrigidisco, scioccato. Che ho pensato?!
Oh no. No, no, no, no e no! A me non piace proprio nessuno!
E anche se non c'è niente da dimostrare, decido di mettere subito la giusta distanza nel nostro rapporto, rigorosamente lavorativo. Così non eseguo e continuo a guardarlo fisso finché non si accorge, alza gli occhi e un sopracciglio e attende.
«Non dovresti» asserisco, severo. E non mi interessa niente del rango. Ora sono un essere umano che parla con un altro essere umano di faccende di cui capisce molto di più. «So difendermi da solo, non dovresti esporti per me. Non ti conviene. Da queste parti chi non segue la corrente non ha vita facile»
Marco non si muove, non dice niente. Mi studia in silenzio e, proprio quando la cosa sta per farsi imbarazzante, scrolla le spalle.
«Sono il terzo di sette fratelli. So gestirmi. Ora collega la tavoletta, per favore» Non riesco a credere alle mie orecchie. «Izou! Non abbiamo tutto il giorno» insiste.
Soffio dal naso, senza preoccuparmi di non farmi sentire, mentre eseguo.
Non so cosa cerca di dimostrare ma faccia un po’ come vuole. Io l'ho messo in guardia.
 

 
§

 
A me non piace la gente. Nella mia vita questa più che una constatazione è un assioma. E come tutti gli assiomi porta con sé dei corollari.
Il corollario più importante è che se qualcuno piace tanto alla gente allora quel qualcuno diventa parte della gente e non può piacere a me.
Marco piace alla gente. Molto.
Piace ai capi, a quelli del reparto creativo, ai miei colleghi. Conosce tutti, sta simpatico a tutti, è disponibile con tutti.
Quindi a me non piace. E la cosa non mi stupisce, l'ho detto da subito. L'episodio di settimana scorsa non ha cambiato la mia convinzione. Non stava difendendo me ma solo imponendo la propria autorità, provando un punto e ci è riuscito in pieno.
Nonostante la "punizione" Jabura fa carte false per mettersi in mostra con lui, Kaku lo stima, Lucci addirittura lo saluta. Paulie, neanche serve dirlo, lo rispetta quanto rispettava Tom.
In poche parole, Marco è il capo perfetto per tutti tranne che per me. Perché anche se mi tratta con correttezza e non mi emargina, comunque non mi piace e, di conseguenza, non raggiunge la somma perfezione.
Pace e bene. Per me è tutto di guadagnato, visto che ho sviluppato un rigetto verso i cambiamenti.
E dal momento che nulla è cambiato, finisco di raccattare le mie cose e sistemare la mia postazione per ultimo, ascoltando da lontano i miei colleghi che si danno appuntamento per andare a bere una cosa insieme come ogni venerdì sera, senza ovviamente invitarmi. E badate, non è che lo facciano con intenzione. Ormai sono talmente abituati a ignorarmi che neanche se ne accorgono.
Sibilo un insulto verso i miei auricolari, che oltre ad aver seguito il corso per marinai di capitan Roger, si rifiutano anche di lasciarsi districare, e noto con la coda dell'occhio un movimento ai margini del mio campo visivo. Sollevo la testa, più per istinto che per curiosità, e mi irrigidisco di fronte a Kaku che avanza spedito nella mia direzione. Guarda proprio verso di me e ha una specie di mezzo sorriso in volto. Trattengo il fiato.
Non starà mica venendo a invitarmi?!
Lo stomaco mi si stringe alla prospettiva. Per il fastidio, si intende.
«Ehi!» mi chiama, il tono amichevole.
Ma che sta succedendo? La situazione è talmente ridicola che quasi mi scappa un sorriso. Credo sia isterico, comunque.
Apro la bocca per rispondere ma Kaku mi precede. «Ehi Marco! Ti va di venire con noi da Blueno a bere una birra?» prosegue, superandomi di gran carriera.
Rimango congelato alcuni istanti, la bocca ancora schiusa.
Marco, certo.
Ovviamente avevo capito che stava andando da lui.
«Per stasera passo, ragazzi, grazie. Sarà per la prossima» lo sento rispondere ben più distante di quello che è.
«Okay» Kaku accetta, appena rassegnato, e poi torna sui propri passi senza quasi accorgersi di me. Non che me ne importi qualcosa. Tanto non avrei accettato.
Ricomincio a litigare con gli auricolari, digrignando i denti per il nervoso. Percepisco vagamente i passi dietro di me, il suo sguardo addosso.
Dio, che vuole adesso?!?
«Tu non vai con loro?»
Mi volto, fulmineo. Ha già addosso la giacca, lo zaino caricato su una spalla e la sua fastidiosa capacità di non apparire mai, mai fuori posto!
Quanto. Non. Lo. Sopporto!
«Intendi in un locale omofobo con i miei colleghi omofobi che messi insieme non fanno un cervello, a una serata a cui per inciso non sono nemmeno stato invitato, a bere birra scadente che riesce a essere più amara della mia stessa esistenza?» chiedo, a macchinetta, posando una mano sul fianco. «Fammici pensare un attimo! Uhmmmm... No, no grazie! Non sei l'unico che ha di meglio da fare stasera!» concludo, ben più coinvolto di quel che vorrei suonare. Come non mi sentivo da anni ormai. Il che è ridicolo e non ha senso, visto che non mi importa. Non me ne importa niente.
«Possiamo andare a bere una cosa noi due, se vuoi»
A occhi sgranati, oltre l'incredulità, mi giro di nuovo a guardarlo. Sta scherzando per caso?!
Ma dalla sua espressione direi che no, non scherza affatto.
«Credevo avessi altro da fare!» strillo quasi.
Non può lasciarmi in pace e basta?
Con mia somma frustrazione però, Marco non fa una piega e rimane così calmo che lo prenderei a cazzotti solo per suscitargli una reazione.
«Ho detto che passavo, non ho mai detto che avevo da fare»
«Beh io sì!» metto in chiaro e sbatto la mia tracolla sul tavolo, per sottolineare il concetto. «Mi aspetta una favolosa serata economica al cinema e non mi serve la tua compassione, okay?!»
Picchio l'anca contro uno spigolo tanto mi allontano con foga ma incasso il dolore e vado avanti perché, in queste circostanze, chi si ferma è perduto.
«Serata economica di venerdì?»
«È uno sconto speciale per i soci del teatro Sabaodome, valido tutta la settimana» ribatto.
E non so nemmeno perché. Perché le mie gambe si fermano quando vogliono e la mia lingua lavora senza il mio permesso?!
Voglio solo andarmene!
«Sei appassionato di teatro?»
Sollevo un sopracciglio. «A quanto pare» rispondo secco.
Marco rimane zitto un paio di secondi prima di mormorare: «Interessante» che non ho idea a cosa sia riferito. «Ma lo fanno tanti cinema?» s'informa poi, alzando il tono.
Sbatto le palpebre un paio di volte, preso in contropiede. Potrà anche interessargli uno sconto al cinema ma non mi sembra proprio il tipo da teatro. Senza un reale motivo, mi accorgo di essere più calmo.
«Solo il Grove 33» mi stringo nelle spalle, realizzando vagamente cosa sto facendo.
Cosa sto facendo, per tutti i kami? Perché sono ancora qui?! A parlare con questo tizio, poi?!
Rispolvero la mia miglior espressione di altezzosa superiorità mentre scrollo le spalle e sistemo meglio la tracolla sulla spalla. «Ora con permesso, avrei una piacevole serata da trascorrere per gli affari miei perciò, addio e arrivederci» annuncio fiero, dandogli le spalle una volta per tutte.
Non sono sicuro al cento per cento di aver sentito bene, non sono nemmeno sicuro che abbia effettivamente parlato ma forse e solo forse, Marco ha risposto: «A presto, Izou»

