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Autore: The Custodian ofthe Doors    22/03/2018    2 recensioni
Sei volte in cui Robert Lightwood è stato un padre esemplare ma solo Alec se n'è accorto ed una in cui tutti lo hanno visto.
♦ First memory.
♦ A little secret for us.
♦ The fourth son.
♦ Have a quality.
♦ Eyes of glass.
♦ Remember.
♦ Father.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Robert Lightwood
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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4- Have a quality.

 

In famiglia hanno tutti le loro peculiarità, Alec questo lo sa bene, come sa che tutti sono stonati tranne sua madre, che l'Angelo cancelli il giorno in cui Iz e Jace si erano messi a fare quel...coso, che non poteva essere chiamato assolutamente duetto. Così come sa che Isabelle, anche se non dovrebbe mai più cantare in vita sua, è brava a ballare, lo fa in un modo così sinuoso ed accattivante che si potrebbe rimanere delle ore a fissarla. E Jace suona divinamente il piano, dando vita a quelle melodie che non sono altro che un semplice susseguirsi di note scritte su di un pentagramma ma che il fratello riesce a trasportare fuori dalla carta solo schiacciando i tasti d'avorio.
Sa che Max, tanto piccolo e indifeso, in verità a un cervello che lavora il doppio del loro, che è attento e non gli sfugge nulla, che legge e assorbe tutto quello che gli capita sotto tiro.
Sa anche che lui, purtroppo, è quello che di pregi ne ha davvero meno di tutti, se poi essere alto come un palo della luce è un pregio e se essere un bravo arciere rientra tra le doti innate o tra quelle che ha faticosamente allenato e perfezionato.
Sa anche che suo padre, burbero ed impacciato in ogni gesto d'affetto, che probabilmente con le sue bugie e i suoi segreti farà crollare la loro famiglia prima o poi, sembra chiedere sempre tutto di tutti solo per il puro gusto di poter poi criticare ogni cosa.
Robert Lightwood ha tanti di quegli scheletri nell'armadio che forse, e dico forse, Alec prima o poi dovrà chiedergli di buttarne qualcuno, che non c'è più spazio e se portano un altro armadio in casa, o un altro scheletro, allora dovrà uscire uno di loro. Ma a parte questo, sembra buono solo a lavorare, a cercare di tornare il prima possibile ad Idris, a criticare ogni loro scelta, ogni loro avventata azione e ogni loro singolo gusto.
Gli ci è voluto un po' per accettarlo, ma alla fine si è reso conto che Robert, il padre, non è in grado di farlo.
Perché poi? Forse il suo di padre è stato uno stronzo? Forse per quel problema che ebbe con le rune, che lo fece rimanere indietro così tanto e lo sottopose all'umiliazione di tante, troppe persone? O forse perché spesso si scontrava con Maryse, con le sue idee su come crescere i figli?
A quei pensieri Alec sbuffava sempre, ironicamente divertito dall'ipocrisia di entrambi i genitori che si ostinavano spesso a dare all'altro la colpa per un comportamento, a loro dire, errato dei figli. Tanto nessuno dei due era meglio dell'altro, forse poteva concedere un punto in più a sua madre, che testarda come Isabelle aveva retto quella situazione opprimente per tutti quegli anni solo perché il loro matrimonio doveva durare per sempre e tutte quelle puttanate là. Ma da una parte capiva anche il desiderio di suo padre di essere libero, la sua decisione di rimanere con loro invece di andarsene come aveva programmato. In sostanza, però, reputava entrambi due grandissimi deficienti che si erano rovinati la vita da soli e l'avevano rovinata a loro, decidendo di tenere in piedi quello spettacolo fino a che il palco non si era definitivamente sfondato, facendo cadere a terra tutti i commedianti.
Non poteva pretendere di capire come si sentissero i due, quali fossero i loro sentimenti: lui aveva amato per anni la persona sbagliata, suo fratello per l'Angelo, il suo parabatai, e poi aveva trovato la felicità, non osava dire “amore”, forse nell'essere più sbagliato che potesse trovare e che poteva vantare tre fondamentali e magnifiche pecche: era un nascosto, era immortale, era un uomo.
Evviva Alec e la semplicità con cui riesce a rovinarsi la vita, facciamogli tutti un applauso di cuore.
Magnifico.
Comunque, lui di certo non poteva parlare di amore e legami lunghi e definitivi come un matrimonio, quello no, ma poteva dire per certo che, malgrado si fossero fatti una guerra fredda per anni, i suoi genitori si erano amati, davvero, e ogni tanto si amavano ancora.
Se con sua madre lo si poteva intuire da tanti fatti, con suo padre si doveva andar a guardare con attenzione ai dettagli più piccoli che potevano nascondersi anche nelle cose più banali che l'uomo chiedeva ogni giorno. Per questo, quando una mattina Robert gli chiese di cosa stesse blaterando prima Izzy, Alce gli rispose trattenendo un sorriso, spiegandogli che la ragazzina aveva visto delle scarpe in una vetrina mondana e che stava assillando sia lui che Jace per accompagnarla a prenderle. Com'era prevedibile l'uomo gli espresse tutto il suo disappunto per la cosa: pensare ai vestiti era l'ultimo dei loro problemi, Izzy doveva allenarsi duramente come facevano lui e suo fratello, anche se persino Jace ultimamente faceva un po' il diavolo a quattro.