 
§

 
Mi muovo sicuro per i corridoi ovattati nella moquette blu acciaio, che conosco a memoria, come fosse casa mia. Il che in verità ha senso dal momento che trascorro gran parte del mio tempo tra qui e il Sabaodome. Anche se a teatro ci vado solo se c'è qualcosa di veramente interessante. Un biglietto a due berry e cinquanta al cinema invece è sempre un allettante diversivo per passare la serata.
I cinema mi piacciono da sempre. È la discreta penombra della sala, la morbida spugna della moquette e delle poltroncine, l'odore di popcorn e sale nell'aria che fa tanto casa.
L'impressione di non essere soli, in una stanza piena di gente che ha in comune solo ciò che sta guardando.
Non che io abbia bisogno di ridicoli mezzucci psicologici per non sentirmi solo. Io da solo ci sto benissimo. Come adesso. Comodo, comodo al mio solito posto senza nessuno a disturbarmi e due braccioli tutti per m... Oh. Ho parlato troppo presto.
Mi aggiusto meglio sul seggiolino, lasciando libero il bracciolo del posto alla mia destra, a cui un tizio si sta accomodando. Una volta tanto non me la prendo. Non sono così causa persa da non rendermi conto quando qualcuno fa qualcosa perché è suo diritto e non per farmi un dispetto.
«Scusa» mormora una voce bassa e vibrante.
«No ma figur...»
Mi blocco di colpo.
E famigliare.
Mi giro di scatto verso di lui.
«Cosa ci fai qui?!?»
«Ah ciao Izou»
"Ah ciao Izou"?! Ma che scherziamo?!?
«Marco cosa ci fai qui?!»
Mi guarda perplesso sgranocchiando i popcorn. «È un cinema. Sono qui per vedere un film» spiega prima di inclinare il bicchiere di cartone verso di me. «Vuoi?»
Non lo degno di una risposta. Se non sa che ogni popcorn equivale a venti minuti di cyclette per buttare giù la cellulite affari suoi.
«E di tutti i posti di tutti le sale di tutti i cinema di Raftel sei capitato proprio di fianco a me?»
Marco si stringe nelle spalle. «Il mondo è piccolo» commenta per mia somma incredulità. Lancio una rapida occhiata alle mie spalle. La sala si sta riempiendo a vista d'occhio. Non ho modo di spostarmi in un posto non occupato come faccio a volte quando mi ritrovo accanto qualche scocciatore.
Accidenti a lui!
«Lo hai fatto apposta» lo accuso.
«Ma no» corruga la fronte con sincera innocenza.
Ah ma mica ci casco io! Non sono mica scemo!
«E sentiamo di cosa parla il film?!» lo sfido, incrociando le braccia al petto, certo della mia vittoria.
Marco solleva un sopracciglio. «Perché? Tu lo sai?»
Sbatto le palpebre un paio di volte.
Merda!
Non ho idea di cosa parli questo film. L'ho scelto solo perché c'è quell'attore che mi piace tanto.
Oh accidenti a lui! Tanto mica devo parlarci o ricordarmi che esiste!
Le luci si abbassano e io mi concentro sullo schermo, almeno ci provo.
Ma è difficile. Marco ha due spalle che ve le raccomando e un buon odore. Il fatto che si mischi con quello dei popcorn non é di alcun aiuto. Non siamo nemmeno al decimo minuto quando mi scopro a lanciare occhiate bramose al maledetto secchiello di cartone, decorato a strisce.
Le dita di Marco raggruppano sistematicamente tre popcorn per volta e li portano alle sue labbra e io mi ritrovo in bocca una tonnellata di saliva.
Ma no. Non cederò. Non mangerò i popcorn.
«L'offerta è ancora valida» mi avvisa e io sobbalzo. Come ha fatto ad accorgersene?! Non ha staccato gli occhi dalla schermo un attimo.
Oh dannazione!
Con un gesto secco, allungo il braccio e ne prendo una manciata. Sia maledetto lui e il sale grosso.
 

 
§

 
Stringo il mio secchiello di popcorn, in tensione per le sorti dei protagonisti. Il film è talmente avvincente che non riesco a stare concentrato su nient'altro, come per esempio la discussione con Marco che non rivuole i soldi dei popcorn, che mi ha preso di sua iniziativa durante l'intervallo.
Ah ma dopo glieli ridò eh? Può scommetterci guarda!
Sobbalzo quando il bastardo di turno, che cerca di ostacolare l'amore puro delle due anime gemelle, nonostante tutte le differenze che li separano, viene finalmente colpito e crolla a terra.
«Sì! Te lo meriti maledetto bastardo! Che si amino in santa pace dico io!» esclamo ad alta voce, prima di rendermi conto.
Nessuno protesta – ho dato voce al pensiero di tutti suppongo –, al massimo qualcuno ridacchia ma io mi giro verso Marco, conscio della figura di merda che ho fatto e del fatto che non va assolutamente bene così. Erano anni che non mi preoccupavo minimamente di quel che chiunque potesse pensare di fronte a un mio exploit senza filtri. Che poi non è che sia perché Marco abbia niente di speciale ma solo perché lunedì dovrò rivederlo al lavoro e non mi alletta farmi prendere per il culo davanti a tutti. Ma quando lo metto a fuoco nell'atmosfera soffusa fatico a credere ai miei nel riconoscere un sorriso storto sulle sue labbra.
«Ah scusa io...» le parole mi muoiono in gola quando mi posa una mano sulla coscia. La fisso interdetto.
«È stata una scena davvero molto avvincente» sussurra nel buio del cinema e io non riesco a capire se parla del film o di me ma non mi sembra di avere abbastanza neuroni liberi per riuscire a indagare. Soprattutto quando aggiunge al mio orecchio: «Viva l'amore libero, giusto?»
 