Ancora una volta Alec si era trattenuto dal sorridere e gli aveva solo detto che, dopo aver visto un manuale riportato proprio da loro di recente da Idris, il ragazzo si era fissato nel voler provare una speciale spada a doppio filo.
Cominciava sempre così, di solito il periodo era quello subito successivo al suo rientro da qualche Istituto sparso per il mondo, dopo un'assenza anche di mesi. Robert tornava, si riabituava al tran-tran dell'Istituto di New York e poi cominciava con quelle sue domande, apparentemente così innocenti e anche fastidiose alle volte.
Alec lo incrociava per i corridoi ed il padre lo fermava per chiedergli qualcosa: Max aveva lasciato non sapeva bene dove uno dei suoi stupidi fumetti, ma lui si scordava sempre come si chiamava, quale tra i tanti era. Oh, Naruto? Bene, avrebbe cercato di tenerlo a mente, intanto, se lui lo vedeva in giro, che lo riportasse al fratellino. Poi si voltava di nuovo e gli chiedeva che cosa ci fosse in copertina.
“ Che numero era?” l'ultimo, Max perdeva sempre l'ultimo e Alec sospettava di sapere perché. Annuiva e diceva sovrappensiero che doveva essere il sesto all'ora, forse c'erano due ragazze in copertina? Beh, prima o poi sarebbe rispuntato fuori.
E se non era un fumetto perduto dal fratellino era uno strano tessuto che aveva visto da qualche parte, in una delle mille sale di quella cattedrale gigantesca, gli ricordava vagamente un vestito che sua madre metteva ai tempi di Alicante, mentre lui era via si era decisa a buttare quello straccio? Ah, Maryse, sempre così dannatamente attaccata al passato.
C'erano giorni poi che Robert era così indaffarato da non riuscire neanche a mettere il naso fuori dall'ufficio, giorni in cui sembrava che fosse di nuovo partito.
Poi una mattina Izzy si alzava sovreccitata: aveva trovato una scatola ai pedi del letto e dentro c'erano proprio le scarpe che voleva. E Jace correva fuori dalla palestra brandendo un'arma particolare che non avevano mai visto, una lama doppia che di certo era un nuovo acquisto e che faceva urlare a squarciagola Maryse per la millesima volta che non dovevano correre per i corridoi con le armi sguainate. In tutto ciò, Max se ne stava sprofondato in qualche poltrona a leggere il numero sette del suo manga, sul bracciolo, impilati in equilibrio precario, altre cinque volumetti.
Se poi la sera passava silenzioso vicino alla camera dei suoi genitori, avrebbe potuto scorgere Maryse guardare con affetto e nostalgia un suo vecchio vestito di quando era solo una giovane shadowhunter come tante, ora di nuovo integro e perfetto.
Il giorno seguente Robert avrebbe fatto colazione con la testa immersa nelle scartoffie, ammonendo come sempre i figli perché facevano troppo chiasso o perché leggevano a tavola, senza degnare di uno sguardo il vestito che indossava sua moglie, senza darle il minimo indizio che lo avesse riconosciuto.
Ma Alec sapeva che gli sarebbe bastato aspettare che suo padre scostasse un poco i fogli da davanti al volto per bere il suo caffè, in quel momento, per una frazione di secondo avrebbe visto le labbra dell'uomo piegarsi in un leggero sorriso, timido, soddisfatto ed incerto come lo era i suoi e tanto gli sarebbe bastato.
La sua famiglia era particolare, lo è tutt'oggi, ma Alec ha sempre saputo che ognuno aveva la sua particolarità: sua madre era l'unica che sapeva cantare, in quel modo dolce che riusciva a farti credere che nulla potesse esistere di brutto al mondo. Sua sorella ballava come un soffione nel vento, ipnotizzando lo sguardo come una falena è ipnotizzata da una fiamma. Jace riusciva a far diventare quei puntini neri su infinite righe dei suoni soavi e pieni di sottintesi, di sentimenti mai detti e parole mute. Max era un piccolo genietto e vedeva più cose di quante non avrebbe dovuto, capiva meglio di loro che erano adulti ciò che provavano le persone. Lui era ben o male nella norma, forse gli si sarebbe potuto concedere che aveva una gran pazienza, ma era anche un fifone che si era nascosto per anni solo per non ferire gli altri, quindi meglio soprassedere. Ma suo padre, lui era quel genere di persona che sembrava non ascoltarti mai, se non per correggerti e rimproverarti, per darti ordini e dirti che non si fa, ma in realtà era un uomo impacciato che amava i suoi figli e non sapeva come dimostrarglielo. Con al capacità innata di ricordarsi le cavolate ed esaudire i piccoli desideri dei suoi ragazzi e anche di sua moglie, ma senza il coraggio di dire apertamente che era stato lui, costantemente nella vergogna di un'azione o del dubbio della sua esattezza.
Forse lui e suo padre erano simili sotto quel punto di vista, nessuno di loro due aveva un talento assoluto come gli altri, ma ne avevano uno costantemente messo sotto pressione, costantemente in dubbio, combattuto.
Beh, non sapeva come spiegarlo a parole, come lo avrebbe detto agli altri se avesse deciso di renderli partecipi della cosa, ma nella sua testa era piuttosto chiaro.
 