 
§

 
«Non era male come film»
Mi giro scioccato verso di lui che, mani infossate nelle tasche del giubbotto, mi cammina al fianco con andatura decisa, dritto come una lancia.
«Non male? Non male?!» la saliva mi va quasi di traverso per l'agitazione. Estraggo un mano dalla tasca del mio cappotto di panno e indico a braccio teso verso il cinema, ormai distante alle nostre spalle. «Ma abbiamo visto lo stesso film?! Questa pellicola era tutto Marco, tutto! C'era azione, amore, accettazione dell'altro in tutto e per tutto, la profondità di una nuova cultura, riferimenti alla mitologia, alla storia e pure alla bibbia, una fotografia e una colonna sonora da paura e il culo di Sting Eucliffe! Cosa si può volere di più?!» mi inalbero ficcando le dita nel mio solito raccolto ormai mezzo disfato.
Inorridisco quando realizzo che l'ho fatto di nuovo. I miei filtri così ben calibrati in anni e anni di duro lavoro scomparsi, il vecchio me, che viveva ormai dimenticato in un angolo recondito del mio cervello, è tornato, per ben due volte nell'arco di una sola serata. E io sto sfidando fin troppo la sorte.
Devo darmi una regolata.
C'è una remota possibilità che Marco non mi consideri una checca isterica come fanno gli altri e, non tanto perché mi interessi piacergli – non mi interessa minimamente piacergli visto che lui non piace a me – avere il capo dalla mia, e un capo così trascinante, potrebbe significare un po' di sana tranquillità almeno al lavoro.
Ma devo darmi una regolata. La prima volta mi è andata bene, già ora mi sta fissando con un'espressione indecifrabile.
Che starà pensando? Che sono una causa persa, sicuro! Porca vacca!
Sto per scoppiare di nuovo e chiedergli fuori dai denti di dirmi in faccia cosa pensa, anziché fissarmi a quel modo quando succede qualcosa, che mai avrei creduto possibile.
Una rarità al pari della cometa di Halley e dell'Aurora Boreale ma decisamente molto più in alto nella scala delle meraviglie dell'universo.
Marco ride. Una risata vera, piena, divertita ma senza la benché minima ombra di scherno. Marco ride non di me ma per me, per qualcosa che io ho detto. O fatto. O non fatto.
Non so più niente.
«Ahm... Marco...»
«Scusa, scusa!» agita le mani davanti al volto. «Non ti sto prendendo in giro è che mi hai ricordato una scena con mio fratello Deuce!»
Ci metto qualche istante a metabolizzare la sua spiegazione e lui intanto continua a ridere e le mie orecchie si stanno abituando anche troppo e decisamente troppo volentieri a questo suono.
«T-tuo fratello?» domando perplesso. Mi sbrigo a recuperare, incrociando le braccia al petto. «Quale dei sei? Scommetto il più bello e intelligente»
«Veramente sono quattro» mi corregge, asciugando una lacrima. «Poi ho due sorelle, una è mia gemella» aggiunge, cogliendomi sempre più alla sprovvista. Non è come se fosse tenuto a darmi così tante informazioni sulla propria vita e nemmeno le voglio sapere, io. Anche se questa cosa della gemella è interessante. «E comunque sì, probabilmente Deuce è il più bello di noi ma sul più intelligente ho qualche riserva. Di sicuro non lo è più di te» si stringe nella spalle, ricominciando a passeggiare con più verve di prima.
Io resto immobile, basito. Non so cosa mi prenda. Non ho capito l'ultima frase di Marco. Stava dicendo che mi trova intelligente, che mi trova più bello di suo fratello, tutte e due le cose o che suo fratello è più scemo di quanto non lo sia io?! E, misericordia, perché lo voglio così tanto sapere?
«E che ha combinato?» domando, alzando appena la voce quando mi accorgo che mi ha staccato di un bel pezzo. Probabilmente se ne accorge anche lui solo ora, perché si volta sorpreso.
Mi studia qualche istante e io rabbrividisco. Per l'attesa eh! Mica perché mi guarda come se volesse penetrarmi con gli occhi.
«È una storia divertente ma lunga e io ho fame. Non è che conosci un posto aperto a quest'ora?»
La delusione minaccia di travolgermi ma la argino prima che sia troppo tardi. Io non rimango deluso quando la gente mi da il ben servito, non più.
Rimetto le mani in tasca, striscio un piede a terra. «C'è il chiosco di Hachi, l'Octopus, se ti piacciono i takoyaki»
«È tanto lontano?»
«Qui dietro…» mi stringo nelle spalle.
«Allora andiamo?»
Risollevo il capo di scatto. Intende andarci con me?! Non… Non mi sta dando il benservito?!
«Che... Ma...»
«Così ti racconto di Deuce»
Improvvisamente devo stare concentrato per riuscire a respirare. Così non va bene, Izou, non va bene per niente.
«P-però io non li prendo eh!» metto in chiaro mentre mi avvicino a Marco, cercando di non mettermi a correre o, peggio, saltellare.
«Nessuno ti obbliga» fa spallucce lui.
«No, Marco! Sul serio! Ho già mangiato i popcorn! I takoyaki, no!»
 

 
§

 
«Non ci credo!-» esclamo, bloccandomi con l'ultimo takoyaki a metà strada verso la mia bocca.
«Guarda mi dispiace che ho cambiato telefono e Vista non mi ha ancora rigirato il video, ma se ce l'avessi te lo farei vedere» ride Marco.
Sollevo un sopracciglio. «E cosa ti fa pensare che io abbia alcun interesse a vedere il sedere di tuo fratello al vento?»
Marco smette di ridere e si fa serio ma un serio diverso da quello a cui sono abituato. È un serio con l'ombra di un sorriso.
«A esser sinceri, la mia speranza è proprio che non ti interessi» bisbiglia e la gola mi si secca all'istante.
«Ah io... Io... Oh ma guarda! Un cestino!» esclamo, indicando con troppo entusiasmo – troppo anche per me – un bidone della spazzatura a pochi passi. Lo raggiungo in due falcate per gettare via il mio cartone take-away di takoyaki e poi mi dirigo con urgenza alle strisce, senza verificare la posizione di Marco. Ho bisogno di calmarmi, ho bisogno di sbollire. Qualunque cosa stia succedendo, non posso permettermi di perdere il controllo.
Scendo dal marciapiede, le mani in tasca, il cuore a mille.
«E tu Izou? Fratelli o sorelle ne hai?»
«Come?» mi giro verso di lui, senza fermarmi, e intravedo con la coda dell'occhio una macchina che sfreccia verso di me, molto velocemente. Troppo velocemente.
Sgrano gli occhi, il cuore si ferma.
Due mani mi afferrano e mi trascinano sul marciapiede mente l'idiota al volante brucia le strisce, strombazzando per giunta.
«Vuoi anche avere ragione?? Io stavo attraversando!!!» sbraito, furibondo per lo spavento. «Ma tu guarda questi pirati della str...» continuo prima di rendermi conto che sono appoggiato con le mani al petto di Marco, che mi ha tirato a sé appena in tempo e ancora mi tiene per le braccia. «...ada» concludo in un soffio, stordito dal suo viso tanto vicino.
Così vicini che potrei quasi...
«Stai bene?»
Sposto gli occhi sgranati dalla sue labbra ai suoi occhi. Mi sento un po' rallentato nella ricezione.
«S-sì»
Okay Izou, okay. Stai tranquillo. Non ti agitare. Cerca qualcosa da dire, qualcosa che non ti faccia sembrare un completo imbecille.
«Casa mia è proprio dall'altra parte della strada»
E qualcosa che possibilmente non ti faccia sembrare impaziente di porre fine alla serata, porca miseria!
Marco sbatte le palpebre un paio di volte, perplesso, poi lancia un'occhiata verso il mio condominio e di nuovo a me.
«Oh. È volata eh?»
«Eh già! Cavolo!» rido nervosamente.
Non mi ha ancora lasciato andare e io sono vicinissimo a un mezzo crollo isterico. Dai di qualcosa, di qualcosa! Invitalo a salire!
No ma cosa dici Izou?! Non puoi! È un suicidio! Ci sei già passato troppe volte, non sai nemmeno se è gay e anche se lo è sai benissimo che finiresti con il cuore spezzato con uno così!
Non.fare.cazzate.
«Allora grazie per la serata»
«Grazie a te» mi lascia andare e nonostante i miei migliori propositi il cuore mi sprofonda un po'.
Mi ci vuole un attimo per rendermi conto che Marco è ancora qui e non sembra intenzionato a muoversi. Corrugo le sopracciglia.
«Ti accompagno» si stringe nelle spalle, come fosse ovvio. E subito torno all'erta.
«Sono in grado di attraversare da solo!» protesto.
«Davvero?»
«Certo che sì!»
«Ti hanno insegnato a guardare a destra e sinistra prima di attraversare?»
«Marco!»
«Okay, okay» ride di nuovo e io mi incanto. «Allora buonanotte Izou» mi augura con un ghigno caloroso, per poi voltarmi le spalle. Lo osservo allontanarsi qualche secondo prima di approcciare di nuovo le strisce. «Ehi Izou!»
Appoggio il piede sull'asfalto e subito indietro sul marciapiede. «Sì?!»
«Che ne dici se lo rifacciamo qualche volta?»
Vuoto. Buio totale. Funzioni vitali inesistenti.
«Io... Io...»
Terra chiama Izou!
«Se ti va»
«Mi va!» mi schiarisco la gola, le guance accaldate. «I-insomma, una serata in compagnia ci sta, no?!»
«Perfetto allora. E buonanotte di nuovo» mi augura un'altra volta, prima di allontanarsi mani in tasca e fischiettando.
Porto una mano al petto, contro il letto del cuore.
«Buonanotte Marco»
 

 
§

 
Preparo l'aerografo per finire il ventesimo cartellone della linea "Frutto del Diavolo", canticchiando a fior di labbra. È lunedì e io sono di buon umore. Il che corrisponde a un evento da segnare sul calendario.
Ho passato l'intero weekend a riflettere su tutto quello che è successo venerdì sera e ho concluso, dopo lungo ponderare e confutare, che non è successo assolutamente niente. Marco è una brava persona e ho deciso che posso conviverci e tollerarlo ma la faccenda si ferma qui.
Se mi chiederà di uscire di nuovo valuterò in base ai miei impegni e prenderò in considerazione la possibilità di diventare, tra molto tempo, amici. Ma qualsiasi cosa sia successa venerdì resta a venerdì, io sono sempre io, che sta bene da solo e non ha bisogno di sbandierare sempre e ovunque ciò che pensa, e tutto va esattamente come deve andare.
«Ciao principessa» mi saluta Jabura con disprezzo, passandomi davanti con il solito vassoio di caffè. Non perdo tempo e gli lancio la prima occhiata disgustata di oggi e subito torno al cartellone e a canticchiare. E proprio nel bel mezzo del climax della melodia un piccolissimo, impercettibile tonfo mi distrae e interrompe, provocandomi una dissonanza cognitiva.
Lo vedo, il bicchierino di plastica scura pieno fino a circa metà, posato vicino al bordo della mia scrivania. Solo che non dovrebbe essere lì.
Chiunque sia stato deve essersi sbagliato e riesco a crederci finché un lieve spostamento d'aria non mi solletica le narici con un odore che è già diventato famigliare. Marco mi passa accanto senza una parola, diretto alla sua postazione e io fisso una manciata di secondi la sua schiena mentre un brivido mi attraversa. Di fastidio ovviamente.
Per tutti i kami non vuole proprio capire!
Con un gesto fluido ma deciso, afferro il di caffè e lo raggiungo a grandi passi. Appoggio il bicchiere e il palmo libero sul suo piano di lavoro e piego il busto verso di lui.
«Ciao Izou. Qualcosa non va?» chiede, controllando la griglia lavori della giornata.
«Cosa stai facendo?» sibilo e per la prima volta in anni mi rendo conto di quanto è avvelenato il mio tono. E non mi piace. Anzi mi fa proprio male. Mi fa male usarlo con lui e mi fa male accorgermi di cosa sono diventato ma non è colpa mia.
Marco lancia un'occhiata al bicchierino, poi torna a studiare lo schema. «Ti offro un caffè» mormora senza colpo ferire.
Lo fisso a bocca aperta. Ma allora non ci arriva proprio!
«Senti, te l'ho già detto una volta, qui ti conviene adattarti agli altri. Io non ho bisogno di questo, non ho bisogno che mi fai da balia e me la cavo benissimo anche da solo! Sono stato solo per metà della mia vita e sono sempre sopravvissuto, quindi falla finita, chiaro?!»
Non so per la grazia di quale kami sono riuscito a non alzare la voce e non so nemmeno quando Marco ha smesso di leggere lo schema per darmi la sua completa attenzione. E quando mi accorgo che, forse, finalmente, ha recepito il messaggio mi scopro a desiderare che avesse continuato a leggere lo schema e a cercare un modo di ritrattare tutto senza sembrare disperato o patetico.
Come se esistesse.
Marco appoggia il foglio e abbassa gli occhi qualche istante. «Ho capito» mormora e io mi sento sprofondare.
Che cos'hai fatto, Izou? Voleva solo esserti amico. Potevi avere qualcuno, qualcuno con cui uscire senza prima doverti ubriacare per un po' di calore umano. Qualcuno con cui anche solo parlare.
Stringo la mano libera in un pugno e abbasso a mia volta lo sguardo.
«Scusate potrei avere un istante la vostra attenzione?» un momento di silenzio ma non dubito che tutti si siano girati a guardarlo. È peggio di una calamita, non si può non fare quello che ti chiede. «Ci tenevo solo a farvi sapere che io mi trovo molto bene con Izou, ho intenzione di essergli amico e se a qualcuno di voi la cosa non va a genio... Beh non me ne frega niente. Tutto chiaro? Bene, allora tornate pure al lavoro e scusate l'interruzione»
Sono vagamente consapevole della mia espressione sconvolta. Marco mi sorride, io sbatto le palpebre senza parole. Non so cosa sia appena successo con precisione ma so che è la prima volta che succede nella mia vita. E, come tutte​ le cose nuove, mi destabilizza.
«Comunque, se non lo vuoi, il caffè lo bevo io» allunga il braccio per prendere il bicchiere e io scatto all'indietro, portandomi il caffè al petto.
È mio. Questo caffè è mio.
Non ho ancora smesso di fissarlo con il fiato grosso e lui non ha ancora smesso di sorridere.
«Okay» mormora, soddisfatto.
«Non c'è lo zucchero» ribatto io, senza un'apparente logica.
Confuso e stordito mi allontano per recuperare una bustina dalla zona macchinette.
«Credevo lo prendessi nero» mi fa presente.
«Sì» rispondo flebile, senza voltarmi. «Di solito lo prendo nero»
Ma non oggi. Oggi voglio lo zucchero.
E sono anche sicuro che sarà il caffè più buono che abbia mai bevuto in vita mia.
 