Si passò una mano tra i capelli scompigliati, si sarebbe dovuto mettere la tuta e poi filare giù in palestra a riscaldarsi per la lezione del giorno, invece che pensare ai bizzarri tentativi di suo padre di renderli felici.
Chiuse la porta della camera e si voltò verso l'armadio ma qualcosa attirò la sua attenzione: sul letto rifatto era posto un lungo involucro di carta, delle dimensioni all'incirca tubolari, legato con un filo da pacco. Si avvicinò guardingo e sospettoso, sperando che non fosse di nuovo qualcosa di Jace o Izzy che i fratellini avessero intelligentemente deciso di ordinare a suo nome perché era maggiorenne. Sospirò pesantemente e si decise a scartarlo, tanto al massimo glielo avrebbe rinfacciato fino alla morte a quei due, ma fortunatamente non ce ne sarebbe stato bisogno. Con sua grande sorpresa la carta rivelò davvero un cilindro, sembrava di legno o forse di cartone, fino in ogni caso e rivestito di pelle nera, il tappo era ad incastro e ruotandolo leggermente il ragazzo riuscì a sfilarlo e a riversare il contenuto sul letto. Dieci scintillanti frecce di metallo dalla coda piumata di nero e blu si infilzarono sulla stoffa consunta della federa, le punte affilate risplendevano della stessa pallida luce del cristallo delle spade angeliche.
Un piccolo sorriso appena accennato cominciò a farglisi strada sul volto, fino ad allargarsi completamente al ricordo della sua discussione con Jace su come sarebbe stato utile avere delle frecce non solo consacrate ma anche ricoperte di cristallo, una cosa davvero difficile da realizzare e certo altrettanto costosa.
Rimise tutto al suo posto e poi pose il cilindro al centro del letto, gli avrebbe legato un filo e poi l'avrebbe appeso sulla testiera.
 

Quella volta, vicino a loro due che discutevano, suo padre stava allenando impassibile Isabelle, senza prestar loro la minima attenzione, o almeno questo era ciò che credeva.
 

Robert pare non aver particolarità se non quella del padre burbero che si interessa alle cose solo per criticarle, impacciatamente distante, ma per Alec, in tutti i suoi difetti, è perfetto.