 
§

 
Cammino incerto lungo il vialetto, illuminato dal caldo sole di ormai inizio estate, lanciando occhiate alla porta, in tensione.
Non sono preoccupato per via di chi sto portando a casa. Marco non potrebbe mai e poi mai farmi sentire in imbarazzo.
Dopo la sua plateale uscita di qualche settimana fa, ho smesso di vivere i suoi gesti di gentilezza come degli attacchi alla mia persona ed è da oltre un mese ormai che fila tutto liscio tra noi.
Nel senso, come amici. Al lavoro, mi sembra di essere finito in una dimensione parallela. Ora, quando piove, resto dentro al palazzo della Ivankov&Co in pausa pranzo e quando è bello continuo ad andare al parco Acacia ma non più solo.
Lucci e gli altri hanno invitato anche me a uscire con loro una sera - ovviamente il loro obbiettivo era Marco - e la parte migliore è che ci siamo entrambi trovati d'accordo a preferire un cinema e abbiamo declinato.
È come se il quarterback della squadra di football avesse snobbato le cheerleader per me. Me, Izou Wano, del laboratorio di disegno e cucito. Non voglio dare l'impressione di avere qualche irrisolto trauma liceale, comunque, è solo l'esempio più calzante.
Ciò detto, il problema appunto non è Marco. Il problema non è chi sto portando a casa ma chi a casa c'è già e ci aspetta.
Anche se li adoro, anche se sono il mio porto sicuro, la mia famiglia non è quello che definirei "gestibile". Non tanto mia madre, sempre misurata in qualsiasi situazione, combattiva quando serve, innamorata dei suoi figli.
Non più di tanto nemmeno papà, di cui mi preoccuperei molto di più se stessi portando a casa una donna.
Più che altro è...
«I piccioncini sono arrivati!» esclama una voce dalla porta.
Una ragazza che diventa sempre più alta ogni volta che mi assento per più di qualche settimana, capelli scuri con riflessi mirtillo che ormai le arrivano alle spalle, un sorriso fin troppo ampio sulla faccia.
«Aisa!» ammonisco mia sorella, gli occhi socchiusi.
Mi ero raccomandato che non mi facesse fare figure di merda. Ma cosa posso mai pretendere da un'adolescente?
Marco non da segni di essere infastidito per fortuna. Anzi, oserei quasi dire che sembra divertito ma non ne sono certo. Sto ancora imparando a cogliere e decifrare le sue microespressioni.
Per fortuna Aisa sarà una camionista a volte, ma è beneducata e si sta anche facendo più bella e femminile ogni giorno di più. Non che questo compensi il suo carattere ma, d'altronde, è sangue del mio sangue.
«Tu devi essere la sorella che Izou elogia tanto» si fa avanti Marco a braccio teso mentre io mi strozzo con la mia stessa saliva. «Piacere, Marco»
«Io non elogio proprio nessuno!» intervengo, sotto lo sguardo sorpreso e indagatore di Aisa.
Marco mi lancia un'occhiata da sopra una spalla. «Lo fai inconsapevolmente»
«Lo sai, Marco? Già mi piaci! Prego accomodati pure» lo invita a entrare. «Izou è a casa!» urla poi rivolta verso l'interno della casa mentre io mi avvicino per abbracciarla.
«E queste?» chiedo, scrutando perplesso le ali agganciate alle sue scapole, prima di aprirmi in un sorriso bastardo. «Non sei un po' cresciuta per travestirti all'Oro Jackson Day?»
«Disse quello che gira sempre combinato come una geisha»
«Ehi!» protesto, seguendola in casa. «Sono passati secoli dall'ultima volta che ho messo il rossetto rosso! Ouch!»
«Ehi! Guarda dove vai, Izou!»
Le mani sui fianchi lo fisso dall'alto verso il basso, atono, prima di chinarmi e afferrarlo per la collottola. Comincia a dimenarsi a mezz'aria, contrariato.
«Mettimi giù!»
«Da cosa sei vestito, Momo?»
Smette per un attimo di agitarsi e mi fissa perplesso, prima di indignarsi ancora di più.
«Come sarebbe?! Non lo vedi che sono un dragone?? Ho pure la coda!» solleva l'estremità del suo costume di gommapiuma rosa e gialla.
Sogghigno divertito. Adoro l'indole del mio fratellino.
«Sì hai ragione. Te l'ha fatto mamma?»
«Certo!» annuisce solenne. «Tu piuttosto da cosa sei vestito?» si acciglia poi.
«Da persona normale»
«Aisa!»
«Aisa» la ammonisce anche un'altra voce, dalla cucina. Ferma ma dolce. Forse con appena una punta di divertimento. Una voce che mi attrae come una calamita.
«Momonosuke! Torna q...» mio padre esce a fuoco dal salotto, picchia la rotula contro lo stipite e si cappotta a terra, avvinghiandosi così tanto con i propri arti che per un attimo sembra che qualcuno lo abbia tagliato a pezzi e scomposto.
«Tutto bene, papà?» domando, un sopracciglio alzato e Momo ancora per le mani. «Fatto male?»
«Uh? Male? A-assolutamente no! Formicola appena...» dichiara, nonostante le lacrime agli occhi per il colpo. Si districa come meglio può per rimettersi in piedi e tende una mano a Marco, mentre con l'altro braccio recupera Momo quando glielo scarico addosso.
«Tu sei il collega di mio figlio. Piacere, Kinemon. Come fiero capo di questa famiglia, ti do il benvenuto in casa Wano»
Marco mi lancia un’occhiata da sopra la spalla e io lo incoraggio con un cenno del capo. Può sembrare strano – di fatto lo è – ma in fondo papà è un tipo a posto.
«Grazie mille, è un vero piacere…»
«Ehi, possiamo rimandare i convenevoli a più tardi?! È pronto qui!» chiama di nuovo la voce, che si è spostata in salotto. Senza dare troppo a vedere la mia impazienza, mi ci dirigo spedito e non mi fermo un momento sulla soglia.
I capelli neri tirati su volutamente spettinati, un velo di trucco e un lieve sorriso mentre si affaccenda intorno alla pirofila bollente. È bellissima e senza età, come sempre. La sola donna che potrò mai amare in vita mia, oltre a mia sorella, ovviamente, quando sarà abbastanza grande da potersi definire una donna.
Solleva il capo e il sorriso le si allarga quando mi vede.
«Ciao tesoro»
Mi schiodo dalla soglia per andarle incontro, quasi di corsa. «Ciao mamma» la stringo e la bacio su una guancia, mentre gli altri entrano dietro di me e cominciano a prendere posto, tranne Marco, che attende educatamente una direttiva su dove accomodarsi.
«Siediti pure dove vuoi, Marco» lo invita mamma, senza troppi preamboli o canoniche strette di mano. «E perdonami se prima ti ho interrotto»
«Ma s’immagini signora Wano. Anzi non so come ringraziarla per l’ospitalità. Questo è troppo poco…» le porge il bouquet di gigli inca.
«È anche più del necessario. Ma ti prego, niente signora Wano, okay?! Chiamami Laki e dammi del tu» lo invita, mentre appoggia con cura i fiori sul tavolino del salotto. «Li metto a bagno dopo, che se no qui si fredda»
«Laki eh?» chiede Marco, sedendosi accanto a me. «Non sembra un nome orientale»
«Infatti non lo è» conferma mamma, intenta a riempire il piatto di Marco come se non mangiasse da sei settimane.
«Devi sapere, Marco, che la mia splendida moglie è di stirpe Shandia e molto fiera di esserlo» papà si sporge appena verso di lui. «E sapessi che prestanza» bisbiglia.
«Papà!»
«Kinemon, ti prego»
«Beh non è che sia esattamente un segreto» interviene Aisa, facendo girare la salsiera con il sugo leggermente piccante per la carne. «A tal proposito, dobbiamo aspettarci qualche altro “dolce in forno”, visto che Momo ne fa otto quest’anno?»
«Aisa, ti sembra il caso e il momento?» mamma cerca di sgridarla ma quasi le scappa una risata. Non che Aisa le dia troppo retta, si è già girata a parlare con Marco.
«Sai Marco, Izou aveva otto anni quando mamma è rimasta incinta di me e io avevo otto anni quando è rimasta incinta di Momo, quindi siamo un po’ in allerta»
«Per una volta sono d’accordo con lei» mi vedo costretto ad ammettere mentre mi allungo per recuperare il portapane e c’è un momento di divertimento generalizzato a cui, noto con piacere, si unisce anche Marco.
«Marco perché oggi mangi con noi e non con la tua famiglia?» domanda Momo, curioso, quando il clima si calma di nuovo.
«Nella mia città non si festeggia l’Oro Jackson Day. Oggi tutta la mia famiglia lavora come se fosse un giorno normale» spiega Marco, versando un po’ d’acqua a mio fratello mentre parla con lui.
«Cosa?!» esclama Momo, la bocca spalancata. «Ma è oltraggioso!»
Mi giro verso papà, le mani aperte a porre una muta domanda. «Cioè ma… sul serio?! “Oltraggioso”? Non puoi lasciare che guardi dei cartoni animati come un bambino normale?!»
«E rompere la tradizione di avere tutti figli strani?» s’intromette Aisa. «Andiamo sono quasi allo strikeout, non si possono mica arrendere adesso!»
«A proposito, come vanno i tuoi allenamenti di softball?»
Aisa si stringe nelle spalle. «Non male. Non fosse per quella spina nel fianco di Enel che si crede un dio in terra, andrebbe tutto molto meglio ma…»
Mi appoggio allo schienale e ascolto mia sorella che si infervora, raccontandomi della sua vita da liceale. Mi rilasso impercettibilmente, come sempre quando mi ricordo che Aisa, per fortuna, non sta passando quello che ho passato io. Più tardi poi devo anche chiederle di aggiornarmi sulla nostra sit-com preferita, anche se l’ho ripresa in mano solo di recente. Da quando ho ricominciato a bere il caffè con lo zucchero, più o meno.
Lancio un’occhiata di striscio a Marco, che scherza con Momo, supportato da mamma, e sorrido. Speravo davvero che il primo Oro Jackson Day di Marco gli lasciasse un bel ricordo.
Credo di esserci riuscito in pieno.
 

 
§

 
«Lascia, ci penso io» mi offro, togliendo la pila di piatti appoggiati in bilico nell’insalatiera dalle mani di mamma. Con passo sicuro, mi dirigo in cucina fischiettando.
Papà sta preparando con Momo il tavolo in giardino per prendere il caffè all’aperto, io aiuto mamma a sparecchiare e Marco si è offerto di dare una mando ad Aisa, asciugando le posate. Non ricordo quand’è stato l’ultimo Oro Jackson Day che mi sono goduto così tanto.
Chiariamo, non che gli altri anni fosse brutto per me passare la giornata con la mia famiglia. Ma è la prima volta da secoli ormai che, dopo il pranzo tutti insieme e la parata in centro, non ho in programma una serata solitaria o una disperata e forzata capatina al KamaBakka, nella speranza di ubriacarmi e rimorchiare.
Anche se, forse, al KamaBakka ci andrò comunque, quest’anno non sarò solo e ci andrò soltanto per divertirmi e ballare un po’. E comunque non abbiamo ancora deciso, magari io e Marco ce ne stiamo da me o da lui a guardare un film. O una passeggiata in centro.
Da amici, ovviamente. Tutto rigorosamente da amici.
Sono già pronto a girarmi di schiena per abbassare, con una complicata manovra, la maniglia con il gomito quando mi accorgo che la porta della cucina è socchiusa. Mi basta infilare il piede per aprirla del tutto e mi accingo a farlo quando la voce di mia sorella mi raggiunge e blocca.
«E tu non ce l’hai una ragazza, Marco?»
Mi sento come se qualcuno mi avesse tirato un cazzotto alla bocca dello stomaco, il che è ridicolo. In fondo non ho mai sospettato che Marco fosse altro che cento per cento etero, eppure sentirlo confermare con così tanta semplicità proprio da Aisa, da mia sorella che, nonostante il carattere da camionista che si ritrova, è sempre stata la mia confidente e consigliera da che ha avuto l’età per esserlo e non ha mai sbagliato una volta, fa male.
Forse, conto ogni logica e sensatezza, una parte di me aveva iniziato a sperare che potesse esserci altro… che potessimo…
«No, al momento no» risponde Marco, e suona come una condanna a morte per il mio cuore.
«Ma c’è qualcuno che ti interessa, vero?» continua Aisa, con il suo tono da “tanto lo so che ci ho preso”. Se non avessi in mano una pila pendente di ceramica su ceramica, proverei ad abbracciarmi da solo per vedere se riesco a chiudere il buco che mi si è aperto al centro dell’addome.
Perché sono ancora qui ad ascoltare, poi?
«Decisamente direi di sì. Ma non so ancora cosa ci sia esattamente tra noi» anche se non lo vedo, percepisco chiaramente il ghigno nella voce di Marco.
Non so esattamente quando ho imparato così bene a leggerlo e ascoltarlo. E fa così male, rendermene conto ora. Marco ha qualcuno. Una donna nella sua vita che riesce a strappargli i suoi bellissimi ghigni senza dover fare niente, senza nemmeno essere presente, solo con il suo pensiero.
Dev’essere qualcuno di veramente eccezionale, oltre che – maledetta e fortunata lei – del sesso giusto.
«…’ti una domanda?»
«Se rispondo di no cambia qualcosa?» Marco la prende in giro.
C’è un momento di silenzio, nel quale suppongo Aisa abbia scosso il capo, con un sorrisetto malefico dei suoi. «Perché proprio Izou?»
Il cuore mi si ferma. Magnifico davvero. Adesso persino mia sorella si stupisce che qualcuno possa essere interessato ad avere un qualsivoglia genere di rapporto con me.
Passa un’infinità di tempo – o forse è solo la mia percezione perché, nell’attesa, trattengo il fiato eppure non svengo – prima che Marco risponda: «Non lo so. Quando l’ho visto la prima volta, mi ha colpito. Era così solo e…»
Con uno scatto, mi stacco dalla porta e torno in salotto. Basta, è troppo. Già l’amore a senso unico è uno schifo, se devo pure stare a sentire il ragazzo etero e semi-impegnato per cui mi sono preso una colossale cotta mentre mi compatisce io…
 «Izou? Che succede?»
La voce di mamma è ferma. Determinata. Il suo modo tutto particolare di essere preoccupata. Spaesato, sollevo gli occhi su di lei, solo vagamente consapevole che tornare indietro con ancora la pila di piatti in mano è stato decisamente antisgamo da parte mia. Ma mi sento così perso, in casa mia, che non so nemmeno dove andare.
Mamma si avvicina e mi toglie la pila di piatti dalle braccia, la riappoggia sul tavolo e mi afferra il viso tra le mani. «Che hai?»
Sbatto le palpebre un paio di volte e la metto finalmente a fuoco, le sopracciglia aggrottate, la mascella indurita nel cercare di capire. Mi sforzo di sorridere ma sento che non mi riesce molto bene. «S-sto bene, mamma. Sto bene, davvero»
Ma so che non se la berrà mai. Sale con le mani fino alle mie tempie e mi accarezza il viso. «Va tutto bene» soffia e improvvisamente ho di nuovo sette anni e paura dei mostri sotto il letto. Sento qualcosa incrinarsi dentro di me, fino a spezzarsi del tutto. La abbraccio di slancio e nascondo il viso contro la sua spalla, appellandomi a tutte le mie forze per soffocare i singhiozzi.
Kami ma perché?! Perché faccio sempre, ogni volta, lo stesso errore?! E sì che lo sapevo che sarebbe andata a finire così! Perché non me ne sono rimasto per gli affari miei, a crogiolarmi nella mia squallida esistenza, solo, protetto, lontano dal rischio di restare ferito di nuovo! Perché?! Perché ci ho voluto credere ancora?!
Perché, perché, perché?!
Stringo il vestito di mamma tra le mani, lei mi appoggia la mano sulla nuca. Se potessi restare così per sempre, chiudere fuori il mondo, azzerare il cervello e non pensare né provare più nulla, lo farei.
Ma non si può. So che non si può. Ancora una volta, dovrò raccogliere i cocci e ricostruire la trincea. Perché è questa la mia vita e stavolta me la sono andata a cercare. Respiro a fondo una, due, tre volte. Lentamente mi rimetto dritto e, fiero, – con quella fierezza ereditata da mamma – mi asciugo il viso con il dorso delle mani.
«Sto bene mamma» ripeto, la voce un po’ tremolante e rauca. «Va tutto bene»
 