 
Le famiglie sono un sistema complesso che trascende ogni logica di questo mondo.
Siamo agglomerati di caratteristiche e sfaccettature che spesso non combaciano, che cozzano le une con le altre e riflettono malamente la nostra luce accecandoci.
Non siamo noi a sceglierci, giusto? I nostri genitori si incontrano, si piacciono e decidono di passare la vita assieme, o almeno di provarci, ma non ci danno la minima possibilità di sceglierli. Nasciamo che abbiamo “ripreso” dall'uno o dall'altra, ci sentiamo più affini con uno e in conflitto con chi resta. Ci domandiamo come, se siamo identici a nostro padre, lui abbia potuto scegliere ed amare nostra madre quando noi ci sentiamo così incompresi.
Ecco, questo forse è uno dei punti più importanti di una dinamica famigliare: siamo incompresi. Come ogni essere su questa terra abbiamo l'arroganza ed il dolore di sentirci completamente ignorati, lasciati da parte. Crediamo che nessuno capisca come ci sentiamo, come siamo davvero e non ci rendiamo conto che spesso, fin troppo in effetti, i nostri genitori ci capiscono eccome, solo hanno la delicatezza di non farcelo notare.
Perché poi? Probabilmente perché rivedono in noi i loro errori, le loro debolezze, le loro forze e i loro successi. Se ci vedono timidi cercano di non farcelo notare perché si ricordano come si erano sentiti loro al tempo. Se siamo testardi e facciamo sempre come ci pare si scontrano con noi per impedirci di sbagliare come hanno fatto loro, scatenando automaticamente una lotta intestina che si risolve, se lo fa, solo quando saremo grandi abbastanza per ritrovarci al loro posto.
Impariamo a vivere in un equilibrio precario e continuamente in pericolo, assalito dalla nostra infanzia prima e dall'adolescenza dopo, dal nostro desiderio di indipendenza, da quello di protezione dei nostri genitori.
La nostra famiglia è il primo grande approccio alla vita sociale e diciamocelo, spesso è uno schifo totale.
Ci ritroviamo a rapportarci meglio a sconosciuti, ai nostri amici, ci siamo mai chiesti perché? Forse perché non ci conoscono davvero, non sanno quanto abbiamo sbagliato in passato, non ci hanno visto cadere e rialzarci a fatica o non farlo per niente. Loro impareranno a conoscerci con il tempo e questo tanto basta per il momento.
Ma una grande verità è che, volenti o dolenti, ricerchiamo sempre gli stessi modelli che compongono la nostra famiglia. Perché? Beh, ma perché sono la nostra famiglia.
Ognuno di noi ha una peculiarità, qualcosa che ci porta ad essere amati od odiati maggiormente. Molti di noi non si rendono conto di cosa caratterizzi di più uno dei membri della propria famiglia, guardiamo la sua scorza esterna, ci fermiamo ai suoi modi e non osserviamo. Sentiamo le sue parole ma non le ascoltiamo. Ci basta ciò che appare e siamo arrabbiati, siamo sconfortati, siamo disillusi o delusi e non cerchiamo di andare oltre, non cerchiamo il perché e il come delle loro azioni, delle loro idee, dei loro demoni.
Non siamo ipocriti, nessuno di noi capisce fino in fondo un genitore finché non lo è a propria volta, finché non si raggiunge quell'età in cui la logica accetta finalmente la mano che la saggezza e l'esperienza hanno tanto atteso per porgerli.
Possiamo arrivarci a capire ma non a comprendere temo, e ciò è tanto triste quanto vero.
Ma ci sono quei rari casi, quei momenti in cui i pianeti si allineano e tutto pare andar al suo posto, in cui riusciamo a scorgere una di quelle mille sfaccettature che compongono i nostri cari senza venir accecati da quella fastidiosa luce riflessa.
Ogni figlio conoscerà un lato del proprio genitore che suo fratello ignorerà per gran parte della sua vita. Li comprenderemo a poco a poco, prima uno e poi l'altro, alternando la nostra vita in preferenze che non dovremmo o vorremmo avere ma che sono naturali in ogni uomo. E arriverà il giorno in cui li vedremo per ciò che sono realmente, il giorno in cui finalmente apriremo gli occhi e la luce che entra dalla finestra sarà così chiara e forte da illuminare anche gli angoli più bui e fare in modo che i riflessi si armonizzino mostrandoci ciò che i nostri genitori sono: umani.
Non conosceremo mai una persona fino in fondo, probabilmente è solo un utopia quella in cui crediamo, ma alle volte è maglio così, è meglio conoscere poco e lasciare il resto al suo destino.
Restare vicino ad una persona di cui si conosce la maggior parte ma non l'intero, che ci nasconde ancora tanti scheletri del suo armadio, essere consapevole di ciò e non scappare, per me è la più grande dimostrazione d'amore.
Incompresi, si, ma amati incondizionatamente.
   
 
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