 
§

 
Prelevo l’inchiostratura, appoggio la matrice, sposto il cartellone sotto la pressa per fissare.
Prelevo l’inchiostratura, appoggio la matrice, sposto il cartellone sotto la pressa per fissare.
Prelevo l’inchiostratura, appoggio la matrice, sposto il cartellone sotto la pressa per fissare.
«Ehi eccolo qui! Il re della festa!»
Prelevo l’inchiostratura, appoggio la matrice, sposto il cartellone sotto la pressa per fissare.
«Grande serata ieri eh?!»
Prelevo l’inchiostratura, appoggio la matrice, sposto il cartellone sotto la pressa per fissare.
«Un compleanno me-…»
Prelevo l’inchiostratura.
«…-mo-…»
Appoggio la matrice…
«…-ra-bi-…»
Sposto il cartellone… sotto… sotto la pressa…
«…-le!»
Per fissare!
Il rumore della pressa che sbatte riecheggia attraverso il reparto e i miei auricolari che in realtà non trasmettono niente. Li ho tenuti solo per venire scocciato ma non sto ascoltando nulla. Non ne ho voglia.
Non che abbia più voglia di ascoltare Jabura che pontifica e si vanta della sua festa di compleanno – a cui ovviamente non sono stato invitato – ma stavo facendo un fantastico lavoro ignorandoli, fino a poco fa. Ora, però, non ci riesco più. Inutile dire che dipende dall’arrivo di Marco, entrato con un’ora di permesso per una visita che aveva. Mi chiedo se sia andata bene ma temo resterà un quesito senza risposta.
Non ci parliamo più dall’Oro Jackson Day. Da quando quella sera ho mandato a monte il nostro programma di fare qualcosa insieme, con la scusa che ero stanco e volevo andare a dormire presto, siamo tornati due estranei come prima. Anzi, più di prima, perché adesso lui non prova più neanche ad avvicinarsi. La sua insistenza, la sua testardaggine sono svanite nel nulla.
Dopotutto, non era così speciale la nostra amicizia, vero Marco?!
Prelevo l’inchiostratura, appoggio la matrice, sposto il cartellone sotto la pressa per fissare.
«...re della festa eh! E io che ti facevo un tipo tranquillo!»
Prelevo l’inchiostratura, appoggio la matrice, sposto il cartellone sotto la pressa per fissare.
«Ma senti un po’…» Jabura abbassa il tono mentre si prende Marco in disparte ma sono proprio a due passi dalla mia postazione, di spalle, e, auricolari o non, li sento benissimo. «…sei poi andato in terza base con quella tipa?»
Poco ci manca che mi inchiostro la mano, chiudo la pressa e sposto la matrice sotto il cartellone per fissare.
Che ha detto?! Quale tipa?!
Sollevo la testa, in iperventilazione, gli occhi che già pizzicano.
Di che sta parlando?!
«Jabura, sei fuori strada, io non…»
«Oh, oh, eddai Marco» Jabura lo prende a pacche sulle spalle, in un tentativo di fare il goliardico. «A me puoi dirlo e poi che male c’è? Si vede subito che sei uno stallone. Ehi ragazzi! Non pensate anche voi che Marco sia uno stallone e che la biondona con cui ci ha provato ieri sera sia una donna fortunata?»
Un paio di voci ridono il proprio assenso, qualcuno scuote il capo ma sghignazza, Paulie e Lucci lo guardano disgustati anche per me, perché io non ci riesco. Non riesco a fare niente, nemmeno respirare, perché quando respiro fa male tutto.
E poi, quando Jabura apre di nuovo la bocca per dire chissà che altra porcheria, il mio ego cede e mi lascia libero di scappare da qui, anche se significa mostrare a tutti quanto sto male. Nessuno comunque mi richiama o cerca di fermarmi.
«Scusa!» dico al tizio che urto con una spallata nel corridoio, senza nemmeno voltarmi.
No, non mi guardo indietro. Vado avanti per la mia strada, sempre dritto, concentrato sulla mia meta, fuori dal palazzo, giù dal marciapiede, oltre la carreggiata, dentro il parco, sotto al mio albero. Mi appoggio al tronco con il braccio e nascondo il viso nell’incavo del gomito, ricominciando a respirare. Rantolo come se mi avessero appena tirato fuori dall’acqua e un paio di singhiozzi riescono a fuggire dalla mia gola ma gli altri soccombono alla mia volontà di ricacciarli indietro.
La biondona con cui ci ha provato ieri sera?! Ma non aveva qualcuno di speciale nella sua vita?!
Pensavo fosse per questo. Pensavo fosse per qualcuno di davvero eccezionale che lui… che non…
Dio Izou ma che stai dicendo?! Che differenza fa?! Non lo avresti potuto avere comunque, lui non è come te! Lui è normale! Non è gay, è normale! È normale, non è come t…
Esalo un verso spaventato quando qualcosa mi obbliga a ruotare di centottanta gradi e poi mi spinge schiena al tronco. Sbatto rapido le palpebre per scacciare le lacrime che mi offuscano la vista e quando ricomincio a vedere metto a fuoco un volto vicinissimo e mortalmente serio.
Il volto che, ai miei occhi, è il più bello che abbia mai visto.
«Marco?» domando, spaventato.
Sembra furibondo anche se non vedo perché mai dovrebbe esserlo con me. A meno che certo non abbia capito cosa provo e si senta tradito, indignato dal mio sentimento e voglia mettere in chiaro che io e lui non potremo mai, mai essere qualcosa e che ora la nostra amicizia è davvero finita perché non può essere amico di un gay come me che per giunta prova qualcosa per lui e…
«Cos’ho fatto?»
I suoi occhi lanciano saette ma la voce è bassissima, il tono ferito. Sbatto le palpebre, preso in contropiede.
«C-come?»
«Cos’ho fatto?!» ripete e stavolta gli esce una cosa a metà tra una domanda esasperata e un ruggito. «Perché sei sparito? Non mi rivolgi più la parola e voglio sapere perché! Se posso rimediare e, se non posso, almeno capire cos’è successo così all’improvviso! Andava tutto bene!»
 «Cos… non hai fatto niente, perché pensi di aver fatto qualcosa?» domando, sempre più confuso.
Andava tutto bene? In che senso andava tutto bene?
Mi fulmina con un’occhiata ma, stranamente, non provo l’impulso di scappare o difendermi. Anzi, vorrei restare qui per sempre, schiacciato tra Marco e quest’albero. Ma so che è un altro desiderio vano dei miei.
«E allora cosa? Ti sei spaventato perché hai capito cosa c’era sotto e hai preferito scappare? Siamo adulti Izou! Se non mi ricambi preferisco sentirmelo dire in faccia anziché vivere quest’incubo a occhi aperti, okay?»
«Ricambiare?» ansimo.
Ricambiare cosa?! Di cosa sta parlando?! Mi prende per il culo?!
Un moto di rabbia mi scuote dentro e con un ringhio lo spingo all’indietro, non per liberarmi, no. È perché ho bisogno di sfogarmi in qualche modo. Solo che Marco reagisce e mi spinge subito e di nuovo contro l’albero.
«Non fare finta di non aver capito»
«Oh ma io ho capito benissimo! Il signore non tollera di non essere venerato da chiunque incontri sul suo cammino, vero?!»
Marco sgrana gli occhi. Okay, adesso è davvero arrabbiato e indignato. Ma io ormai sono un fiume in piena.
«Sai cosa, però?! Io non sono come loro, non ti idolatro solo perché sei il re della festa e non sono nemmeno una biondona al bar che è stata così fortunata da passare una notte da sogno con “Marco lo Stallone” perciò perché non vai a cercare lei o una qualsiasi altra donna che possa darti quello che evidentemente io non p…»
E poi tutto mi muore in gola. Respiro, parole, singhiozzi. Tutto si ferma, anche il tempo, perché Marco mi sta baciando. Contro il tronco del mio albero, nel mio parco, Marco Newgate mi sta baciando e io mi sto perdendo nel suo odore, nel suo calore, tra le sue braccia.
Quando si stacca da me – non so esattamente dopo quanto – è come venire strappati da un sogno. Riapro gli occhi di scatto, sotto shock, il respiro grosso.
«M-Marco?!»
Una mano ancora sulla mia guancia, posa la fronte contro la mia. «Jabura è un cretino. Io non ci ho provato con nessuna, è lei che ci ha provato con me. Le ho dato il ben servito, non era il mio genere» calca sull’ultima parola. Io sto ancora cercando di incastrare tutti i pezzi e metabolizzare l’insieme.
«Tu sei… Tu sei gay?»
Si acciglia un microsecondo, come se non capisse la mia domanda. «No. Sono etero. Ho deciso di diventare gay solo per te»
Che cosa…
«Eh?!»
«Oh Izou! Certo che sono gay!» Marco scoppia a ridere e riappoggia la fronte contro la mia, ma ora sorride e i suoi occhi sono pieni di un calore in cui annegherei volentieri. «Credevo lo sapessi» mi accarezza la guancia con al punta del naso.
«No, io… io…» continuo ad annaspare e contemporaneamente rido e piango e mi sento nel complesso un gran cretino. «Non ne avevo idea e comunque… comunque non pensavo che proprio io… che tu… c-che noi…»   
Non so nemmeno cosa sto dicendo. Sono così felice e sollevato che mi sento quasi male. Non riesco a smettere di tremare.
«Ehi calmo. Calmati. Sono qui» mi culla, accarezzandomi il viso. Mi abbandono contro di lui, stringo forte la sua maglietta tra le mani e chiudo gli occhi.
«Quindi tu vuoi che noi… vorresti… io e te?»
«A una condizione»
Apro di nuovo gli occhi e lo guardo, in attesa, senza staccare la mia fronte dalla sua. Marco appoggia il braccio al tronco, di fianco al mio viso e continua a sostenermi per la vita con l’altro. «Smetti di trattenerti. Voglio che sei te stesso. Meriti di essere te stesso. Io voglio il ragazzo che urla al cinema e dice tutto quello che gli passa per la testa. Voglio l’Izou che sorride e risponde a tono perché è divertente e non perché l’attacco è la miglior difesa. Voglio che tu sia felice e rilassato e che te ne freghi del resto del mondo. Perché è quella la persona di cui mi sto innamorando»
Resto per un attimo di nuovo senza fiato.
Oddio…
Oddio, sta succedendo davvero…
«Tu ti rendi conto…» boccheggio, il nodo alla gola che torna alla carica. «Se davvero ti imbarchi in questa cosa, resterai solo, nessuno vorrà più…» ma non riesco nemmeno a finire che Marco mi zittisce di nuovo, con un altro bacio.
«Non è vero» risponde poi, riprendendo ad accarezzarmi. «C’è la tua famiglia e la mia. E comunque… Comunque non mi serve nessun altro» conclude guardandomi così intensamente negli occhi da rubarmi l’anima.
Inspiro a pieni polmoni, finalmente calmo, le mani ancora strette al cotone della sua maglietta, per paura che sia tutta un’illusione e che possa sparire appena lo lascerò andare. Ma lui è qui, è davvero qui, concreto e reale, di fronte a me.
«Allora? Pensi di poterlo fare? Essere te stesso anche con il resto del mondo?»
Sono ancora un po’ confuso dagli avvenimenti dell’ultimo quarto d’ora ma non ci metto molto a prendere una decisione. E non servono parole.
So che, per lui, il mio sorriso bastardo è abbastanza.
 
§
 

Spalanco le porte del reparto con voluta violenza. Voglio che tutti sentano, voglio che tutti si voltino, voglio che tutti si accorgano di me.
Voglio che tutti mi vedano.
E quando sono sicuro di avere la loro attenzione, piego un angolo della bocca nel ghigno più malefico che abbia mai prodotto in vita mia.
«Jabura, ti sei mai accorto che parli in continuazione?! Se le parole fossero oro, saresti ricco sfondato da tanto riesci a pronunciarne al secondo. E te lo chiedo da parte di tutti quanti noi. Stai.un po’.zitto!»
«Che cosa hai d…»
«Ha ragione» lo interrompe Lucci sul nascere, scioccandolo, e io mi giro prontamente verso di lui. Non crederà di scamparla, ne ho anche per lui. «Robb, ti prego, davvero, da parte dell’intera comunità omosessuale, apri gli occhi e renditi conto che sei gay e che Kaku è innamorato di te. È una sofferenza vedervi girare intorno l’uno all’altro a questa maniera. Davvero! Guarda fammelo come regalo di Natale anticipato, io vi shippo da morire! E così magari eviti di regalarmi un paio di calze anche quest’anno» non riesco a trattenere una smorfia se ripenso al paio che mi ha regalato l’ultima volta, con quella fantasia orribile. «Fukuro…» lo cerco che gli occhi. Non che ci voglia molto a individuarlo. «Non te ne faccio una colpa guarda, so che non te l’ha mai detto nessuno ma il nero con il marrone non si abbina, okay?! E cambia taglio di capelli, non siamo più negli anni novanta da un pezzo! Oh e Jabura, a proposito di abbigliamento, ancora una cosa. Gli stivaletti a punta non si possono vedere e una parte di me muore ogni volta che vedo come abbini gli abiti firmati. Impara! Vai al Mokomo Dukedom e fatti consigliare, cambia guardaroba ma, per l’amore di tutti i kami del cielo, fai qualcosa!»
Sono piuttosto certo che se non stanno cercando di picchiarmi è solo perché sono tutti troppo sconvolti per reagire. Ancora lanciatissimo, mi volto per recuperare la mia tracolla e nel farlo vedo Marco staccarsi dalla porta e avvicinarsi con calma a me. Un brivido mi percorre la schiena ma sono deciso a finire ciò che ho iniziato.
«E da oggi…» avanzo nella stanza, verso una delle postazioni lavoro più centrali. «Io lavoro qui, insieme a tutti voi, non laggiù nell’angolo e mi prendo i lavori che sono capace di fare, non i vostri rimasugli che vi schifano. Io sono un tecnico del reparto stampanti e, che vi piaccia o no, gay o no, voglio lavorare come tecnico del reparto stampanti» concludo con il fiatone.
Mi fissano tutti come se non sapessero chi hanno davanti. E in altre circostanze mi unirei alla loro confusione ma, in realtà, io so benissimo chi hanno davanti.
Bentornato, Izou.
Qualcosa sfiora il palmo della mia mano e mi basta la reazione del mio corpo, che sfavilla, per sapere che è la mano di Marco. Fa scivolare le sue dita tra le mie e io mi volto di un quarto per poterlo guardare. Sogghigna, pieno di orgoglio. Non controllo l’impulso di voltarmi completamente verso di lui.
Sgrano gli occhi, impreparato e sorpreso, quando mi accorgo che si sta chinando con il chiaro intento di strapparmi un bacio davanti a tutti. Casto e a stampo, sicuramente, ma pur sempre un bacio davanti a tutti è.
Probabilmente si accorge del mio stupore perché si ferma a pochi centimetri e cerca i miei occhi con i suoi.
«Viva l’amore libero, giusto?»
Non riesco a trattenere un sorriso. Mi sento la testa leggera. E poi, insomma, non è come se non fosse ormai palese che tra noi c’è qualcosa, tanto vale suggellare il momento.
Riduco la distanza tra noi e mi fermo a un soffio dalle sue labbra, pronto ad accarezzarle con le mie.
«Puoi dirlo forte, Marco-chan»
  
 








 
 
  
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